ETICA ED ESTETICA

May 25, 2017 | Autor: Aldo Vendemiati | Categoria: Metaphysics, Aesthetics, Ethics, Interdisciplinarity, Interdisciplinary Studies
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ETICA ED ESTETICA di Aldo Vendemiati – Ordinario di Filosofia morale – P. Università Urbaniana, Roma

1 Disciplinarità ed interdisciplinarità Il problema principale posto dal nostro tema sta nelle definizioni disciplinari. Siamo – volenti o nolenti – alunni di Kant, il cui obiettivo era quello di una separazione rigorosa e fondata degli ambiti di esperienza: quello scientifico, quello morale e quello estetico. Al di là dei tentativi dello stesso Kant1 e poi di Schiller e di tanti idealisti di giungere ad un superamento, la mentalità tipica post-kantiana concepisce l’estetica come qualcosa che non avrebbe a che fare con il vero o con il bene, bensì soltanto con il bello – intendendo quest’ultimo come ciò che si lascia giudicare unicamente per il sentimento di piacere o dispiacere che suscita e non per altro. D’altra parte, l’etica kantiana esclude radicalmente il piacere: suo tema centrale è il dovere e questo implica piuttosto il dolore. I tentativi idealisti di superamento della separazione sono rappresentati – per esempio – dall’idea di Wilhelm von Humboldt, secondo cui ogni sapere doveva trovare posto in un quadro unitario (l’Università) al servizio della formazione (Bildung) spirituale e morale della nazione. Il compito della filosofia doveva essere precisamente quello di riunificare i saperi dispersi, interpretandoli come momenti del divenire dello Spirito, mediante una metanarrazione razionale di cui l’Enciclopedia di Hegel costituisce il paradigma2. Ma la prospettiva hegeliana della filosofia dello Spirito, che oppone l’universale al particolare, non consente un reale superamento della dicotomia kantiana. Con la reazione all’hegelismo, etica ed estetica tornano a separarsi ed opporsi. Non c’è bisogno di arrivare a Nietzsche ed ai suoi epigoni novecenteschi: già con Kierkegaard lo stadio estetico e quello etico sono incomunicabili e separati da un salto (Aut-aut). Il “rapporto” è inevitabilmente un conflitto in cui l’etica assume la funzione di censore e l’estetica quella di contestatore. La pretesa “moralistica” (il moralismo “conservatore” di stampo vittoriano, o quello “rivoluzionario” di stampo sovietico) di imporre l’universale al particolare conduce o alla censura inefficace o al didascalismo propagandista – ossia ad un’etica che non compie il bene ad un’estetica che non produce il bello. La pretesa “estetistica” di rinunciare all’universale per il particolare conduce all’anarchia. L’estetismo, in una prima fase, opera un isolamento dell’esperienza estetica dalle altre attività dello spirito umano (e quindi anche dall’etica), nella prospettiva dell’evasione; in un secondo momento, però, l’estetica realizza una vera e propria invasione degli altri campi disciplinari: il significato della vita viene ridotto alla ricerca del puro piacere, della conformità al gusto. Politica, etica, filosofia sociale, teologia e persino ricerca scientifica, tutto si trasforma – per usare le parole di Rorty – in una “grande conversazione” tra spiriti liberi, che escogitano teorie dal valore esteticoconviviale e ne discutono tra loro, senza però la pretesa di arrivare a una qualche verità3. 1

Cf. F. MENEGONI, Finalità e destinazione morale nella 'Critica del Giudizio' di Kant, Pubblicazioni di Verifiche, Trento 1988. 2 3

Cf. J.-F. LYOTARD, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (1979), Feltrinelli, Milano 1985, p. 6. Cf. R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia (1989), Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 89-90.

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Possiamo dire che il pensiero contemporaneo descrive una parabola che va dalla rigorosa “separazione” kantiana all’anarchica “confusione” postmoderna. Penso che sia necessario uscire da questo vicolo cieco e porre le basi per un reale confronto interdisciplinare tra etica ed estetica, in cui le distinzioni servano per unire e l’unità non si traduca in caos. Perché sia possibile una effettiva interdisciplinarità, è necessaria una prospettiva metadisciplinare che funga da terreno d’incontro e da orizzonte di senso per le diverse discipline. Quale può essere questa prospettiva metadisciplinare? Proporrei di chiamarla “prospettiva sapienziale”4, intendendo la sapienza come pensiero del “tutto”.

2 La sapienza come arte Vi è stato nel passato il tentativo di ridurre ogni disciplina nei canoni delle scienze matematiche o di quelle sperimentali; è forte infatti il fascino di un metodo che si possa ricostruire nei dettagli e che possa dar conto di ogni passaggio, di un sapere metodico che si possa “insegnare” dall’inizio alla fine. Purtroppo o per fortuna, però, nella filosofia e nelle scienze umanistiche, siamo in un sapere basato su facoltà e sensibilità il cui operare non è del tutto ricostruibile. Ciò ha fatto parlare taluni di sapere “extrametodico” 5: questa espressione può indurre alla confusione caotica, all’anarchia a cui accennavamo prima 6, ma non necessariamente. Essa può limitarsi a suggerire che si richiede un metodo diverso da quello delle scienze matematico-sperimentali e si richiede anche qualcos’altro oltre al metodo: capacità di stupirsi, riverente rispetto, desiderio e amore, ma anche buon gusto, delicatezza di coscienza, tatto spirituale, ecc. Tra le scienze matematico-sperimentali e le scienze umanistico-filosofiche c’è questa differenza di fondo. Le prime non sono interessate ai singoli fenomeni nella loro concretezza, non si applicano a capire l’unicità e l’irripetibilità del caso singolo: esse intendono piuttosto ricondurre i fenomeni ad una generalità e regolarità che si lasci scoprire mediante l’induzione. Anche le scienze umanistico-filosofiche, in quanto scienze, sono interessate a superare le particolarità ed accedere all’universale; tuttavia ciò non avviene mediante una riduzione del caso singolo sotto una regola generale: il caso particolare rimane invece nella sua irriducibile singolarità. Un giorno una mela cadde in testa di Isaac Newton, il quale, a partire dall’episodio, elaborò la teoria della gravitazione universale. Se invece di una mela fosse stata una pera o una noce la cosa non avrebbe fatto differenza, come non avrebbe fatto differenza il colore del cielo in quel momento o l’affetto che Newton provava per sua nonna. Quando invece la poetessa Saffo scrive: «Quale dolce mela che su alto ramo rosseggia, alta sul più alto; la dimenticarono i coglitori; no, non fu dimenticata: invano tentarono raggiungerla…»7, 4

Cf. L. CLAVELL, “L’unità del sapere per l’attuazione di «Fides et ratio»”, Alpha Omega, 3 (2000) 211-225. Potremmo avere l’ardire di chiamarla semplicemente “metafisica”, ma incontreremmo troppi rifiuti pregiudiziali; potremmo accontentarci di chiamarla soltanto “filosofia” (intendendo con ciò la “filosofia prima”, ossia la metafisica); ma probabilmente il termine “sapienza” incontra meno resistenze, è più suggestivo e persino più preciso quando è inteso aristotelicamente (cf. Met. A). 5 Cf. H. G. GADAMER, Verità e metodo (1960), Bompiani, Milano 1983, pp. 25-67. 6 7

Cf. P. K. FEYERABEND, Contro il metodo (1970), Feltrinelli, Milano 1975. S. QUASIMODO, “Lirici greci e altre traduzioni”, in ID., Poesie e discorsi sulla poesia, Milano 1971, p. 317.

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ciò che conta è proprio quella mela lì, col suo colore rosso, è proprio il vano sforzo dei coglitori. L’esperienza che Saffo ci comunica ha valore universale: se abbiamo una sensibilità adeguata, sentiamo nel cuore la solitudine e l’orgoglio della fanciulla paragonata al frutto troppo alto per essere colto; ma l’universale ci viene consegnato nel particolare ed in modo tale che non è possibile prescindere da alcuna delle sue particolarità. La singola espressione artistica, come il singolo giudizio morale, sono dunque qualcosa di più che la semplice applicazione corretta di principi generali. Quando un fisico calcola la velocità di caduta di un grave, deve semplicemente applicare una formula matematica valida generalmente; quando invece un giudice emette una sentenza circa un particolare fatto, egli non si limita ad applicare in concreto la legge: certo fa anche questo, ma con la sentenza che pronuncia porta uno sviluppo del diritto, che può essere anche assai significativo. Così, per portare un altro esempio, un’opera d’arte come la Trinità del Masaccio non è la semplice applicazione delle “regole dell’arte” a un soggetto determinato: l’artista si inserisce in una tradizione, ma la cambia e – in un certo senso – la rivoluziona. Questo è il motivo per cui per esprimere giudizi morali o estetici, si richiede una certa sensibilità e finezza di percezione per determinate situazioni, come anche una capacità di muoversi in esse anche senza possedere principi generali certi che ci possano guidare come un protocollo di ricerca guida uno scienziato. Perciò in filosofia occorrono capacità diverse rispetto a quelle richieste dalle scienze esatte: occorre una memoria vasta e selettiva, occorre la conoscenza e il rispetto dei grandi autori del passato, occorre soprattutto una capacità di cogliere nessi e rapporti tra realtà in apparenza estranee… Tutto questo costituisce la “sapienza”, ossia la sapida scientia8, la scienza gustosa, la capacità di intendere i principii della realtà intesa come un tutto e di goderne. Per attingere a questo livello di universalità bisogna certamente conservare tutta la criticità del sapere scientifico che mette in discussione le ovvietà e ricerca le evidenze, ma è altresì importante riscoprire l’arte di trovare argomenti, che consente di formare una sensibilità istintiva ed estemporanea per ciò che è convincente, arte – appunto – che non può essere sostituita dalla scienza.

3 Ciò che attrae: il bello e il bene Ricapitolando: la metadisciplina che può offrire un terreno d’incontro interdisciplinare tra etica ed estetica è la conoscenza sapienziale, volta alla realtà come un tutto ed è originata dallo stupore. Saldamente stabiliti su questo terreno, il punto di partenza dell’auspicato incontro non può essere altro che quell’esperienza umana in cui ci accorgiamo con meraviglia che c’è qualcosa che ci attrae e ci chiediamo perché. Ciò che ci attrae, nel linguaggio comune, viene definito ora come “buono” ora come “bello”, con una certa elasticità che, in alcuni casi, arriva addirittura alla sinonimia – eppure non si tratta di pura e semplice sinonimia: avvertiamo, confusamente, che una distinzione ci deve essere. Proviamo a riflettere su questo. Vi sono esperienze umane che non muovono i nostri desideri: ad esempio il conoscere alcune verità della matematica o delle scienze naturali può lasciare la volontà del tutto indifferente. Confrontiamo queste con altre esperienze umane: ad esempio quella si realizza nell’ammirazione. Quando incontriamo qualcosa o qualcuno che “ci piace”, si fa più attento, si sofferma, apprezza, ammira. Ammirando un paesaggio o un’opera d’arte, ascoltando della musica, ecc., non sono coinvolti solo i sensi (la vista, l’udito…) o l’intelligenza (che comprende il senso, il “messaggio” di 8

TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 43, a. 5 ad 2.

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ciò che i sensi percepiscono): è coinvolta anche la volontà. Infatti, il bello attrae e fa nascere il desiderio di protrarre o ripetere l’esperienza. Questo incontro ammirato con la bellezza costituisce essenzialmente l’esperienza estetica. Si può provare ammirazione dinanzi ad oggetti assai diversi. E la nostra ammirazione è essenzialmente diversa, a seconda del tipo di oggetto da cui scaturisce: in termini classici si può dire che il concetto di ammirazione non è univoco, bensì analogo. Ad esempio, posso ammirare uno spettacolo della natura (come un panorama alpestre, un tramonto sul mare, ecc.), o posso ammirare un’opera umana. Evidentemente il senso dell’ammirazione è assai diverso nei due casi: nel primo, si tratta esclusivamente della considerazione della bellezza o della sublimità di uno spettacolo; nel secondo è presente anche la stima per una persona o per il suo comportamento (non posso ammirare la Cappella Sistina senza che la mia ammirazione si estenda eo ipso a Michelangelo!). Concentriamoci dunque sul secondo caso: l’ammirazione per un’opera umana comporta la stima per l’autore dell’opera stessa; possiamo chiamarla “ammirazione-di-stima”. Tuttavia anche questa ammirazione-di-stima non riveste un significato univoco. Ad esempio posso ammirare l’opera di un artista e stimare il suo artefice in quanto artista, pur senza avere ammirazione e stima per lui in quanto uomo: un uomo può essere un grande pittore pur essendo ingiusto o violento! Lo stesso può dirsi dell’opera di un tecnico, di uno scienziato, di un uomo di lettere, ecc. Posso dire: «Tizio è grande nel suo campo, ma umanamente non vale nulla». Ma l’ammirazione può nascere anche davanti al comportamento di un uomo, tale da suscitare in me stima per il suo artefice in quanto uomo. Ad esempio, quando leggiamo il Critone o l’Apologia di Socrate di Platone, il sentimento che sorge in noi non è semplicemente stima per il comportamento di Socrate in quanto imputato, prigioniero o condannato, bensì per Socrate in quanto uomo. Il comportamento di Socrate ci appare “bello”, e Socrate risulta pertanto “buono”. Dunque questa ammirazione-di-stima per un uomo in quanto uomo è un’esperienza morale. L’etica nasce dalla domanda: “Come dobbiamo essere per realizzare pienamente la nostra personalità umana?”. Ebbene, quando la nostra ammirazione giunge alla stima di un essere umano in quanto uomo, implicitamente siamo messi sulla strada per rispondere a questa domanda: siamo di fronte alla testimonianza concreta di una personalità umana pienamente realizzata. Troviamo in essa un’integrità, una perfezione, un’armonia, uno splendore che ci obbligano non solo ad ammirare una tale persona, ma anche a prenderla come modello del nostro comportamento. Integrità, perfezione, armonia, splendore sono le caratteristiche della bellezza. Ma la desiderabilità è la caratteristica essenziale della bontà: “Bonum est quod omnia appetunt – il bene è ciò che tutti desiderano” 9, e la perfezione è la causa formale di una tale desiderabilità: “Bonum est perfectivum – il bene è ciò che perfeziona”10. Si può, con altrettanta certezza, affermare che tutti desiderano il bello; ma è necessario fare una distinzione: “Ogni uomo ama il bello – dice san Tommaso – ma gli uomini carnali amano il bello carnale, quelli spirituali il bello spirituale”11. A partire da questa affermazione comprendiamo che non tutto ciò che è bello è moralmente buono, ma anche che tutto ciò che è moralmente buono deve necessariamente essere bello.

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TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 5, a. 1 c.

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TOMMASO D’AQUINO, De veritate, q. 21 a. 1 c. TOMMASO D’AQUINO, Super Ps. XXV, n. 5.

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La differenza concettuale tra “bene” e “bello” sta nel fatto che il desiderio del bello si acquieta nella conoscenza del bello, il desiderio del bene, invece, nel conseguimento del bene stesso: “Lo sforzo di ottenere la realtà amata è tipico dell’amore di bene, il godimento nella conoscenza dell’amato è invece la specificità dell’amore del bello” 12.

4 Etica ed estetica in prospettiva sapienziale L’etica moderna tende a configurarsi come pura e semplice ricerca di norme di comportamento, tesa a fornire un elenco di norme, di prescrizioni e di divieti. Questo, però, fa sorgere immediatamente una domanda radicale: perché mai dovrei sottomettermi a tali norme? Molto spesso ci si contenta di rispondere: Perché questo è il modo di essere moralmente buoni. Al che è sin troppo facile replicare: e perché mai dovrei essere moralmente buono? Prima ancora di giungere alla formulazione di norme, l’etica è chiamata a riflettere, in modo sapienziale, sul fondamento delle norme stesse. Le norme morali sono delle indicazioni, seguendo le quali riusciamo a “guidare” la nostra vita, a governare la nostra esistenza in modo da perfezionare la nostra personalità in relazione con gli altri uomini, con Dio, con il mondo. Allora è il perfezionamento della nostra personalità a costituire il fondamento della moralità. La piena realizzazione di questo perfezionamento costituisce la felicità vera, e le modalità in cui questa perfezione si realizza sono le virtù. Dunque possiamo dire che l’etica è la sapida scientia della vita buona o virtuosa, e che, proprio per questo, è l’arte della felicità. C’è un desiderio che dà senso a tutti gli altri desideri nella nostra vita. C’è un bene “essenziale”, in forza del quale tutti gli altri beni sono voluti. L’homo viator è un essere in cammino verso la pienezza ultima, la felicità. E questa – come ciascuno intuisce – non può essere priva di bellezza. Il nucleo centrale dell’etica è costituito dalla virtù, che va compresa come ultimum potentiae: non è l’onorabilità o la correttezza di un agire isolato, bensì il meglio a cui può aspirare l’essere umano, l’eccellenza che pienamente si confà all’essere della persona. Ciò che l’uomo deve essere, l’uomo “ideale”, ossia buono, è una creatura la cui vita è conforme all’ordine della ragione: il senso dell’esistenza umana sta nell’agire in modo conforme alle esigenze della retta ragione, concretizzando nella pratica del bene la verità del proprio essere. Di qui la costante insistenza degli autori classici e cristiani sull’unità delle virtù: esse sono tali nella misura in cui esprimono la saggezza, che è la loro “genitrice”. È suggestiva, a questo proposito, l’analogia che Josef Pieper stabilisce tra l’atto morale e la creazione artistica 13. All’origine dell’opera d’arte c’è l’idea che l’artista ha elaborato nella sua mente, e precisamente quell’idea conferisce all’opera la sua “forma”: la forma vivente nella conoscenza creatrice dell’artista è il modello e l’archetipo dell’opera formata, e l’opera è vera e reale grazie alla sua concordanza con il prototipo dell’immagine che era nella mente dell’artista. Similmente, il comando della saggezza è l’idea in forza della quale l’atto morale è quello che è, è il modello e l’archetipo di ogni agire moralmente buono: l’azione diventa giusta, forte, temperante solo grazie alla risoluzione fondamentale della saggezza. La saggezza dà forma alle altre virtù, conferisce loro quella “misura”, quella bellezza, senza la quale la virtù non è nemmeno pensabile. Il concetto della virtù consiste in un’integrità equilibrio o armonia, inteso in senso razionale: la virtù è una disposizione armonica dell’uomo, sotto la guida 12 13

A. MONACHESE, San Tommaso e la bellezza, Armando, Roma, 2016, p. 76. Cfr. J. PIEPER, La prudenza (1936, 1965), Morcelliana, Bcrescia, 1999, pp. 25-26.

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della ragione, la quale ci consente di rapportarci equilibratamente all’oggetto del nostro agire. Viceversa, il vizio è disarmonia, è mancanza di equilibrio, perché consiste in una abituale sottrazione alla regola della retta ragione. È questo il motivo per cui i vizi possono essere in contrasto tra di loro (es. l’avarizia e la prodigalità, la temerarietà e la codardia), mentre le virtù sono sempre in accordo tra loro, perché dirette dalla ragione e finalizzate al bene della persona in quanto tale. L’armonia prodotta dalla virtù costituisce dunque la “vita buona”, ossia la realizzazione della persona umana nella sua bellezza. Se dunque riportiamo l’etica e l’estetica nell’ordine della sapienza, ci liberiamo dalla schizofrenia di origine kantiana che vede l’etica come una draconiana rinuncia alla bellezza e l’estetica come un caotico volgersi al piacere indiscriminato. L’esperienza etica (del dovere fondato sul bene) è certamente distinta dall’esperienza estetica (dell’attrazione e del piacere fondato sul bello), e tuttavia queste esperienze hanno due elementi fondamentali in comune, (1) da parte del soggetto e (2) da parte dell’oggetto. 1) Da parte del soggetto si tratta di esperienze distinte, perché a) l’estetica è fondamentalmente “teoresi”, contemplazione: il soggetto è “raggiunto” dalla bellezza, nei confronti della quale ha un atteggiamento ricettivo, di accoglimento, e non primariamente operativo. b) L’etica, invece, è praxis, azione: il soggetto è operativo, con il suo comportamento tende alla realizzazione del bene possibile. Ciò non deve però far dimenticare che, in entrambi i casi, si tratta di esperienze umane, che si attuano nel medesimo soggetto, il quale a’) anche nella dimensione teoretico-estetica non è mai completamente passivo: desidera la bellezza e si muove verso di essa; la cosa si fa vieppiù evidente nella poiesis artistica, in cui il soggetto “produce” la bellezza nell’opera d’arte, conforme all’idea contemplata. b’) Anche nella dimensione etico-pratica non è mai separato dalla dimensione teoretica, perché il bene contemplato deve diventare forma della sua azione, la quale risulta non solo buona – nel suo fine – ma anche bella in quanto conosciuta e amata. 2) Si tratta poi di esperienze che hanno per oggetto il bene ed il bello e questi sono proprietà coestensive all’essere (trascendentali, in senso pre-kantiano). La prospettiva sapienziale ci consente di ricollocare l’etica nel suo alveo epistemologico: l’ordine causale che le è proprio. La legge che mi impone un determinato comportamento, la mia libertà che decide di realizzare una determinata forma di comportamento, si muovono tutte in forza di qualcosa che è conosciuto dall’intelligenza e desiderato dalla volontà come fine, ossia come un bene, che, in quanto conosciuto, è anche bello. Se ci si priva di questa causa finale, la legge non ha più senso (letteralmente: non ha più direzione di moto) e la libertà, da parte sua, resta inerte e giace in quell’indifferentismo che è alla base della morale dell’obbligo o dell’estetica della trasgressione 14. Se si vuole elaborare un’etica veramente umana, si devono conciliare le esigenze dell'intellettualità e della concretezza, in quanto le azioni dell'uomo sono singolari e concrete, ma sono umane soltanto se dirette dall'intelligenza, ed in questo il contributo dell’estetica è imprescindibile, non solo come filosofia della bellezza, ma anche come filosofia dell’arte.

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Cfr. S. Pinckaers, Le fonti della morale cristiana. Metodo, contenuto, storia (1985), Ed. Ares, Milano 1992, pp. 385414.

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5 Arte ed educazione Scrive Joseph Ratzinger: “La crisi dell’arte è un altro sintomo della crisi dell’umanità, che proprio nell’estrema esasperazione del dominio materiale del mondo è precipitata nell’accecamento di fronte alle grandi questioni dell’uomo, a quelle domande sul destino ultimo dell’uomo che vanno oltre la dimensione materiale. Questa situazione può essere certamente definita come un accecamento dello spirito. Alla domanda su come dobbiamo vivere, su come dobbiamo affrontare la morte, se la nostra esistenza abbia un fine e quale, a tutte queste domande non ci sono più risposte comuni” 15.

Si tratta di una crisi che ha travolto, ancora prima delle arti, gli stessi ideali a cui esse si volgono: il vero e il buono, che trovano la loro sintesi nel bello. Colui che ha il compito di trasmettere l’arte e quindi di fare scuola, è il maestro. In base al principio classico autoevidente che “nessuno dà ciò che non ha”, dovendo produrre paideia, il maestro deve necessariamente essere un uomo colto. Avendo tale cultura la forma specifica della verità e della bontà, il maestro dovrà possederne la bellezza interiore, per essere in grado di coltivarla negli altri. In termini classici, tale bellezza si denomina “virtù”. Il termine va assunto in tutto il suo spessore, poietico, dianoetico ed etico. L’arte come virtù poietica è la capacità di fare, di produrre, che implica il possesso del mestiere, della “regola d’arte”. Ma l’arte è anzitutto virtù dianoetica: come “retto criterio delle cose da fare” (recta ratio factibilium), è virtù dell’intelletto pratico, è eccellenza nella ratio, quindi il maestro deve coltivare gli habitus della ragione, mediante i quali quest’ultima tende correttamente al proprio oggetto, che è la verità del bene, ossia il bello. L’arte deve portare alla contemplazione e pertanto il maestro deve possedere in senso eminente le virtù dell’intelletto speculativo, orientate alla contemplazione della verità: intelligenza, scienza e sapienza. Ed avendo come scopo la promozione dell’umanità dell’uomo, è evidente che il maestro deve possedere in modo eminente le virtù morali, ossia l’abituale disposizione a scegliere e perseguire ciò che è degno dell’uomo. La scuola è essenzialmente comunicazione, trasmissione di cultura e di bellezza, in un contesto di dialogo. La cultura, per esistere, ha bisogno di chi la desidera e di chi la gode: il fruitore è colui che sa gioire della cultura e dei suoi prodotti artistici. Si impara a godere dell’arte, è dunque necessaria l’educazione del gusto, della capacità di vedere, della capacità di conoscere. La classica distinzione tra uti (usare) et frui (fruire) può essere utilizzata per differenziare un tipo di godimento che non lascia traccia e “consuma”, distrugge proprio perché ambisce a possedere l’impossedibile, e uno che invece costruisce proprio chi fruisce, perché non desidera altro che la gioia della stessa bellezza. La cultura non ha utenti e consumatori, ma fruitori. La crisi della cultura si manifesta drammaticamente quando coloro che dovrebbero esserne “fruitori” si trasformano in banali “utenti” o in barbari “consumatori”. Ciò è segno di una mancanza di virtù etica e dianoetica che rende persino inutile la tecnica.

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J. RATZINGER, Introduzione allo spirito della liturgia (1999), San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2001, pp. 126-127.

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