Fascismo e nazismo

June 14, 2017 | Autor: Paolo Pombeni | Categoria: Italian fascism, Nazism
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Fascismo e Nazismo nel quadro della storia politica nazionale. Una svolta storiografica?*


Di Paolo Pombeni

Qualche decennio fa uno storico britannico, Richard J. Evans, intitolava una lunga rassegna di studi sulla storia politica tedesca From Hitler to Bismarck. Il rovesciamento dell'ordine cronologico consueto sottolineava la questione centrale che pareva allora dominante: se fosse plausibile o meno considerare la storia tedesca contemporanea come interpretabile a partire dalla "rivelazione" della dittatura nazista. Qualcosa di simile si sarebbe probabilmente potuto dire per la storia politica italiana, anch'essa tutt'altro che immune dalla tentazione di fare di quel che aveva preceduto il 1922 una specie di "lunga premessa" al fascismo.
Del resto la tesi gobettiana del fascismo come "autobiografia della nazione" era stata canonica per anni ed aveva appagato le domande ermeneutiche di una parte cospicua della nostra ricerca. Vi era certo una radice politica immediata in quella lettura, e fra poco ne parleremo, ma il fenomeno della sua fortuna postuma aveva spiegazioni più complesse: complice in parte la vulgata marxista sul rapporto fra struttura e sovrastruttura nella storia, si era finito per leggere ogni dinamica in riferimento al tema della presenza delle masse nella vita politica, cadendo nel cortocircuito astorico che ravvisava nella presunta assenza in età liberale di partiti di massa come canalizzatori della partecipazione democratica la debolezza di un sistema che non poteva far altro che cadere nelle mani della "reazione".
Per quel che riguarda il versante tedesco vi era invece piuttosto la tendenza ad individuare nella "continuità delle elite" la spiegazione di una debolezza strutturale del cosiddetto "semi-costituzionalismo" dell'Impero che poi, nonostante il confuso tentativo di uscirne con l'intermezzo repubblicano, avrebbe portato Hitler al potere. Non a caso si intitolava Bundnis der Eliten un volumetto del celebre storico di Amburgo Fritz Fischer, già onusto di successo per il suo studio sull' Assalto al potere mondiale, in cui si cercava di dimostrare una certa persistenza e circolarità delle elite politiche e sociali sin dentro alla cosiddetta rivoluzione nazista.
Per la verità queste letture avevano una loro radice politica alle spalle. Vorrei qui citare il caso italiano con il famoso intervento di Ferruccio Parri alla Consulta il 26 ottobre 1945. Riproponiamo il famoso passaggio: "Quello che vi deve interessare di fronte a questa situazione di incertezza e che più vi deve stare a cuore è quella che io chiamo la causa democratica. Tenete presente: da noi la democrazia è praticamente appena agli inizi. Io non so, non credo che si possano definire regimi democratici quelli che avevamo prima del fascismo... (interruzioni, scambio di apostrofi, commenti, rumori). Non vorrei offendere con queste mie parole quei regimi (commenti, interruzioni, rumori). Mi rincresce che la mia definizione sia male accetta. Intendevo dire questo: democratico ha un significato preciso, direi tecnico. Quelli erano regimi che possiamo definire e ritenere liberali (Interruzioni, commenti, grida di: Viva Orlando! Vivissimi e prolungati applausi all'indirizzo dell'on. Orlando, grida di: Viva Vittorio Veneto!)».
Al di là della vivacissima reazione che abbiamo riportato nelle parole dello stenografo e che da sola testimonia della presenza, in una parte non piccola degli uomini che sedevano in questo embrione di parlamento post-fascista, di una diversa lettura della storia patria (sono qui significative tanto le invocazioni a Vittorio Emanuele Orlando, non si sa se come costituzionalista liberale o come presidente della vittoria quanto quelle a Vittorio Veneto), si terrà nel debito conto la confutazione che Croce condusse nella stessa aula pochi giorni dopo difendendo il carattere democratico e libero dell'esperienza dell'Italia pre-fascista (e non si dimentichi che Croce aveva esercitato parte del suo magistero di oppositore al fascismo proprio con il suo lavoro di storico). Disse Croce che l'asserzione di Parri destava in lui "non tanto scandalo, quanto stupore" , poiché egli trovava che l'asserzione sulla mancanza di governi democratici prima del fascismo "urta in flagrante contrasto col fatto che l'Italia, dal 1860 al 1922, è stato uno dei paesi più democratici d'Europa, e che il suo svolgimento fu una non interrotta e spesso accelerata ascesa alla democrazia". Ovviamente per il filosofo napoletano il rapporto di questa democrazia col liberalismo non costituiva un problema. "Democrazia senza dubbio liberale, come ogni verace democrazia, perché se il liberalismo senza democrazia langue privo di materia e di stimolo, la democrazia a sua volta, senza l'osservanza del sistema e del metodo liberale, si perverte e si corrompe ed apre la via alle dittature e ai despotismi".
Non conosco nulla di analogo per esplicita drammaticità nella fase di costruzione della seconda repubblica tedesca, ma ovviamente in questo caso il ricorso al passato pre-nazista era assai più complesso., in quanto quello imperiale era, per definizione, un attacco alle democrazie (così suonava tra l'altro il verdetto della pace di Versailles), mentre quello weimariano sembrava rimandare ad una "democrazia improvvisata", per riprendere la celebre espressione di Troeltsch, sistema tanto debole da essere stata premessa più o meno involontaria alla presa di potere del totalitarismo. Peraltro, anche se in termini meno conflittuali un simile processo di confronto col passato storico ebbe, luogo, come vedremo fra breve, anche nella fase costituente della Repubblica Federale Tedesca.
Restava invece nelle classi politiche che si stavano adoperando per la restaurazione della democrazia nei due paesi l'idea che all'origine di essa vi fosse la grande cesura che la guerra aveva operato rispetto ai regimi fascisti che avevano governato l'ultima fase, sicché il "prima" era fatalmente sotto il segno del "mondo vecchio" cui non valeva più di tanto la pena di riferirsi. Nel caso italiano questo approccio culturale non fu tradotto in uno specifico assunto costituzionale, ma fu presentato più volte come fondativo nel corso dei dibattiti sulla costituzione. Lo esplicitò ad esempio il giovane Aldo Moro nel suo intervento del 13 marzo 1947 in una sottocommissione della Costituente, quando disse: "non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa costituzione oggi emerge da quella resistenza, da quella lotta, da quella negazione per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale".
Nel caso tedesco questo concetto è invece addirittura apertamente dichiarato nel preambolo del Grundgesetz in cui si proclamava il perseguimento degli scopi nazionali, individuati nella difesa e promozione dell'unità nazionale e politica, inquadrandole però nel fatto che ci si dichiarava "gleichberectiges Glied in einem vereinten Europa" ("membri su un piede di parità di una Europa unita") nonché servitori della "pace mondiale": due concetti che suonavano, neppure tanto implicitamente, ripudio tanto della teoria della "Sonderweg" tedesca rispetto alla storia europea quanto della propria tradizione di "Machtstaat" come pilastro indispensabile dell'esistenza stessa della Germania. Due concetti che, come è noto, furono buoni pilastri di una parte almeno, e certo non minoritaria, della cultura politica dell'Impero e di cui si giovò, pur reinterpretandoli e manipolandoli a modo suo, il nazismo, che anche grazie alla loro ripresa conseguì l'acquiescienza se non l'inglobamento delle elite espresse dal precedente sistema politico.
Se si ripercorrono gli atti del Parlamentarisches Rat (la costituente della futura BRD) anche in questo caso si vedrà che in una prima fase si era arrivati nel "comitato per le questioni fondamentali" (Ausschuss für Grundsatzfragen) (15 ottobre 1948) ad una formulazione molto più "storicistica" del preambolo su proposta dei deputati della SPD : "Die nationalsozialistiche Zwingherrschaft hat das deutsche Volk seiner Freiheit beraubt; Krieg und Gewalt haben die Menschheit in Not und Elend gestürzt. Das staatliche Gefüge der in Weimar geschaffenen Republik wurde zerstört. Dem deutschen Volk aber ist da unverzichtbare Recht auf freie Gestaltung seines nationalen Lebens geblieben. Die Beseztung Deutschlands durch fremde Mächte hat die Ausübung dieses Rechtes schweren Einschränkungen unterworfen". La formulazione non era però piaciuta agli Alleati che esercitavano un certo controllo sui lavori dell'Assemblea e che temevano che la formula della occupazione di potenze straniere" e lo stesso richiamo all'esperienza nazista creassero una pericolosa ambiguità, sicché alla fine si optò per la formulazione meno apertamente storicista che abbiamo appena citato poco fa, ma che era altrettanto chiara per i contemporanei che coglievano benissimo in quelle formule la rottura radicale con alcuni concetti cardine delle precedenti culture politiche tedesche.
Ho ricordato questi due passaggi della formazione del sistema costituzionale in Italia e Germania perché si tratta evidentemente del "cuore", per così dire, della riflessione che vorrei proporre: il mutare della considerazione nella valutazione storica e politologica di fascismo e nazismo nel momento in cui essi si leggessero realmente nel quadro di una storia nazionale di più lungo periodo, soprattutto capace di valutare non solo il "prima", ma anche il "dopo". Per quanto questo a volte susciti problemi in alcuni storici che ritengono che il nostro statuto epistemologico sia quello di valutare le cose rankianamente "così come sono state (allora)", io credo che invece la storia si faccia sempre "col senno del poi", che è in definitiva quello che spiega perché essa sia una "scienza sul passato", cioè su qualcosa che possiamo valutare come altro da noi, seppure per questo non a noi estraneo.
Ciò non era possibile negli anni immediatamente seguenti alla conclusione delle due grandi dittature quando molto spingeva per asseverare quella affermazione che abbiamo richiamato all'inizio: risalire, nella ricerca delle cause della "catastrofe", da Hitler a Bismarck, da Mussolini al sistema dell'Italia liberale (quantomeno a Crispi, se non proprio a Cavour). In questa direzione muovevano i giudizi degli alleati, soprattutto riguardo al caso tedesco: l'idea che la radice di tutto fosse nel "militarismo prussiano", nel fatto che la Germania fosse, come aveva detto una volta un illuminista francese, "una grande caserma", non era nata solo nelle polemiche contro il nazismo, ma risaliva già a quelle contro il Reich di Guglielmo II e se ne erano viste tracce sin dall'elaborazione del trattato di Versailles.
Da un certo punto di vista questa prospettiva era stata adottata dagli stessi studiosi tedeschi, che potevano così distinguere fra le tradizioni politiche presenti e recuperare quelle "democratiche" a fondamento della legittimazione di un futuro "normale" per il loro paese. Si pensi al caso, a mio avviso interessante, dell'interpretazione dell'opera politica di Max Weber: grande enfasi sulla sua riflessione post 1917, quando egli era diventato il fustigatore delle illusioni sulla "Sonderweg" e aveva cominciato a predicare le virtù della competizione democratica "volgare" (tanto da adottare il termine di "macchine politiche" così ripugnante alla cultura etica dei "letterati"), ma un certo imbarazzato silenzio sulla fase precedente che aveva visto questo autore più che coinvolto nei sogni sulla Machtpolitik.
Nel caso italiano la questione sta invece in termini piuttosto diversi. Innanzitutto gli anglo-americani non avevano alcuna considerazione per l'Italia come potenza, l'avevano trovata debole e confusa durante la sua condotta nella prima guerra mondiale pur avendola come alleata, per cui non avevano bisogno di darsi spiegazioni particolari su Mussolini: si trattava del banale caso di un dittatore arrivato al potere in una nazione in crisi e che si era esaltato oltre misura. Della storia precedente dell'Italia sapevano ben poco (e ancor meno li interessava) essendosi persa quella tradizione romantica che li aveva un tempo spinti a qualche interesse per il nostro Risorgimento. Che poi l'Italia potesse tornare sulla scena come grande potenza sembrava assai poco plausibile.
L'uso dunque della memoria del fascismo come cartina di tornasole per valutare la storia precedente arrivò per forze assolutamente interne al nostro universo culturale: da un lato la tradizione dei due partiti considerati un tempo "anti-sistema" e che ora si trovavano a raccogliere la maggioranza dei consensi (cattolici e "socialisti", da cui derivavano anche i comunisti), dall'altro la tradizione della ex sinistra liberale che avrebbe voluto rivalersi della sua marginalità imputata alle chiusure della vecchia classe politica dominante. Furono sostanzialmente le culture legate a queste forze, che erano state sconfitte nella crisi politica del 1920-22 dalla alleanza fra le vecchie elite dirigenti liberali e le forze di agitazione politica del fascismo, a proporre la tesi, più o meno formalizzata ed elaborata che la presa di potere di Mussolini e il successo del suo regime avessero le loro radici nella debolezza "democratica" e nelle ambiguità costituzionali del regime liberale.
La vulgata corrente faceva risalire tutto alla assenza delle "masse" dal protagonismo politico nella fase che aveva preceduto la dittatura, rovesciando, credo abbastanza inconsciamente, l'assunto un tempo circolante che proprio il timore di una andata al potere delle masse fosse stata la molla che aveva consentito l'andata al governo del movimento di Mussolini. Per questa via si sviluppò anche da noi tutta una storiografia che ricercava "le origini del fascismo" e che, soprattutto, le trovava nella struttura del sistema politico italiano, giudicato oligarchico, incapace di governare il cambiamento e di conseguenza spaventato da esso.
Le affermazioni di Parri alla Consulta che abbiamo già citato erano semplicemente una opinione corrente e appariva come reazione di una classe dirigente condannata dalla storia lo sdegno di Croce (e in altre occasioni di Orlando) verso coloro che non volevano riconoscere i meriti della "Italietta". Non a caso il termine era ripreso dalla polemica politica fascista contro il giolittismo, polemica che, a sua volta, affondava le sue radici nelle invettive degli intellettuali antigiolittiani: ma Croce, Orlando e qualche altro usavano il vocabolo in senso polemico facendone una bandiera positiva. Anzi il filosofo napoletano, come è noto, si spinse più avanti, parlando del fascismo come di una "parentesi" nella storia del paese.
La definizione suscitò polemiche non solo ampie ma perduranti nel tempo: chi scrive fa parte di una generazione allevata storiograficamente ad esecrare quella definizione come frutto del tentativo dell'Italia liberale di nascondere le sue colpe.
Eppure è forse da qui che bisogna ripartire per una valutazione dei progressi storiografici compiuti in questi ultimi anni. Ciò che in sostanza è cambiato, lo voglio dire subito, è quello che definirei "il tempo storico" di inquadramento dei fenomeni. Sino ad un certo punto infatti la prospettiva era quella determinata dai fascismi come punto di arrivo e di cesura: c'era stato un qualche virus maligno nel sistema politico liberale (o addirittura semi-liberale nel caso della Germania) che aveva portato alla malattia mortale dei totalitarismi; poi questa malattia era stata sconfitta con un intervento esterno (americano o sovietico a seconda delle inclinazioni politiche di chi scriveva) e si era arrivati ad una fase che aveva ben pochi legami con quanto era accaduto in precedenza.
Certo la linea storiografica della individuazione dei "precursori", che come si sa costituisce una metodologia classica nella ricerca, poteva venire applicata anche a quanto avvenuto dopo il 1945 e, per certi versi, addirittura durante le dittature: sia in Italia che in Germania si potevano trovare spiriti liberi che in tempi oscuri avevano intuito il regno dei lumi; si trattava però di "eccezioni", perché l'interpretazione prevalente rimaneva quella che abbiamo detto.
Il revisionismo spostò questa tendenza interpretativa senza scalfirla realmente. Infatti la sua tesi fondamentale era la cosiddetta "normalizzazione" di fascismo e nazismo, che mirava a toglierli dalla collocazione nei monstra storici, sottolineando la loro appartenenza alla "modernità", che poteva anche avere aspetti poco piacevoli, ma che era inevitabile. In quest'ottica, che a dire il vero mi pare più forte e dominante in Italia di quanto non lo sia in Germania, per l'evidente ragione del minor tasso di estremismo presente nel primo caso, il fascismo era una specie di "eresia politica" che si proponeva di dare soluzione ad una serie di contraddizioni del sistema liberale: comporre l'unicità del comando dello stato e l'acculturazione politica attraverso la militanza di partito; coniugare senso di massa e senso dell'eroismo individuale; contemperare sistema capitalistico e diritti del lavoro; promuovere una presenza femminile nella politica senza per questo far uscire la donna dal suo ruolo tradizionale di subordinazione.
E' ovvio che quest'operazione si era resa possibile in parte per gli eccessi della storiografia legata al problema del "ripudio del passato", ma è altrettanto da rilevare che in fondo essa rimaneva tributaria di quell'ottica che intendeva contrastare: si trattava in definitiva solo di una prospettiva rovesciata, in quanto la "distruzione del liberalismo" operata dalle dittature appariva come un'operazione pur sempre determinata dalle debolezze di quest'ultimo. Anzi, riprendendo temi della cultura politica al tempo delle dittature, si prendevano spesso acriticamente per significative le pretese di risposta alle sfide epocali con cui la demagogia fascista si era autolegittimata.
Se mi è permessa una breve digressione, direi che uno dei fatti più emblematici a questo proposito è l'acritica applicazione dell'idealtipo del "leader carismatico" a Mussolini ed Hitler. In termini filologicamente corretti questa operazione sarebbe quanto meno dubbia: il potere carismatico è uno dei tre tipi di potere legittimo elaborati da Weber, e, come è noto, ciò che caratterizza il potere legittimo è un tasso minimo di ricorso alla violenza per imporsi, in quanto il potere legittimo si fonda sulla capacità di creare consenso spontaneo in base appunto o alla forza della tradizione, o del sistema legale-razionale di produzione della legge, o appunto del "carisma" di chi sa guidare il suo popolo dalle secche di un regime esaurito ad un nuovo regime capace di restaurare una forma di normalità. E' praticamente impossibile applicare questa definizione nel caso dei fascismi, a meno di non accettare che la messa in scena della loro politica fosse la realtà (altra cosa è invece il concetto, sempre weberiano, di "plebiszitäre Führerdemokratie", ma questa è un'altra questione). Eppure ancora oggi il desiderio di vedere all'opera queste categorie ha spinto a non porsi problemi al proposito, nonostante che un caso storico seguente come quello del generale De Gaulle avesse poi mostrato cosa poteva essere ricondotto ad un idealtipo di potere carismatico legittimo. Ma si deve ricordare che quando Wolfgang Mommsen , subito dopo la pubblicazione del volume su Weber e la politica tedesca (1959 – la data ha una sua importanza), avanzò questa ipotesi, ebbe più critiche che consensi: del resto allora l'esperimento di De Gaulle veniva etichettato come una nuova forma di fascismo.
La digressione ci ha deviato solo parzialmente dal nostro itinerario. Proprio il caso di De Gaulle mi consente di spiegare meglio il taglio di questo intervento. Ciò che infatti cambia, a mio giudizio, l'approccio storiografico ai fascismi è la possibilità di considerare la vicenda della politica europea mettendo nel conto anche il "dopo", cioè la sua ormai cinquantennale evoluzione in un contesto di democrazia. E' infatti la storia posteriore che ci libera da un preconcetto che ha molto limitato la comprensione della vicenda italiana e tedesca (ma per certi versi persino di quella francese): l'idea che queste fossero contrassegnate dalla impossibilità e/o incapacità di essere aderenti, in termini di sistemi costituzionali, al "modello inglese".
Solo oggi ci rendiamo conto quanto questo archetipo avesse condizionato la lettura del liberalismo fra Otto e Novecento e di conseguenza avesse influenzato anche la lettura dei fascismi, che apparivano come la prova provata delle ragioni intrinseche, starei per dire ontologiche, che avevano impedito la "rivoluzione borghese" in Germania e in Italia nel 1848 e che di conseguenza avevano portato ad una sorta di tardiva ed abortita rivoluzione borghese coi regimi di Mussolini ed Hitler. Invece la "tenuta" dei regimi liberal-democratici nel secondo dopoguerra tanto in Italia quanto in Germania ha indotto a considerazioni più caute nell'interpretazione delle dinamiche di instaurazione e sviluppo dei loro regimi costituzionali e di conseguenza ha portato ad interrogarsi maggiormente sulla forza e sulle persistenze che essi erano in grado di mettere in campo anche al di là della "parentesi" dei fascismi.
Proprio per il caso tedesco per esempio, a partire da un coraggioso studio di Margaret Lavinia Anderson sul sistema elettorale e parlamentare dell'Impero, studio che ha aperto un largo dibattito, si è portati a considerare in maniera meno schematica quel sistema: partecipazione politica, competizione elettorale, strutturazione delle appartenenze partitiche non erano affatto sconosciute, anzi erano praticate in maniera massiccia già nell'Impero e, ovviamente, a Weimar avevano trovato ulteriore sviluppo. Se è vero, come hanno notato alcuni critici della Anderson, che, tutto questo ammesso, rimaneva il problema di un sistema burocratico-governativo impermeabile a queste dinamiche, è altrettanto vero che i tedeschi post-1945 avevano in sostanza conosciuto solo poco più di un decennio di interruzione nella pratica pubblica della lotta politica in un quadro elettorale a cui avevano massicciamente preso parte. Con ciò non voglio dire che il sistema partitico della repubblica federale riproducesse quelli precedenti, perché così non è, e per ragioni fondamentali. Voglio solo richiamare l'attenzione sul fatto che il quadro e i riti di una "democrazia elettorale" non erano affatto cosa nuova nella Germania del secondo dopoguerra e che i suoi cittadini avevano a disposizione molti strumenti culturali ed esperienze personali per affrontarla.
Lo stesso nazismo, del resto, aveva costantemente praticato una polemica con la struttura politica che lo aveva preceduto attraverso la quale in realtà si erano mantenuti vivi i ricordi e talora gli stessi valori che si predicavano come soppressi. Espressioni come quelle di "esilio interno" per descrivere talune esperienze in settori privilegiati quali alcuni apparati delle Forze Armate, taluni settori dell'Alta burocrazia (specie il ministero degli esteri), certi ambienti delle due chiese cristiane, ci ricordano che la "cesura" dittatoriale non era stata una spugna che aveva potuto cancellare le tradizioni politiche.
Andando ancora più avanti si può notare che la rilettura dell'attentato del 20 luglio 1944 e di tutto quel che gli stava dietro ha portato a sottolineare almeno due aspetti interessanti ai fini della nostra ricostruzione: da un lato quello più scontato del persistere nel sistema nazista di un legame delle elite sopravvissute e in certa misura integrate nel nuovo regime con il loro retroterra etico-politico che se non era "democratico" non era neppure "fascista"; dall'altro lato la consapevolezza in Hitler che sopravviveva un vasto ambiente di potenziali oppositori che vennero in parte sterminati, in parte sottoposti alla carcerazione. Il primo versante avrebbe fornito un buon supporto culturale alla costruzione di una legittimazione democratica che potesse far conto su un retroterra nazionale, come non si stancò di predicare Marion Dönhoff (lo ha messo proprio ora in rielevo un bel saggio di Eckart Conze). Il secondo ha fornito la legittimazione immediata per la nuova classe dirigente tedesca cui gli anglo-americani dovettero lasciare, più o meno di buon grado, spazio già nella fase della occupazione per la ricostruzione del sistema politico tedesco in senso democratico.
Si dirà: ma ciò era favorito dal fatto che alla fin fine il nazismo era stato al potere solo dodici anni, troppo pochi per cancellare una tradizione. Ma il fascismo italiano, che di anni al potere ne aveva avuti venti, trova al momento della sua caduta una situazione molto simile. Se il re al tornante del 25 luglio 1943 giudicava che il richiamo in servizio della vecchia classe dirigente liberale prefascista fosse ricorrere a degli spettri (dei "revenant" come li definì in dialetto piemontese), in realtà proprio con il ritorno sulla scena dei partiti pre-fascisti dovette fare i conti.
Non solo Croce, Bonomi e Sforza, figure chiave del regno del Sud appartenevano a quel passato, ma lo stesso uomo che si sarebbe fatto carico di guidare la ricostruzione italiana, Alcide De Gasperi, era insediato nel suo nuovo ruolo dalla posizione che aveva ricoperto nell'ultimo parlamento liberale, quella di segretario del PPI al momento dell'Aventino. La storia italiana riprendeva in parte da lì, più che dalla frattura rivoluzionaria dei Comitati di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia e la stessa rivolta dei capi fascisti contro Mussolini, quella capeggiata da Dino Grandi, si era mossa sull'onda dell'illusione di poter rifare il miracolo di Caporetto. Non importa qui quanto quell'idea fosse folle nel momento specifico; vale la pena di ricordare un filo storico che si sperava potesse ancora riunire la nazione.
Naturalmente in una riconsiderazione di questo tipo la teoria dei fascismi come "parentesi " rispetto al meccanismo evolutivo del sistema costituzionale europeo, cioè di quel sistema di cui Italia e Germania avevano fatto parte pur con le inevitabili peculiarità delle loro storie nazionali, può convivere con una valutazione più positiva di quelle che chiamerei certe continuità anomale dei sistemi nel quadro delle dittature.
Aspetti come la definitiva affermazione di politiche orientate al benessere, la conferma della necessità della forma partito moderna come veicolo per la canalizzazione dell'obbligazione politica, la trasmissione della acculturazione politica attraverso la ritualità pubblica che consente ai cittadini la presenza diretta e individuale sulla "scena politica" sia pure in veste di comparse, quando non di spettatori, sono qualcosa che i fascismi ereditano in embrione dal quadro liberale che sta alle loro spalle, che poi essi elaborano portandola a stadi di evoluzione molto avanzati e consegnandola alle democrazie postbelliche per ulteriori sviluppi.
Anche in questi casi il "lungo periodo" ci aiuta non poco. Prendiamo il problema del welfare. Quante volte abbiamo letto di una peculiarità delle politiche fasciste in questa direzione? Eppure ad uno sguardo attento è difficile negare che siamo di fronte ad un fenomeno che origina con Bismarck nella Germania ottocentesca, trasmigra nella Gran Bretagna di inizio Novecento, ha certo impennate ad opera dei due regimi totalitari, ma poi viene teorizzato da un liberale britannico abbastanza vecchio stile, Lord Beveridge, e si espande nel continente della seconda metà del XX secolo come uno standard assolutamente comune. Allora possiamo continuare a parlare con meraviglia del welfare nazista o fascista, oppure ci conviene riconoscere che siamo dinnanzi allo sfruttamento propagandistico ed alla appropriazione indebita di un trend di sviluppo che era intrinseco in quella presa di coscienza che il moderno stato fosse una "comunità di destini" in cui si realizzano, per citare una famosa frase di Weber del 1917, "le uguaglianze che lo stato moderno offre, in maniera realmente duratura ed indubitabile, a tutti i suoi cittadini: la sicurezza puramente fisica e il minimo esistenziale per vivere, nonché il campo di battaglia per morire"?
E se passiamo al campo della mobilitazione politica, del coinvolgere il popolo, sia pure con una manipolazione, nel gioco delle apparenti scelte, come negare che l'inventore della tecnica fosse William Gladstone e che i fascismi anche qui non avessero fatto, per certi versi, altro che perfezionare molto quelle tecniche, anche sfruttando risorse tecnologiche nuove come la radio? E tuttavia, fra lo stupore e l'indignazione di molti liberali di vecchia scuola, quel trend non solo continuò ma si accrebbe notevolmente dopo il 1945.
Da un certo punto di vista sto elencando delle banalità. E' chiaro che soprattutto gli storici sociali hanno già colto da tempo questi fili di lungo periodo che impediscono sia di isolare dal prima e dal dopo lo sviluppo della società durante i regimi totalitari, sia di rappresentarle come impermeabili ai trend storici che provengono dal contesto internazionale. Gli storici politici hanno invece avuto più spesso attenzione alle cesure e alle peculiarità per così dire sovrastrutturali dei sistemi. Una spiegazione possibile del fenomeno è nelle stesse fonti, in quanto quelle per la storia sociale hanno quasi sempre un basso grado di automanipolazione rappresentativa (non vogliono cioè stabilire da sé stesse di quale società si debba parlare e quale sia l'immagine che debbono trasmettere), mentre per quelle politiche vale esattamente il contrario. Dunque le fonti politiche dei totalitarismi li autorappresentano come rottura totale, come svolta, come salto di qualità, sicché lo storico è talora indotto a prendere per buone queste valutazioni, che non di rado appaiono avvalorate dai rilievi degli stessi avversari che accettano, sia pure in prospettiva rovesciata queste tesi (cioè accettano, per dirla in termini semplici, la tesi della svolta, considerandola però non indirizzata dal male verso il bene , ma esattamente in direzione contraria).
In conclusione mi pare di poter dire che solo il "lungo periodo" consentirà una reale storicizzazione dell'età delle dittature e dei loro sistemi politici. Personalmente non concordo con la notissima tesi di Hobsbawn che vorrebbe ridurre questo lungo periodo alla "brevità" del ciclo 1919-1989. In questo caso il fenomeno fascista sarebbe troppo marcato, anziché dall'ossessione delle "cause" e delle "origini", da quella delle conseguenze e, come mi pare sia già accaduto nel caso di Ernst Nolte, dall'interpretazione dominata, anziché dalla ansietà di trovare i "precursori" del fascismo (di cui pure, sia detto per inciso, il primo Nolte fu parte), da quella di fare invece dei fascismi i precursori del sistema delle contrapposizioni ed angosce determinate dalla guerra fredda.
Mi sembra dunque di poter dire che sia da rivedere lo schema interpretativo classico che legge i due secoli dell'età contemporanea (Ottocento e Novecento) suddivisi in tre periodi, fra loro nettamente distinti e marcati da violente fratture. La prima fase sarebbe quella del liberalismo, a cui pone fine la prima guerra mondiale con il suo travagliato dopoguerra; seguirebbe l'età dei fascismi, a cui mette fine la seconda guerra mondiale e si entrerebbe così nella terza fase , quella delle "democrazie di massa". A questo schema che, per le ragioni esposte, non mi pare convincente, propongo di sostituire il seguente: vi è una unità della storia politica europea dal 1800 ad oggi che è sotto il segno del progressivo affermarsi e dello sviluppo del costituzionalismo liberale. Dentro questa linea di evoluzione stanno vari tentativi di rigetto, il più virulento ed anche il più peculiare dei quali è rappresentato dal fenomeno dei fascismi, che però costituiscono semplicemente una "parentesi", un "intervallo" nel continuum dello sistema liberale dominante. Questa interpretazione è rafforzata dall'osservazione che i fascismi non si staccarono che parzialmente, anche se in settori delicati e determinanti, dalle "forme" del liberalismo, cercando più che altro di darne versioni "peculiari" (così per il partito, la produzione di norme attraverso il parlamento, la rappresentanza sindacale, il sistema fondato sull'organizzazione burocratica, ecc.).
Certo analisi più ravvicinate consentono di precisare il quadro e, per esempio, portano a distinguere vari fasi nei regimi fascisti. Quantomeno se ne possono descrivere tre: quella del movimento alle sue origini, con maggiore accentuazione dei caratteri "competitivi" rispetto al retroterra liberale; quella del fascismo al potere, con il suo connubio con le elite tradizionali (o almeno parti cospicue di essere); quella infine della crisi del fascismo, in cui l'estremismo ritorna sulla scena come "integralismo", cioè con la convinzione che gli obiettivi politici del movimento non si possano raggiungere senza una radicalizzazione del dominio totalitario sulla società.
Se un procedimento di questo genere aiuta ad una migliore comprensione del fascismo, esso non è però tale da mettere in discussione quella che, un po' polemicamente, chiamerei la tesi della parentesi. A me pare dunque che i fascismi rappresentino, per quel tanto che non sono semplicemente un volto delle rispettive storie nazionali, che essi non interruppero affatto, uno stadio dell'evoluzione del sistema costituzionale occidentale: uno degli aspetti dello stadio patologico del rigetto e della fuga nell'utopia, che rientra, purtroppo, assolutamente nel campo delle "complicazioni" possibili e normali in processi di questo tipo.




* Testo, leggermente riveduto, della relazione presentata all'incontro italo-tedesco del 6-9 novembre 2003, a Villa Vigoni (Menaggio, Como), dedicato al tema, Confronto con il passato, cultura storica, politica della memoria in una prospettiva comparata. Ringrazio Bernd Sösemann, Francesco traniello e Cristiane Liermann per avermi invitato a prendervi parte; Gian Enrico Rusconi e Wolfgang Mommsen per alcuni commenti al mio intervento.
Cf. R.J. Evans, From Hitler to Bismarck: the Reich and the Kaiserreich in recent historiography, "Historical Journal", 26(1983), pp. 485-497.
Cf. F. Fischer, Bundnis der Eliten, Dusseldorf 1979. Se ne veda la traduzione inglese, From Kaiserreich to Third Reich. Elements of continuità in German History, London, Allen & Unwin, 1986
cf. la traduzione italiana, Torino Einaudi, 1965
Cf. F. Parri, Scritti 1915-1975, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 192-193
cf. B. Croce, Discorsi Parlamentari, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 179-180
Sul problema della questione della "colpa tedesca" e del lunghissimo dibattito che ne seguì, si veda, J.W. Landon, July 1914. The Long Debite, 1918-1990, Oxford, Berg, 1991
cf. E. Troeltsch, La democrazia improvvisata, Napoli, Guida, 1977
cf. Atti dell'Assemblea Costituente., Dibattiti in Aula, Roma, Tipografia della Camera, 1947, p. 2040
"La tirannia nazionalsocialista ha derubato il popolo tedesco della sua libertà; la guerra e la violenza hanno distrutto l'umanità riducendola in miseria. La compagine statale della repubblica creata a Weimar è stata distrutta. Al popolo tedesco è però rimasto il diritto irrinunciabile alla libera configurazione della sua vita nazionale. L'occupazione della Germania da parte di potenze straniere ha sottoposto l'esercizio di questo diritto a severe limitazioni" . Citato in, M. F. Feldkamp, Der Parlamentarische Rat 1948-1949, Göttingen, Vandenhoeck u. Ruprecht, 1998, p. 61
cf. W. Mommsen, Max Weber e la politica tedesca, tr. It. Bologna, Il Mulino, 1993
cf. L. Riccardi, Alleati non amici,Brescia, Morcelliana, 1992
Su questo punto mi permetto di rinviare al mio, Churchill and Italy, 1922-1940, in, Winston Churchill. Studies in Statesmanship, a cura di R.A.C. Parker, London, Brassey's, 1995, pp. 65-82
sul punto si veda il mio, L'ultimo Orlando: Il costituente, in, Vittorio Emanuele Orlando: lo scienziato, il politico, lo statista, [Senato della Repubblica, Convegni della Sala Zuccari], Soveria Mannelli, Rubettino, 2003, pp. 33-58
Sul tema si vedano le acute pagine di F. Ferraresi, Il Fantasma della comunità. Concetti politici e scienze sociali in Max Weber, Milano, Angeli, 2003, pp. 384-428 (che discute ampiamente anche la letteratura specialistica sul tema):
cf. la mia, Introduzione all'edizione italiana, in, W.J. Mommsen, Max Weber e la politica tedesca, cit., pp. 11-21
Su cui si veda , G. Quagliariello, De Gaulle e il gollismo, Bologna, Mulino, 2003
M.L. Anderson, Practicing Democracy: Elections and Political Culture in Imperial Germany, Princeton, Princeton U.P., 2000.
Cf. Ch. Schönberger, Die überholte Parlamentarisierung. Einflussgewinn und fehlende Herrschaftsfähigkeit des Reichstags im sich demokratisierenden Kaiserreich, Historische Zeitschrift", 272 (2001), pp. 623-666.
Sulla resistenza tedesca ed i problemi connessi, si vedano, Hoffmann, Peter, Widerstand – Staatsstreich – Attentat. Der Kampf der Opposition gegen Hitler, München, Piper, 1973 (III ed); Deutsch Harold C., The German Resistance: Answered and Unanswered Questions, in "Central European History" 14 (1981), pp. 322-331; Harrison Ted, The Red Flag and the Cross: New Writings on the Germany Resistance, "European History Quarterly" 22(1992), pp. 99-119; H. Mommsen, Alternative zu Hitler. Studien zur geschichte des deutschen Widerstandes, Munchen, Beck, 2000; H. Wentker, Der Widerstand gegen Hitler und der Krieg. Oder: Was bleibt vom Aufstand des Gewissens"?, in Geschichte in Wissenchaft und Unterricht" 53 (2002), pp. 4-19
Sull'attentato del 20 luglio '44 si veda, K.J. Arnold, Verbrecher aus eigener Iniziative? Der 20. Juli 1944 und die thesen Christian Gerlach, in Geschichte in Wissenschaft und Unterricht" 53 (2002), pp. 20-31 (Oltre naturalmente quanto riferito a questo evento nelle opere citate alla nota precedente).
cf. E. Conze, Aufstand des presussischen Adels. Gräfin Dönhoff und das Bild des Widerstands gegen den Nationalsozialismus nach 1945, in Vierteljahrshefte für Zeitgeschichte", 51(2003), pp. 483-508
Questo tema inizia ad essere variamente discusso. Segnaliamo l'intervento di Francesco Traniello, Stato e Partiti(per un dibattito storiografico), in, G. Rossini (a cura di), Democrazia Cristiana e Costituente nella società italiana del dopoguerra¸Roma, Cinque Lune, 1980, vol. II, pp. 529-556. Esso è ritornato nella considerazione della crisi del maggio 1947: cf. G. Formigoni, De Gasperi e la crisi politica italiana del maggio 1947, in "Ricerche di Storia Politica" n.s. 6(2003), pp. 361-388. Per la testimonianza di un protagonista dell'epoca sul significato della contrapposizione fra CLN e ricostruzione dello stato, si vedano le polemiche sul tema condotte nel 1956 da Giuseppe Dossetti. Cf. G. Dossetti, Due anni al servizio della città. Discorsi a Bologna 1956-58, a cura di R. Villa, Reggio Emilia, Aliberti, 2004 (mi permetto di segnalare qui la mia introduzione al volume in cui analizzo anche questa polemica).
Questo era stato più volte richiamato dallo stesso Grandi, che aveva cercato di contattare in quest'ottica anche Vittorio Emanuele Orlando. Cf. D. Grandi, 25 Luglio. Quarant'anni dopo, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 272.
Su questo tema rinvio ai miei saggi, La democrazia del benessere. Riflessioni preliminari sui parametri della legittimazione politica nell'Europa del secondo dopoguerra, in, "Contemporanea. Rivista di Storia dell'Ottocento e del Novecento" IV (2001), pp.17-43; La legittimazione del benessere: nuovi parametri di legittimazione in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, in, Crisi, legittimazione, consenso, a cura di P. Pombeni, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 357-417.
Cf. M. Weber, Parlamento e Governo, e altri scritti politici, Torino, Einaudi, 1982, p. 36
Si ricordi il suo, I tre volti del fascismo,Milano, Mondatori, 1971 (orig. 1966)
cf. E. Nolte, Deutschland und der Kalte Krieg, Stuttgart, Klett-Cotta, 1985




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