Europa come sistema complesso

May 25, 2017 | Autor: Marinella De Simone | Categoria: Complexity Theory, Europa, Teoria Della Complessità
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Europa come sistema complesso I.

La seduzione del caos ed il clima apocalittico

Da più parti si parla ormai della situazione internazionale facendo riferimento, diretto o indiretto, al caos. Nel numero 2/16 di Limes dal titolo esemplificativo: “La Terza Guerra Mondiale?”, la carta geopolitica di Laura Canali presentata in apertura al volume si intitola: “Caoslandia”, indicando con questo nome le terre dove gli Stati nazionali si stanno frantumando sotto la spinta di guerre sia interne che esterne, distinguendo come “Ordolandia” i territori dove ancora regna ordine, pace ed un relativo benessere1. L’Europa, ed in particolare l’Italia, appare in questa mappa come il confine geografico tra l’ordine e il caos. Lucio Caracciolo, nel suo Editoriale al n. 2/16 di Limes2, parla di “clima apocalittico” che attraversa tutto il nostro pianeta e che fa apparire quasi ineluttabile il manifestarsi della Terza Guerra Mondiale, di cui già Papa Francesco ha parlato provocatoriamente definendola una “Guerra Mondiale a pezzi”3. Il frantumarsi dell’ordine mondiale imposto da pochi Paesi forti come è stato nel periodo della guerra fredda sta lasciando il posto, dopo la caduta del muro di Berlino, a innumerevoli micro-nazioni che non hanno né lo status né la rappresentatività per ridefinire un nuovo ordine mondiale, rendendo fluido ed indefinito il contesto all’interno del quale si muove tutto il territorio di “Caoslandia”. Thomas Friedman, opinionista del New York Times, scrive in uno dei suoi recenti articoli: “In geopolitica sussistono grandi contrapposizioni di potere, ma lo spartiacque più rilevante nel mondo di oggi non è più quello tra Oriente e Occidente, capitalisti e comunisti: sempre più spesso sarà quello tra Mondo dell'Ordine e Mondo del Disordine, a mano a mano che le pressioni di natura ambientale, settaria ed economica faranno piazza pulita di stati deboli e falliti. Tutti i giorni, ormai, leggiamo sui quotidiani di chi

1

“Caoslandia”, www.limesonline.com, 08/03/2016, in: http://www.limesonline.com/caoslandia/89915

2

Lucio Caracciolo, Non è la fine del mondo, Limes. Rivista Italiana di Geopolitica, n. 2 (2016) 7-26

3

Marco Ansaldo, “Il Papa: la terza guerra mondiale è già iniziata”, 18/08/2014, www.larepubblica.it, in: http://www.repubblica.it/esteri/2014/08/18/news/papa_francesco_terza_guerra_mondiale_kurdistan94038973/

fugge dal Mondo del Disordine verso il Mondo dell'Ordine. [...] Nessuno vuole occuparsi delle zone nelle quali il disordine permea ogni cosa, perché tutto ciò che se ne ha in cambio è un conto da pagare. Per di più, la maggior parte di questi paesi è del tutto incapace di autogovernarsi in modo democratico. Chi assumerà dunque il controllo di queste aree? E se la risposta fosse "nessuno"? Questa sarà una delle più serie sfide di leadership del prossimo decennio.”4 Federico Rampini intitola uno dei suoi ultimi libri “L’Età del Caos”, e parla di “seduzione del Caos” come di una sorta di “attrazione fatale, malefica e demoniaca” che sente crescere attorno a sé.5 Questa seduzione del Caos è tuttavia, secondo Rampini, anche un principio dinamico ed una risorsa strategica che attraversa non solo la visione politica e sociale dei guerriglieri, ma anche quella tecnologica e imprenditoriale dei creativi della Silicon Valley. Entrambi, terroristi da una parte, innovatori dall’altra, vedono nel caos illimitate possibilità, secondo un’ottica che oggi si ama definire disruptive, che significa sì distruttivo e devastante, ma anche dirompente e creativo. La frattura tra la terra dell’ordine e la terra del caos non è unicamente legata ai conflitti aperti ed alle guerre in atto, ma è anche, e forse soprattutto, di tipo culturale. Da un lato l’establishment, che si mostra incapace di comprendere il nuovo contesto che si è generato, essendo abituato a pensare in modo frammentato, lineare e deterministico; dall’altro, l’approccio dirompente di chi vede nel nuovo disordine globale la possibilità di cambiamenti radicali ed esponenziali. I primi riescono ad immaginare il proprio futuro solo in base a ciò che è stato il loro passato personale; i secondi no: il loro futuro non è il riflesso del passato, trovando invece spazio ed opportunità esplosive nelle crepe aperte dalle incapacità dei vecchi poteri di leggere il presente e di comprenderne le dinamiche interdipendenti.

II.

E’ necessario comprendere il caos

4

Thomas Friedman, Governare il disordine, la sfida dei nuovi leader, 23/05/2015, www.repubblica.it, in: http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/05/23/governare-il-disordine-la-sfida-deinuovi-leader27.html 5

Federico Rampini, L’Età del Caos (Mondadori Libri, 2015)

Lo stesso Rampini conclude la sua Introduzione al libro “L’Età del Caos” chiedendosi se il Caos possa essere visto con altri occhi: “Il Caos può diventare per noi un'opportunità? Che cosa possiamo imparare dalla mappatura del Disordine dominante? Crisi e opportunità sono una parola sola, in mandarino. Il filosofo greco Socrate, nel ritratto che ci tramanda Aristofane con la commedia Le Nuvole, considerava il Caos come una divinità. Più vicina a noi, è la matematica post-newtoniana ad avere fatto della Teoria del Caos uno dei suoi sviluppi più importanti. La direzione imboccata dagli scienziati è assai diversa dall'accezione negativa e catastrofista del disordine, dell'anarchia e dell'assenza di regole "lineari". [...] Lo studio del caos si è allargato all'astronomia, alla meteorologia, alla biologia, e ovviamente all'economia”6. È necessario quindi comprendere il Caos, uscendo dall’abisso apocalittico che così facilmente porta con sé. La teoria del caos7, sviluppatasi a partire dagli anni ’60 del secolo scorso grazie all’uso dei computer nell’analisi dei fenomeni naturali, è uno dei principali apporti allo studio dei sistemi complessi, quei sistemi definiti appunto come “sistemi all’orlo del caos”, ovvero sistemi che riescono a mantenersi in un equilibrio dinamico tra ordine e disordine, senza precipitare nel caos disintegrandosi. Un aneddoto riguardante la teoria del caos, che richiama gli studi compiuti dal meteorologo americano e docente al MIT Edward Lorenz, definisce “effetto farfalla” ciò che, in termini più tecnici, viene definito come “dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali”; secondo questo aneddoto, il battito d’ali di una farfalla a Rio de Janeiro può provocare un anno dopo un uragano a New York. Si tratta evidentemente di una metafora un po’ spinta che ha contribuito a diffondere, pur semplificandola, la teoria del caos. Essa è stata tuttavia utile nel comprendere come eventi semplici, e spesso impercettibili se non addirittura insignificanti ai nostri occhi, possano generare in un tempo sufficientemente lungo eventi imprevisti e difficili da correlare alle cause che li hanno determinati. Secondo questa visione, fenomeni estremamente semplici possono instaurare un meccanismo dinamico tale da generare fenomeni complessi, grazie al processo ricorsivo che essi assumono: “Noi tutti crediamo, alquanto ingenuamente, che fenomeni semplici diano luogo ad altri fenomeni semplici, e che solo fenomeni

6

Rampini, L’Età del Caos, (5), 10-11

7

James Gleick, Caos. La nascita di una nuova scienza (RCS Rizzoli Lbri, 1989)

complessi possano dar luogo ad altri fenomeni complessi; studiando i sistemi dinamici ci si è accorti, invece, che una tale linearità non esiste nella realtà e che spesso piccoli eventi di natura semplice possono determinare eventi di natura complessa, proprio perché sono in interazione con altri fenomeni in un ambiente vivente che si evolve.”.8 Questi fenomeni apparentemente semplici generano uno schema di variabilità definito da Lorenz stesso come “attrattore strano”: uno spazio che racchiude le possibili variazioni dell’intero sistema, che non diventano mai ripetitive eppure si muovono seguendo una forma tipica di intreccio a doppio anello che consente di riconoscere una sorta di ordine di tipo diverso da quello tradizionale di tipo statico. Si tratta infatti di un ordine dinamico che racchiude in sé “la storia” degli eventi che lo hanno preceduto, senza che si possa prevedere con esattezza in quali punti passerà il sistema ma anche senza che esso sfoci nel caos indifferenziato o che si disintegri. Si parla a questo proposito di “caos deterministico”, proprio per differenziarlo dal caos di tipo apocalittico fondato sulla disintegrazione dell’esistente. I sistemi complessi sono perciò sistemi che mantengono la propria integrità senza precipitare nel caos e pure, allo stesso tempo, non sono né stabili né prevedibili. Comprendere la differenza tra sistemi complessi e sistemi caotici consente di operare affinché la scelta tra ordine e disordine non diventi dicotomica; non si tratta più, semplicisticamente, di scegliere tra il caos e la distruzione da un lato e la stabilità e la prevedibilità dall’altro. Si tratta di percorrere una terza via che non è solo filosofica ed etica: è la via seguita da quasi tutto ciò che ci circonda, che spontaneamente emerge e che chiamiamo “vivente”9.

III. Perché la complessità oggi È difficile definire cosa sia la complessità: spesso il termine complessità viene definito in antitesi al concetto di semplicità, confondendo così il concetto di complessità con quello di complicazione. È interessante, per comprendere la differenza di significato tra il termine complesso ed il termine complicato, risalire all'aspetto etimologico delle parole: mentre complicato

8

Dario Simoncini, Marinella De Simone, Il Mago e il Matto. Sapere personale e conoscenza relazionale nella rete organizzativa (McGraw-Hill, 2008) 9

Fritjof Capra, Pier Luigi Luisi, Vita e Natura. Una visione sistemica (Aboca, 2014)

deriva dal latino cum plicum, che significa “con pieghe”, complesso deriva dal latino cum plexum, che significa “con nodi”, intrecciato. Già etimologicamente, quindi, il termine complesso si distingue da quello di complicato: l'etimologia latina plicum richiama la piega del foglio, che deve essere "spiegato" per poter essere letto e compreso, mentre il plexum è il nodo, l'intreccio, come quello di un tessuto o di un tappeto, che non si può sbrogliare senza che si perda la sua stessa natura, la visione d’insieme che esso consente. Se di un tessuto, o di un tappeto, sciogliamo i nodi dell'intreccio, ci rimarranno nelle mani i fili con cui è stato composto, ma avremo perso il disegno complessivo cui dava forma. L'approccio ai problemi definiti “complicati” è un approccio di tipo analitico: il problema si suddivide in parti, le quali vengono studiate, analizzate e solo successivamente ricomposte, in modo da riuscire a comprendere il problema nel suo insieme. Dal punto di vista della complessità, invece, un problema non si può suddividere o segmentare, poiché il fenomeno da analizzare perderebbe il suo significato. Per avvicinarsi a problemi definibili come “complessi” bisogna seguire una metodologia diversa: da un lato è necessario applicare un approccio di tipo sistemico, che consente di avere una visione del problema nella interezza delle sue connessioni; dall’altro è necessario applicare un approccio emergenziale, che consente di chiedersi quali potranno essere le evoluzioni nel tempo del sistema di connessioni che definiscono il problema stesso. Studiare la complessità porta a comprendere che tutto è fondato su un principio relazionale, il “cum”, di cui non si può non tener conto: non si può non tener conto di quanto le relazioni siano fondamentali nel modificare l’assetto del contesto in cui viviamo. Ecco perché, parlando di complessità, spesso se ne parla come di un “paradigma relazionale”, distinguendolo così dal “paradigma separativo” su cui è stata fondata la nostra cultura dalla fine del ‘400 ad oggi. Il contesto in cui ci troviamo oggi a vivere è un contesto che non ci consente più di portare avanti il paradigma precedente; il modo di pensare che poteva andare bene forse fino a 30 o 40 anni fa, oggi non è più adeguato. Siamo ormai immersi in una realtà che risulta non più sostenibile nel tempo che abbiamo ancora a disposizione per noi e per le generazioni che ci seguiranno, per cui la necessità di cambiare i nostri presupposti è sentita in modo diffuso.

Il presupposto del paradigma relazionale è che siamo in relazione con tutto e tutti. Siamo in relazione con chi conosciamo, ma anche con chi non conosciamo; siamo in relazione con il contesto all’interno del quale ci muoviamo, ma anche con quello al di fuori del nostro ambito abituale; siamo in relazione con le condizioni climatiche che influiscono direttamente sul nostro ambiente, ma anche con quelle che agiscono al di fuori di esso. E tutto questo non solo nello spazio, vicino o lontano da noi, ma anche nel tempo: ciò che è avvenuto prima e ciò che ancora non è accaduto ma che si sta già preparando ad accadere come effetto delle nostre azioni o non azioni. Qualsiasi cosa facciamo o diciamo, o non facciamo o non diciamo, ha degli effetti. Effetti che riusciamo a vedere, o ad immaginare, solo per un ambito ristrettissimo, quello che ci è più familiare, e per un tempo estremamente limitato, che possiamo misurare in ore, giorni, forse qualche settimana o mese. Non siamo in grado di comprendere le relazioni, pur se necessariamente ci sono, tra ciò che stiamo facendo oggi - o non facendo oggi - e ciò che questo determinerà tra, poniamo, un anno. Considerando che ciò vale per ognuno di noi, possiamo provare a immaginare le relazioni incrociate che si determinano per ogni nostra azione o non azione: l’effetto globale che otteniamo è di sentirci disorientati, sommersi da un presente quasi incomprensibile e da un futuro pressoché caotico. Ecco perché è così importante comprendere quali siano le competenze che ognuno di noi deve sviluppare per acquisire maggiore consapevolezza delle relazioni all’interno delle quali è inserito e di quali possano essere gli effetti sia nello spazio che nel tempo del proprio agire. Edgar Morin parla a questo proposito della necessità di sviluppare, nell’educazione, una “conoscenza pertinente”, ovvero una conoscenza in grado di situare ogni cosa nel contesto e nel complesso planetario, trasformando la nostra capacità di organizzare la conoscenza in ambiti interdisciplinari ed abbandonando la conoscenza compartimentata: “la conoscenza pertinente deve affrontare la complessità. Complexus significa ciò che è tessuto insieme; in effetti, si ha complessità quando sono inseparabili i differenti elementi che costituiscono un tutto (come l’economico, il politico, il sociologico, lo psicologico, l’affettivo, il mitologico) e quando vi è tessuto interdipendente, interattivo e inter-retroattivo tra l’oggetto di conoscenza e il suo contesto, le parti e il tutto, il tutto e le parti, le parti tra di loro. La complessità è, perciò, il legame tra l’unità e la molteplicità. Gli sviluppi propri della nostra era planetaria ci mettono a confronto sempre più ineluttabilmente con le sfide della complessità.

Di conseguenza, l’educazione deve promuovere una “intelligenza generale” capace di riferirsi al complesso, al contesto in modo multidimensionale e al globale”.10

IV La gerarchia dei sistemi complessi Proviamo a definire brevemente cos’è un sistema complesso. Innanzi tutto è un sistema, in cui i singoli elementi interagiscono tra loro determinando un comportamento globale del sistema diverso da quello dei singoli elementi che lo costituiscono: possiamo perciò parlare di un’entità organizzata, organica e globale; all’opposto, non abbiamo un sistema quando vi è un insieme disorganizzato di elementi, come ad esempio un mucchio di sabbia. Un sistema complesso è a sua volta costituito da altri sistemi: gli elementi che lo costituiscono non sono elementi semplici, ma sono a loro volta sistemi; il tutto in una sorta di “vertigine” di sistemi dentro sistemi intrecciati tra loro che si influenzano reciprocamente, in una gerarchia sistemica molto diversa nella circolarità delle relazioni di causa-effetto dalle gerarchie a cui siamo abituati. Ogni sotto-sistema rappresenta un “livello” del sistema di cui è parte, ed è a sua volta costituito da numerosi elementi od agenti che, appunto, interagiscono tra loro con modalità sia cooperative che competitive, dando all’intero sistema di cui sono parte una forma di “coerenza”, fondamentale per definirlo tale e che porta all’emergere di un nuovo livello. Ogni livello del sistema è come un mattone su cui si possono formare i livelli successivi, in una sorta di catena evolutiva che procede dal basso verso l’alto o bottom-up, costituendo nel loro insieme un’unica entità organizzata e dinamica. Esempi di queste forme di organizzazione bottom-up sono i formicai, gli stormi di uccelli, i sistemi sociali, politici ed economici. Con le parole di Steven Johnson, studioso dei sistemi complessi: “Quali caratteristiche condividono tutti questi sistemi? In termini semplici, risolvono problemi utilizzando masse di elementi relativamente stupidi anziché un singolo e intelligente “centro direzionale”. Sono sistemi dal basso all’alto: bottom-up; non dall’alto al basso: topdown. Acquisiscono dal basso la loro intelligenza. In linguaggio più tecnico, sono sistemi adattivi complessi che mostrano comportamento emergente. In tali sistemi gli

10

Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro (Cortina, 2001), 38

agenti che risiedono su un livello iniziano a produrre un comportamento che si manifesta a un livello superiore: le formiche creano colonie; le persone che si trasferiscono in città creano quartieri; un semplice software di riconoscimento di configurazioni impara a raccomandare ad hoc novità librarie. Il movimento dalle regole di basso livello alla sofisticazione di alto livello è ciò che chiamiamo emergenza (emergence)”.11 La caratteristica peculiare dei sistemi complessi è che essi “imparano” costantemente attraverso una continua riorganizzazione interna: non sono controllati centralmente, ma adattano i propri comportamenti in relazione ai mutamenti che avvengono sia internamente tra gli agenti che li compongono, sia esternamente nel contesto in cui sono inseriti. Ciò consente loro di evolvere incessantemente nel tempo pur mantenendo una propria coerenza, che potremmo definire come “identità” dell’intero sistema, senza perciò disintegrarsi. V L’Europa è un sistema complesso Il termine “Europa” pare derivi dal semitico ereb, che significa “là dove è buio”, indicando la terra dove tramontava il sole per i Fenici insediati in Siria, termine ripreso poi dai Greci intendendo le terre poste a nord, dove vivevano i barbari. L’Europa non è definibile geograficamente: non è un continente, non è un’isola, non ha confini definiti. Come affermano Edgar Morin e Mauro Ceruti: “L’Europa geografica non ha un centro fisso. Nel corso della sua storia, i suoi centri si sono spostati e nuovi centri sono apparsi. [...] L’Europa ha frontiere permeabili, a geometria variabile, che subiscono slittamenti, rotture, trasformazioni. [...] L’Europa sfugge a ogni rigida polarizzazione geografica: non è un occidente contrapposto a un oriente; non è un nord contrapposto a un sud”12. Verso Est, l’Europa non è che una penisola: un piccolo capo del continente asiatico, come l’ha definita Paul Valéry. Verso Sud, il Mediterraneo è un confine incerto: è il “mare interno” dell’antico Impero Romano e la culla della civiltà europea. Verso Ovest, l’Atlantico sembra definirne geograficamente i confini; ma non possiamo dimenticare

11

Steve Johnson, La nuova scienza dei sistemi emergenti (Garzanti, 2004), 16

12

Edgar Morin, Mauro Ceruti, La nostra Europa (Raffaello Cortina Editore, 2013)

che, con l’età moderna, le Americhe sono divenute le “nuove Europe”, e così pure l’Australia e la Nuova Zelanda. Non è l’assetto geografico che a priori definisce il territorio europeo; l’Europa è definibile solo storicamente, e quindi culturalmente: il territorio diviene una variabile della volontà umana, e non viceversa. L’Europa varia al variare della storia, divenendo la manifestazione delle continue scelte che gli uomini hanno compiuto – o non compiuto – nel tempo. Un esempio piuttosto recente nella storia d’Europa: le banconote dell’Euro stampate dal 1° gennaio 2002 riportano sul retro una cartina d’Europa; può sembrare un elemento semplice da definire, ma non lo è. Alcuni Paesi che erano in procinto di entrare nell’Unione Europea – come Malta e Cipro – non sono state incluse, mentre altre – come la Svizzera e la Norvegia, la Bielorussia e parte della stessa Russia sono state incluse. “Sul retro si è voluta aggiungere una bella cartina geografica. Cosa di più asettico di una cartina, si sarà pensato. E invece non c’è nulla di più geopolitico”.13 Si tratta quindi di considerare l’Europa come un processo dinamico, soggetto a continui mutamenti, sia nel tempo che nello spazio. Ovvero, come un sistema complesso.

1.

Le dinamiche nello spazio: cambiano i confini, cambiano i popoli

I confini sono incerti: passano da uno Stato all’altro, si fanno impermeabili fino a divenire muri e filo spinato; sono soggetti a tensioni, conflitti, guerre. Oppure sono totalmente permeabili, fin quasi a scomparire: si trasformano in una passeggiata in bicicletta, in una arrampicata in montagna, in una nuotata nel lago. Le migrazioni sono continue: provocate dall’intolleranza religiosa, dalla pulizia etnica, dalle emigrazioni forzate, dagli arrivi in massa di immigrati in fuga da stermini, cataclismi o povertà. L’Europa è sempre stata soggetta a movimenti di migliaia, a volte milioni di persone: spostamenti di popoli, culture, religioni, etnie che hanno continuamente rimodellato la stessa idea di Europa. Anche ora assistiamo a nuove dinamiche nello spazio: cambiano di nuovo i confini, da invisibili si stanno trasformando nuovamente in blocchi di frontiera, fili spinati e muri;

13

Limes. Rivista Italiana di Geopolitica, n.1 (2002), 22

dall’integrazione degli stranieri ai blocchi fuori e dentro l’Europa per impedirne l’accesso.

2.

Le dinamiche nel tempo: tra evoluzione e distruzione

I mutamenti nel tempo rappresentano un processo irreversibile: la storia non consente di tornare indietro. Ogni scelta effettuata nei diversi bivi di cui è costellata la storia influisce e modifica l’assetto europeo. Le dinamiche nel tempo, pur se possono apparire graduali o addirittura statiche, sono soggette ad improvvise rotture: dei veri e propri salti evolutivi tra civiltà e barbarie, tra la disintegrazione entropica nel caos e l’emergere di un sistema più complesso con nuove qualità, grazie alla sincronia che accomuna d’improvviso i suoi elementi. L’Europa è quindi un sistema complesso, costantemente in bilico tra ordine e caos, tra evoluzione e distruzione. Ogni processo che si è risolto con una evoluzione ne ha modificato la forma in modo radicale. Nel 1492 si ha la prima forma d’Europa: il formarsi di quella che sarà definita l’Europa moderna. L’Europa trova una sua identità con l’avvio del primo processo di globalizzazione su scala planetaria. Da un lato il formarsi dei primi Stati-Nazione, dall’altro il manifestarsi dell’intolleranza religiosa14; la Spagna sarà il fulcro di questo triplice processo: globalizzazione, formazione dello Stato-Nazione, intolleranza religiosa verso ebrei e musulmani, che segnerà il destino della storia d’Europa fino al rischio della sua disintegrazione totale15. Il 1941 segna un nuovo momento cruciale nella storia europea, una metamorfosi evolutiva al bivio tra disintegrazione totale e rinascita sotto nuova forma: con il Patto Atlantico, l’Europa, da “terra del tramonto” diventa “l’Occidente”, territorio collegato idealmente e materialmente agli Stati Uniti d’America, con conseguenze enormi sia sul proseguimento della guerra sia su tutti gli assetti successivi alla guerra stessa. Alla conclusione del conflitto mondiale nel 1945, finisce l’Europa moderna per trasformarsi in una identità meta-nazionale che pensa l’Europa come un progetto da realizzare per volontà comune.

14

Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, Origini di storie (Feltrinelli Editore, 1993)

15

Edgar Morin, Cultura e barbarie europee (Raffaello Cortina Editore, 2006)

Il 1989 rappresenta una metamorfosi meta-nazionale dell’Europa: insieme al crollo del muro di Berlino cade subito dopo l’ex impero sovietico, che arretra verso oriente, lasciando scoperti verso l’Europa i paesi dell’Est ed aprendo alla possibilità di un loro ingresso nell’Unione Europea.

VI.

L’Europa è all’interno del sistema complesso più vasto: la Terra

La Terra è il sistema più complesso che conosciamo, intesa non solo come ambito geopolitico, ma come pianeta tutto. I problemi da affrontare trascendono ormai i confini politici ed istituzionali, e non possono perciò essere affrontati dai singoli Stati separatamente o dai singoli organi istituzionali, spesso chiusi nella loro burocrazia interna. L’economia, la finanza, l’uso delle risorse, il traffico di armi e di droga, il terrorismo, le mafie, l’inquinamento, il riscaldamento globale, la deforestazione, i contagi, la sovrappopolazione, le guerre: sono tutti problemi che attraversano l’intero pianeta. I problemi sono globali, e tale deve essere il modo di affrontarli. Come afferma Ervin Laszlo: “Viviamo un’epoca cruciale – un’epoca di instabilità e cambiamento. Il futuro è aperto. Potremmo cadere nel caos e nella catastrofe oppure risollevarci con le nostre forze, verso un mondo pacifico e sostenibile. La scelta tra evoluzione e estinzione è reale. Abbiamo bisogno di capire come avviene e cosa comporta.”16 È la sopravvivenza della specie umana a essere chiamata in causa, non come ipotesi lontana ed improbabile, ma nel breve termine ed a livello sistemico. Se fino a non molti anni fa la nostra sopravvivenza sembrava dipendere unicamente dall’equilibrio di forze fondato sul possibile uso delle armi nucleari, ora la crisi è multi-fattoriale e multilivello. Ogni problema è intrecciato inestricabilmente agli altri, in una rete di interdipendenza reciproca che sembra paralizzare qualunque tipo di intelligenza e di azione. Si parla ormai da qualche tempo di “declino degli Stati-Nazione” e di emergere di poteri altri. La frantumazione degli Stati lascia emergere poteri trasversali: etnie, religioni, fazioni, mafie, tribù, ma anche grandi imprese, mass media, ong, reti. Sono in molti a parlare di mondo multipolare, mentre Parag Khanna, nel suo libro “Come si governa il mondo”, partendo dalla domanda: “Come può un’organizzazione

16

Ervin Laszlo, Worldshift. Scienza, società e nuova realtà (Franco Angeli, 2008), 28

nata per provvedere ai problemi degli Stati dotati di confini risolvere i problemi di un mondo senza confini?”, propone lo scenario, come futuro probabile che ci attende, di un nuovo Medioevo e di un ritorno al modello delle città-stato medievali italiane. Egli sostiene infatti che è impossibile riuscire a governare i problemi interconnessi a livello globale con la burocrazia delle organizzazioni internazionali impegnata solo su target ed obiettivi da raggiungere: “Secondo il National Intelligence Council americano, nel 2025 il concetto stesso di un’unica “comunità internazionale” apparirà un’idea pittoresca e anacronistica. Nessun leviatano universale, nessun parlamento globale, nessuna egemonia americana potrà più trovarvi posto. Al contrario, ci stiamo muovendo nella direzione di un mondo frantumato, frammentato, ingovernabile, multipolare, o nonpolare. Tutti questi aggettivi ci suggeriscono la realtà autentica del mondo che sta prendendo forma: quella di un nuovo Medioevo.”17 Siamo perciò di fronte ad una situazione nuovamente all’orlo del caos nella storia non più solo europea, ma mondiale. Dinnanzi allo sgretolarsi dei vecchi poteri sorretti da un establishment miope incapace di vedere l’interdipendenza dei fenomeni ed il loro evolversi, si apre l’abisso del caos apocalittico e del conflitto su scala mondiale; oppure l’emergere di un nuovo, possibile per quanto improbabile - ordine dinamico che integri molteplicità ed unità, nuovi modelli di polis che connettono territori su scala globale, integrazione dei saperi e cooperazione: ovvero un agire ed un pensare che accomuni gli uomini nel mondo attraversandolo e connettendolo da parte a parte.

VII.

Metamorfosi europea

Jeremy Rifkin parla, a questo proposito, di “Sogno europeo”, in contrapposizione al vecchio “Sogno americano”, ormai obsoleto: “Per gli americani la sola vera preoccupazione è come migliorare la propria condizione, traendo il meglio da sé: lottare per un futuro migliore, sul piano materiale ed emotivo, è la radice del Sogno americano e la maggior parte degli immigrati negli Stati Uniti sceglievano di dimenticare il proprio passato e di sacrificare il presente in cambio di benefici futuri. Il Sogno europeo, al contrario, è molto più ambizioso: gli europei vogliono conservare la propria eredità

17

Parag Khanna, Come si governa il mondo, (Fazi Editore, 2011)

culturale, godere la vita presente e creare un mondo sostenibile e pacifico, per un futuro ragionevolmente prossimo. E, oltre a tutto questo, desiderano definire una politica basata sull’inclusività, ovvero che rispetti ugualmente il sogno personale di ciascuno: un impegno che supera ogni possibile immaginazione”.18 Il libro di Rifkin è del 2004 e, purtroppo, sembrano passati già moltissimi anni da allora ed il Sogno europeo sembra essersi trasformato in un’utopia, soprattutto con il sopraggiungere della crisi del 2008 che non ha fatto che aggravare il contesto politico e sociale europeo. Cosa è necessario fare oggi perché possa attuarsi il Sogno europeo? “La domanda da porsi è quale nuovo legame condiviso spingerà la gente a trascendere le obsolete lealtà, per rendere il Sogno europeo universale e realizzabile. In termini più semplici, per quanto non sia un compito facile, bisognerà essere disposti a passare dall’adesione ai diritti e doveri che discendono dalla proprietà legata al territorio all’adesione ai diritti e doveri umani universali, legati alla nostra comune esistenza sulla terra”.19 È necessario, perché questo possa avvenire, un “New Deal Europeo”: il formarsi di un nuovo contratto sociale che trovi le sue basi nello sguardo ampio necessario per comprendere i contesti locali ed il loro integrarsi in contesti globali; che includa tutte le parti sociali nell’affrontare le dinamiche di interdipendenza dei problemi da affrontare con una politica coordinata sui temi della sicurezza, della coesione sociale, dell’educazione, della disoccupazione, dei flussi migratori, dell’inquinamento, delle città e del decentramento territoriale, dell’innovazione tecnologica e della ricerca, della politica fiscale. Tutto questo, se lasciato in mano alle forze disgreganti che si stanno manifestando in modo evidente in Europa, non solo non può essere risolto, ma diventa esso stesso motivo e fattore di ulteriori forze centripete, acuendo i problemi anziché risolverli e sfociando, inevitabilmente, nel conflitto globale. La possibile scelta europea è, ancora una volta, tra la frantumazione di sé od una nuova metamorfosi evolutiva: tra i confini che ridiventano frontiere ed il ritorno dell’Europa ad essere un’appendice del continente asiatico, al divenire un’identità sovra-nazionale anche politicamente, costituendosi in una federazione di Stati; un’identità multipla fatta di diversità culturali accomunate da un unico desiderio di civiltà e civilizzazione globale. La metamorfosi è un processo di trasformazione di un sistema complesso

18

Jeremy Rifkin, Il Sogno europeo (Mondadori 2004), 270

19

Rifkin, Il Sogno europeo, (18), 271

all’orlo del caos, soggetto a spinte così forti che possono distruggerlo e che pure riesce a superarle aumentando la propria complessità interna ed evolvendo ulteriormente: “Un sistema che non riesce ad affrontare i suoi problemi vitali può disintegrarsi. Ma può anche intraprendere una metamorfosi, trasformandosi in un sistema più ricco e più complesso, in grado di affrontare questi problemi. Le metamorfosi, per quanto improbabili, sono possibili”20.

VIII.

Una nuova cultura umanistica fondata sul pensiero complesso

Occorre un nuovo tipo di umanesimo, che non sfoci più, come avvenuto in passato, nella deriva arrogante dell’uomo posto al centro del mondo, governatore indiscusso della natura ed artefice dei destini della Terra, secondo un approccio esclusivista e riduzionista e che ha trascinato più volte nel baratro lo stesso sentimento dell’essere uomo. È essenziale, invece, operare affinché si diffonda una cultura che integri la natura nell’uomo in modo inclusivo, la molteplicità delle identità nell’unità di una identità emergente, senza distruggerne la potenza creatrice e innovatrice. Come ci ricordano Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti: “Il carattere specifico dell’identità europea è la varietà. Varietà di radici e di matrici, di lingue e di confessioni, di paesaggi e di regioni. Fin dal suo primo delinearsi, dopo la rottura dell’unità culturale del bacino del Mediterraneo e attraverso il faticoso stabilirsi di una nuova unità culturale in nuovi spazi e verso nuove direzioni, l’Europa ha vissuto tutte le dimensioni di questa varietà. Fin da allora, ha anche sperimentato convivenze e dialoghi, ibridazioni e integrazioni, mescolanze e convergenze”.21 La visione complessa aiuta a comprendere come l’uomo non possa che essere considerato parte di un tutto, di cui ha il dovere di prendersi cura – specie oggi, visto lo stato di imbarbarimento che sta portando il mondo sull’orlo dell’abisso della propria distruzione.

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Edgar Morin, Elogio della metamorfosi, La Stampa, 14/01/2010, www.lastampa.it, in: http://www.lastampa.it/2010/01/14/cultura/edgar-morin-elogio-della-metamorfosip3lvd5nAhll3kFuVcCneRJ/pagina.html 21

Bocchi, Ceruti, Origini di storie (14), 109

Prendersi cura significa avere quella capacità generativa e rigenerativa che sorge solo dal comprendere dove siamo – qual è lo spazio che occupiamo – e qual è il tempo che stiamo vivendo, e come tutto questo divenga un contesto comune. Si tratta di civilizzare la globalizzazione, cosa che finora non è stata fatta. Manca infatti un “pensiero del contesto”, in grado di comprendere il complesso che lo attraversa e che lo costituisce momento per momento. La globalizzazione è un processo che ha attraversato ripetutamente la storia europea, dalla scoperta delle Americhe alle crisi finanziarie ed economiche di questi anni; l’abbiamo subìta come qualcosa di ineluttabile che accadeva indipendentemente dalla nostra volontà, rimanendo ciechi di fronte ai suoi effetti spesso catastrofici. È fondamentale oggi pensare alla civiltà della globalizzazione come dialogo tra culture diverse, in grado di integrare le diversità locali su scala globale, mantenendo l’irriducibilità di ciascuna. Solo una civiltà – ed in particolare un nuovo pensiero politico – in grado di collegare, contestualizzare, integrare le conoscenze, può aiutare l’ultima, attuale metamorfosi dell’Europa che può renderla attiva nel mondo, contribuendo alla trasformazione globale. “Mai, nella storia d’Europa, le responsabilità del pensiero e della cultura sono state così tremende”. (Edgar Morin, Mauro Ceruti, 2013)

Marinella De Simone Complexity Institute – Italy [email protected]

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