Fascismo, Traffici e industria a Trieste

June 6, 2017 | Autor: Laura Cerasi | Categoria: Economic History, Modern Italian History, Fascism, Political Elites, Italian fascism
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Laura Cerasi

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Rolf Petri

Stefano Petrungaro

Porti di frontiera Industria e commercio a Trieste, Fiume e Pola tra le guerre mondiali

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Copyright © 2008 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: 2008 ISBN 978-88-8334-

viella Libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it

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Indice

Introduzione di Rolf Petri

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ROLF PETRI Il sistema portuale del Medio e Alto Adriatico

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LAURA CERASI Una Porto Marghera per la “porta orientale”? Traffici e industria a Trieste

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STEFANO PETRUNGARO Una cruciale periferia: Fiume

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STEFANO PETRUNGARO Pola, il porto e la sua penisola

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LAURA CERASI Una Porto Marghera per la “porta orientale”? Traffici e industria a Trieste

Il porto di Trieste fungerà, per la Germania e per tutti gli altri Paesi del suo retroterra, da sbocco di primaria importanza, l’accesso al quale, e per ragioni di traffico e per ragioni di commercio e di rifornimento, dovrà essere reso il più facile e il più conveniente possibile, col liberare gli scambi tra porto e retroterra da ogni bardatura, col facilitare l’afflusso di elementi commerciali dalla Germania e dai paesi danubiani e col mettere a loro disposizione tutti i vantaggi che essi potrebbero trovare in altri porti ivi compresa la creazione di depositi, di merci, di aste e di mercati e l’attrezzatura bancaria e assicurativa che già rappresenta un vanto per Trieste.1

In tempo di guerra L’aspettativa ottimistica che traspare da questo quadro di previsione mostrava come l’entrata in guerra a fianco della Germania fosse stata inizialmente accolta con espressioni favorevoli dai circoli economici triestini, e particolarmente da quelli raccolti intorno agli interessi armatoriali, commerciali e di navigazione. Il Comitato triestino dei traffici, l’organismo di coordinamento degli interessi marittimi, incaricato della loro rappresentanza presso le superiori istanze politiche e istituzionali – dal prefetto al capo del governo – e presieduto dall’armatore Antonio Cosulich, aveva per l’occasione tempestivamente preparato una piattaforma propositiva, indirizzata alle autorità politiche, fondata sul presupposto che «la nuova situazione creatasi in Europa, basata sulla collaborazione italo-germanica, consiglia di armonizzare gli interessi dei due paesi nel settore danubiano-centroeuropeo, in modo da equilibrare in questo settore i loro interessi commerciali e di traffico». Lo strumento principale cui si proponeva di fare ricorso era un nuovo accordo commerciale e tariffario fra Italia e Germania, nella prospettiva di ricercare una favorevole equiparazione dei porti altoadriatici alle città portuali tedesche: «negli accordi commerciali che saranno stipulati fra l’Italia e la Germania per l’importazione ed esportazione germanica dal e per l’oltremare e per il transito attraverso la Germania con l’oltremare in quanto svolti attraverso i porti di Trieste e Fiume, sarà stabilita in tutti i riguardi, parità di trattamento con l’importazione, esportazione e transito svolti attraverso i porti tedeschi». Il criterio da adottare doveva essere quello della ripartizione geografica del territorio dell’Europa continentale orientale secondo un asse nord/sud-est definito dal percorso del fiume Danubio e dai 1. Archivio di Stato di Trieste [AST], Prefettura, Gabinetto, busta 433/1941, Comitato triestino dei traffici, n. 419, Studio della nuova situazione centro-danubiana in relazione agli interessi italo-germanici con particolare riguardo ai porti di Trieste e di Fiume, Trieste, giugno 1940, p. 2.

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suoi affluenti: in questo modo, su Trieste e Fiume sarebbero venuti a gravitare i territori geograficamente più vicini ai porti adriatici rispetto a quelli del Nord, vale a dire espressamente: «a) Land Austria b) Boemia centrale e meridionale e Moravia c) Slovacchia d) buona parte della Baviera e del Wuertemberg e) Ungheria f) Jugoslavia, salvo la parte afferente ai porti jugoslavi g) Bulgaria h) Rumenia, salvo la parte afferente ai porti rumeni». Allo scopo, oltre a prospettare la necessità di un accordo commerciale italo-tedesco, il Comitato avanzava la richiesta di «adeguate facilitazioni fiscali per un periodo decennale» e della «più ampia libertà valutaria», ma soprattutto riproponeva un tema cruciale per l’integrazione di Trieste in un sistema economico, ossia «l’erezione di Trieste in porto franco (città franca), che sarebbe un prezioso apporto italiano nella sistemazione economica dell’Europa danubiana».2 Certo, la sottolineatura della “collaborazione” lasciava intravedere una certa apprensione per la potenzialità espansiva del forte alleato, soprattutto laddove si faceva riferimento, con trasparente accenno al dumping tariffario perseguito dalla Germania negli anni precedenti, a «prezzi di trasporto ragionevoli, non sottoquotati da inutili e dannose concorrenze».3 Inoltre, l’insistenza sul parallelismo nella posizione dei due paesi alleati «naturalmente destinati ad intendersi onde armonizzare i loro interessi commerciali e di traffico» nel grande bacino europeo orientale e balcanico («la Germania lo domina attraverso la via danubiana che dal Reno al Mar Nero lo attraversa, mentre l’Italia lo circonda lungo la via marittima che dal porto di Trieste, svolgendosi lungo le coste adriatiche, jonie, mediterranee ed egee, s’incontra nel Mar Nero con la via danubiana»)4 rivelava la consapevolezza di uno squilibrio incombente. Tuttavia, nei mesi successivi all’intervento le previsioni volevano essere incoraggianti, e non solo nella prospettiva di uno sviluppo dei traffici, ma anche di un incremento della produzione industriale. E per questo motivo, negli stessi documenti si insisteva perché fosse posto in essere un programma di ampliamento delle infrastrutture ferroviarie della periferia meridionale della città, verso Muggia, dove era situata la gran parte degli stabilimenti cittadini. Secondo gli operatori economici triestini «il movimento industriale, che passa attraverso la stazione di Campomarzio, è in continuo aumento e raggiungerà certamente proporzioni maggiori, quando nuovi impianti sorgeranno nel porto industriale». In previsione di tale incremento veniva quindi richiesta la creazione di una linea di circonvallazione, e inoltre, «allo scopo di rendere indipendente tutto il traffico industriale dalla stazione di Campomarzio, sarebbe necessaria la costruzione di una derivazione da Rozzol, attraverso Chiarbola, per Aquilinia»,5 ossia verso il sito in direzione di Muggia, dove nel 1937 era sorto l’impianto petrolifero “Aquila”, e dove, soprattutto, era previsto lo sviluppo della zona industriale (figura 1). 2. Ibid., pp. 1-4. Del Comitato Triestino dei traffici facevano parte: Antonio Cosulich, presidente; Guido Cosulich; Alberto Moscheni; Edmondo Oberti de Valnera; barone Rodolfo de Parisi; Carlo Perusino, direttore dei Magazzzini Generali; Francesco Paolo Petrin; Gualtiero Rubbia; Bruno Coceani; Giacomo Grioni; Domenico Pacchiarini; Giuseppe Paravicini De Lunghi; Luigi Ruzzier; conte Mario Tripcovich. 3. Ibid., p. 1. 4. Ibid., Comitato triestino dei traffici, n. 420, Commento, Trieste, giugno 1940, p. 2. 5. Ibid., Magazzini Generali di Trieste, Programma delle opere marittime, d’arredamento portuale e ferroviario più urgenti da eseguirsi nel porto di Trieste, luglio 1940, pp. 8-9.

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Figura 1. Carta topografica del porto di Trieste: particolare del vallone di Zaule, 1938 (fonte: Archivio di Stato di Trieste, Prefettura, Gabinetto, busta 433/1941)

In quell’area, alla periferia meridionale della città, gli impianti industriali esistenti alla vigilia del secondo conflitto mondiale erano rappresentativi di una composizione settoriale, la cui impronta risaliva ancora all’ultimo periodo asburgico, quando in seguito all’abolizione del portofranco, nel 1891, la produzione aveva conosciuto una forte crescita, trainata dall’industria dell’armamento e delle costruzioni navali. All’incontrastato primato della navalmeccanica faceva seguito il rilievo ragguardevole dell’industria alimentare, che contava diversi importanti stabilimenti (la Pilatura di riso a San Sabba, il Pastificio triestino, la fabbrica di birra Dreher, gli Oleifici

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triestini, la Spremitura d’olii vegetali) e della tessile, con il Cotonificio triestino della famiglia Brunner e lo Jutificio; si segnalavano poi gli altiforni di Servola e la raffineria di olii minerali di San Sabba. Gino Luzzatto, in un breve saggio rimasto di costante riferimento per la storiografia, riferiva che «secondo la statistica della Cassa distrettuale per l’assicurazione contro le malattie Trieste contava, nel 1913, 1.099 esercizi industriali, di cui 58 vere fabbriche, che davano lavoro, fra tutte, a 24.652 persone. Il primo posto spettava alle industrie meccaniche (specialmente cantieri e officine di riparazioni navali), con 9.381 operai».6 Un assetto che si sarebbe mantenuto anche nei decenni successivi all’integrazione nel Regno d’Italia: il censimento industriale 1937-1940 rilevava per il comune di Trieste, su un totale di 4.795 esercizi attivi e 33.620 addetti, 510 industrie meccaniche per complessivi 12.357 addetti, e per la provincia – che comprendeva anche il comune di Monfalcone, con i suoi grandi cantieri navali – un totale di 7.331 esercizi attivi con 55.140 addetti, di cui 26.188 lavoravano nelle 744 industrie meccaniche.7 Le fonti coeve erano convergenti nel delineare le rilevanze settoriali. Le elaborazioni dell’Istituto di Statistica dell’Ateneo triestino sul censimento industriale del 19371940 chiarivano come il settore meccanico impiegasse il 31,3% dei lavoratori della provincia di Trieste, seguito dal settore delle industrie estrattive (12,2%), da quello alimentare (10,9%) e da quello edilizio (9,9%). Era un primato, quello nel settore meccanico, che faceva risaltare la specificità di Trieste rispetto alle altre province della Venezia Giulia, ossia Gorizia, Fiume e Pola. Il capoluogo giuliano risultava essere al primo posto per numero di addetti nelle industrie metallurgiche, dove impiegava il 94,3% degli addetti; nelle meccaniche, dove impiegava il 36,5%, nelle edilizie, con il 47,1%, nelle chimiche, con il 33,5%. Complessivamente, di contro al 25,7% di Pola, al 13,7% di Gorizia, all’11% di Fiume, la provincia di Trieste concentrava quasi il 50% dei lavoratori dell’industria di tutta la Venezia Giulia,8 grazie anche al grande complesso industriale dei cantieri di Monfalcone. Gli stabilimenti navalmeccanici fondati dalla famiglia Cosulich, pur attraendo una grande quantità di manodopera operaia dal capoluogo, nell’ambito dell’economia portuale triestina costituivano un insieme molto caratterizzato e distinto, con un proprio autonomo profilo di sviluppo.9 Per questo, e per la buona ragione che l’area di Monfalcone era stata proprio alla vigilia del secondo conflitto esclusa dai provvedimenti legislativi disposti nella Società del Porto industriale di Trieste, andava considerata rappresentativa dell’economia industriale cittadina soprattutto quella costituita dagli stabilimenti situati nella periferia meridionale, quella appunto servita dal nodo di Campomarzio. Era un complesso che, nel suo ampio studio sul porto di Trieste, pubblicato pro6. G. Luzzatto, Il porto di Trieste, s.a. Poligrafica italiana, Roma 1945, p. 21. 7. Cfr. Istituto Centrale di Statistica del Regno d’Italia, Censimento industriale e commerciale: 1937-1940, vol. I: Industrie (1937-39), Failli, Roma 1942, pp. 183, 277. Va tuttavia precisato che il censimento computava insieme gli stabilimenti industriali e le botteghe artigiane. 8. Dati ricavati da P. Medani, Industria, in Università di Trieste, Istituto di statistica, L’economia della Venezia-Giulia, diretta da P.P. Luzzatto-Fegiz et al., Trieste 1946, pp. 65-70. 9. Su questo aspetto, che riprenderemo, si veda sempre P. Fragiacomo, La grande fabbrica, la piccola città. Monfalcone e il cantiere navale: la nascita di una company town, 1860-1940, Milano 1997.

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Figura 2. Carta topografica del porto di Trieste: particolare con Magazzini Generali e impianti industriali, 1938 (fonte: Archivio di Stato di Trieste, Prefettura, Gabinetto, busta 433/1941)

prio nel 1941, il geografo economista Giorgio Roletto, futuro rettore dell’Ateneo giuliano durante l’occupazione tedesca, riteneva dovesse irrobustirsi con nuovi apporti: «Anche la funzione industriale del porto risponde alle esigenze dell’imperativo categorico dell’ambiente e dimostra nelle sue concrete affermazioni che il porto di Trieste, accanto alle funzioni madre di porto di transito, può e deve alimentare un ambiente favorevole ad una sempre più efficiente sistemazione di questo rapporto produttivo economico-commerciale».10 È interessante osservare come il giudizio di uno studioso accademico, quale era Roletto, riflettesse nella sostanza la posizione assunta dagli interessi economici rappresentati da Cosulich e dal Comitato triestino dei traffici, dove lo sviluppo di una zona industriale veniva caldeggiato accanto – e tut10. G. Roletto, Il porto di Trieste, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Comitato Nazionale per la geografia, Ricerche di geografia economica sui porti italiani, Bologna 1941, p. 69. Agli stabilimenti sopra menzionati Roletto vi aggiungeva anche gli stabilimenti dello Jutificio triestino, dell’industria conserviera Arrigoni, della cartiera Modiano.

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tavia sempre in subordine – alle richieste di sostegno alle funzioni fondamentali di transito per il porto giuliano. L’argomento impiegato da Cosulich per sostenere la necessità dello sviluppo di una nuova zona industriale era quello di presentarla come strumento di difesa dell’italianità della popolazione, a fronte del prevedibile afflusso di elementi germanici: «Trieste è attualmente impoverita, come ho detto più sopra, anemizzata, e l’afflusso di uomini, di iniziative, di capitali, di aziende, ecc., provenienti dalla Germania, potrebbe assumere gradualmente caratteristiche prevalenti»; ad evitare questo rischio veniva prospettata l’opportunità di un interessamento politico del nostro Governo all’effetto che alcune grandi aziende industriali del nostro Paese impiantino a Trieste (eventualmente comprendendo nel Comune di Trieste anche i territori dei Comuni di Muggia, Duino-Aurisina, Monfalcone e forse Sesana) dei grandi stabilimenti industriali. Ciò ad un dipresso come si è fatto per Bolzano. Sono convinto che la Fiat, la Montecatini, la Snia Viscosa, le Distillerie italiane, uno dei grandi Cotonifici, ecc., potrebbero essere indotti a riguardo a secondare l’azione del Governo. In relazione alle norme per la zona industriale potrebbe essere accordata alle aziende in questione la piena esenzione della ricchezza mobile e da altre imposte per la durata di venticinque anni, con un beneficio fiscale che certo le compenserebbe di quelli che potrebbero essere i sacrifici ed i rischi per i nuovi impianti, ecc. ecc.11

Non è un caso che l’interpretazione “difensiva” della funzione della nuova zona industriale come sostegno all’“italianità” del tessuto economico locale rispetto al rischio di schiacciamento sugli interessi tedeschi, sulla linea tracciata da Cosulich, si affermasse a fronte del crollo verticale delle correnti commerciali dovute allo stato di guerra: nei successivi documenti prodotti dal Comitato triestino dei traffici, il movimento marittimo del gennaio 1941 era ormai definito «non esistente», e l’inserimento nell’«atteso grande risveglio dei traffici marittimi dell’Europa centro-orientale» era una «aspirazione» per la quale essere attrezzati «a guerra finita».12 Tuttavia, le richieste di migliorare le attrezzature del porto, di prolungare a Trieste l’autostrada Salisburgo-Tarvisio, di istituire il porto franco e accanto a questo di provvedere agli allacciamenti ferroviari per la «futura zona industriale» venivano reiterate, raccomandando di valorizzare i privilegi connessi con la zona industriale di Trieste, facilitando specialmente anche con riguardo alla nuova situazione adriatica l’impianto di qualche grande industria , a un di presso [ripetendo le stesse parole di Cosulich] come si è fatto per Bolzano; di assegnare ai Cantieri Navali triestini una giusta proporzione del materiale da costruzione che l’Italia riceverà in conto riparazioni; di facilitare lo sviluppo degli stabilimenti siderurugici di Ilvania; di riconoscere alla società “Aquila” – in considerazione della sua posizione geografica rispetto al retroterra estero di Trieste e alla vicinanza dei paesi mediterranei di produzione petrolifera – una priorità nel lavoro di esportazione dei suoi prodotti.13 11. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 433/1941, Riservata di Antonio Cosulich al prefetto Dino Borri, Trieste, 8 novembre 1940, pp. 4-6. 12. Ibid., Comitato triestino dei traffici, n. 517, Relazione sulle comunicazioni ferroviarie, portuali e stradali del porto di Trieste, gennaio 1941, pp. 4-5. 13. Ibid., Riassunto delle proposte triestine per la tutela degli interessi ferroviari, portuali, marittimi e industriali del porto di Trieste, in dipendenza della nuova sistemazione dell’Europa centro-orien-

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Il ribadito esempio di Bolzano va sottolineato. In fondo, il caso di maggior successo di impianto di una zona portuale industriale era quello veneziano, e sul modello di Porto Marghera si era ispirata la legislazione speciale varata nel 1928 dallo Stato italiano per favorire il potenziamento dell’apparato portuale e industriale della Venezia Giulia, dell’Istria e dell’area del Quarnaro,14 con l’obiettivo di stabilizzare la situazione economica dei porti bilanciando, attraverso la creazione di nuovi stabilimenti industriali, gli incerti proventi dei traffici via mare, indeboliti dall’integrazione nel sistema economico italiano; indebolimento a cui si sarebbero poi sommati gli effetti negativi della grande crisi mondiale, l’ulteriore riduzione dei flussi commerciali e finanziari, l’accentuata tendenza alla chiusura delle economie nazionali continentali. Come argomenta Rolf Petri, Porto Marghera costituiva l’antecedente sia cronologico che normativo dei provvedimenti legislativi speciali dell’epoca tra le due guerre finalizzati all’installazione di nuove zone industriali incentivata dall’intervento statale: oltre all’area altoadriatica, sarebbero state interessate anche le zone di Bolzano, Ferrara, Livorno, Apuania, Palermo e Roma.15 Significativamente, allo scorcio degli anni Quaranta era invece all’esempio di Bolzano che gli operatori economici triestini guardavano, per indicare il caso di una provincia di nuova acquisizione, dove l’istituzione di una zona industriale faceva parte di un complessivo disegno di integrazione economica ed etnica del territorio, nel segno di una spiccata italianizzazione in contrasto con l’elemento tedesco, di cui ora si paventava il dilagare anche nell’area giuliana. Soprattutto, l’esempio bolzanino indicava implicitamente, ma con chiarezza, il caso della creazione di una zona industriale costituita quasi interamente da elementi esogeni al tessuto economico locale, provenienti dai settori forti del potere industriale e finanziario nazionale, come Falck, Montecatini, Lancia, impiantati nel capoluogo atesino.16 In altri termini, guardare a Bolzano era un modo per invocare investimenti da parte di capitali e imprese “nazionali”, a soccorso di un tessuto economico “di frontiera” dove si intravedeva il rischio di un tracollo. Con le parole di Roletto, anche in questo caso in sintonia con gli orientamenti del Comitato dei traffici – e su cui per altri aspetti dovremo tornare – «non insisteremo abbastanza sulle conseguenze di carattere sociale di un’affermata industrializzazione, alla quale si accompagnerebbero altre conseguenze derivate dalla trasfusione di sangue nuovo introdotto da iniziative di uomini capaci, volonterosi e attivi come già dicemmo, venuti tale e della nuova situazione territoriale nella cessata Jugoslavia, Maggio 1941, p. 2. Vedi anche Ivi: Comitato triestino dei traffici, Presidenza, Antonio Cosulich a prefetto Dino Borri, 11 gennaio 1941; Comitato triestino dei traffici, Verbale della riunione plenaria che ebbe luogo a Trieste presso il Consiglio Provinciale delle Corporazioni il giorno 8 gennaio 1941. 14. Si tratta del Rdl n. 2260 del 10 agosto 1928 per l’agevolazione tributaria e doganale degli insediamenti industriali e portuali di Trieste, Monfacone, Muggia e Aurisina, cui segue la costituzione, nel 1929, di una SA Zona industriale del porto di Trieste; del Rdl n. 646 del 28 marzo 1929 per l’agevolazione di industrie nell’area portuale di Pola, e del Rdl n. 737 del 5 aprile 1928 per l’agevolazione delle industrie fiumane, seguito dall’istituzione, nel 1930, della Zona franca del Carnaro: cfr. R. Petri, La frontiera industriale: territorio, grande industria e leggi speciali prima della Cassa per il Mezzogiorno, Milano 1990, in partic. pp. 26-30. 15. Sulla legislazione speciale e il “modello” di Porto Marghera, lungo una linea che va dalla legge speciale per Napoli del 1904 alla Cassa per il Mezzogiorno, vedi ibid., pp. 59-103. 16. Cfr. ibid., pp. 134 ss.

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dal “di fuori”»;17 ed estendeva l’appello al soccorso di investimenti da parte di aziende nazionali anche al settore commerciale: l’assenza, od anche l’”imboscamento” del capitale più sopra deprecato e deplorato, che ha reso, in uno coi fatti della contingenza politica, assai impoverita la compagine commerciale, consiglia di rafforzare il movimento commerciale facilitando l’afflusso di nuove forze. Trieste, il suo porto e la sua economia hanno bisogno, come qualcuno ha scritto, di “donatori di sangue”. Per scendere sul terreno realistico, Trieste ha oggi la convenienza di facilitare il trasferimento di ditte commerciali dal “di fuori”, come si usa dire sulla piazza.18

L’inserimento, anche da parte dell’importante organismo presieduto da Cosulich, dello sviluppo della zona industriale fra i provvedimenti chiesti al governo a sostegno dell’economia portuale triestina segnava una profonda svolta rispetto agli anni precedenti, in cui la legislazione speciale del 1928 per la creazione della zona industriale era rimasta, come vedremo, sostanzialmente lettera morta. Occorre chiedersi, allora, quali siano le ragioni del mancato sviluppo della zona industriale a Trieste durante gli anni Trenta, e quelle che hanno spinto, allo scoppio della guerra, a riprenderla in considerazione come prospettiva di sviluppo per l’economia cittadina. La nostra ricostruzione ha avuto per oggetto il comportamento dei gruppi dirigenti del capoluogo giuliano attraverso i canali politico-istituzionali che li inserivano nella nuova compagine nazionale retta dal regime fascista, in base all’interpretazione strategica dell’economia triestina che ne guidava la condotta. Da cui emergeva un complessivo privilegiamento degli elementi di continuità rispetto alla struttura tradizionale di economia marittima fondata sul commercio e la cantieristica, che si era tradotto in un disinteressamento dei settori forti dell’economia giuliana, come poteva essere il comparto assicurativo, rispetto a investimenti nel porto industriale, almeno fino a quando l’espansionismo tedesco non fosse arrivato a lambire il litorale adriatico. In quest’ottica, conviene tornare alle considerazioni dell’estate 1940, inizialmente – e un po’ forzatamente, a ben vedere – ottimistiche circa l’inserimento dell’area giuliana nell’orbita economica della Grande Germania, di cui è stata sottolineata l’importanza strategica complessiva, e insieme il carattere rivelatore di un «atteggiamento oscillante tra la subalternità e l’orgogliosa rivendicazione di un ruolo che ancora si voleva indispensabile», e di «un’angoscia diffusa, una consapevolezza della difficoltà di potere se non vincere per lo meno contenere […] quelle che potevano essere le gravissime conseguenze di declassamento».19 In questa prima fase, nell’asse italo-tedesco si voleva vedere soprattutto la possibilità per i porti ex asburgici di recuperare il loro tradizionale retroterra. Non è un caso che l’argomento principale addotto da Cosulich per indicare le linee programmatiche dei futuri accordi di spartizione dell’area centroeuropea in sfere d’influenza economica fosse quello geografico. «Questa armonizzazione non può essere ragionevolmente raggiunta che rispettando la geografia». Era la riproposizione del consueto topos della vocazione internazionale dello scalo giuliano fondata non sull’appartenenza a un particolare ordinamento nazionale che ne 17. Roletto, Il porto di Trieste, p. 81. 18. Ibid., p. 72, corsivo nell’originale. 19. Cfr. G. Sapelli, Trieste italiana. Mito e destino economico, Milano, 1990, p. 161.

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valorizzasse i collegamenti e le relazioni con l’entroterra, ma sulla sua localizzazione territoriale, alla sua configurazione di “porta orientale” che la “destinava” a collegare l’Europa danubiana all’Oriente. Era la negazione dell’origine politica, “artificiale”, creata dalla volontà di Vienna di privilegiare il suo porto adriatico, delle fortune dell’emporio a partire dal XVIII secolo, e l’affermazione di una potenzialità espansiva indifferente al contesto istituzionale e politico in cui si inseriva Trieste, che sarebbe stata la “porta orientale” di qualunque regime, ma che per la sua originaria italianità, doveva esserlo del regno sabaudo. Era uno dei fondamenti su cui si era sviluppato il discorso irredentista, che sosteneva la nullità dei vantaggi procurati a Trieste dall’appartenenza asburgica, trascolorando, a cavallo del conflitto mondiale, in uno degli argomenti-chiave del discorso nazionalista e poi fascista. Da Mario Alberti, che a guerra in corso coglieva i tratti della «fisiologia economica triestina» in una irresistibile tensione al dominio dell’Adriatico, non soltanto indipendente dall’inclusione nello storico retroterra asburgico, ma tanto forte da poter risultare elemento propulsivo dell’espansione adriatica per un Regno d’Italia che avesse finalmente raggiunto i suoi “naturali” confini orientali,20 ad Attilio Tamaro, che nel primo dopoguerra ribadiva come il capoluogo giuliano dovesse superare la crisi postbellica venendo messo in condizione di esercitare la sua funzione di vettore di italianità attraverso l’Adriatico verso il Levante,21 i sostenitori del fondamento “geografico” e non politico della prosperità di Trieste tendevano a minimizzare l’importanza dei mutevoli assetti internazionali in cui il porto giuliano era inserito, per affermare la priorità di una “vocazione” intrinseca della sua economia, capace di estrinsecarsi anche di fronte a nuove condizioni, quali la presenza di una grande Germania ai confini del Regno d’Italia. Sempre in questi primi mesi dallo scoppio del conflitto, nella previsione ottimistica di un dopoguerra in cui «indubbiamente» si sarebbe verificato un maggiore sviluppo dei traffici con l’Europa centro-danubiana, l’azienda dei Magazzini generali di Trieste – l’ente creato nel 1925 per la gestione dei traffici commerciali e degli arredi portuali – tracciava un imponente programma di opere «urgenti» di ampliamento delle strutture del porto (allargamento di due banchine, costruzione di capannoni, nuove attrezzature elettromeccaniche, nuovi magazzini, nuovi varchi d’accesso) e ferroviarie (una nuova circonvallazione, dal momento che la stazione di Campomarzio, «alla quale fanno capo il movimento del porto E.F. Duca d’Aosta e tutto il traffico industriale, non è assolutamente in grado di far fronte a traffici più intensi, sia commerciali che industriali»). Per la realizzazione di tali opere, «assolutamente indispensabili», veniva calcolato un ammontare di più di cento milioni di lire, parte da imputarsi al bilancio del Ministero dei Lavori pubblici, parte a quello della stessa azienda, peraltro dipendente da finanziamenti pubblici.22 Anche nella favorevole previsione di una ripresa dei traffici, dunque, le proposte si sostanziavano nella richiesta di sovvenziona20. Cfr. M. Alberti, Trieste e la sua fisiologia economica, Associazione delle Società italiana per azioni, Roma 1915. Sulla tesi “geografica” dell’indipendenza della prosperità economica triestina dall’appartenenza all’Impero asburgico cfr. Sapelli, Trieste italiana, pp. 18 ss. 21. Cfr., della vasta produzione di Attilio Tamaro, in particolare Il problema politico del porto di Trieste, Trieste 1922. 22. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 433/1941, Magazzini Generali di Trieste, Programma delle opere marittime, pp. 6-7.

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mento statale per le necessità di sviluppo del porto. Nel frangente del nuovo conflitto mondiale, infatti, di fronte al rischio di stritolamento da parte della superiore potenza tedesca, se era ancora alla geografia che si faceva appello, come si è visto, per corroborare l’auspicio a una «strettissima collaborazione italo-germanica nei Paesi danubiani», era tuttavia un complesso di provvedimenti di natura fiscale che veniva richiesto per garantire la sopravvivenza di Trieste e farvi affluire nuove ditte commerciali. E per far fronte alla pressione esercitata dai porti del Nord, «il provvedimento più organico onde ottenere una sistemazione portuale e commerciale adatta ai detti scopi, consiste nell’erezione di Trieste (porto e città) in Porto franco», che doveva essere allora «il più largo possibile, estendendosi a tutti i campi, compreso quello delle importazioni-esportazioni, quello valutario, quello dei generi di monopolio ecc.». Il disegno era ambizioso: Nel chiedere che Trieste sia destinata a porta dell’Europa danubiana sul Mare, non si pensa ad una stazione di smistamento, commercialmente passiva, ma ad un Emporio commerciale che funga da centro economico e da sede di depositi, di aste, di mercati, quale Trieste è stata da più di un secolo e quale – non si sà [sic] con quanta probabilità di successo – tende a diventare il porto fluviale di Cspel (Budapest) e tendeva a diventare il porto di Gdynia (Gotenhafen). Così Trieste avrebbe la funzione che Amburgo, Brema, Stettino, Rotterdam, Anversa e Danzica hanno al nord.23

Un riflesso di quanto la prospettiva di ripristinare il porto franco non fosse limitata agli ambienti commerciali e armatoriali si rinviene ancora nello studio di Roletto, dove venivano svolte analoghe considerazioni: ritenendo la compagine commerciale triestina «assai impoverita», veniva sottolineata la necessità di «allettare gli importatori dell’Europa centrale a costituire dei depositi a Trieste per le loro future importazioni e fare in ultima analisi ciò che è stato concretato nel porto di Csepel (Budapest)». E «il primato e la precedenza sugli altri nella sistemazione portuale e commerciale di Trieste» andava attribuito alla «questione annosa» del porto franco, «che ritorna oggi colla pienezza delle sue argomentazioni, fatte più energiche dalle particolari e decisive situazioni della politica nella quale viviamo»: in sostanza, «il geografo economista, tenendo presenti le premesse, gli insegnamenti e gli imperativi dell’ambiente geografico e la funzione geopolitica di Trieste, vede nella ricostituzione del regime di punto franco (esistito del resto dal 1719 al 1891) considerato nel senso più largo possibile, un mezzo fondamentale di soluzione logica agli assillanti problemi portuali triestini» .24 La richiesta di “ripristino”, “ricostituzione” del porto franco suggeriva, anche nella formulazione retorica segnalata dall’uso del prefisso, una riproposizione della funzione ricoperta da Trieste dalla fine del XVIII agli ultimi decenni del XIX secolo, quando la franchigia era stata abolita dallo stesso Imperiale e Regio governo: era implicitamente un richiamo all’orizzonte della Mitteleuropa. Il porto franco era un aspetto cruciale della tradizionale cultura economica delle classi dirigenti triestine, particolarmente dei settori che situavano nell’intermediazione commerciale il fondamento della fortuna del porto giuliano. La sua riemersione in termini così espliciti 23. Ibid., pp. 2-4, la sottolineatura è nell’originale. 24. Roletto, Il porto di Trieste, p. 72.

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non indicava tuttavia soltanto un dato culturale di lungo periodo, per quanto estremamente significativo, ma si connetteva anche ai dibattiti e alle scelte di politica economica operate nella dialettica fra richieste locali e indirizzi centrali durante il ventennio successivo alla “redenzione”. Fin dal primo dopoguerra era stata discussa la questione dell’estensione del già esistente “punto franco”, ossia della franchigia fiscale solo per le merci in transito temporaneo e non per quelle consumate in loco, in “porto franco”, ossia l’esenzione del dazio doganale per le merci che vengono scaricate in tutta l’area interessata dalla franchigia, che può comprendere anche l’insediamento urbano (città franca) e gli stabilimenti industriali. Con la franchigia portuale estesa alla città, la lavorazione di merci avviene in regime di esenzione fiscale, ma il loro ingresso nel mercato nazionale diviene soggetto a dazio, creando una nuova linea di “confine interno” a compartimentare le diverse aree economiche: come, di fatto, sarebbe avvenuto per Fiume dopo l’adozione della franchigia nel 1930, per cui rimando al contributo di Stefano Petrungaro in questo volume. Il regime di porto franco favorisce dunque il flusso commerciale internazionale – e in quest’ottica la sua richiesta era appoggiata dalla maggioranza dell’élite economica triestina – ma contiene una implicita misura di penalizzazione della produzione industriale locale, per il fatto di separare i prodotti lavorati al suo interno dal mercato nazionale, ostacolandone lo smercio e la diffusione, e costituendo dunque un fattore di contrasto all’integrazione nello spazio economico industriale nazionale. Per questa ragione gli stessi gruppi dirigenti economici triestini nel corso degli anni Venti si erano orientati verso una riduzione delle esenzioni limitate al solo “punto franco”, controbilanciate da un insieme di richieste di sovvenzioni statali a sostegno dell’inserimento della compagine triestina nell’economia nazionale, accordate nel 1923 in base al piano formulato in tal senso da Camillo Ara.25 Un’eco degli argomenti impiegati nel dibattito si ritrova nel profilo dell’economia industriale triestina tracciato nel secondo dopoguerra da Bruno Coceani, ex podestà di Monfalcone ed ex prefetto di Trieste durante l’occupazione tedesca: «Quando fu riconosciuto attraverso un approfondito e spassionato esame della questione che un beneficio alla città ne sarebbe venuto dall’estensione all’intero territorio di Trieste del regime dei punti franchi già esistenti, ma che sicuro danno morale le sarebbe venuto da una cinta daziaria intorno alla città che l’avrebbe tagliata fuori dal resto d’Italia e avrebbe ostacolato la saldatura spirituale delle vecchie e nuove province, Trieste abbandonò il suo postulato».26 La richiesta di porto franco, in quest’ottica, non poteva non apparire un arretramento rispetto al tentativo di integrazione dell’economia triestina nel contesto nazionale italiano. L’ipotesi di un positivo inserimento nel costituendo “nuovo ordine europeo” attraverso il ripristino della franchigia estesa all’intera città aveva l’aspetto di una riproposizione della funzione di testa di ponte per i traffici adriatici con il centroeuropa che era stata Trieste prima del 1918, sostituendo all’impero asburgico la Grande Germania. Quanto questa risoluzione recasse il segno negativo delle vicende 25. Sull’antinomia porto franco/integrazione commerciale e industriale vedi Sapelli, Trieste italiana, pp. 98-99, ma anche Luzzatto, Il porto di Trieste, p. 11. 26. Cfr. B. Coceani, L’ascesa industriale, in Camera di Commercio, Industria e Artigianato di Trieste, Cinquant’anni di vita economica a Trieste1918-1968, Trieste 1968, pp. 287-368, citaz. a p. 308.

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Figura 3. Carta topografica del porto di Trieste: particolare con porto franco Vittorio Emanuele II e porto doganale, 1938 (fonte: Archivio di Stato di Trieste, Prefettura, Gabinetto, busta 433/1941)

economiche attraversate nel ventennio successivo alla redenzione da Trieste, «che in 25 anni di crisi di guerra e del dopoguerra, vide indebolire gravemente la sua compagine commerciale»,27 veniva reso esplicito dallo stesso Antonio Cosulich in una lettera riservata al prefetto Dino Borri del novembre 1940. Cosulich, nella previsione di una vittoria delle armi tedesche, sosteneva l’interesse del porto giuliano – e di tutto il paese – di adoperarsi perché l’affaccio commerciale e marittimo della Germania nel Mediterraneo diventasse Trieste, come suo «sbocco naturale»: un risultato che «nell’attuale clima storico», «data la nostra fortunata cordialità con la nostra grande Alleata, dato il cameratismo politico e militare dei paesi dell’Asse, e data specialmente 27. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 433/1941, Comitato triestino dei traffici, n. 420, Commento, p. 5.

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l’amicizia e la fiducia reciproca dei due grandi Condottieri» non avrebbe dovuto essere difficile da ottenere. In una prospettiva europea la vocazione internazionale di Trieste avrebbe potuto essere finalmente valorizzata: «Trieste, alquanto lontana dai centri industriali dell’Italia settentrionale, può contare sul traffico nazionale soltanto come complemento della sua funzione di porto internazionale, e quindi la sua futura esistenza nell’ordine commerciale e marittimo […] dipenderà in massima parte dalla ripresa delle sue tradizionali attività di transito e dal ripristino della sua funzione di vero e proprio emporio al servizio dei clienti esteri».28 La prospettiva d’insieme che emergeva dalle valutazioni e dalle proposte degli esponenti dell’economia marittima triestina, dal Comitato dei traffici ai Magazzini Generali, era dunque quella di imperniare l’asse strategico di un rilancio dello scalo triestino sul ripristino delle sue tradizionali funzioni di transito, da cui secondo Cosulich sarebbe tout court dipesa la «futura esistenza nell’ordine commerciale e marittimo» del porto giuliano, adombrando l’opportunità di un significativo flusso di sovvenzionamenti pubblici.29 Era un asse strategico che indicava chiaramente un ordine di priorità fra i settori economici, dove venivano valorizzati i comparti “forti” su cui si era caratterizzata nel tempo la composizione economica triestina – dalla navalmeccanica, alle imprese di navigazione, all’intermediazione commerciale – ma dove l’ipotesi di una crescita industriale intensiva ed esogena, seppure in via subordinata e sostenuta da argomentazioni di difesa dell’italianità dalla pressione di elementi tedeschi, veniva accolta in una proposta complessiva. Era una sorta di chiamata a raccolta di tutte le risorse disponibili sulla piazza triestina, dove anche i contrasti di interessi contrapposti dovevano ricercare una composizione: come mostrava la vicenda del nuovo cementificio collegato all’Ilva, al cui impianto il Comitato dei traffici aveva in prima battuta espresso un’opposizione, sulla base dell’argomento che il nuovo importante stabilimento «avrebbe sottratto al traffico dei legnami considerevoli spazi». Un’opposizione che, poi, «dopo lunghe e difficili discussioni e sopraluoghi [sic]» si sarebbe risolta con una soluzione di compromesso: infatti, «non volendosi né sacrificare il commercio, né impedire la creazione di una nuova industria», sarebbe stata trovata una nuova ubicazione per il cementificio.30 Il punto che nella sua Riservata al prefetto l’armatore lussignano riteneva di dover sottolineare, e che risulta qui di particolare interesse, era come l’appello rivolto a tutte le risorse dell’economia triestina per favorire un inserimento favorevole nello spazio economico della Grande Germania – dall’adozione del regime di porto franco, al finanziamento di nuovi lavori di ammodernamento portuale e ferroviario, all’incentivazione della nuova zona industriale – potesse andare a risarcimento di un ventennio di vita molto stentata, effetto dell’integrazione dei porti altoadriatici nel sistema economico italiano: Restando nell’ordine economico, devo porre in rilievo che Trieste e Fiume, per la loro stessa posizione geografica, sono state sacrificate dalle vicende che sovvertirono l’eco28. Ibid., Riservata di Antonio Cosulich a prefetto Dino Borri, p. 3. 29. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 433/1941, Riservata di Antonio Cosulich a prefetto Dino Borri, p. 2. 30. Ibid., Comitato triestino dei traffici, Verbale della riunione plenaria che ebbe luogo a Trieste presso il Consiglio Provinciale delle Corporazioni il giorno 8 gennaio 1941 –XIX alle ore 17, p. 4.

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nomia e traffici del loro retroterra, che non si è riusciti non ostante l’azione svolta con tenacia a questo fine, a difendere mercé gli accordi internazionali stipulati, con la conseguenza che le funzioni di Trieste e Fiume si sono gravemente impoverite e anemizzate. Ciò nel tempo stesso in cui gli altri maggiori porti italiani: Genova, Venezia e Napoli, porti tutti appoggiati da un importante retroterra nazionale, sono pervenuti a posizioni economiche precedentemente non raggiunte, con costante progresso nel loro cammino ascensionale.31

Lo scoppio della guerra e il mutamento della situazione internazionale avevano dunque fatto emergere un tema cruciale, rimasto sotteso ai discorsi sviluppati intorno alla “vocazione” economica di Trieste durante il ventennio e raramente formulato in modo esplicito, ossia la questione di quanto la “redenzione” del capoluogo giuliano ottenuta con l’annessione alla madrepatria avesse richiesto ai porti altoadriatici il prezzo del «sacrificio» delle «tradizionali funzioni di transito», e per Trieste in particolare quella di vero e proprio emporio, senza che il sistema portuale del Regno avesse potuto offrire una credibile funzione economica alternativa. La guerra, e la conseguente prospettiva di inglobamento dei porti italiani in un’area economica continentale gravitante intorno alla Germania, offrivano cioè l’occasione per ricercare un riscatto, e contestualmente tracciare un bilancio negativo dell’integrazione nel contesto commerciale e produttivo nazionale, dal punto di vista della performance economica. Il riemergere dell’ipotesi di porto franco, in quest’ottica, conteneva dunque una valutazione retrospettiva assai critica dell’andamento generale e delle scelte strategiche operate durante il ventennio appena trascorso, e un’implicita aspettativa di risarcimento per la penalizzazione subìta dal porto giuliano dalle modalità dell’integrazione nel contesto economico italiano. È vero che, considerata in termini relativi a quanto avvenuto a Fiume e Pola, l’integrazione di Trieste poteva dirsi assai meno traumatica, e indebolita più dagli effetti della grande crisi nell’area centroeuropea che dal mancato sostegno da parte del regime fascista, come evidenziano le osservazioni svolte da Rolf Petri in questo volume; tuttavia, la diffusa percezione di uno strisciante e mai apertamente dichiarato declassamento era sottesa al comportamento dei gruppi dirigenti triestini che cercheremo di ricostruire, e si fondava sul diverso rilievo dello scalo giuliano rispetto al complessivo sistema portuale nazionale, certamente ridimensionato rispetto al primato conosciuto nell’ultimo periodo asburgico. Una continuità impossibile Di tali modalità, delle strategie di inserimento perseguite dalla classe dirigente triestina in rapporto alle forze economiche e agli orientamenti politici nazionali, e dei loro esiti fallimentari sono state tracciate le grandi linee, che vanno rapidamente ripercorse per le strette relazioni che intrattengono con il nostro tema.32 Durante gli ul31. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 433/1941, Riservata di Antonio Cosulich a prefetto Dino Borri, p. 2. 32. I riferimenti essenziali si vedano in: Sapelli, Trieste italiana; A. Millo, L’élite del potere a Trieste. Una biografia collettiva 1891-1938, Milano 1989; Ead., Trieste, le assicurazioni, l’Europa. Arnoldo Frigessi di Rattalma e la Ras, Milano 2004; P. Fragiacomo, La grande fabbrica, la piccola città.

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Figura 4. Carta topografica generale del porto di Trieste nel 1933 (fonte: G. Cesari, Il Porto di Trieste, Stab. Tip. Mutilati, Trieste 1933, p. 11)

timi mesi del primo conflitto mondiale, il profilarsi della dissoluzione dell’AustriaUngheria e dell’annessione al Regno d’Italia avevano aperto per l’élite economica del capoluogo giuliano la questione del mantenimento delle posizioni acquisite, in un contesto sottoposto a una radicale e traumatica trasformazione. Non è qui il caso di ricostruire la fisionomia dello sviluppo conosciuto dalla Trieste asburgica, soprattutto negli ultimi decenni del XIX secolo;33 tuttavia, ciò che va ricordato è il carattere fortemente dipendente da agevolazioni e investimenti statali dell’impetuosa crescita economica triestina, soprattutto per quanto riguarda l’accrescimento dell’economia marittima – strutture portuali, incremento dei traffici, linee di navigazione – e la natura largamente dipendente da investimenti delle banche austriache per il finanziamento delle sue principali imprese, dalla cantieristica alle grandi manifatture: aspetMonfalcone e il cantiere navale; G. Mellinato, Crescita senza sviluppo. L’economia marittima della Venezia Giulia tre Impero asburgico ed autarchia (1914-1936), San Canzian d’Isonzo (GO), 2001; Id., L’IRI e un tentativo di riorganizzazione del settore cantieristico negli anni Trenta, in «Archivi e Imprese», 13 (1996), pp. 59-98; P. Cuomo, Intervento statale e cantieri navali in Italia (1915-1933), in «Società e Storia», 104 (2004), pp. 311-355; A. Umile, Imprenditori triestini in acque italiane: l’industria cantieristica tra le due guerre mondiali, in «Acta Historiae», 14 (2006), pp. 69-94. 33. Su questo si veda in particolare Storia economica e sociale di Trieste, vol. 1, La città dei gruppi, 1719-1918, a cura di R. Finzi e G. Panjek, Trieste 2001; vol. 2, La città dei traffici, 1719-1918, a cura di R. Finzi, L. Panariti, G. Panjek, Trieste 2003, ma anche E. Apih, Trieste, Roma-Bari 1988.

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ti che hanno portato la città nel suo complesso ad affacciarsi alle soglie del primo conflitto mondiale in condizioni di grande prosperità, ma anche di elevata vulnerabilità. Una vulnerabilità da cui va esclusa, per tutto il periodo che ci interessa, l’«economia distinta e speciale» – secondo l’espressione utilizzata da Giulio Sapelli – dei grandi istituti assicurativi, che sono invece stati in grado di mantenere e in qualche caso di ampliare il proprio raggio d’azione, per la capacità di svincolarsi dal tessuto economico locale e dai traffici del porto.34 Il disegno complessivo dell’élite economica triestina era quello di presentarsi all’incontro-scontro35 con il nuovo contesto economico nazionale e internazionale avendo predisposto di raggiungere posizioni di forza nei settori-chiave in cui si sarebbero determinate le più profonde trasformazioni, per prevenire il rischio che fossero fatti oggetto di “conquista” da parte dei gruppi economici del Regno. In particolare, è stato documentato il tentativo, nei primi anni riuscito, di subentrare alle banche austriache per i finanziamenti nei settori produttivi strategici, mobilitando le risorse delle grandi famiglie locali – come i Brunner, gli Economo, i Frigessi, gli Scaramangà – e concentrandoli nella Banca commerciale triestina, a contrastare l’ingresso del capitale finanziario nazionale rappresentato dalla Banca commerciale italiana, e più in generale a ostacolare la “corsa” all’accaparramento dei pacchetti azionari in precedenza detenuti dalle banche austriache e tedesche da parte dei più forti gruppi finanziari italiani, secondo un disegno apertamente sostenuto dal direttore generale della Banca d’Italia che dal gennaio al giugno 1919 si era temporaneamente “prestato” al ruolo di ministro del Tesoro, Bonaldo Stringher.36 Come avvenne nel caso dell’acquisto, da parte di un gruppo di imprenditori locali guidati dalla famiglia Cosulich, delle azioni del Lloyd austriaco possedute dalla Unionbank, al cui controllo aveva puntato la Comit: la compagnia, divenuta così Lloyd triestino, intraprese una politica di espansione azionaria, riuscendo nei primi anni Venti ad ottenere che le compagnie di navigazione triestine e fiumane raggiungessero in sostanza il monopolio della navigazione adriatica.37 Lo sforzo di autosufficienza finanziaria veniva nel contempo accompagnato da manifestazioni di lealismo istituzionale, che sfumarono presto nella ricerca di relazioni con le autorità politiche e militari del paese vincitore, per sostituire i canali privilegiati di agevolazioni e investimenti pubblici del periodo austroungarico con nuove forme di protezione, indispensabili per settori economici come quello della navalmeccanica e delle imprese armatoriali, sviluppate in stretta dipendenza con gli 34. Cfr. per il giudizio sull’autonomia del settore assicurativo Millo, Trieste, le assicurazioni, l’Europa, p. 141. 35. Per la tesi dello scontro, piuttosto che dell’integrazione, fra due modelli di sviluppo nel momento dell’inserimento dell’economia giuliana nel contesto italiano cfr. Mellinato, Crescita senza sviluppo, p. 85. 36. Sul patto di sindacato stipulato già nell’agosto 1918 fra i maggiori rappresentanti dell’élite triestina per il controllo della Banca commerciale triestina cfr. Millo, L’élite del potere, pp. 333 ss. Ricostruisce le fasi della questione bancaria del primo dopoguerra come espressione dell’aspro confronto e delle varie fasi del compromesso fra élites economiche di ascendenza austroungarica e penetrazione del capitale italiano a Trieste Sapelli, Trieste italiana, pp. 36 ss. 37. Cfr. E. Apih, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), Bari 1966, pp. 103-104, e Mellinato, Crescita senza sviluppo, p. 96.

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orientamenti delle autorità politiche. In questo caso tuttavia raccogliendo risultati inizialmente meno incoraggianti: attraverso le accuse di “austriacantismo” e di scarsi sentimenti di italianità rivolte da parte del nuovo personale politico, come quello insediatosi negli Uffici informazioni territori occupati, ad esponenti di rilievo dell’élite economica – benché spesso venissero moderate da parte dei più prudenti funzionari dell’amministrazione provvisoria, come Alberto Mosconi – si delineava già una linea di frattura fra l’emersione di un ceto politico di provenienza recente e legato al nuovo assetto statuale nazionale, e la permanenza dei grandi patrimoni, espressione di una gerarchia sociale risalente al periodo precedente.38 La questione della richiesta di risarcimento dei danni di guerra, e della sua negazione selettiva, ne è evidente testimonianza: furono esclusi ad esempio i Brunner, i Cosulich, la società monfalconese Adria; così come la successiva concessione di mutui agevolati alle stesse famiglie cui era stato negato il risarcimento esprimeva la capacità di aggirare gli ostacoli e la volontà di addivenire comunque a soluzioni di compromesso con le vecchie élites da parte del centro politico. È significativa in questo senso la vicenda dei Cantieri navali triestini della famiglia Cosulich, a Monfalcone. Quasi completamente distrutti durante la guerra, ai cantieri di Monfalcone fu negata l’applicazione del decreto 18 aprile 1920 sull’estensione alle nuove province delle disposizioni di risarcimento con l’argomento, sostenuto dall’Avvocatura dello stato, della presenza dei capitali di Credit Anstalt e Wiener Bank Verein nella struttura proprietaria dei cantieri, cui si aggiunsero le accuse di ambiguità e di “infida italianità” da parte dell’irredentista monfalconese Giovanni Bonavia, dal 1919 nominato commissario dei Cnt con ampi poteri di sorveglianza.39 Tuttavia, fu poi approvato il decreto legge 2148 del 1923, che disponeva il finanziamento delle aziende giuliane che non usufruivano del risarcimento dei danni di guerra attraverso la concessione di mutui, e due anni dopo – a testimonianza del progressivo consolidamento dei rapporti con il centro politico da parte della famiglia Cosulich – fu riconosciuto il diritto al risarcimento alle società di navigazione della famiglia, con l’argomento della loro riconosciuta italianità: così «l’amalgama di vecchio e nuovo doveva procedere sì attraverso penalizzazioni di interessi ed aspirazioni delle consolidate élites, ma anche attraverso compensazioni e valorizzazioni dei loro interessi medesimi e della loro competenza e professionalità, così da raggiungere una nuova sistemazione tra i contrapposti gruppi che operavano avendo come centro nevralgico Trieste».40 In una prima fase, la coesione interna, la capacità tecnica e la tempestività di azione avevano dunque assicurato alla vecchia élite il successo dell’operazione di “triestinizzazione” del capitale austriaco e la propria permanenza ai vertici delle prin38. Una frattura fra élite economica e politica che tuttavia secondo Anna Millo è un tratto di lungo periodo della storia delle classi dirigenti triestine: cfr. Millo, La formazione delle élites dirigenti, in Storia economica a sociale di Trieste, 1, La città dei gruppi, pp. 381-410, in partic. p. 405. Per il comportamento delle autorità militari nel periodo di amministrazione provvisoria cfr. Ead., L’élite del potere a Trieste, pp. 234-236. Si veda su questo A. Visintin, L’Italia a Trieste. L’operato del governo militare nella Venezia Giulia 1918-1919, Gorizia 2000, e più in generale E. Capuzzo, Dal nesso asburgico alla sovranità italiana. Legislazione e amministrazione a Trento e a Trieste (1918-1928), Milano 1992. 39. Cfr. Fragiacomo, La grande fabbrica, la piccola città, pp. 155-157. 40. Cfr. Sapelli, Trieste italiana, p. 83.

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cipali istituzioni economiche della città. Per ottenere questo risultato, tuttavia, era stato necessario disporsi a trattative e addivenire a compromessi con i protagonisti del nuovo scenario politico-istituzionale: come dimostrava l’insediamento, nel Consiglio di amministrazione della Banca commerciale triestina, di “tecnici” di matrice nazionalista come Guido Segre (torinese, funzionario della Fiat prima e poi capo dell’Ufficio economico-finanziario del Governatorato della Venezia Giulia, in stretto contatto con Stringher), come l’industriale romano Pier Lorenzo Parisi, cognato di Pio Perrone, proprietario del grande gruppo siderurgico Ansaldo, o come l’onorevole Giuseppe Marchesano, punto di riferimento di Segre presso il mondo politico romano. E parallelamente, si era accresciuto il ruolo di garanzia di personalità triestine di ascendenza liberal-nazionale, come Camillo Ara, Carlo Hermet, Giorgio Pitacco, e di nazionalisti come Enrico Paolo Salem e Salvatore Segré. Particolare apertura alla presenza di esponenti di provenienza “nazionale” doveva mostrare il settore cantieristico ed armatoriale, per la precoce necessità di sostegno di natura politico-istituzionale: così nella società di navigazione Cosulich, oltre a rappresentanti della Banca Commerciale triestina, come Guglielmo Brunner e Riccardo Tischler, delle Assicurazioni Generali (Edgardo Morpurgo) e della Ras (Arnoldo Frigessi), sedeva come figura di garanzia un esponente politico come Giuseppe Marchesano, mentre nel Lloyd triestino si trovavano anche Giuseppe Toepliz, Giuseppe Volpi e il comandante Alfredo Dentice di Frasso.41 Quanto emerge dalla letteratura è tuttavia il carattere instabile, in progressiva evoluzione in senso sfavorevole alle vecchie élite, di tali assetti di compromesso. Da un lato, infatti, andava registrata la crescente importanza dell’intermediazione politica nei gangli dell’economia cittadina: come avrebbe dimostrato all’inizio del decennio successivo l’insediamento dell’ex squadrista Francesco Giunta alla guida dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico; dall’altra parte, i progetti di “espansione preventiva” da parte dei settori di punta dell’economia giuliana rispetto all’inserimento nei rapporti di forza dell’economia nazionale si sarebbero risolti, nell’arco di un decennio, in un colossale fallimento, tale da ridimensionarne drasticamente il rilievo. La parabola della famiglia Brunner, industriali del cotone secondo un modello di integrazione verticale, che andava dal possesso di piantagioni indiane, allo stabilimento del Cotonificio triestino, al controllo di una vasta rete di commercializzazione, e contemporaneamente compartecipi dei principali istituti di credito bancario e assicurativo della piazza triestina, dalla Banca commerciale triestina alle assicurazioni Generali e Ras, si consumava nell’arco del primo decennio postbellico. Alla metà degli anni Venti i Brunner tentavano il massimo sforzo espansivo: sostenevano finanziariamente il tentativo di penetrazione della propria holding nei mercati polacchi, cecoslovacchi e jugoslavi, acquistavano la maggioranza delle azioni della società mineraria polesana Arsa – sulle cui vicende rimando al contributo di Stefano Petrungaro – e sbarcando in laguna acquistando le azioni del Cotonificio veneziano. Dal 1926 la politica di drastica rivalutazione monetaria e deflazionista perseguita dal governo italiano colpiva duramente il gruppo, per la forte esposizione verso gli istituti bancari e la dipendenza dal mercato estero. Le mancate sovvenzioni pubbliche conducevano i Brunner al fal41. Cfr. Millo, L’élite del potere a Trieste, pp. 240-241.

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limento, e aprivano la strada alla penetrazione nel controllo della società Arsa del “gruppo veneziano” Volpi-Cini.42 In tale prospettiva espansiva, le grandi famiglie appartenenti al capoluogo giuliano, le cui fortune affondavano le radici nei decenni della prosperità tardo-asburgica, si erano mostrate eccezionalmente convergenti, manifestando pur nelle rivalità intestine, e persino nelle diverse sfumature di ascendenza politica, un alto grado di coesione interna. Espressione di tale coesione e convergenza erano le complesse partecipazioni incrociate, che vedevano esponenti del mondo assicurativo partecipare ad imprese industriali, cantieristiche ed armatoriali, e viceversa, come negli esempi sopra accennati delle vaste partecipazioni azionarie della famiglia Brunner, o dei rapporti fra Cosulich, Generali e Ras.43 Il disegno più generale, e forse il sentimento, che sosteneva tale coesione era da un lato lo sforzo di conservare, nelle mutate condizioni geopolitiche causate dalla dissoluzione dell’Austria-Ungheria e dall’integrazione nel Regno d’Italia, la rete di relazioni commerciali fra i paesi ex asburgici, come mostrava il progetto di unione doganale fra i paesi ex asburgici proposto da Arminio Brunner e mai realizzato. E all’altro lato l’intento di riprodurre il modello di sviluppo che aveva consentito la prosperità tardo-asburgica di Trieste, vale a dire un’economia marittima incentrata sul monopolio dei traffici e sull’espansione dei settori ad esso collegati: dalla cantieristica, alle linee di navigazione, alle imprese commerciali, alle società di assicurazione. Era, in sostanza, il modello compendiato nell’espressione “Trieste porto di transito” e sintetizzato nella questione del ripristino del porto franco, su cui infatti si cominciò a dibattere – pure, come abbiamo visto, con diverse sfumature – fin dal primo dopoguerra.44 La debolezza intrinseca di tale condivisa aspirazione ad una continuità “mitteleuropea” ed egemonica, che nelle mutate condizioni politiche si traduceva – con una significativa torsione – nel sostegno accordato alle aspirazioni imperialistiche di una “politica di potenza” indirizzata al Levante, di cui Trieste doveva essere la “porta orientale”,45 era la necessità di ingenti risorse finanziarie per la sua realizzazione. Risorse che l’élite locale, nonostante la sua mobilitazione, non era in grado di assicura42. Per la ricostruzione e l’analisi del fallimento Brunner cfr. Millo, L’élite del potere, pp. 262-274. Sulle vicende dell’Arsa cfr. Ead., La società anonima carbonifera Arsa: vicende finanziarie e industriali (1919-1940), in «Qualestoria», 2 (1981), pp. 63-68. 43. Sugli intrecci proprietari cfr. Sapelli, Trieste italiana, pp. 41-42 44. Le posizioni variavano dalla riproposta della franchigia portuale come quella che meglio avrebbe consentito a Trieste di sviluppare la sua naturale e tradizionale funzione di fulcro commerciale per i paesi ex asburgici (cfr. A. Cabiati, Trieste porto franco d’Italia, in «Bollettino della Camera di commercio e industria di Trieste», III/11, 1922, pp. 262-276, e sulla stessa linea B. Astori, Il problema del porto franco a Trieste, Trieste 1922), su cui convergeva la maggioranza degli operatori economici, all’affermazione del modello emporiale come testa di ponte per l’espansione imperialistica verso i Balcani (vedi A. Tamaro, Il problema politico del porto di Trieste, Trieste 1922, e Id., Il porto di Trieste e la sua crisi, Roma 1922). 45. «La porta orientale» era il titolo, ispirato dall’espressione di Attilio Tamaro, del periodico mensile fondato nel 1931 dalla Compagnia Volontari Giuliani e Dalmati e diretto da Bruno Coceani, Federico Pagnacco e Giuseppe Stefani, come «Rivista di studi sulla guerra e di problemi giuliani e dalmati». Sulla subsidenza del discorso mitteleuropeo a Trieste durante il periodo fascista cfr. M. Wullschleger, «Nostalgie asburgiche a Trieste dopo la Grande Guerra», paper presentato al convegno Nostalgia. Memorie e passaggi tra le sponde dell’Adriatico, Venezia, 17-18 aprile 2008.

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re, e il cui approvvigionamento si sarebbe risolto in un crescente afflusso di denaro pubblico, tale da far perdere all’economia locale la sua autonomia, da accrescerne la dipendenza dai canali di contrattazione politica, e da provocarne il rischio di tracollo nel momento del venir meno, come durante la Grande crisi, dei flussi finanziari. Mostrando così le aporie dello stesso disegno di “Trieste porta orientale”, laddove se per le élites economiche giuliane che lo perseguivano, esso doveva essere suggello al riconoscimento della centralità e financo della preminenza dell’economia triestina nel processo di espansionismo italiano nell’area danubiano-balcanica, per i gruppi forti del capitale nazionale, invece, esso copriva l’intento di integrazione dell’area economica triestina attraverso l’espropriazione delle sue stesse élite.46 La parabola della famiglia Cosulich è in questo senso rappresentativa di tali processi. La reazione alla distruzione dei cantieri di Monfalcone durante la guerra fu la moltiplicazione dell’impegno per la ripresa della produzione, cercando contatti con le autorità militari e politiche, che se inizialmente non avrebbero fruttato, come si è visto, la concessione dei risarcimenti per danni di guerra, avrebbero poi fatto ottenere altre forme di compensazione finanziaria, e segnalato la famiglia di armatori lussignani come particolarmente abili nella capacità di presa lobbistica presso il regime,47 fino ad assicurarsi la costruzione dei transatlantici di lusso voluti dal ministro della Marina mercantile Costanzo Ciano in base a criteri di incentivazione di una flotta di prestigio.48 L’intento di precostituire le condizioni favorevoli per l’inserimento in un settore, come quello della cantieristica italiana, fortemente segnato da diseconomie e sovradimensionamento, oltre che strutturalmente dipendente dalle commesse pubbliche, si mostrava nella rapida ricostruzione dei cantieri di Monfalcone – i Cantieri navali triestini, Cnt – secondo i criteri della massima modernità nell’organizzazione del lavoro e nei macchinari, e nella strategia di crescente partecipazione azionaria nelle società concorrenti: così da inserirsi nel Lloyd triestino, assorbire lo Stabilimento tecnico triestino e dei suoi storici cantieri San Marco e San Rocco di Trieste, e inoltre acquistare il controllo del cantiere Scoglio Olivi di Pola, per imporsi come principale soggetto dell’industria navalmeccanica adriatica. Il grande slancio conosciuto nei primi anni postbellici dalla navalmeccanica triestina, e la rapida acquisizione di posizioni di forte rilievo rispetto all’insieme della produzione nazionale, si spiegava anche con la diversa struttura dell’economia marittima giuliana rispetto a quella italiana, 46. Per la sottolineatura dell’intento “di conquista” da parte del capitale nazionale verso Trieste cfr. Millo, L’élite del potere, in partic. pp. 258-259. Più incisivo sulle ragioni “endogene” e strutturali del fallimento del disegno egemonico dell’élite economica triestina è Mellinato, Crescita senza sviluppo, p. 98. 47. Cfr. in questo senso il giudizio di G. Federico e P.A. Toninelli, Le strategie delle imprese dall’Unità al 1973, in L’impresa italiana nel Novecento, a cura di R. Giannetti, M. Vasta, Bologna 2003, p. 323, ma anche Cuomo, Intervento statale e cantieri navali in Italia, p. 337, e soprattutto Mellinato, Crescita senza sviluppo, p. 98. 48. E in effetti, le costruzioni realizzate dalla cantieristica giuliana negli anni Trenta erano frutto degli ingenti investimenti – di denaro pubblico, peraltro – attuati dagli armatori triestini per rinnovare profondamente la flotta e costruire transatlantici di lusso: cfr. V. Staccioli, «La cantieristica a Trieste negli anni Trenta», settore della mostra Maria Teresa, Trieste e il porto, Trieste 1982, e Id, 1861-1961: evoluzione della nave mercantile e rapporti con lo sviluppo infrastrutturale del Porto di Trieste, in L’evoluzione delle strutture portuali della Trieste moderna tra ’800 e ’900, Catalogo della mostra a cura di G. Tatò, Trieste, 31 gennaio-27 febbraio 2004, Trieste 2004, pp. 51-88.

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dove la prima si fondava, secondo un modello britannico, sull’integrazione tra società di navigazione e cantieri, e la seconda sull’integrazione tra cantieri e industria siderurgica, secondo un modello “ligure” di economia protetta.49 All’iniziale, anche se “apparente”, preminenza della navalmeccanica giuliana, facevano riscontro i grandiosi lavori di ricostruzione del porto intrapresi nel corso degli anni Venti, che rendevano lo scalo giuliano all’avanguardia nelle strutture e nelle attrezzature portuali.50 Tuttavia, la politica di crescente esposizione azionaria perseguita dai Cosulich aveva portato la società a un crescente indebitamento, a cui si sarebbero sommati gli effetti negativi della politica di rivalutazione della lira sulla redditività delle linee di navigazione e sui profitti di un cantiere che, unico in Italia, realizzava costruzioni per l’estero. In questo quadro, la crisi della Banca Commerciale Triestina apriva la strada nel 1928 alla partecipazione della Comit, che inizialmente concesse un forte finanziamento alla famiglia Cosulich, e che però già l’anno successivo, in seguito a forti perdite rilevate da una severa revisione dei bilanci, al mancato appoggio da parte della Banca d’Italia, e in considerazione della stagnazione produttiva della navalmeccanica nazionale nonché delle scarse prospettive di espansione commerciale dovute al profilarsi della depressione economica, acquistò il possesso delle imprese degli armatori giuliani.51 In tal modo la Comit, subentrando alle imprese Cosulich, assumeva il controllo di gran parte della cantieristica giuliana, che gli armatori lussignani erano stati incoraggiati a concentrare nelle loro mani. Pochi anni dopo, con la creazione dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale, che avrebbe assorbito il pacchetto azionario della Comit, si sarebbe realizzata, con il segno negativo della perdita dell’autonomia proprietaria e l’inserimento nel sistema di economia “mista”, la completa integrazione della grossa meccanica e cantieristica giuliana nel contesto nazionale. I passaggi che hanno portato all’esito della “irizzazione” dell’economia marittima giuliana sono significativi del segno politico di tale integrazione. Che avrebbe comportato lo scioglimento dello stretto intreccio produttivo e proprietario fra navigazione e cantieristica, caratteristica peculiare come sopra ricordato del “modello” giuliano procedendo, da una parte, con la creazione dei Cantieri riuniti dell’Adriatico (Crda), a un forte processo di concentrazione dell’industria navalmeccanica altoadriatica con imprese “nazionali”, e dall’altra, con la creazione della società “Italia”, a una decisa riorganizzazione delle linee di navigazione, sempre sotto il segno della concentrazione in compagnie “nazionali”, fino alla nascita della Finmare. Nel giugno 1930 con l’appoggio della Banca d’Italia la Comit procedeva alla fusione delle imprese navalmeccaniche provenienti dal gruppo Cosulich nei Cantieri Riuniti dell’Adriatico (Crda), con la compartecipazione azionaria del “gruppo veneziano” CiniVolpi, che così compiva un passo decisivo per l’inserimento con funzioni di controllo nella concorrente economia triestina, di Fiat, che eliminava degli importanti competitori nel settore motori, di Ilva, e una piccola quota del gruppo Cosulich, che però riusciva a mantenere Antonio e Augusto Cosulich nel Consiglio di amministra49. Cfr., da ultimo, Umile, Imprenditori triestini in acque italiane, p. 76. 50. Cfr. Autorità portuale di Trieste, Il porto di Trieste. Cronaca e storia delle costruzioni portuali, a cura di A. Caroli, Trieste 2002, in partic. pp. 97-99. 51. Ricostruisce nei particolari la vicenda Mellinato, Crescita senza sviluppo, pp. 191 ss.

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zione, insieme a Guido Segre e Cesare Sacerdoti. Con l’eclissi della Comit, i Crda sarebbero passati all’Iri, che, ormai in controllo della quasi totalità della grande cantieristica italiana, non avrebbe sostenuto il loro sviluppo, ma anzi li avrebbe inseriti in un tentativo di razionalizzazione, che avrebbe adombrato, ma non realizzato, la chiusura dei “troppo” grandi ed efficienti cantieri di Monfalcone.52 Nel 1932 si completava invece la cartellizzazione delle società di navigazione che gestivano linee sovvenzionate – ossia la quasi totalità di quelle a lunga percorrenza – con la fusione della Cosulich Navigazione al Lloyd sabaudo e soprattutto alla genovese Navigazione Generale Italiana, con la quale le società giuliane si erano trovate in aspra concorrenza, soprattutto per le linee transatlantiche.53 La nuova società Italia, accompagnata anche dalla fusione delle compagnie Florio e Citra nella Tirrenia, e di diverse piccole società nella Adriatica sotto il controllo Cini-Volpi, realizzava una inedita composizione dei gruppi di interesse tirrenici e adriatici, nel segno di un protagonismo “razionalizzatore” da parte della mano pubblica, che accresceva, per converso, sia la dipendenza dal centro politico di sistemi locali fortemente provati, come quello giuliano, sia l’influenza del personale e dei canali di intermediazione politica tra centro e periferia, sia, come nel caso del gruppo Volpi, l’importanza di gruppi particolarmente inseriti nel sistema di rapporti fra politica ed economia. Non tutte le compagnie di navigazione sarebbero state subito assorbite dall’Iri. La Navigazione libera triestina, attraverso la Comit, sarebbe passata al gruppo Volpi, che si espandeva ulteriormente nel controllo dell’economia altoadriatica, ma sarebbe stata poco dopo acquisita dall’istituto guidato da Beneduce, per essere soppressa. Nel 1936, infatti, l’Iri avrebbe messo allo studio un progetto di riorganizzazione della navigazione sovvenzionata, fonte sempre di perdite eccessive, con la creazione di una holding marittima controllata dall’Iri, la Finmare, finanziata attraverso l’emissione pubblica di obbligazioni garantite dallo Stato. Alla Finmare avrebbe fatto capo in sostanza l’intero settore della marina mercantile, che impostava il sistema dei traffici non più in funzione della tutela delle singole economie portuali, ma della loro subordinazione all’equilibrio complessivo tra le componenti, così come veniva volta a volta a determinarsi all’interno dei settori di economia assistita. Del duplice processo di cartellizzazione-irizzazione – cantieristico e di navigazione – è stato quest’ultimo a essere più acutamente patito negli ambienti degli interessi marittimi triestini, dove veniva percepito come il susseguirsi delle tappe di una disfatta. Nel gennaio 1932 veniva annunciata la costituzione della società Italia dalla fusione del gruppo Cosulich con il Lloyd sabaudo e la Navigazione generale, con sede a Genova, e della costituzione del nuovo Lloyd triestino dalla fusione del vecchio Lloyd triestino società di navigazione, della genovese Marittima italiana, e della romana Sitmar. I giornali locali riportavano senza commenti i comunicati dei consigli di amministrazione, facendovi seguire la riproduzione di un editoriale di Arnaldo Mussolini sul «Popolo d’Italia», che dichiarava ormai «appartenenti al passato» le rivalità municipalistiche fra le città marittime, unite ora «in una realtà intensamente 52. Cfr. sul punto, con accenti diversi, Mellinato, L’Iri e un tentativo di riorganizzazione del settore cantieristico, pp. 77 ss., e Cuomo, Intervento statale e cantieri navali, pp. 347 ss. 53. Vedi nel dettaglio Mellinato, Crescita senza sviluppo, pp. 241-260.

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unitaria per affrontare i rischi della concorrenza straniera e la lotta per superare la crisi mondiale», dove si esprimeva «oltre che l’interesse legittimo delle società di navigazione, anche una ragione di prestigio nazionale».54 Ma nel fascicolo di prefettura, accanto agli annunci delle avvenute fusioni, era conservato con significativo contrappunto un articolo di Bruno Coceani di qualche giorno precedente, che sottolineava in polemica con «il Lavoro fascista», la gravità della crisi mondiale e la difficoltà in cui versava la situazione armatoriale: «contrazione del commercio, rallentamento dei traffici, diminuzione dei noli, conseguente disarmo e mancanza di nuove costruzioni. Sembra che non sia quindi azzardato dire che l’orizzonte internazionale si presenta molto oscuro per il traffico marittimo e l’industria delle costruzioni navali», particolarmente «per la nostra provincia, dove l’industria navale è il fulcro dell’attività produttiva».55 E l’anno successivo, non appena si registrarono i primi segnali di ripresa, subito si vollero manifestare timori circa l’inadeguatezza delle linee di navigazione concesse alle compagnie triestine, mentre Trieste è certamente attrezzata meglio di qualunque altro porto adriatico per un grande traffico: magazzini, hangars, banchine, moli, grue e verricelli, caricatori meccanici, impianti frigoriferi, binari di smistamento, parco di attrezzi, tutta fu apprestato a Trieste per permettere la manipolazione pratica sicura e rapida delle merci […] non sarebbe fuor luogo che l’armamento esaminasse la nuova situazione e si accordasse per assicurare alla auspicata “ripresa” commerciale abbondanza e razionalità di servizi marittimi verso tutte le direzioni.56

Il passo successivo fu il riordino delle linee di navigazione stabilito per decreto nel dicembre 1936, che sortiva ad un secco ridimensionamento per Trieste. Il «Piccolo» del 5 dicembre 1936 annunciava l’esito del Consiglio dei Ministri di stamane. Il definitivo assetto dei servizi marittimi. Alla società Lloyd triestino le linee per l’Africa oltre Suez e oltre Gibilterra. Perdeva il Levante, compresa la Palestina, che costituiva una delle linee più redditizie, e soprattutto nella complessiva riorganizzazione Trieste cessava di essere il porto di armamento per le “sue” compagnie di navigazione, perché le linee della ex Cosulich, assorbita nella società Italia, avrebbero fatto capo a Genova. Veniva però compensata con la titolarità delle linee “imperiali” per l’Africa Orientale Italiana. Anche in questo caso, l’annuncio ufficiale veniva comunicato dalla stampa riportando il testo senza commenti. Il fascicolo di prefettura riportava tuttavia una serie di dichiarazioni delle categorie economiche, talora ossequiose e riconoscenti al Duce «per la destinazione di Trieste alle più alte funzioni di porto dell’Impero verso l’Africa Orientale, dell’Asia e dell’Australia, che daranno a questo Emporio nuovo impulso per lo svolgimento dei suoi traffici», talaltra, pur ribadendo 54. «Il Piccolo di Trieste», 14 gennaio 1932; per gli annunci di fusione vedi «il Piccolo» e «il Popolo di Trieste» del 12 gennaio. Due mesi prima la decisione del concentramento armatoriale era stata prospettata rilevando il «compiacimento del duce» per la decisione presa, ma ricordando come gli interessi dell’emporio triestino avessero dovuto essere difesi «con fermo linguaggio» durante le «lunghe e faticose trattative» («Il Piccolo di Trieste», 12 novembre 1931). Va rilevato tuttavia che fino al 1936 l’effettiva concentrazione nella società Italia rimase inoperante, perché la Cosulich continuò a navigare mantenendo la propria ragione sociale e la sede a Trieste. 55. Vedi AST, Prefettura, Gabinetto, b. 214/1932, ritaglio del «Il Popolo di Trieste», 8 gennaio 1932. 56. AST, Prefettura, Gabinetto, b. 240/1933, ritaglio «Il Popolo di Trieste», 1° settembre 1933.

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«completa fiducia nei sicuri risultati del potenziamento della marina mercantile italiana», esprimenti l’auspicio che venisse tenuta in debita considerazione l’attività professionale di settori come quelli degli agenti assicurativi e dei periti commerciali, minacciati dallo spostamento dei porti di armamento.57 Il dibattito sul riordino dei servizi marittimi si era svolto nei mesi precedenti il decreto. Alla metà del maggio 1936 il prefetto Tiengo trasmetteva al ministro delle Comunicazioni Benni – e annotava di inviarne copia anche a Suvich e a Thaon de Revel – un memoriale di Antonio Cosulich, dove dava voce alla preoccupazione degli ambienti triestini «che un raggruppamento possa determinare pregiudizi agli interessi armatoriali e commerciali di Trieste». In realtà, Cosulich manifestava netta contrarietà alla fusione, di cui non ravvisava «alcuna necessità». Certamente, come egli stesso ricordava, la ristrutturazione attuata nel 1932, decisa per eliminare la concorrenza fra le compagnie genovesi e le triestine, per «creare interessi armonicamente collegati nel piano nazionale», e per ridurre le spese di esercizio, aveva prodotto una situazione di assoluta mancanza di autonomia dell’armamento triestino: «l’IRI possiede il 100% delle azioni “Italia”, e questa a sua volta il 90% delle azioni “Cosulich”, la quale è proprietaria della maggioranza delle azioni “Lloyd triestino” e “Adria”». Un’ulteriore concentrazione però non avrebbe raggiunto l’obiettivo presunto, ossia la maggiore riduzione delle spese, ma avrebbe prodotto una serie di conseguenze negative, che il capitano enumerava seccamente: non solo non avrebbe conseguito i risparmi desiderati, ma avrebbe vulnerato la «funzione speciale», richiedente «competenze e mentalità completamente differenti» svolta dalle suddette compagnie per i traffici di transito di Fiume e Trieste, i quali perdipiù sarebbero apparsi all’estero «sminuiti nella loro efficienza qualora le dette Società non esistessero più come tali». Soprattutto, la fusione avrebbe vulnerato la capacità di penetrazione italiana nel bacino danubiano e adriatico: «La sorveglianza e l’azione da svolgere per conservare il dominio della marina mercantile italiana nell’Adriatico e per prevenire e sventare la formazione di nuclei armatoriali franco-jugoslavi e anglo-ellenici sono possibili soltanto sussistendo le dette Società con sede a Trieste e Fiume».58 L’annuncio del progetto di massima, a fine maggio, ricalcava il lungo telegramma destinato alla Stefani con l’indicazione dettagliata della distribuzione territoriale di sedi e servizi delle nuove compagnie, organizzate in quattro grandi raggruppamenti armatoriali: la società Italia assorbiva definitivamente la Cosulich e ribadiva le sede di armamento a Genova, per le linee destinate alle Americhe; il Lloyd triestino, che manteneva la sede a Trieste, concentrava linee minori adriatiche e la Navigazioni libera triestina, esercitava le linee per l’Africa e l’Asia oltre Suez e gli Stretti, ossia oltre il Mediterraneo, mentre l’Adriatica, con sede a Venezia, e la Tirrenia, con sede a Napoli, esercitavano le linee per il Mediterraneo e il Mar Nero.59 All’annuncio 57. AST, Prefettura, Gabinetto, b. 352/1937, rispettivamente comunicato dell’Unione fascista dei commercianti della provincia di Trieste, 15 dicembre 1936, e comunicato del Sindacato interprovinciale dei periti commerciali di Trieste, 24 novembre 1936. 58. AST, Prefettura, Gabinetto, b. 352/1937, Promemoria di Antonio Cosulich, 9 maggio 1936, allegato a messaggio del prefetto Tiengo al Ministro delle Comunicazioni Benni, 14 maggio 1936. 59. Ibid., Telegramma all’agenzia Stefani, 27 maggio 1936, e «il Piccolo di Trieste», Il Duce dà nuovo assetto ai servizi marittimi, 28 maggio 1936.

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sarebbero seguite le dichiarazioni di gratitudine per l’assegnazione della «funzione imperiale» espresse nelle sedi ufficiali, dalla Casa del Fascio al Consiglio provinciale dell’economia corporativa, assicurando che «Trieste assolverà degnamente il mandato».60 Ma un editoriale del «Piccolo» coglieva immediatamente la natura e gli effetti della riorganizzazione: dopo essersi dilungato sulla nuova «funzione imperiale di Trieste» e sul «compito formidabile» di assicurare collegamenti e traffici fra la madrepatria e l’Africa Orientale Italiana – un compito peraltro «la cui vastità non può essere tutta misurata oggi» – rilevava con «serena obiettività» gli aspetti che avevano, sia pur solo in un primo momento, generato «doloroso turbamento»: «Può dare un senso di malincuore il pensiero che domani il Lloyd Triestino non eserciterà più i suoi secolari servizi con l’Egitto e la Palestina, con l’Egeo e il Mar Nero», attribuiti alla veneziana Adriatica; così come un «senso di tristezza» procurava la scomparsa della Libera Triestina, assorbita nel Lloyd; «ma il sacrificio che a prima vista può sembrare il più grave e doloroso è la scomparsa (la parola è dura, ma non è il caso di ricorrere agli eufemismi) della Società Cosulich».61 Il punto di vista degli ambienti dell’economia marittima era stato diffusamente riferito dal questore al prefetto in un promemoria riservato risalente al primo giugno: «il nuovo assetto della Marina Mercantile ha lasciato insoddisfatta la quasi totalità degli interessati, destando penosa preoccupazione». Il questore andava con la mano pesante. In primo luogo, poneva in evidenza le ragioni di competizione nei confronti di Genova e Venezia: fra gli appartenenti alla “Cosulich” l’assorbimento da parte dell’“Italia” «viene commentato come un piano da tempo prestabilito dagli ambienti armatoriali di Genova ai danni di Trieste, e si assicura pure che le alte personalità politiche di Trieste e della Venezia-Giulia (quali le LL.EE. Cobolli-Gigli, Suvich, Host-Venturi) sarebbero state ignare, fino all’ultimo momento, del progetto, voluto dai Genovesi»; mentre fra gli appartenenti al Lloyd Triestino «si attribuisce, altresì, all’invadenza del gruppo “Volpi” l’assorbimento dal parte dell’“Adriatica” delle migliori linee mediterranee, gestite dal Lloyd triestino, a vantaggio di Venezia e ai danni di Trieste». La perdita dei servizi con il Levante e la Palestina a favore dell’Adriatica veniva considerata un «danno enorme», perché la rinuncia a linee in cui «il Lloyd si era brillantemente affermato con una lunga tradizione di ottimi servizi» e con un traffico spesso «notevolissimo», non sarebbe stata compensata dalle nuove linee “imperiali”, «poiché è risaputo che la massima parte del movimento per l’A.O. si svolge da Napoli, dal Tirreno e dallo Ionio, essendo quello dell’Adriatico, di poca entità». Ma nel dar conto di sentimenti e attitudini degli ambienti marittimi che il questore – che sembrava del re60. Ibid., Gratitudine al Duce per il nuovo assetto armatoriale, in «Il Piccolo di Trieste», 31 maggio 1936. 61. Ibid., La funzione imperiale di Trieste e la riorganizzazione del Lloyd Triestino, in «Il Piccolo di Trieste», 29 maggio 1936. Il giornale sloveno «Sloveneć» ribadiva le considerazioni in modo più esplicito: «Il Lloyd deve sacrificare linee importanti e fruttuose che aveva sinora fornite con l’Egitto, Palestina e Mar Egeo e Mar Nero. Queste linee vengono ora in favore della nuova società “Compagnia Adriatica” ed avrà Trieste soltanto sede succursale […] Similmente dolorosa è pure la perdita della nota società “Cosulich” […] Così scomparirà dalla navigazione il noto nome croato che ha dato tanti intelligenti imprenditori e capitani» (ibid., Riorganizzazione della navigazione italiana, in «Sloveneć», 30 maggio 1936, traduzione dattiloscritta).

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sto non parlare da triestino – si mostrava addirittura malevolo, suggerendo pratiche di malversazioni e corruzione a tutti i livelli: egli motivava infatti il «doloroso turbamento» negli ambienti della Cosulich con il timore da parte di dirigenti e impiegati «di venire sostituiti con elementi genovesi, o, quanto meno, di essere destinati in altre sedi, il che sarebbe loro sgraditissimo, non solo per il noto campanilismo dei triestini, ma specialmente perché, altrove, avrebbero minori possibilità di conseguire illeciti guadagni alle spalle della Società, essendo qui molti di essi legati, tra loro, oltre che da vincoli di parentela, da consuetudinari rapporti d’affari non sempre corretti». Inoltre, È da rilevare pure che nei lavori di riparazione e in quelli di manutenzione fatti qui, una larga percentuale di utili e di prebende va a finire nelle tasche della pleiade di dirigenti e ispettori della “Cosulich”, alcuni dei quali sono anche interessati in ditte appaltatrici dei lavori medesimi , in maniera che una riparazione effettiva di poche migliaia di lire viene conteggiata alla Società per una somma di gran lunga superiore […] Gli appartenenti alla “Cosulich”, abili nel loro equilibrismo politico, si guardano bene dall’esternare critiche al Governo o al Regime: essi si limitano a dichiarare che Trieste è vittima dell’invadenza dei Genovesi e che la Città di Trieste, per effetto dell’assorbimento, subirà molti danni, per la conseguente diminuzione delle possibilità di lavoro da parte di tutti coloro i quali vivono, comunque, dalla navigazione e per essa. […] Naturalmente con tali preoccupazioni per il benessere cittadino si mascherano i timori che i propri affari abbiano a soffrire, e che con la caduta di uomini e sistemi venga ad essere spezzata la invisibile e pur esistente catena che lega tanti interessi più o meno confessabili.62

Ancora nel luglio, le sedute consecutive di tre sezioni del Consiglio provinciale dell’economia corporativa (della marittima, presieduta da Cosulich, dell’industriale, in cui erano presenti Bonazzi e Coceani, e della commerciale, in cui era presente Moscheni) dedicate alla riorganizzazione dei servizi marittimi, concordavano nell’approvare ritualmente l’assegnazione della funzione “imperiale” a Trieste, ma soprattutto chiedevano, con grande consonanza, il mantenimento delle posizioni acquisite, in particolare per i servizi con il Levante, le sedi di armamento e l’impiego di maestranze locali, al fine di assicurare a Trieste la «necessaria autonomia nel trattamento degli affari e la giurisdizione su tutto il lavoro del retroterra estero triestino», e la continuazione della «difesa dei traffici triestini attraverso le organizzazioni esistenti o da istituire, ed allo scopo di coordinarle sia costituito un fronte unico adriatico nei confronti della concorrenza estera».63 La precisione e l’entità delle richieste dava conto della grande portata degli interessi coinvolti, e della profondità della preoccupazione nutrita dai gruppi di interesse: le rassicurazioni richieste circa il mantenimento dell’«attuale posizione di prevalenza di Trieste acquisita con la sua perfetta attrezzatura e con lunghi decenni di assiduo lavoro del suo ceto commerciale» riguardavano i servizi col Levante e con le Americhe, mentre per l’Africa Orientale si chiedeva fossero «congruamente sviluppate anche le comunicazioni con Trieste»: a conferma della giustezza delle rilevazioni segnalate dalla questura.64 Di particolare interesse per il 62. Ibid., Regia questura di Trieste a prefetto, Pro-memoria. Impressioni negli ambienti armatoriali e marittimi locali per il nuovo assetto della Marina Mercantile, 1° giugno 1936. 63. Ibid., dattiloscritto Verbale della seduta della sezione marittima, 16 luglio 1936, p. 2. 64. Ibid., dattiloscritto Verbale della riunione della sezione commerciale, 21 luglio 1936, p. 2.

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nostro tema risulta essere la larga convergenza delle richieste avanzate dalla sezione industriale, che in larga parte coincidono con quelle della sezione marittima: l’industriale votava infatti la stessa mozione approvata dalla marittima, solo aggiungendo alcune precisazioni relative ai cantieri navali e alle officine meccaniche, chiedendo che «vengano riservate ai cantieri e alle officine meccaniche della Provincia le riparazioni, i lavori di manutenzione, di trasformazione e di doccaggio delle navi che faranno scalo di partenza o scalo di approdo nel porto di Trieste [e] che nella costruzione di nuove navi per il Lloyd triestino, la Società “Italia” e la Società “Adriatica” sia riservata ai cantieri della regione una quota proporzionata come in passato». 65 Qualche giorno prima dell’emanazione del decreto sul riordino dei servizi marittimi, il «Piccolo» usciva con un ultimo tentativo di esporre il punto di vista armatoriale triestino sul riassetto e la «trepida attesa» per le decisioni del Consiglio dei ministri, anche se «la parte riguardante Trieste la conosciamo a memoria, e con noi le trentamila famiglie che vivono sulle complesse attività della nostra Marina». Si esprimeva non solo rammarico per la perdita delle linee con il Levante, ma anche ostilità verso Napoli, che appoggiato dal «Corriere della Sera» si riteneva stesse cercando di ottenere alcuni servizi riservati a Trieste: «se i servizi “tradizionali” della Marina triestina vengono trasferiti a Venezia e i servizi nuovi “imperiali” a Napoli, quali servizi restano a Trieste?».66 Il sentimento veniva reso esplicito il 4 dicembre dal giornale jugoslavo «Jutro», che riprendeva l’articolo del «Piccolo» sottolineando le «modeste funzioni» riservate alla base triestina, ricordando che ormai le navi triestine navigavano solo grazie alle sovvenzioni. «Purtroppo si deve affermare che moltissimi italiani hanno perduto, dopo la fase dei romanticismi irredentistici a guerra finita, il sentimento per i bisogni triestini, oppure non l’hanno mai avuto».67 Trieste, porto di transito. Dalla Mitteleuropa al Nuovo Ordine Europeo L’impossibile ricerca di una continuità “mitteleuropea” nelle prospettive economiche triestine si era esercitata soprattutto intorno alla riproposizione della funzione di transito del porto giuliano, imperniata sulla tessitura di rapporti commerciali in grado di ricostituire la trama di relazioni “asburgiche” con un’Europa centrale e un Levante frammentati ormai in entità statuali autonome e tendenzialmente chiuse. Da questo punto di vista, l’ottimismo che spirava dai documenti del 1940, con il tentativo di prospettare l’ipotesi dell’inserimento organico del porto giuliano nell’orbita economica tedesca come un fatto positivo e promettente, rivelava in realtà lo sforzo di volgere in positivo la crescente preoccupazione per l’andamento del commercio, che si era fatta sempre più assillante in relazione all’aggressiva espansione tedesca e poi allo scoppio della guerra. Il tratto distintivo, infatti, che segnava una reale continuità nelle relazioni commerciali di Trieste “porto di transito” era l’aspra concorrenza che opponeva lo scalo giuliano alla forza di attrazione esercitata dalle città ansea65. Ibid., dattiloscritto Verbale della seduta della sezione industriale, 23 luglio 1936, p. 2. 66. Ibid., E Trieste?, «Il Piccolo di Trieste», s.d. ma prob. 1 o 2 dicembre 1936. 67. Ibid., traduzione dattiloscritta.

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tiche, Amburgo in primo luogo.68 Era una concorrenza che costituiva un tratto di lungo periodo della collocazione strategica di Trieste nei traffici centro-europei risalente ai decenni prebellici, ma che si era esacerbata in modo stringente e drammatico negli anni successivi alla grande crisi. Ad attenuare gli effetti della quale erano state adottate politiche commerciali finalizzate alla protezione delle economie nazionali e al contrasto della concorrenza straniera, con misure che prevedevano lo stretto controllo dei cambi esteri da parte governativa e l’innalzamento dei dazi di importazione, restrizioni e financo divieti delle importazioni che comportavano una severa contrazione degli scambi, fino a determinare una generalizzata dis-integrazione dell’economia europea e mondiale.69 Gli anni dal 1930 al 1933, e in particolare il 1932, costituirono il punto più basso dei traffici triestini, che si avvicinava ai dati dell’immediato primo dopoguerra e polverizzava gli effetti della paziente e lenta tessitura di rapporti grazie ai quali durante il primo decennio postbellico era stato costantemente incrementato il valore del traffico ferroviario e marittimo del porto giuliano.70 La crisi portuale Il punto di osservazione più adeguato per cogliere l’entità della contrazione dei traffici triestini in seguito alla crisi economica è la documentazione prodotta dall’Azienda dei Magazzini Generali, l’ente parastatale costituito nel 1925 con attribuzioni di sovrintendenza ai flussi commerciali e manutenzione delle strutture portuali – attribuzioni ereditate dall’organismo esistente in periodo asburgico, e paragonabili a quelle svolte dai Provveditorati al porto del Regno.71 La crisi dell’economia portuale triestina si leggeva innanzi tutto nella diffusa disoccupazione fra i lavoratori del porto. La presidenza dei Magazzini Generali informava ad esempio il prefetto circa i criteri adottati nella distribuzione del lavoro e della turnazione fra il personale giornaliero, «pesatori, braccianti, meccanici» allo scopo di «lenire la persistente sua forzata disoccupazione»: «Com’è indubbiamente noto all’E.V. la crisi nel traffico portuale si è acuita in questi ultimi mesi a tal punto da costringere l’Azienda non solo a sospendere qualsiasi sistemazione in ruolo o nuova assunzione di personale, a meno che non si tratti di assunzioni a completamento del numero dei mutilati ed invalidi di guerra fissato in legge, ma di licenziare anche una parte, la meno produttiva, di quello esistente».72 E anco68. Vedi in sintesi G. Mellinato, Il porto e il sistema economico triestino, in L’evoluzione delle strutture portuali della Trieste moderna tra ’800 e ’900, pp. 21-43. 69. Cfr. S. Pollard, Storia economica del Novecento, Bologna 1999, pp. 111-157. 70. Cfr. Roletto, Il porto di Trieste, p. 88. 71. L’Ente dei Magazzini Generali era stato istituito con il Rdl 3 settembre 19256, n. 1789; in base all’art. 3 il capitale per l’esercizio dei Magazzini era di lire 5.000.000, costituito da 5.000 quote di lire 1.000 ciascuna, versate e ripartite fra i seguenti Enti e associazioni: Provincia di Trieste, Provincia di Pola, Provincia di Udine, Comune di Trieste, Camera di Commercio di Trieste, Federazione armatori della Venezia Giulia, Federazione di commercio della Venezia Giulia, Federazione industriali della Venezia Giulia, Associazione triestina fra gli spedizionieri. Il capitale versato ha avuto funzione di capitale di garanzia; per le spese di esercizio si è fatto ricorso a finanziamenti statali. Cfr. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 272/1934, Appunti sul capitale dell’Azienda [23-11-1934]. 72. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 193/1930, Lettera della Presidenza Magazzini Generali di

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ra, consistenti licenziamenti si prospettavano per i guardiani del Magazzini, che invocavano considerazione per le loro benemerenze presso il prefetto.73 A questo stato di sofferenza si aggiungevano le misure di riduzione degli stipendi e dei salari del personale dei Magazzini generali disposte nell’ordine del 20% dal commissario preposto all’azienda, Armando Gaeta.74 Le limitazioni economiche, come spiegava lo stesso Gaeta, che dovevano correggere «l’ingiustificata larghezza di trattamento verso tutto il personale dell’Azienda», erano l’effetto di misure restrittive richieste dal Ministero competente come condizione per accordare finanziamenti: «la Direzione generale del Tesoro ebbe anzi a dichiarare che fino a quando non si fosse provveduto alla realizzazione di economie sul personale non sarebbe ritornato sulla preannunciata decisione riguardante l’assottigliamento annuo fino all’annullamento del contributo finanziario che esso Ministero elargisce all’Azienda; e non ultima ragione dell’avvenuto scioglimento dell’Amministrazione ordinaria e della nomina di un Commissario Regio nella mia persona fu appunto la necessità di provvedimento a riguardo»:75 cui Gaeta aveva ottemperato procedendo anche al licenziamento dei dipendenti non iscritti al partito e dei non combattenti. I finanziamenti pubblici costituivano, nei fatti, la fonte fondamentale di sussistenza dell’azienda. Alla richiesta avanzata nel 1930 dall’azienda dei Magazzini Generali al ministro dell’Interno perché fosse mantenuta la sovvenzione annua di cinque milioni di lire stabilita per cinque anni dalla convenzione finanziaria del 1925, erano stati opposti tuttavia «ripetuti dinieghi», e le sovvenzioni ridotte «in via eccezionale» a quattro milioni che rappresentavano, «nelle attuali condizioni di bilancio», «lo sforzo massimo consentibile»;76 era stata poi disposta la progressiva riduzione del contriTrieste a Prefetto E. Porro, 10 marzo 1930, Oggetto: Pesatori avventizi – Sistemazione. Il prefetto aveva inviato una richiesta di informazioni allo scopo di conoscere la situazione dei pesatori avventizi, dopo che un gruppo di questi ultimi si era rivolto, a titolo personale, al prefetto perché influisse sulla direzione dell’Ente «onde sistemare questa categoria di lavoratori in modo da assicurare loro il lavoro necessario per il sostentamento» (ibid., Lettera firmata di n. 26 pesatori avventizi a Prefetto E. Porro, Trieste, gennaio 1930). 73. Ibid., Lettera di n. 7 guardiani capiturno a Prefetto Porro, Trieste, 5 maggio 1930. Il Capo di Gabinetto del Ministero dell’Interno confermava tuttavia la disposizione di licenziamento, considerando tuttavia la possibilità di assumerne una quota nella costituenda Milizia portuaria (ibid., Ministero dell’Interno, Gabinetto, a Prefetto di Trieste, 17 giugno 1930, Oggetto: Trieste – Guardiani dei Magazzini Generali). 74. In realtà le riduzioni stipendiali si sarebbero applicate, dopo una concertazione svolta nella sede della prefettura fra i rappresentanti delle parti interessate (il Commissario Gaeta, il Direttore generale Suppani, il Segretario Federale Perusino, il fiduciario aziendale Petracco) in misura minore e progressiva, da un minimo dell’1% per gli stipendi più bassi, a un massimo del 12% per gli stipendi più alti (AST, Prefettura, Gabinetto, busta 240/1933, Verbale assunto l’anno 1933 il 3 giugno nella sede della R. Prefettura di Trieste). Perusino aveva fatto pressioni perché non solo si evitassero riduzioni di stipendio, ma si stabilizzasse la condizioni di tutto il personale dell’azienda (ibid., Lettera del Segretario Federale Carlo Perusino al R. Commissario dei Magazzini Generali di Trieste, 27 maggio 1933) 75. Ibid., Riservatissima del R. Commissario Gaeta a PNF, Associazione Fascista del Pubblico Impiego, Roma, 22 maggio 1933, n. 2495, pp. 1-2. 76. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 193/1930, Estratto della lettera del Ministero dell’Interno [a Prefetto] del 13 dicembre 1930, n. 1531. Oggetto: Speciali provvidenze invocate a favore di Trieste. Significativamente, la richiesta era stata motivata con la necessità di «perseverare nella politica tariffaria iniziata in concorrenza con il porto di Amburgo e altri porti stranieri».

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buto, nella stessa misura, fino alla sua cessazione dopo il 1935. Ma a quel punto lo stesso commissario Gaeta riteneva di dover rivendicare la congruità del lavoro svolto, dichiarando di aver operato una riduzione del personale e una più che proporzionale riduzione delle spese, pur «perdurando l’anormalità del periodo che si attraversa».77 Osservando che «tutte le economie raggiungibili sono state ottenute ed ulteriori tentativi potranno solo dare risultati inadeguati con pericolo per la buona organizzazione dei servizi ed il buon nome di cui specie all’Estero godono i Magazzini Generali di Trieste», Gaeta di fatto assumeva il punto di vista del sistema dell’economia marittima triestina, dove la continuità della funzione economica del porto giuliano rispetto al periodo asburgico costituiva l’orizzonte strategico dominante. A causa, infatti, della battaglia tariffaria interportuale dovuta alla specifica congiuntura economica, alla recrudescenza della «secolare lotta» fra Trieste e Amburgo, cui si era di recente aggiunta la concorrenza del nuovo porto di Gdynia, apertamente sostenuto dal governo polacco, e della via fluviale danubiana, fortemente migliorata nell’organizzazione dei servizi, «insieme con i Magazzini Generali, l’Armamento, i lavoratori portuali, gli agenti marittimi, le Assicurazioni e infine tutto il mondo marittimo-commerciale triestino, anche l’Erario e soprattutto le Ferrovie dello Stato sono stati vulnerati nei loro interessi, che non sono trascurabili». L’obiettivo fondamentale di far fronte alla concorrenza estera, «il mio travaglio quotidiano e la mèta fondamentale del mio lavoro», doveva essere allora sostenuto da mezzi adeguati, ossia da sovvenzioni statali: Ora quando si pensi che nell’anteguerra con un Impero vasto e potente alle spalle e regioni in piena prosperità industriale, che costituivano un hinterland ricco e di assoluta sicurezza, il porto di Trieste poté vivere e prosperare, raggiungendo quel grado di importanza che lo poneva nel Mediterraneo al 3° posto, subito dopo cioè Genova e Marsiglia, solo per effetto della protezione statale, quando si pensi ciò, si dovrà necessariamente inferire che l’aiuto dello Stato – oggi in cui le condizioni sono tanto, ma tanto diverse – rappresenta, come affermavo, una assoluta necessità.78

L’argomento “politico” con cui veniva sostenuta l’«assoluta necessità» delle sovvenzioni pubbliche non era soltanto il bisogno di non disperdere la «ricchezza nazionale» costituita dalla «potenza di attrazione del porto giuliano», bensì l’opportunità di fare in modo che «non abbia parvenza di fondamento la trista [e balorda] profezia – che non è solo del periodo di guerra – che l’unione del porto di Trieste all’Italia avrebbe segnato l’ora della sua decadenza e abbandono».79 Che la “redenzione” di Trieste non fosse stata un pessimo affare, dunque, era ancora tutto da dimostrare: e l’inciso ci suggerisce che molti, a quel punto, ne dubitavano. Ma l’argomento principale utilizzato da Gaeta chiamava in causa invece «il concetto superiore della Giusti77. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 307/1935, Relazione del R. Commissario A. Gaeta a Ministero delle Comunicazioni, Direzione Generale della Marina Mercantile, Trieste, 20 gennaio 1934, Oggetto: Contributo statale, p. 2. Il personale era stato ridotto del 15,6% (da 838 a 707 dipendenti), mentre la spesa annuale complessiva è stata ridotta del 26,1%. Fra il personale dipendente, la maggiore riduzione aveva interessato gli impiegati, passati da 436 a 343, rispetto agli operai, passati da 402 a 364 (ibid., Allegato A), Relazione sulla riduzione delle spese dei Magazzini Generali per il personale dipendente durante la gestione commissariale. 78. Ibid., pp. 8, 5. 79. Ibid., p. 15. L’aggettivo fra parentesi quadra è aggiunto a penna.

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zia ripartitiva», ossia il confronto con il trattamento riservato agli altri porti italiani, in particolare i porti altoadriatici, Venezia e Fiume, cercando di dimostrare che «l’Erario è verso l’Azienda dei Magazzini Generali di Trieste di gran lunga più severo di quello che lo sia verso le altre similari». Inoltre, Trieste ha solo la sua posizione di lotta, il suo posto di trincea […]Venezia è poi il più fortunato di tutti i porti d’Italia perché è quello che ha maggiore potenzialità d’accrescimento. Il suo hinterland è felicissimo […] con una pianura che rappresenta l’ideale pel traffico camionistico che è quello del domani ; appena all’inizio del suo sviluppo industriale […] con ricchezze meravigliose di carbone bianco; con un corso d’acqua oggi navigabile fino a Pavia […]; senza porti concorrenti o sussidiari vicini […] con un porto che dal punto di vista costruttivo e nautico è il più sicuro, il più moderno d’Italia ed ha possibilità di sviluppo praticamente illimitate; con una nuova congiunzione alla terraferma che ha già dato i suoi frutti e ancora più li darà avvenire – Venezia ha tutte le condizioni perché le resti assicurato nei secoli l’antico suo privilegio di regina dell’Adriatico.80

E ancora, sempre con le parole del commissario Gaeta – che peraltro, prima di giungere a Trieste, era stato funzionario proprio del Provveditorato al porto di Venezia – occorreva rilevare come anche il traffico ferroviario del porto di Trieste avesse subito una perdita maggiore rispetto a quella registrata nel porto di Venezia: Ciò è dovuto essenzialmente al fatto che Venezia, partecipando ai traffici internazionali soltanto in minima misura, ha potuto difendere meglio le sue posizioni grazie alla maggiore resistenza che l’economia nazionale ha opposto e oppone tuttora alla persistente crisi economica, nonché al crescente sviluppo del porto industriale di Marghera (petrolio, benzina, olii minerali e residui, materiali metallici, metalli greggi, piriti e ceneri di pirite, fertilizzanti ecc.) e l’allargamento del retroterra verso la Lombardia. Il porto di Trieste, invece, su cui s’appoggiano in assoluta prevalenza traffici provenienti e diretti all’estero, ha dovuto subìre in pieno la ripercussione sfavorevole delle difficilissime condizioni economiche e politiche dei vari Stati danubiani che formano il suo retroterra estero.81

Vedremo più avanti quanto la tensione fra il porto giuliano e quello lagunare formasse il tessuto conflittuale su cui si reggeva a fatica un sistema portuale sovradimensionato e internamente gerarchizzato come quello altoadriatico. Per ora interessa osservare come il confronto fra Trieste e Venezia fornisse argomenti per evidenziare la differenza fra la funzione dei porti nazionali e la “speciale” funzione dello scalo giuliano, l’unico ad avere carattere internazionale: ossia, ancora, Trieste, porto di transito, e in quanto tale, particolarmente colpito dalla depressione economica e dal crollo dei traffici e bisognoso di sovvenzioni, ma anche fortemente esposto alle diverse congiunture delle relazioni internazionali. Lobbying, politiche commerciali, politica estera Per assicurare la continuità della funzione “mitteleuropea” del porto giuliano, oltre alla precoce richiesta di sostegno finanziario da parte dello Stato, è stata costante80. Ibid., pp. 10-11. 81. Ibid., busta 240/1933, Magazzini Generali di Trieste, n. I/662/33/XI, Movimento ferroviario nei porti di Venezia e Trieste nell’anno 1932/X, p. 3.

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mente dispiegata una attenta ricerca dei mezzi più appropriati per mantenere e sviluppare le relazioni commerciali con l’area centroeuropea e danubiana. Fin dal 1925, ad esempio, era stata installata un’agenzia a Praga per controllare e promuovere il traffico con la Cecoslovacchia. L’agenzia, che godeva del concorso del Consiglio provinciale dell’economia corporativa di Trieste e dell’appoggio di Arnoldo Frigessi di Rattalma e della Ras, operava attraverso contatti diretti sul territorio e si occupava soprattutto di dirimere i problemi nati in relazione ai trasporti e alle tariffe ferroviarie e di contrastare la concorrenza dei porti di Gdynia e di Sussak; si sarebbe poi sciolta nel 1939 in seguito allo smembramento della Cecoslovacchia, e assorbita dal Comitato triestino dei traffici presieduto da Cosulich.82 Ma le iniziative erano svariate. Nell’aprile 1933 l’avvocato Felice Venezian, esponente principale di quello che era stato il partito liberal-nazionale, chiedeva un colloquio al prefetto Carlo Tiengo per informarlo delle trattative in corso a Roma presso il Ministero delle Corporazioni e la Banca Nazionale del Lavoro circa un progetto di rilancio della funzione commerciale di Trieste che aveva «suscitato molto interesse», «specie nell’attuale momento di crisi dei traffici internazionali», e la cui formulazione era stata sollecitata da Alberto Asquini, allora sottosegretario del Ministero delle Corporazioni.83 Il memoriale muoveva dalla sottolineatura della particolare posizione geografica di Trieste, che a differenza degli altri porti italiani (Genova e Napoli, Venezia e Bari), ma analogamente ai grandi porti nordici (Amburgo, Amsterdam, Anversa), ne definiva la vocazione internazionale e la specificità nel complesso del sistema portuale e dell’economia nazionale: «Quasi il 60% dei traffici triestini è costituito da merci di transito, mentre tale percentuale risulta per Genova e Venezia del 2% e per Napoli e Bari assolutamente trascurabile […] Trieste non è lo sbocco esclusivo di prodotti nazionali o il porto di rifornimento di materie grezze o prodotti esteri che servono all’economia nazionale, ma bensì il centro di smistamento di svariatissimi paesi: l’unico grande porto di transito che il Regno possegga». Intento di Venezian era quello di porre in rilievo «quale preziosa attività – spesso misconosciuta un fiorente porto di transito rappresenti per la nazione»: proprio la sua peculiare funzione economica rendeva dunque difficile la comprensione dei proventi che era in grado di procurare, così come dei bisogni di cui necessitava, da parte del mondo politico. Per mostrare come un porto di transito possa rappresentare una voce attiva nella bilancia commerciale, Venezian ricorreva allora al paragone che più gli sembrava perspicuo, quello del turismo. Nel porto di transito […] i noli ferroviari e marittimi, i premi di assicurazioni, le spese di piazza, le mediazioni, gli utili dei commercianti rappresentano nel loro insieme un tributo dell’estero all’economia nazionale; dal punto di vista della bilancia dei pagamenti il porto di transito è un attivo importantissimo. Come nel turismo i milioni di stranieri che 82. Ibid., busta 395/1939, Associazione triestina per il traffico ceco-slovacco, Lettera all’Onorevole Ministero delle Corporazioni, Ufficio generale del Commercio, Trieste 2 marzo 1933; Id., Relazione sull’attività svolta nel 1935, firmato Arnoldo Frigessi di Rattalma; Id., Lettera a S.E. il prefetto sen. Eolo Rebua, Trieste, 1° giugno 1939. 83. AST, Prefettura, Gabinetto, Busta 240/1933, Lettere di Felice Venezian al prefetto Carlo Tiengo, 1 aprile e 6 marzo 1933. Su Alberto Asquini, giurista, consigliere nazionale, sottosegretario al Ministero delle Corporazioni fra il 1932 e il 1935, poi aderente alla RSI, vedi B. Coceani, Ricordo di Alberto Asquini, in «La porta orientale», n.s., VIII (1972), p. 193.

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visitano la penisola, sono una fonte di notevoli guadagni e di affluenza di valute estere, così le centinaia di migliaia di tonnellate che per il porto transitano e vi sostano, rappresentano moltiplicate, milioni di lire che vanno annoverati fra i cespiti che in economia si dicono “esportazioni invisibili”.84

L’interesse commerciale di Trieste era dunque «interesse nazionale», ma la città stava attraversando «tempi tristi» a causa dell’irrigidimento degli scambi commerciali internazionali: «nel momento attuale […] divieti d’importazione, contingentamenti, restrizioni d’ogni specie sugli scambi e sui movimenti di valuta [inceppano e strozzano] i traffici internazionali e specialmente quelli che su Trieste gravitano. […] Il commercio internazionale, che per potersi attuare deve muoversi in un piano ove le linee, che rappresentano correnti di traffico, s’intersecano, percorrendolo in tutti i sensi, venne così costretto a muoversi in una dimensione sola, lineare, limitata ai paesi, apparigliati a due a due».85 Venezian si riferiva alla diffusione di accordi commerciali bilaterali finalizzati ad impedire l’uscita di valute pregiate, stipulati tra Stati che deliberavano una quota reciproca di import-export per un prezzo uguale, in conseguenza al crollo del sistema finanziario internazionale seguito alla grande crisi economica. Si trattava del sistema di clearing, introdotto a partire dal 1931, che regolava le transazioni senza prevedere l’utilizzo di valuta. A questo scopo gli importatori (debitori) di un paese pagavano il corrispettivo in valore monetario della merce importata non agli esportatori (creditori) dell’altra nazione, ma alla Cassa speciale in genere costituita presso la propria Banca Centrale di emissione. I versamenti degli importatori venivano utilizzati per regolare i conti degli esportatori dello stesso Paese, con il vincolo di equilibrare i crediti reciproci appunto per evitare di scambiare merci contro valuta. Un tale – e complesso – sistema tendente ad una chiusa bilateralità si risolveva naturalmente in una forte penalizzazione di economie che prosperavano sulla multilateralità dei traffici, come sottolineava il notabile triestino: Trieste è presa in mezzo ai clearing e ne risente le conseguenze, perché in una economia basata su clearing, Trieste non trova più posto. Per il momento e purtroppo per molto tempo ancora la prima e più assillante cura dei paesi della media Europa e balcanici è quella di impedire il crollo della moneta, costringendola entro i propri confini, impedendone l’uscita, perciò strozzando il commercio d’importazione, perché così si evita l’esodo delle ormai depauperate scorte di valute pregiate.86

Il mezzo proposto era la costituzione di un nuovo organismo, che consentisse agli operatori economici di agire in deroga all’obbligo di versare il corrispettivo monetario delle merci presso la Cassa centrale, e che potesse grazie a mezzi propri sostenere economicamente gli scambi attraverso il porto di Trieste. Il nuovo ente, che doveva trarre «i metodi da quelli dell’iniziativa privata», ma «nel contempo svolgere la sua attività con la giusta visione degli interessi superiori» ed essere «amministrato da persone d’indiscussa e provata fede politica e diretto da persone dotate della necessa84. AST, Prefettura, Gabinetto, Busta 240/1933, memoriale dattiloscritto allegato alle lettere di Venezian al prefetto, p. 2. 85. Ibid., p. 5. 86. Ibid., p. 6.

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ria competenza commerciale», si sarebbe configurato come una sorta di cassa di ammortamento locale: [Il nuovo istituto] si assumerebbe il compito di finanziatore delle merci affluenti a Trieste, e di stanza di compensazione per gli scambi di merci contro merci, fra paese e paese […] Riepilogando consisterebbe nell’approfittare della sua potenzialità finanziaria per attrarre con condizioni favorevoli di finanziamento e di rapido smercio i prodotti del Levante e della media Europa che ora in buona parte si sono avviati per altri porti esteri, i quali pur in posizione geografica meno favorevole, possono offrire maggiori facilità di smercio e maggior facilità di finanziamento che non Trieste indebolita commercialmente e stremata finanziariamente.87

Il nuovo ente, con propria personalità giuridica, sarebbe denominato Istituto autonomo dei traffici triestini, il cui capitale (la cifra è lasciata in bianco) «dovrebbe venire sottoscritto per una parte da tutti gli Istituti interessati al commercio di Trieste (banche, compagnie di navigazione, speditori, ecc. ecc.) e per la maggior parte dalla Banca Nazionale del Lavoro che essendo un istituto controllato dallo stato più di ogni altro potrà dare le direttive di pubblica utilità all’ente in questione».88 La proposta si inseriva in una campagna stampa del «Piccolo» che a fronte della sottolineatura delle difficoltà economiche attraversate dal porto, trattava il tema del rilancio commerciale della città con una serie di articoli dal titolo Trieste porto di transito – significativamente, tutti conservati fra le carte di prefettura – che monitoravano attentamente l’andamento dei traffici, e segnalavano ogni possibile spiraglio di ripresa. La posizione del principale quotidiano cittadino era quella di sostenere l’«immutata importanza» dello scalo giuliano come centro internazionale di traffici, nonostante l’entità notevole della contrazione degli scambi nel passato anno 1932:89 e così di segnalavano nuove «possibilità per Trieste» correnti commerciali verso la Persia,90 come anche si evidenziava l’importanza crescente della quota di cotone americano nel traffici dello scalo giuliano, che suggeriva «la speranza che il transito del cotone a Trieste possa risorgere, riassumendo con l’incremento degli arrivi del cotone americano le stesse proporzioni assolute cui era giunto nell’anteguerra grazie ai cotoni indiani».91 Era dunque sempre alla prosperità tardo asburgica che le condizioni e le prospettive economiche del porto giuliano venivano commisurate, in particolare durante le trattative commerciali con Ungheria e Austria allora avviate a Roma, che il quotidiano cittadino augurava avessero esito favorevole grazie all’operato 87. Ibid., pp. 4-7. 88. Ibidem. L’ultima frase è sottolineata nell’originale. Fra i compiti dell’Istituto Venezian enumerava: «Concedere anticipazioni e sovvenzioni su merci, su fedi di deposito e su altri documenti rappresentanti la merce (polizze di carico, lettere di vettura ecc; Scontare e riscontare note di pegno riferentisi a merci in deposito nei magazzini generali di Trieste o presso speditori autorizzati dal Consiglio; Ricevere merci in deposito, custodia e amministrazione; […] Effettuare scambi di merci e fare le necessarie operazioni di compra e vendita» (p. 12). 89. Ibid., La funzione commerciale di Trieste inalterata malgrado la crisi, in «Il Piccolo di Trieste», 16 maggio 1933. 90. Ibid., La penetrazione economica italiana in Persia. Possibilità per Trieste, in «Il Piccolo di Trieste», 19 luglio 1933. 91. Ibid., Trieste e i cotoni americani, in «Il Piccolo di Trieste» , 19 luglio 1933.

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dei due uomini politici giuliani Suvich e Asquini alla testa dei ministeri competenti (Esteri e Corporazioni), per ripristinare le «antiche consuetudini commerciali» dei paesi del cessato impero verso Trieste. In fondo, «il diritto degli Stati ex austriaci ad avere uno sbocco negli organizzati porti dell’Impero attribuiti all’Italia – Trieste e Fiume è stato sancito dai trattati di pace e dai trattati economici e politici conclusi nel dopoguerra e registrati alla Società delle Nazioni», e per Trieste per contro «il transito è la prosperità ed il compimento della sua funzione economica e politica: la mancanza del traffico di transito è perdita di ogni proficua attività e di ogni valore economico e politico».92 Alla fine dell’anno 1933 veniva avanzata, negli stessi termini formulati da Venezian, l’ipotesi una «stanza di compensazione» per aggirare il sistema dei clearings e garantire l’avvenire del porto: La realtà, ridotta alle più semplici espressioni, è che da quando si sono moltiplicati gli accordi bilaterali di compensazione (“clearings”), il commerciante triestino non può più comperare da un Paese per vendere ad un altro, perché gli Stati barattano direttamente fra loro col sistema bilanciato. […] Posto che non si sfugga alla morsa dei “clearings”, Trieste vorrebbe, cioè, bilanciare, con apposito organismo, le varie correnti commerciali estere che sempre affluiscono nel nostro porto, quale punto obbligato di transito. […] Ma non è il caso di studiare qui nei dettagli il funzionamento di questo organismo; ciò che ci preme di affermare è la sua indubbia utilità per lo sveltimento dei traffici esteri e l’urgente bisogno, unanimemente sentito, di ridonare a Trieste – sia pure con sistemi nuovi – la sua funzione commerciale.93

Anche gli argomenti utilizzati per sostenere la proposta erano significativi sia della profondità del malessere dell’economia triestina dovuto alle difficoltà di integrazione in un sistema nazionale colpito dalla depressione economica, sia della centralità attribuita dai settori forti della vita economica triestina alla dimensione commerciale. Non a caso, riecheggiavano da vicino il testo del memoriale del notabile liberalnazionale: Dovrebbe essere altrettanto acquisito – e non lo è per tutti – che un porto di transito costituisce comunque una attività nella bilancia economica nazionale. Le entrate relative alla sosta delle merci in transito vengono paragonate e sono infatti identiche alle entrate turistiche […] Sono, o dovrebbero essere, cose risapute che i noli marittimi, le assicurazioni, le esportazioni di piazza, le mediazioni costituiscono nulla di meno che un’entrata effettiva per l’economia nazionale».94

In questa formulazione, l’inciso dava la misura dell’isolamento di Trieste nella cultura economica nazionale, e della difficoltà a far passare l’assioma, tuttavia cruciale nella retorica del discorso politico, per cui l’interesse economico del porto giuliano si identificava tout court nell’interesse nazionale. Ma l’Istituto autonomo dei traffici triestini non sarebbe sorto, così come non aveva avuto seguito la richiesta di ripristino delle “refazie” su cui sempre nell’anno 1933, il più duro per il porto dall’i92. Ibid., Trieste porto di transito, in «Il Piccolo di Trieste», 6 agosto 1933. L’articolo era originato dalla possibilità di un aumento dell’importazione del grano ungherese. 93. Ibid., Trieste porto di transito e le esigenze dell’attuale momento economico, in «Il Piccolo di Trieste», 13 dicembre 1933. 94. Ibidem.

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nizio della depressione, aveva insistito presso il governo Antonio Cosulich. Con “refazie” si utilizzava, significativamente, il termine con cui in periodo asburgico si designavano i ristorni a favore del porto, dei magazzini generali, delle linee di navigazione, con cui l’Impero compensava i maggiori costi del transito delle merci attraverso l’emporio di Trieste. Si trattava, in altri termini, della disposizione di provvigioni attraverso le quali si consentiva agli operatori del porto giuliano di rientrare dai minori guadagni realizzati per mantenere competitivi i costi del transito. Era infatti la competizione con i concorrenti stranieri la motivazione per la richiesta delle refazie, che nel contesto economico dei primi anni Trenta, dove sia i Magazzini generali sia le linee di navigazione erano divenute di proprietà pubblica, sia pure nella forma di aziende autonome o di società in via di essere acquisite dall’Iri, si traduceva in sostanza nella richiesta di ulteriori sovvenzioni pubbliche, che dovevano assumere la forma “coperta” dei ristorni per non ledere la lettera dei trattati di commercio. La richiesta era stata oggetto di una lunga e accorata trattativa tra gli esponenti degli interessi marittimi giuliani e il centro politico, originata dal progressivo irrigidimento del sistema di traffici con i paesi della media Europa negli accordi bilaterali di clearing, che, soprattutto in una prima fase, aveva comportato restrizioni e contingentamenti negli scambi, e dall’emergere dell’aggressiva presenza tedesca nell’area danubiana, dove andavano migliorando i collegamenti per via fluviale, che consentivano di raggiungere i porti rumeni sul Mar Nero. Allo scopo si era costituito presso il ministero degli Esteri un comitato interministeriale dedicato gli affari adriatici, costituito dai funzionari più alti in grado, e da Moscheni per gli interessi triestini.95 Moscheni si sarebbe fatto tramite delle proposte avanzate dal Consiglio provinciale dell’economia corporativa su impulso di Cosulich, volte ad ottenere da un ribasso dei noli marittimi sulle linee di Trieste, sovvenzionato dallo Stato attraverso appunto il ripristino del sistema di refazie, per compensare dumping ferroviario tedesco che aveva vanificato i precedenti accordi per la suddivisione delle aree di competenza ferroviaria stipulati in precedenza.96 La tesi di Cosulich era quella di sostenere l’opportunità di un forte impegno a favore dei trasporti marittimi, in quanto più attrezzati di quelli ferroviari a contrastare l’aggressiva politica tedesca. Il programma, che sembrava aver avuto buona accoglienza presso il ministro della Marina mercantile Costanzo Ciano, veniva invece bocciato nella riunione interministeriale del 16 ottobre 1933.97 95. Come il generale Ingianni, direttore generale della Marina mercantile, dai direttori generali al ministero degli Esteri Ciancarelli e Guariglia, dal direttore generale del ministero delle Corporazioni per il Commercio Anzillotti (AST, Prefettura, Gabinetto, b. 308/1935, Dr. M[oscheni] no. 384, Comitato interministeriale permanente per gli affari che interessano il traffico adriatico. Rapporto di viaggio 21 e 22 marzo 1932, 23 marzo 1932, pp. 1-3). 96. Ibid., Lettera di Moscheni n. 532 a prefetto, 10 luglio 1933: Moscheni trasmetteva il promemoria presentato da Cosulich a Ciano per le proposte di difesa dei traffici adriatici (refazie), con due allegati. Vedi il precedente in Ivi, Consiglio Provinciale dell’Economia Corporativa di Trieste, Relazione sulla proposta di predisporre un’arma di difesa contro il dumping ferroviario germanico nel retroterra adriatico in forma di riduzione dei noli marittimi da e per Trieste e Fiume, 16 marzo 1933. 97. Ibid., Lettera di Antonio Cosulich a generale Ingianni, Direttore Generale della Marina mercantile, 30 giugno 1934, per riproporre il programma di refazie bocciato nel settembre 1933. Le informazioni sui metodi di dumping tedesco sono fornite da un funzionario ebreo colpito dai primi provvedimenti razziali. Un’avvisaglia della cattiva riuscita era in una lettera confidenziale di Moscheni, con il verbale di

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Figura 5. Mappa della via acquea danubiana, 1935 (fonte: Magazzini Generali di Trieste, Il porto di Trieste nell’era fascista, aspetti economici, Trieste 1935, p. 83)

Ciononostante, sarebbe stato riproposto in più occasioni: «Oggi, a distanza di parecchi mesi, si può constatare che ogni illusione deve essere definitivamente abbandonata e che solo il programma originario di difesa, consistente nel trasportare la lotta dal campo ferroviario a quello marittimo, può sanare la situazione».98 Di fatto, il risultato più concreto delle pressioni triestine presso il centro politico per rivitalizzare la funzione commerciale del porto di transito sarebbe stato la stipula degli accordi commerciali italo-austriaci – i Protocolli di Roma – entrati in vigore il 15 luglio 1934 accompagnati da analoghi accordi italo-ungheresi, con i quali si inuna riunione del comitato interministeriale: «Il comm. Maltese informò sull’opinione prevalente in seno alle FFSS di non dare corso al provvedimento delle refazie finché le trattative con la Germania non fossero definite. Si cercò di convincere il comm. Maltese che con ciò si faceva il gioco della Reichsbahn che quale beata possidente aveva tutto l’interesse di tirare le cose in lungo, avvertendo che la risposta avuta finora è da considerarsi peggio che negativa» (ibid., Dr. Moscheni n. 534, Provvedimenti di difesa contro la concorrenza germanica, Confidenziale. Rapporto di viaggio Roma 7 luglio 1933, p. 2). 98. Ibid., promem. Difesa del traffico adriatico contro la concorrenza dei porti nordici, s.d. e s.a. [ma probabilmente redatto da Cosulich], con una ricostruzione dei precedenti della concorrenza, cenni ai mezzi adottati nel 1933 e alla proposta non approvata il 14 settembre 1933.

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tendeva riattivare il tradizionale canale di traffico fra Vienna e Trieste e far riacquistare al porto adriatico la sua funzione di transito internazionale, strozzata dalla “redenzione”, dalla depressione economica e dal clearing.99 Gli accordi prevedevano, oltre all’apertura per le merci austriache di uno spazio commerciale autonomo, anche l’istituzione di un porto di armamento e di un ufficio doganale austriaco all’interno del porto.100 Il nuovo assetto dei traffici suscitava un clima di ottimismo per le prospettive del porto giuliano. Già dai primi mesi dell’anno venivano comunicati segnali incoraggianti: il traffico portuale, che fra il 1930 e il 1933 si era quasi dimezzato, aveva invertito la tendenza alla discesa e stava cominciando a incrementare;101 tradizionali correnti di traffico, come quello polacco-palestinese, sembravano essere sul punto di «risorgere» dal «declino» conosciuto negli ultimi anni,102 e altre, come quella del rame proveniente dalle miniere centroafricane, presentavano prospettive di rafforzamento.103 Con l’entrata in vigore degli accordi, nell’estate, l’ottimismo sembrava consolidarsi.104 A dar corpo alle aspettative veniva riportato un articolo dell’«autorevole organo della City», che descriveva il contenuto del Protocolli di Roma e il trattamento preferenziale riservato alle merci austriache e le misure adottate per favorire i porti di Trieste e Fiume, sottolineando i danni prodotti dalla politica autarchica degli Stati danubiani, troppo poveri per permettersela, e apprezzando il passo «pratico» fatto dal governo italiano. Nel dattiloscritto della traduzione era sottolineata la frase «Si conta che Trieste possa diventare nuovamente com’era prima della guerra».105 «Il Piccolo», analizzando la composizione dei traffici con l’Egitto, poteva osservare che l’unione del porto giuliano all’Italia non ne aveva mutato la funzione economica di transito per la media Europa, neanche negli anni più duri: «Il porto di Trieste non è divenuto un concorrente degli altri porti italiani ed è rimasto la porta di 99. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 232/1934, Il trattato preferenziale italo-austriaco è entrato in vigore il 15 luglio. «Il Piccolo di Trieste», 17 luglio 1934, che illustrava il contenuto degli accordi e auspicava una loro estensione. 100. Nel «Piccolo di Trieste», 28 luglio 1934, Facilitazioni per i traffici attraverso Trieste. L’Austria istituirà un porto di armamento e un proprio ufficio doganale, viene pubblicato il testo del Rdl che dava esecuzione al patto di Roma italo-austriaco del 14 maggio 1934. 101. La ripresa in marcia. Il porto in piena attività, in «Il Popolo di Trieste», 15 febbraio 1934; I traffici marittimi in promettente ripresa, ibid., 29 marzo 1934; Il deciso miglioramento del nostro traffico portuale, ibid., 13 maggio 1934. 102. Il commercio polacco-palestinese e la funzione di Trieste, in «Il Piccolo di Trieste», 8 marzo 1934. 103. Le importazioni del rame e le funzioni del commercio triestino, in «Il Piccolo di Trieste», 10 luglio 1934. 104. Sintomi confortanti nei traffici dell’emporio, ibid., 14 luglio 1934, che commentava favorevolmente i dati pubblicati dal Consiglio provinciale dell’economia corporativa. E ancora: Il miglioramento del traffico marittimo si accentua, in «Il Popolo di Trieste», 14 agosto 1934; Le possibilità delle esportazioni austriache attraverso il nostro porto, in «Il Piccolo di Trieste», 18 agosto 1934; L’industria austriaca del ferro e le esportazioni attraverso il nostro porto, in «Il Piccolo di Trieste», 28 agosto 1934; Il traffico marittimo di Trieste in aumento, in «Il Popolo di Trieste», 16 settembre 1934. 105. La situazione economica dell’Europa danubiana e la funzione del porto di Trieste. Un articolo del «Times», in «Il Piccolo di Trieste», 20 agosto 1934; AST, Prefettura, Gabinetto, busta 232/1934, L’avvenire di Trieste. Le vie commerciali dell’Austria. Traduzione dattiloscritta di un articolo del «Times», 8 agosto 1934.

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accesso e di sbocco principale della ex monarchia».106 Occorreva tuttavia mostrare cautela, ed evitare di insistere troppo sulle fortune del porto giuliano. Pur rilevando il continuo incremento del traffico, «Il Piccolo» deplorava l’amplificazione che a Vienna era stata fatta della portata degli accordi politico-commerciali di Roma: si riferiva che addirittura sarebbero state presentate molte richieste di impiego per il «porto franco austriaco di Trieste» e di arruolamento nella «nuova flotta austriaca», ricordando che nei circoli economici triestini si era mostrato invece maggiore realismo, e maggiore consapevolezza dell’importanza della congiuntura economica generale d’Europa.107 Il motivo di tanta cautela veniva reso esplicito in una lettera confidenziale di Moscheni al prefetto: «L’aumento verificatosi nel traffico triestino nel corso del 1934, nel confronto con il 1933 ha fatto diffondere l’opinione che a Trieste sia stata superata la crisi portuale, che la posizione di Trieste si sia sensibilmente migliorata in rapporto ai porti concorrenti e che conseguentemente le proposte di provvedimenti a favore del traffico in trattativa sia in sede ferroviaria che in altra sede siano oramai meno impellenti»:108 occorreva non deflettere, dunque, dall’azione di lobbying a favore degli interessi della città giuliana. Il segno “politico” degli accordi italo-austro-ungheresi nel senso della tessitura di una continuità “mitteleuropea” era del resto stato dato già dal maggio dal giornale del partito, «Il popolo di Trieste». È significativo che nel riformulare la tesi nazionalirredentista del destino “geografico” di Trieste, come inevitabile porta verso il Mediterraneo dei paesi danubiani, e nell’affermarne la funzione “imperiale” che raccoglieva l’eredità di Venezia, parlasse di rinascita del porto franco.109 Anche l’organo del fascismo locale dunque, meno incline a dare supporto alle aspettative di continuità nel ruolo economico di Trieste e dei suoi gruppi dirigenti di quanto non fosse «Il Piccolo», espressione dei gruppi di interesse più imperniati nei tradizionali comparti dell’economia marittima e assicurativa, si trovava a plaudire ad una particolare convergenza fra gli orientamenti di politica commerciale ed estera del regime, e gli interessi dell’economia marittima dal porto giuliano. In una direzione analoga a quella espressa attraverso gli accordi commerciali italo-austriaci andava letta la strategia di difesa dell’autonomia austriaca dopo l’assassinio del cancelliere Engelbert Dolfuss, il 25 luglio 1934, di cui è stato non ultimo interprete come sottosegretario agli Esteri il triestino Fulvio Suvich, sostituito nel 1936 da Galeazzo Ciano proprio per la sua 106. Il traffico triestino con l’Egitto indice delle funzioni fondamentali del nostro porto, in «Il Piccolo di Trieste», 4 agosto 1934. La dimostrazione di tale continuità era data dalla composizione dei scambi d’oltremare. Il traffico con l’Egitto era composto per il 70% da importazione di cotone e cipolle. Il cotone passava in maggior parte per Venezia per fermarsi il Italia; le cipolle passavano per Trieste e venivano distribuite in Europa centrale, così come quella parte di cotone che viene riesportato. Verso l’Egitto, Trieste esportava prodotti esteri non in concorrenza con i prodotti nazionali e assolveva dunque una funzione “nazionale”. Vedi anche, per l’indicazione della necessità di superare il bilateralismo dei clearings, Politica di contingentamenti e funzione di transito, in «Il Piccolo di Trieste», 25 agosto 1934. 107. Il Comitato per i traffici di Trieste e un articolo del Console generale Steidle, in «Il Piccolo di Trieste», 21 ottobre 1934. 108. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 232/1934, Dr. Moscheni n. 628, Precisazioni in merito all’aumento del traffico triestino, Confidenziale, Trieste, 24 settembre 1934. p. 1. 109. Trieste, portofranco per l’Austria, «Il Popolo di Trieste», s.d. [prob. 28 luglio 1934].

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posizione antitedesca.110 Il nesso, interpretato dalla figura di Suvich, fra gli accordi di cooperazione economica italo-austriaci e la politica estera di sostegno all’indipendenza austriaca, era indicato dal «Piccolo», che auspicava un ulteriore «rafforzamento di legami fra la rinnovata Austria e l’Italia di Mussolini».111 Era un nesso che, tuttavia, si sarebbe rivelato labile. L’amicizia politico-commerciale fra Italia e Austria, con tutti i vantaggi che il porto giuliano ne poteva ricavare, si inseriva nel complesso tentativo di attuare una strategia di contrasto all’influenza francese nell’area danubiana, per il suo ruolo di protezione ai paesi della Piccola Intesa (Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania) e contemporaneamente di porsi come argine rispetto ad una espansione dell’influenza tedesca nella stessa regione.112 Al tentativo era sotteso un intento egemonico, fondato sulla concezione implicita di una titolarità, da parte dell’Italia fascista, alla continuazione del predominio esercitato dall’Austria-Ungheria nel settore danubiano-balcanico: una titolarità di cui Trieste, come “porta orientale” della nazione, veniva ad essere garanzia e suggello.113 Erano leggibili, in questa prospettiva, chiare tracce del retaggio di un nazional-irredentismo giuliano aggressivo, raccolto da un “fascismo di frontiera” fautore di un’investitura all’egemonia italiana sull’Europa sud-orientale.114 Ma il sempre più deciso orientamento verso una politica di potenza, nonostante interpretasse le spinte al nazionalismo imperialista che pure erano presenti nell’autorappresentazione del fascismo triestino, tuttavia, piegandosi sempre più nettamente verso l’impresa coloniale in Etiopia e verso la subordinazione all’iniziativa tedesca, si sarebbe risolto in un ulteriore elemento di depressione per l’economia giuliana, per il fatto di indebolire le residue relazioni commerciali con l’Europa centrale e il Levante faticosamente mantenute in vita nel corso degli anni Venti, e giunte a perfezionamento con i Protocolli di Roma. È difficile, allora, sottrarsi all’impressione di un generale senso di solitudine provato dagli esponenti dei gruppi di interesse triestini, nonostante gli sforzi dispiegati presso il centro politico e la capacità di lobbying ad essi riconosciuta, per l’incomprensione da parte degli interlocutori “nazionali” della specificità di Trieste “redenta”. A questo sentimento andrebbe ricondotta l’insistenza, martellante nei documenti a sostegno della richiesta di refazie, sulle peculiari caratteristiche dell’economia di transito, “non sempre ben comprese” dagli interlocutori. Come argomentava Moscheni di fronte alla commissione interministeriale sugli affari adriatici, «la funzione adriatica non è funzione di produzione italiana, e ciò annebbia alle volte la giusta comprensione del problema, non si tratta quindi di merce italiana, ma di un traffico di transito fra estero e estero che interessa però le ferrovie italiane, la marina mercantile italiana, i 110. Orientamento antitedesco su cui insiste retrospettivamente Suvich nelle sue memorie (F. Suvich, Memorie 1932-1936, a cura di G. Bianchi, Milano 1984). 111. L’Austria e il valido ausilio mussoliniano. Profonda unanime soddisfazione a Vienna per i “preziosi” risultati della visita di Suvich, in «Il Piccolo di Trieste», 23 novembre 1934. 112. Sui Protocolli di Roma nel contesto della politica danubiano-balcanica cfr. E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali 1918-1992, Roma-Bari 1994, p. 144. 113. Cfr. T. Sala, Tra Marte e Mercurio. Gli interessi danubiano-balcanici dell’Italia, in E. Collotti, con T. Sala e N. Labanca, Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939, Firenze 2000, pp. 205-247, in partic. pp. 214 ss. 114. Cfr. in questo senso Collotti, Fascimo e politica di potenza, pp. 178 ss.

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porti italiani». E andrebbe riconosciuto che «fino a che tale funzione è in mano italiana l’Italia controlla l’economia dell’Europa danubiana, migliora la propria bilancia dei pagamenti e si assicura una partecipazione attiva alla politica di quell’importante settore europeo». In sintesi, «la funzione adriatica è la base del diritto italiano, basato sull’economia e sulla storia, d’intervenire e d’interloquire sulle questioni dell’Europa danubiana».115 Ma insieme all’ideologia della “porta orientale”, qui, sembrava trasparire il timore per i costi di una redenzione, che andava privando il capoluogo giuliano del suo fondamento economico: Trieste, porto di transito. «La nostra fortunata cordialità con la nostra grande Alleata» La lotta di Trieste e Amburgo è secolare, e non riporto dati e notizie sia per amore di brevità, sia perché si tratta di questione ben risaputa. In questi ultimi anni al vecchio e potente concorrente altri se ne sono aggiunti, poiché tutti gli Stati hanno compreso l’importanza di avere un porto proprio e di richiamarvi il traffico proprio e quello degli Stati vicini; Gdynia e il Danubio sono concorrenti giovani, e che dei giovani hanno tutto lo spirito di aggressività. […] Amburgo, per difendersi da questi concorrenti di fresco entrati in lizza, deve anch’essa opporre i suoi mezzi di lotta e creare nuovi elementi di attrazione verso il suo porto, e tali misure anche se non intese direttamente a danneggiare Trieste, contro Trieste finiscono con l’agire.116

Così il commissario ai Magazzini Generali, Gaeta, sintetizzava nel gennaio 1934 la stringente concorrenza tedesca, a sostegno della richiesta di sovvenzioni per l’azienda portuale triestina. Ma la necessità di difesa rispetto alle iniziative di politica commerciale della Germania era sottesa ad ogni intervento dei rappresentanti degli interessi dell’economia marittima giuliana presso il centro politico: dai «provvedimenti di difesa contro la concorrenza germanica » che motivavano la richiesta di ripristino del sistema di refazie,117 alla collegata «proposta di predisporre un’arma di difesa contro il dumping ferroviario germanico nel retroterra adriatico in forma di riduzione dei noli marittimi per e da Trieste e Fiume» avanzata dal Consiglio provinciale dell’economia di Trieste «per ridurre le ferrovie del Reich a più miti consigli»,118 il problema principale del traffico triestino era sempre il confronto ineguale con il colosso teutonico. «Mi sia permesso di dire che, nel campo della pratica, le molte conferenze, discussioni, studi e promesse, finora ben poco aiuto portarono al traffico adriatico, mentre da parte tedesca si lavora in silenzio ma con ben maggiore incidenza! Di fronte ai metodo e ai sistemi germanici, più che le conferenze, contano i fatti».119 115. AST, Prefettura, Gabinetto, b. 308/1935, Allegato a Dr. M[oscheni] n. 384, Comitato interministeriale permanente, 23 marzo 1932, p. 1. La sottolineatura è nell’originale. 116. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 307/1935, Relazione del R. Commissario A. Gaeta a Ministero delle Comunicazioni, Direzione Generale della Marina Mercantile, Trieste, 20 gennaio 1934, pp. 7-8. 117. AST, Prefettura, Gabinetto, b. 308/1935, Dr. Moscheni, n. 534, Confidenziale, Provvedimenti di difesa, passim. 118. Ibid., Consiglio Provinciale dell’economia di Trieste, Relazione sulla proposta, p. 6. 119. Ibid., Lettera n. 407 di Antonio Cosulich a generale Ingianni, p. 2.

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Dal 1934, con il palesarsi delle volontà espansive del regime nazista, la preoccupazione stava diventando assillante. Nel marzo il quotidiano «Il Piccolo», con il direttore Rino Alessi molto vicino agli ambienti armatoriali, aveva annunciato il risorgere di una «solidarietà anseatica» tra i porti di Amburgo e Brema in funzione di contrasto ai vantaggi che Trieste avrebbe ottenuto in seguito al raggiungimento degli accordi commerciali fra Italia, Austria e Ungheria prossimi a essere siglati, prevedendo nuove iniziative di sovvenzione da parte tedesca dei costi di trasporto fra il territorio austriaco e i porti anseatici.120 All’inizio dell’anno successivo una serie di promemoria presentavano al prefetto i contorni di «un vasto programma germanico diretto ad escludere per quanto possibile l’Italia dai paesi del Danubio», con l’obiettivo di mantenere le sovvenzioni di denaro pubblico a Trieste nonostante la ripresa dei traffici favorita dagli accordi italo-austriaci del 1934: il dumping tedesco e polacco sui prezzi del trasporto ferroviario era molto aggressivo, e aveva facile successo su un sistema ferroviario, come quello gravitante sui porti adriatici, frammentato e scarsamente coordinato nelle sue varie tratte e autorità competenti. Da circa un anno la Germania, contrariamente agli accordi vigenti, invade i territori di competenza di Trieste e di Fiume (Austria, Ungheria, Cecoslovacchia) sottoquotando di un terzo i prezzi di trasporto cartellati, mediante la concessione di marchi registrati ceduti a metà prezzo ma realizzabili al 100% […] Il lavoro finora svolto dai nostri porti nel traffico germanico di transito è osteggiato anche con misure valutarie, attraverso difficoltà create nella concessione di valute per pagare le merci importate in Germania attraverso i porti italiani.121

Le conseguenze del dumping ferroviario erano severe: nonostante la crescita del volume dei traffici marittimi in atto nell’ultimo anno, «da quasi un anno siamo sottoquotati segretamente in tutto il traffico con il retroterra, senza difenderci in misura sufficiente». Si riproponeva ancora, allora, di centralizzare e coordinare le autorità ferroviarie adriatiche, «con un’azione che parta da un centro solo e possa essere immediata, come lo è l’azione di offesa».122 Si teneva a ricordare, tuttavia, che la questione non era riducibile nei termini commerciali, ma era espressione della complessa dinamica geopolitica che animava i mutevoli equilibri dell’Europa centro-orientale e meridionale. Infatti La giusta valutazione del problema del traffico adriatico non è possibile che dal punto di vista politico. Gli accordi tripartiti di Roma per la sistemazione danubiana e la recente intesa italo-francese sanciscono l’ingerenza determinante dell’Italia negli affari dell’Europa centrale, lasciando aperta l’adesione agli accordi stessi alla Germania ed alle nazioni della Piccola Intesa. In questo quadro d’insieme, la funzione dei porti di Trieste e Fiume è messa in primo piano. È noto che la Germania sin dai primi accordi danubiani fece quanto possibile onde sminuire la funzione dei nostri porti e negare ogni importanza pra120. I colossi del Mare del Nord si…difendono, in «Il Piccolo di Trieste», 6 marzo 1934. 121. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 308/1935, s.a., promemoria La lotta germanica contro i traffici adriatici e la esportazione italiana, gennaio 1935, p. 3. La sottolineatura è nell’originale. 122. Ibid., promemoria Provvedimenti a difesa dei traffici. Fatti nuovi, 12 gennaio 1935, precisando: «ciò era appunto lo scopo del proposto comitato per l’assegnazione di refazie» La sottolineatura è nell’originale.

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tica alle intese per Trieste e per Fiume. […] Di fronte a questa stringente realtà sembra consulto garantire con ogni mezzo efficace la funzione danubiana dei porti di Trieste e di Fiume, i cui problemi di traffico acquistano tanto valore nazionale.123

L’anno successivo, la situazione era capovolta. Il 9 maggio 1936 Mussolini aveva pronunciato il “discorso dell’impero” che ne annunciava la «rinascita sui colli fatali di Roma», con il tacito sostegno di Hitler. Nel luglio, con l’esplicito assenso di Mussolini, accordato il mese precedente, veniva siglato il nuovo trattato austro-tedesco, in base al quale l’Austria riconosceva la propria “natura” di Stato tedesco filonazista, in cambio di un provvisorio riconoscimento di indipendenza da parte della Germania; era evidente che con ciò venivano nei fatti a svuotarsi i Protocolli di Roma firmati due anni prima che impegnavano reciprocamente Italia, Austria e Ungheria. Ma il regime era ormai coinvolto nel supporto di armi e uomini ai falangisti di Franco nella guerra civile spagnola insieme alla Germania nazista, con la quale, il 24 ottobre, stabiliva l’Asse Roma-Berlino, il protocollo di alleanza antibolscevica firmata dai ministri degli Esteri Galeazzo Ciano e Konstantin von Neurath: fra i compiti dell’Asse vi era anche l’impegno a mantenere congiuntamente gli equilibri nell’area danubiano-balcanica. Il giovane Ciano aveva assunto la guida del dicastero nel giugno, dopo il dimissionamento di Suvich, la cui contrarietà all’avvicinamento alla Germania era cosa nota. Ed era allora a Ciano che nel luglio 1936 si rivolgeva il prefetto Tiengo, per farsi tramite del pronunciamento della presidenza del Consiglio provinciale dell’economia corporativa circa la nuova alleanza con la Germania, affinché fosse assicurata ai porti di Trieste e di Fiume Una partecipazione proporzionale a quella tradizionale che questi due porti avevano nello stesso settore nel periodo prebellico […] In seguito dei recenti accordi austro-germanici viene considerato con apprensione a Trieste il nuovo atteggiamento di talune sfere economiche germaniche, che pare ispirato dal proposito di trascinare tutta l’Austria verso i porti di Amburgo e Brema. D’altra parte negli ambienti triestini si considera la distensione attuale con la Germania come elemento di favore per giungere, una buona volta, ad una intesa chiara, leale e definitiva circa le funzioni di Trieste e Fiume, in confronto dei suddetti porti del Mare del Nord, per quanto riguarda il retroterra danubiano.124

Era l’annuncio di una linea cui ci si sarebbe attenuti nel corso degli eventi successivi – e che si sarebbe poi espressa, come abbiamo visto in apertura, nelle iniziali manifestazioni di ottimismo successive all’entrata in guerra – con la quale si cercava di cogliere gli elementi che potevano essere volti a proprio favore, nel quadro di una situazione che, oggettivamente, presentava forti motivi di preoccupazione. Le reazioni all’annessione dell’Austria nel 1938 non avrebbero fatto eccezione. Nel «Piccolo» il direttore Alessi tentava un’apologia della missione di Trieste fascista di fronte al fatto compiuto dell’Anschluss, con grande scialo di argomenti per dimostrare l’iden123. Ibid., promemoria La lotta germanica contro i traffici adriatici e la esportazione italiana, pp. 2-3. E fra i mezzi da adottare veniva richiesto ancora di riprendere in esame «la convenienza dei provvedimenti predisposti e non deliberati nel 1933 [refazie]». 124. Ast, Prefettura, Gabinetto, busta 352/1937, Lettera di Tiengo a Galeazzo Ciano, Ministro degli Esteri, 29 luglio 1936. Tiengo era appena stato trasferito a Bologna, ma inoltrava egualmente il pronunciamento dei triestini.

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tità di interessi tra Trieste e fascismo e la nessuna incidenza della nuova situazione. Ma doveva ricordare che era stata la «solenne e chiara» rassicurazione del Duce circa la salvaguardia degli interessi giuliani anche nella nuova situazione internazionale a garantire a Trieste «quella serenità e quella fiducia che non aveva mai perduto, nemmeno nelle prime ore del dramma austriaco, quando le notizie rotolavano da Vienna senza ordine e con l’inevitabile contorno delle alterazioni passionali della non sempre lodevole fantasia giornalistica».125 Non a caso, il commento in prima pagina della «Stampa» era di altro tenore. Secondo l’inviato del quotidiano torinese, l’Anschluss rappresentava per Trieste niente di meno che «il secondo episodio brusco del sovvolgimento iniziatosi nell’agosto del 1914 con lo scoppio della guerra. Il primo fu la cessazione fulminea e totale del commercio con l’estero, base non soltanto della sua prosperità ma della sua stessa vita». E dopo la guerra, «lungi dal rinascere subito, Trieste soffrì parecchio del nuovo stato di cose: la si diceva destinata a costituire un porto comodissimo per l’Europa Centrale, un’espressione economica indipendente dall’assetto politico dell’ex monarchia. Parole da tavolino. I fatti dimostrarono ancora una volta che le profezie politiche sono un gioco d’azzardo e che la ripresa di Trieste, dopo la sosta forzosa, fu lenta, aspra, osteggiata da avvenimenti naturali e da avversioni volute». Sui rischi che Trieste avrebbe corso con la nuova situazione, le considerazioni erano più realistiche: «La scomparsa dell’Austria come paese indipendente influirà senza dubbio sul traffico che la riguarda e indirettamente Trieste che la serviva. Giuridicamente la Germania subentra negli obblighi e nei diritti del paese assorbito […] si può presumere che le tariffe adriatiche, indispensabili adesso a Trieste, saranno mantenute […] Ma bisogna tener presente che la trasformazione dell’Austria in provincia del Reich la immette nella sua economia e che, automaticamente, molti bisogni prima serviti dall’estero troveranno nel mercato interno offerte più convenienti». In questa prospettiva, venivano significativamente evocate nella chiusa le prospettive offerte dalla zona industriale per Trieste: Tra i tanti provvedimenti presi a suo favore dal Regime fascista c’è la zona industriale; essa offre magnifici orizzonti ai capitalisti di buona volontà: c’è anche del rischio, beninteso, ma sarebbe un errore continuare ad attendere tutto dal mare. Il mare, i suoi miracoli li ha già fatti; all’uomo compiere i propri.126

L’inviato della «Stampa» aveva anche messo il dito sulla piaga della questione ebraica, rilevando che la maggior parte degli operatori economici fra Trieste e l’Austria erano ebrei, costretti ad abbandonare precipitosamente l’attività con l’occupazione tedesca, con inevitabile danno dei partner triestini, e con «qualche contraccolpo» probabile anche nel settore assicurativo. Sul problema delle leggi razziali si sarebbero infatti pronunciati subito in modo molto tecnico i commercianti triestini, chiedendo al prefetto di ottenere deroghe a favore di clienti e rappresentanti ebrei in Austria, e sollevando la questione del mantenimento degli accordi commerciali e del125. R. Alessi, Trieste, in «Il Piccolo di Trieste», 10 aprile 1938. 126. A. Antonucci, inviato a Trieste, Dopo l’Anschluss. Gli interessi di Trieste. Qualche cosa si è perduta, qualche cosa si guadagnerà: la zona industriale offre magnifici orizzonti e sarebbe un errore attendersi tutto dal mare, in «La Stampa», 6 aprile 1938.

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le forme di pagamento esistenti.127 Ma nonostante l’evidenza delle difficoltà che si profilavano all’orizzonte, i circoli economici triestini erano sulla linea di Alessi. Un memoriale presentato al governo da Cosulich, prodotto da una riunione congiunta dei rappresentanti del Consiglio provinciale dell’Economia corporativa triestini e fiumani – su cui ritorneremo – chiedeva, in forma molto dettagliata e svolgendo osservazioni molto realistiche, di adoperarsi per mantenere il più possibile lo status quo e per ottenere «il subingresso germanico nei rispettivi obblighi austriaci». Di fatto, ci si preparava già all’eventualità di dover arretrare le posizioni. Si sottolineava infatti in chiusura «la necessità che più che accogliere determinate richieste tecniche, sia garantita una ragionevole partecipazione dei porti di Trieste e di Fiume nel loro vecchio retroterra che gravita altrettanto legittimamente sull’Adriatico».128 E il memoriale allegato si incaricava di rendere esplicita la drammatica portata della nuova situazione: Per il porti di Trieste e Fiume si tratta di tutto o quasi il loro traffico ferroviario e quindi della loro stessa vita, per l’Italia si tratta di difendere le sue posizioni economiche sul Danubio […] Le tariffe adriatiche esistenti da oltre mezzo secolo, devono considerarsi la pietra angolare di tutto l’edificio creato per regolare e promuovere i traffici dell’Adriatico con l’Europa centrale […] Appare evidente l’opportunità per noi di fare in modo che subentrino dei cambiamenti più tardi che sia possibile.129

Con l’occupazione dei Sudeti, però, questo obiettivo appariva sempre più irrealistico, e i toni si facevano più preoccupati. Già nel luglio del 1938 venivano segnalate forti restrizioni agli accordi commerciali bilaterali imposte da parte tedesca, in base alle quali non veniva ammessa «l’inclusione di noli e spese nel clearing italogermanico, quando si tratti di merci importate in Germania, attraverso i porti adriatici, provenienti da altri paesi che non siano il nostro»: di fatto, ostacolando la funzione di porto di transito attraverso l’esclusione del passaggio di merci da paesi terzi.130 In preparazione della conferenza ferroviaria internazionale che si sarebbe tenuta a Stresa nel settembre dello stesso anno, il Comitato triestino dei traffici rendeva nota la posizione assunta dai rappresentanti dell’armamento e del commercio triestini e fiumani – i primi rappresentati da Guido Cosulich e Alberto Moscheni, i secondi da Angelo Valbusa131 – dove venivano sottolineate le molteplici infrazioni da parte tedesca agli accordi commerciali presi a Berlino nel maggio dello stesso anno.132 Erano infrazioni che andavano dalla cessione di marchi sottocosto a sostegno di noli marittimi su navi tedesche, all’imposizione di vincoli valutari all’importazione tali da co127. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 365/1938, Unione fascista dei commercianti della provincia di Trieste al Prefetto. Relazione con riguardo all’Anschluss austro-germanico, 30 marzo 1938. 128. Ibid., Verbale della riunione triestino-fiumana che ebbe luogo a Trieste presso il CPEC il giorno 17 marzo 1938 per esaminare Le conseguenze per i traffici adriatici della nuova situazione in Austria, p. 6. 129. Ibid., Provvedimenti da prendere nel campo dei traffici in relazione all’unione dell’Austria alla Germania, s.d., s.a., p. 1 e allegato, p. 1. 130. Ibid., Lloyd Trestino, Il direttore Cosulich al prefetto Rebua, 23 luglio 1938. 131. AST, Prefettura, Gabinetto, b. 395/1939, Lettera di Antonio Cosulich al prefetto Rebua, 29 marzo 1938. 132. Ibid., Presidenza del Comitato triestino dei traffici al prefetto Rebua, settembre 1938, Accordi italo-germanici di Berlino per i trasporti adriatici.

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Figura 6. Arrivi via terra nel porto di Trieste, 1938 (fonte: G. Roletto, Il Porto di Trieste, Bologna 1941, p. 107)

stringere ad operare direttamente nei porti tedeschi, penalizzando gli altri porti di transito, alla concessione di premi di esportazione tali da favorire le linee ferroviarie e marittime tedesche, fino all’intimidazione degli operatori che non intendessero servirsi delle misure imposte.133 Considerato che ogni tentativo di mantenere le posizioni da parte italiana era «risultato completamente negativo per il gioco dell’uno o dell’altro dei provvedimenti germanici sopra indicati», era stata causata ai due porti alto133. Il dumping monetario era particolarmente sottolineato: «La Germania avrebbe creato dei marchi speciali (Hawara Mark), valutati 60 Pfennige. Essi rappresenterebbero i patrimoni ebrei bloccati in Germania e vengono sbloccati in proporzione dei noli marittimi acquisiti dagli interessi a favore di navi germaniche. Con ciò si fa una vera e propria discriminazione di bandiere ed un provvedimento che, seppure non escogitato a danno dell’Adriatico, mette le navi italiane ed i porti italiani in condizioni di assoluta inferiorità e costringe l’emigrazione ebraica a lavorare a favore della marina tedesca». Si rilevava inoltre che «anche nelle concessioni di valute per pagare sia le merci che i noli, si ha il convincimento che le Autorità germaniche facciano ogni possibile difficoltà a coloro che vogliono importare od esportare attraverso porti non tedeschi e con navi non tedesche» (ibid., Lloyd triestino a Finmare, Trieste, 29 agosto 1938, Traffici di transito con l’Austria e con l’Ungheria via Trieste e Fiume – Riunione di Stresa, pp. 3-4).

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Figura 7. Partenze via terra nel porto di Trieste, 1938 (fonte: G. Roletto, Il Porto di Trieste, Bologna 1941, p. 124)

adriatici una flessione del movimento di traffico che complessivamente andava dal 25 al 50%, rendendo «cosa morta» le tariffe adriatiche a favore dei porti italiani.134 Un memoriale di Antonio Cosulich, a nome del Comitato triestino dei traffici, faceva il punto sulla situazione alla fine dell’anno 1938, che aveva visto sconvolgersi l’assetto politico dell’area centroeuropea in cui si addensavano gli interessi triestini. Le aspirazioni al mantenimento dello status quo avanzate dalla marina giuliana dopo l’Anschluss, consistenti nella richiesta che «il traffico con l’oltremare del Land Austria (come pure quello con l’Ungheria) fosse riconosciuto come gravitante interamente verso l’Adriatico, mentre per la Cecoslovacchia si sarebbe dovuto addivenire ad una ragionevole ripartizione fra porti germanici e adriatici» erano state accolte con gli accordi di Berlino del maggio, con i quali «la Germania considerava il traffico ex austriaco ed ungherese come di spettanza dei due porti adriatici». Gli accordi tuttavia erano stati subito disattesi dalle misure adottate da parte tedesca, che tendevano a «svuotare gli accordi del loro contenuto», e dal sopraggiungere dalla crisi cecoslovacca, da ciò risultando una severissima flessione – fino al 50% – del movimento complessivo dei traffici triestini (la cui situazione relativa al 1938 si può osservare nelle figure 6, 7, e 8).

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Resta il fatto che la Germania forza in tutti i modi l’avviamento del traffico attraverso i propri porti, ricorrendo, fra l’altro, ai seguenti mezzi: a) impiego di marchi propri registrati (valutati circa al 40%) per il pagamento delle spese di trasporto verso i porti tedeschi; b) concessione di premi di esportazione commisurati sulla distanza da Amburgo; quindi maggiore è la distanza da Ambugo, maggiore è il premio; c) rifiuto di permessi o divise per merci da importarsi via Adriatico obbligando gli industriali ex austriaci a passare attraverso le sopra dette centrali di distribuzione che tengono i loro depositi ad Amburgo e Brema.135

Le autorità di prefettura avrebbero fatte proprie le posizioni assunte dagli ambienti commerciali e armatoriali raccolti nel Comitato triestino dei traffici, ricapitolando l’insieme delle segnalazioni, dei memoriali e degli esposti prodotti a partire dall’annessione dell’Austria, in vista di accordi commerciali circa il nuovo assetto dell’ex Cecoslovacchia, che non erano ancora stati raggiunti.136 Tuttavia, se l’obiettivo generale era ancora quello del mantenimento delle posizioni di preferenza per i porti adriatici acquisite in precedenza, almeno relativamente al territorio ex cecoslovacco non annesso direttamente al Reich – e anche all’Ungheria, la Jugoslavia e la Bulgaria, che avrebbero dovuto essere considerate «esclusivamente tributarie ai porti adriatici» – non era più possibile nascondere la difficoltà della situazione del momento, dovuta all’aggressiva azione tariffaria da parte tedesca, contraria agli accordi di Berlino, accompagnata da pressioni politiche e commerciali che «addirittura terrorizzano» i partner a detrimento del traffico adriatico.137 Nel 1939 il commissario dell’azienda dei Magazzini Generali, Perusino, teneva ad avvertire il prefetto che «l’andamento dei traffici portuali attraverso gli impianti gestiti da questa Azienda non presenta purtroppo le cifre lusinghiere che sono state pubblicate dalla stampa locale», ma doveva piuttosto essere registrata «una diminuzione, anzi una certa tensione, che non accenna ad allentarsi».138 E se qualche mese dopo cercava di definire «abbastanza soddisfacente» il movimento dei traffici triestini, «se si considerano i profondi rivolgimenti politici che hanno influito sfavorevolmente sullo svolgimento dei traffici con l’oltremare dei Paesi interessati»,139 la rela134. Ibid., p. 6. 135. Ibid., busta 395/1939, Comitato triestino dei traffici, il presidente Antonio Cosulich al prefetto Borri, 30 dicembre 1938, esposto Situazione del traffico di transito attraverso i porti adriatici, pp. 24. Una nota riservata aggiungeva la richiesta che fossero rinnovati i provvedimenti di difesa governativi adottati dopo il 1935 a favore dei porti di Trieste e Fiume (ibid., Appendice confidenziale). 136. Una nota anonima relativa alle trattative in corso «allo scopo di ottenere che i patti siano lealmente mantenuti e perché dall’annessione dei territori cecoslovacchi alla Germania il porto di Trieste non abbia a soffrire nuovi danni», e per chiedere «per Trieste un trattamento identico a quello ottenuto per il Land Austria», rilevava la necessità, prima di iniziare le trattative, «di vedere quale sarà la conformazione territoriale della nuova Cecoslovacchia», e soprattutto, «anche da parte nostra», di «osservare rigorosamente» gli accordi già presi: «Tale necessità è tanto maggiore, considerato che noi siamo la parte più debole e perché di conseguenza ogni controprovvedimento da parte germanica si ripercuote sui nostri traffici in modo ben più sensibile di quanto i nostri accorgimenti possano turbare gli interessi dei porti tedeschi» (ibid., busta 395/1939, s.a., s.d., Trattative con la Germania). 137. Ibid., Appunto sulle trattative italo-germaniche per l’accordo sui traffici di transito, 2 marzo 1939. 138. Ibid., Il R. commissario Carlo Perusino al prefetto Eolo Rebua, 23 agosto 1938. 139. Ibid., Il R. commissario Carlo Perusino al prefetto Eolo Rebua, 14 gennaio 1939. Una tabel-

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Figura 8. Arrivi e partenze via mare nel e dal porto di Trieste, 1938 (fonte: G. Roletto, Il Porto di Trieste, Bologna 1941, p. 180)

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zione sul bilancio di previsione per l’esercizio 1939-1940 era ormai esplicita circa l’influsso sfavorevole esercitato sui traffici di transito «per effetto dei nuovi sviluppi ed orientamenti dell’economia dei territori passati alla Germania, all’Ungheria ed alla Polonia». Già come conseguenza dell’annessione dell’Austria, «perdite rilevanti» andavano registrate in «vecchi e tradizionali traffici, come i legnami, la cellulosa, il ferro lavorato», insieme a merci come «i cotoni, il rame, la gomma elastica, i semi oleosi», che «prendono ora prevalentemente la via dei porti nordici tedeschi, non essendo certamente difficile ad un Paese ad economia controllata e programmata di incanalare particolarmente i traffici d’importazione nella direzione voluta, vincolandoli a determinati istradamenti e di premere sugli importatori ed esportatori, attraverso accorgimenti valutari, per avviare la merce ai propri porti, facendone profittare la propria bandiera».140 Dopo l’occupazione tedesca dei Sudeti, seguita da quella della Boemia e della Moravia, e dall’occupazione ungherese della Rutenia subcarpatica, anche «la Cecoslovacchia, che dopo l’Austria era il Paese estero più importante per il traffico di transito di Trieste, ha cessato di esistere», facendo registrare «nell’importazione, una perdita di circa il 40% e nella esportazione una flessione del 61%, il che dimostra che i mutamenti politici verificatisi in quell’importante territorio hanno avuto la loro naturale ripercussione nei nostri traffici portuali». In sostanza, «il 70% circa dei nostri traffici con il retroterra estero è ora traffico da e per la Germania e cioè traffico con un grande Paese che possiede porti marittimi attrezzatissimi e di fama mondiale». E nonostante l’impegno assunto dal Governo del Reich con gli accordi economici di Berlino del maggio 1938 a «non prendere alcun provvedimento per sviare dal porto di Trieste i traffici d’importazione e d’esportazione del retroterra estero, che spettano all’Adriatico», e nonostante «l’amicizia dei due grandi popoli, consacrata nell’Asse Roma-Berlino», i traffici di transito attraverso il porto giuliano si trovavano in «periodo di assestamento», costretti a fronteggiare «una situazione mutevole e incerta».141 Un’incertezza che poco tempo dopo era divenuta una «grave difficoltà», particolarmente nell’esportazione di prodotti industriali, come risultava da un memoriale di una riunione presso l’Unione industriale, dove veniva rilevata la necessità di «istruzioni meno restrittive» nei controlli governativi, perché ormai «non è concepibile di poter incanalare l’esportazione sulle vie seguite da ogni commerciante nei tre ultimi anni».142 La tenuta dei traffici dello scalo giuliano si presentava in effetti, alle soglie del conflitto mondiale, in condizioni di estrema fragilità. Dalla lucida e spassionata lettura di Gino Luzzatto, le condizioni del commercio attraverso il porto di Trieste apparivano in sostanza aver raggiunto l’obiettivo, con molti sforzi, di riportare il volume la riassuntiva allegata ricapitolava i dati, evidenziando una perdita di sette punti percentuali del movimento complessivo marittimo e ferroviario del 1938 rispetto al 1937, sottolineando tuttavia che i dati più significativi consistono in una flessione di sedici punti nel traffico “misto” marittimo, («che è quello più importante e tradizionalmente caratteristico») e di venti punti in quello ferroviario. 140. Ibid., Il R. commissario Carlo Perusino al prefetto Eolo Rebua, Bilancio di previsione per l’esercizio 1939/40, 24 giugno 1939, p. 2. 141. Ibid., pp. 3-5. In base a tali considerazioni veniva sollecitata la concessione di un contributo statale straordinario, per assicurare il pareggio del bilancio aziendale. 142. Ibid., Memoria sulle difficoltà che s’incontrano nell’esportazione, Trieste, settembre 1939.

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dei traffici alle dimensioni del 1913, ma non di averne mantenuto il valore. «È sensibilmente peggiorata la qualità: le cifre del movimento marittimo sono infatti ingrossate, specialmente negli ultimi anni [precedenti il secondo conflitto], come si è visto, da alcune merci di scarso valore, destinate principalmente alle industrie e al consumo triestino».143 La qualità del commercio triestino nel corso del ventennio si era in sostanza impoverita, perdendo le sue caratteristiche di transito e diventando più dipendente dalle richieste dell’economia locale. Un dato confermato anche da Roletto nelle sue osservazioni sulla composizione merceologica dei traffici: In ultima analisi si nota che per alcuni prodotti di valore – come il caffè il nostro porto ha perso quella posizione di assoluto predominio, detenuto sino a poco tempo fa, anche come piazza di contrattazione, mentre per gli altri prodotti tipici – come il tabacco, i semi oleaginosi – pur andando soggetti a oscillazioni, il movimento complessivo si mantiene su cifre discrete: per altri infine – come i combustibili liquidi e i cereali – si nota un aumento considerevolissimo.144

E vale la pena osservare, a questo punto, che le merci “povere” che sostenevano il volume dei traffici triestini alla vigilia della guerra costituivano, in buona sostanza, materie prime per i complessi industriali impiantati nel porto, come la nuova raffineria Aquila che aveva prodotto una crescita dell’importanza degli oli minerali: come risultava dalle rilevazioni dell’Istituto di Statistica, da cui si ricava come il dato più rilevante della rapporto fra il traffico complessivo del 1913 e del 1938 fosse l’aumento del ruolo di oli minerali greggi, benzina, petrolio, e minerali metallici, ceneri e scorie.145 Una risposta alla crisi: il porto industriale In questo contesto, dopo che l’annessione dell’Austria e l’occupazione della Cecoslovacchia avevano messo a repentaglio gli sforzi tenaci dispiegati per recuperare le posizioni perdute con la dissoluzione dell’impero asburgico e del ruolo di preminenza che Trieste vi deteneva, il progetto di zona industriale veniva ad essere evocato come possibile avvenire della città. Ne avrebbe parlato il «Piccolo», in un commento al comunicato ufficiale che informava dell’udienza presso il Duce del federale di Trieste, del prefetto e del presidente della Società del porto industriale, Pacchiarini, nel luglio 1939: Per la prima volta in un dettato ufficiale si parla del “Porto industriale di Trieste”. Occasione più solenne e promettente non poteva essere scelta. Ciò che la nostra città deve diventare supera anche nella terminologia il ristretto concetto di zona industriale. Accanto al porto dei traffici commerciali continuerà a svilupparsi il porto delle attività industriali. Non vogliamo fare indiscrezioni in questa materia delicata; ciò che possiamo dire è che non tarderemo molto ad apprendere che alcune grandi industrie tipiche italiane 143. Luzzatto, II porto di Trieste, p. 33. 144. Roletto, Il porto di Trieste, p. 232. 145. Cfr. L’economia della Venezia-Giulia, p. 107.

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avranno anche a Trieste, loro stabilimenti capaci di dare, con i loro bisogni di materie prime e la loro produzione, un notevole contributo ai traffici.146

La Società per il Porto industriale di Trieste Il carattere di novità di uno sviluppo industriale più esteso rispetto al tradizionale assetto dell’economia triestina era largamente evidenziato, con un intento esortativo che lasciava intravedere lo sforzo necessario ad accettare tale svolta strategica: «Se qualche cosa del passato è caduto o si trasforma, il nuovo ci ripaga a usura […]. Bisogna battere nuove strade, cercare nuove mète, studiare nuove attività […] Dobbiamo gettare il passato dietro le spalle e andare incontro all’avvenire».147 Più decisamente, il foglio di partito manifestava in quell’occasione «la certezza matematica che la nostra città è alla vigilia di un nuovo balzo in avanti, balzo poderoso, decisivo»: Non è azzardato sperare che – dati gli argomenti trattati nel colloquio a Palazzo Venezia – ci avviamo verso un sicuro potenziamento del porto industriale e dei traffici marittimi, [dimostrando] il crollo di miserande profezie, straniere o giudaiche, filostraniere o filogiudache, [che] avevano pronosticato infauste condizioni, paralisi progressiva, lenta morte. […] L’industria, che pareva dovesse tenere sempre un ruolo secondario a Trieste, ha preso ad aumentare il ritmo di attività; da organo quasi accessorio rispetto a quello del porto, è divenuto in breve tempo essenziale per vastità e potenza, per impiego di forze lavorative e gettito produttivo ma come se ciò non bastasse, di pari passo si è andata stabilendo una fusione perfetta tra zona e porto industriale.148

L’insistenza sull’aspetto di novità e intenzionalità “fascista” dello sviluppo industriale triestino, fatta salva la misura di omaggio dovuto alla ritualità del regime, suggerisce l’ipotesi che l’opzione “industrialista” fosse effetto di un impulso prevalentemente politico, più che essere espressione diretta degli interessi locali, che avrebbero continuato ad orientarsi verso il mantenimento del tradizionale assetto marittimo, in continuità con la struttura ereditata dai decenni precedenti, fin quando le condizioni dell’economia internazionale non avessero reso insostenibile tale indirizzo. Il carattere prevalentemente commerciale-armatoriale-finanziario della classe dirigente triestina è cosa nota, ma non è mai stata tematizzata esplicitamente l’esistenza di un nesso funzionale tra tale profilo e la mancata opzione industriale degli anni Trenta. È difficile infatti sottrarsi all’impressione che l’enfasi posta sulla continuità della funzione commerciale di transito, sul destino geografico, sull’eccezionalità “internazionale” triestina rispetto al carattere “nazionale” degli altri porti italiani, non costituisca la spia di una scelta strategica delle classi dirigenti giuliane, che anche nel punto più basso della congiuntura economica non hanno sostanzialmente alterato l’asse dei lo146. Per il potenziamento industriale di Trieste. Il Duce riceve le nostre Gerarchie alla presenza del Ministro Cobolli-Gigli, in «Il Piccolo di Trieste», 8 luglio 1939. 147. Ibidem. 148. Il Duce esamina con le Gerarchie di Trieste, presente il Ministro dei Lavori Pubblici Cobolli-Gigli, taluni importanti problemi riguardanti la vita economica della città, in «Il Popolo di Trieste», 8 luglio 1939.

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ro investimenti e delle loro priorità, che come è noto univano, spesso anche nelle medesime persone, società armatoriali e proprietà delle linee di navigazione, industria cantieristica navalmeccanica, e assicurazioni. E che, specialmente in seguito al rapido processo di “irizzazione” dei primi sue settori, con la riorganizzazione delle linee di navigazione e la creazione della Finmare alla metà degli anni Trenta, il settore finanziario e assicurativo costituisse il terreno privilegiato, quello rimasto più solido e più autonomo, su cui la classe dirigente triestina poggiava, rimanendo estremamente diffidente rispetto ad investimenti industriali che esulassero dai confini appunto della navalmeccanica.149 Una traccia del carattere eteronomo della scelta industrialista si rinviene nel fatto che uno dei più accesi fautori dell’impianto della zona industriale a Trieste fosse l’ingegnere lombardo Italo Bonazzi, un tecnico della produzione, ben inserito negli ambienti economici e nelle istituzioni locali, e non un finanziere e industriale, principale beneficiario della sua realizzazione come era stato a Venezia Giuseppe Volpi: a conferma della tesi della scarsa propensione della classe dirigente economica giuliana ad adottare la strategia della crescita indotta. Italo Bonazzi era nato in provincia di Sondrio, dove aveva compiuto gli studi tecnici prima di diplomarsi in ingegneria elettrica a Ginevra. Si trasferì nella Venezia Giulia dal 1904, ventisettenne, prima presso il silurificio Whitehead di Fiume e poi la Società impianti generali di Trieste, dove divenne consulente tecnico e perito di fiducia delle compagnie di assicurazione e delle imprese industriali locali, fino ad aprire, nei primi anni Trenta, un proprio studio di ingegneria industriale. Durante la guerra aveva dato prova di forti attitudini organizzative nel campo dell’assistenza militare e civile; dopo la guerra, aveva cominciato a ricoprire numerosi incarichi nelle istituzioni economiche, fino ad entrare nel consiglio di amministrazione dell’Azienda dei Magazzini Generali, e ad assumere la vicepresidenza della Società del Porto industriale.150 A testimonianza del favore che Bonazzi incontrava presso l’élite economica giuliana, stava l’istanza presentata dai membri del Consiglio di reggenza della Sezione di Trieste dell’Associazione Nazionale Fascista Dirigenti Aziende Industriali affinché gli fosse conferito il titolo di commendatore, con argomenti che mettevano in evidenza le sue «benemerenze acquisite oltre che nel campo sindacale, dove da tanti anni regge con passione la carica di segretario della Sezione, anche nel campo politico e civile», menzionando le sue attestazioni di italianità già dall’anteguerra, l’opera svolta come ufficiale di complemento nella mobilitazione industriale negli anni di guerra, il «disinteresse patriotti149. Sull’importanza strategica dell’«economia distinta e speciale» costituita dal comparto assicurativo cfr. Sapelli, Trieste italiana, pp. 138-142. 150. Era stato «membro del Sindacato Ingegneri e della Commissione per la tenuta dell’albo, presidente della Sezione industriali nel Consiglio Provinciale delle Corporazioni, membro della Giunta Provinciale amministrativa, presidente del Sindacato Dirigenti aziende industriali, dell’Associazione elettrotecnica italiana, della Commissione permanente per l’insegnamento professionale, consigliere della Croce Rossa, della Cassa di Risparmio e dei Magazzini Generali, e finalmente vice presidente e poi presidente della Società per il Porto industriale»: M. Cecovini, Breve storia del porto industriale di Trieste, Trieste 1966, p. 36. Un profilo di Bonazzi ibid., pp. 32-38. La nomina nel Consiglio di amministrazione dei Magazzini Generali in AST, Prefettura, Gabinetto, b. 482/1944, il prefetto Bruno Coceani al Consiglio di amministrazione dei Magazzini Generali, Trieste, 20 giugno 1944.

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co» testimoniato dalla rinuncia a indennità nel dopoguerra, e soprattutto la sua capacità di organizzatore, esplicata a favore dei manager aziendali, per l’impegno nel consolidarne il profilo professionale nel promuoverne la formazione.151 Il tecnico lombardo si sarebbe ascritto buona parte del merito del rilancio della zona industriale, presentando un «compendio della mia propaganda ventennale per la creazione del Porto industriale di Trieste 1937-1957», allo scopo di confutare le accuse di «soverchio ottimismo», «non pratica utilità», e addirittura «cimitero delle industrie» mosse all’iniziativa.152 Un ruolo propulsivo che gli sarebbe stato riconosciuto anche nelle ricostruzioni retrospettive della vicenda, come quella tracciata per incarico del Rotary Club nel 1966 da Manlio Cecovini, scrittore di cose triestine, futuro sindaco della città e fondatore dell’autonomista “Lista per Trieste”, al tempo presidente facente funzioni dell’Ente Porto Industriale. Cecovini avrebbe ricordato innanzitutto come l’individuazione della piana di Zaule come sito idoneo all’impianto di nuovi stabilimenti industriali fosse stata resa possibile dall’esecuzione dei lavori di ampliamento del porto durante l’ultimo periodo asburgico: con la costruzione fra il 1904 e il 1909 delle tre lunghe dighe foranee a protezione del nuovo complesso portuale di Sant’Andrea, noto come Porto Nuovo, venivano difesi dalle mareggiate anche tutto il vallone di Muggia e la piana di Zaule, suggerendo l’opportunità della loro bonifica. Nel 1907 [recte: 1905] sorgeva, per iniziativa di un gruppo di investitori triestini riuniti intorno al barone Giovanni Economo, l’associazione Immobiliare Zaule SpA, che metteva in atto una vasta campagna di acquisti di terreni nella zona, liberandola dagli insediamenti militari ivi situati e investendo in una prima infrastrutturazione, con la costruzione di un tronco ferroviario di collegamento con la stazione di Campomarzio e l’avvio dei lavori di scavo del canale navigabile. Nell’area si insediavano l’impianto della Spremitura Triestina Oli, poi assorbita dalla Gaslini, e quello della Standard Oil. Le ragioni per cui in una zona tanto promettente non proseguiva l’installazione di impianti venivano suggerite accennando all’esistenza di contrasti intestini fra gruppi economici, e fra essi e gli indirizzi di regime. Leggiamo il passo: Ma la Soc. “Zaule” non riuscì a concludere il suo disegno. Forse i tempi non erano ancora maturi. Forse il regime politico instauratosi dopo la prima guerra mondiale e fondato su precise discipline interne, non consentiva una chiara rappresentazione della crisi mercantile del porto, che avrebbe favorito l’attuazione di un piano di industrializzazione. Forse, più semplicemente, gli uomini ch’erano dietro l’impresa non godevano in quel momento i favori del regime imperante. Fatto è che, nel 1929, si costituì una nuova società, la “Società per la zona industriale di Zaule” la quale, pur non possedendo i terreni, tolse praticamente l’iniziativa alla vecchia “Zaule”, si attivò nelle giuste direzioni e riuscì ad ottenere dal Governo l’emanazione di un decreto, il R.D.L. 10 aprile 1929 n. 2260, col quale il Ministero delle Finanze veniva autorizzato a concedere a una società privata il coordinamento e la gestione delle aree da espropriare per gli scopi della creazione di una zona industriale a Trieste. La costituzione di una nuova società e l’emana151. AST, Fondo Coceani, busta 18, fasc. 641, Corrispondenza varia 1934, Lettera del Consiglio di Reggenza della Sezione di Trieste dell’Associazione Nazionale Fascista Dirigenti Aziende Industriali all’onorevole Bruno Coceani, Trieste, 21 giugno 1934. 152. I. Bonazzi, Come si giunse all’istituzione dell’Ente Porto industriale di Trieste. Suo sviluppo e azione propulsiva, Trieste, 1958, p. 48.

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zione del decreto erano evidentemente connessi. E infatti, nel 1933 proprio questa, che frattanto aveva completato vari studi d’utilizzo e predisposto un piano regolatore della zona, ottenne la concessione del coordinamento e la gestione degli espropri, in regime di privilegio fiscale. Ma per la nuova “Zaule”, che intanto aveva mutato il proprio nome in Soc. per il Porto industriale – SAPI, i tempi non erano ideali. Cominciavano a farsi sentire gli effetti della grande crisi economica e il progetto dovette essere accantonato. Per vedere i primi segni di un risveglio bisogna attendere il 1936. Sorgeva infatti, in quell’anno, ai margini della piana di Zaule e per altra iniziativa, l’importante raffineria AQUILA, che rinverdì per un momento le speranze della SAPI e la indusse e chiedere e a ottenere il rinnovo della concessione dei privilegi fiscali. Si trattava però di un fuoco di paglia. Le guerre d’Africa e di Spagna, l’addensarsi di nubi sempre più fosche sull’orizzonte della politica internazionale, avevano prima sopita e poi gradualmente dissipata la speranza di tradurre in realtà l’antico sogno; e nel 1938, gli esponenti dell’economia triestina si espressero per il definitivo abbandono dell’idea e per la messa in liquidazione della SAPI. Da tempo la vecchia “Zaule” si comportava esclusivamente come una società immobiliare, senza più prendere alcuna iniziativa.153

A rilanciare, tuttavia, il progetto di zona industriale si affacciava la determinazione del suo presidente interinale, Italo Bonazzi, che ispirandosi all’esempio di Porto Marghera veniva «confortato anche dall’opinione del Conte Volpi di Misurata». L’ex ministro delle Finanze, in occasione di una delle sue «non infrequenti visite a Trieste», aveva visitato la piana di Zaule, osservato il primo scavo del canale navigabile, esaminato il progetto di piano regolatore, e pronosticato un «ottimo avvenire» per l’iniziativa.154 Con questo viatico – sembrerebbe del tutto verbale – Bonazzi si opponeva alla liquidazione della società, predisponeva nuovi piani esecutivi, ricercava il coordinamento fra le istituzioni interessate e riusciva nell’aprile 1940, alle porte della guerra, ad ottenere dal governo uno stanziamento di venti milioni per l’inizio delle opere demaniali nel perimetro del comprensorio della Sapi. Riprendevano così i lavori di scavo del canale navigabile, che dovevano subito essere interrotti dallo scoppio del conflitto, che avrebbe devastato la città e i suoi impianti. I danni provocati dalle incursioni aeree sulla zona industriale furono ingenti: Bruno Coceani, nel suo profilo dello sviluppo industriale triestino, ne aveva ricostruito le tappe: nel gennaio 1944 fu colpita la zona di Aquilinia; nel marzo si susseguirono cinque bombardamenti sui grandi cantieri di Monfalcone; in aprile furono colpite officine, abitazioni delle maestranze e l’arteria stradale Monfalcone-Timavo. In giugno fu bombardata duramente la città, oltre alla stazione di Sant’Andrea, all’oleificio Gaslini, il deposito di legnami San Sabba, il pastificio triestino; poi ancora la raffineria dell’Aquila, il cantiere San Marco, le petroliere e i piroscafi ormeggiati a breve distanza. Dal settembre 1944 al febbraio 1945 le incursioni sarebbero proseguite, senza risparmiare alcun settore del complesso portuale e industriale: dal porto Duca D’Aosta, ai Cantieri San Marco, all’Arsenale del Lloyd, allo Jutificio e Canapificio, alla zona di Sant’Andrea. Gli incendi avrebebro devastato quanto restava: dal Colorificio Veneziani allo Stabilimento Gas compressi.155 Alla fine della guerra, la piana di Zaule era «una 153. Cecovini, Breve storia del porto industriale di Trieste, pp. 30-31. 154. Ibid., p. 37. 155. Cfr. Coceani, L’ascesa industriale, pp. 322-326.

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Figura 9. Mappa del piano regolatore della zona industriale di Trieste, circa 1940 (fonte: Autorità portuale di Trieste, Il porto di Trieste. Cronaca e storia delle costruzioni portuali, a cura di A. Caroli, Trieste 2002, p. 246)

landa deserta, desolata», «una sorta di chiusa parentesi che escludeva qualsiasi speranza di resurrezione». Ma questa volta alla perdita della «naturale vocazione» del porto, ossia il commercio di transito, non sembrava presentarsi altra scelta se non il necessario impulso alla zona industriale, «che il secondo dopoguerra, chiusa ormai la città nella morsa di angusti confini a ridosso dei paesi ad economia comunista, indicò non più come la scelta opportuna di una possibile alternativa, ma come la condizione assoluta per la sopravvivenza stessa della comunità come ente economico di qualche rilievo». L’opzione industriale, un settore anch’esso piuttosto sfavorito che valorizzato dalle condizioni geografiche decentrate e liminari del porto adriatico, faticava tuttavia a imporsi, anche in termini di cultura economica: «Si trattava anzitutto di far affermare l’idea – tutt’altro che generalmente condivisa – che il problema immediato dell’economia triestina non poteva essere risolto che in termini di programmazione industriale».156 E fu ancora Bonazzi, accompagnato da Antonio Cosulich, come presidente della Camera di Commercio, e da Bruno Forti, presidente del Consiglio comunale, ad avviare i contatti con il Governo Militare Alleato, che accordò il proprio assenso all’iniziativa, subordinandolo all’approvazione da parte delle 156. Cecovini, Breve storia del porto industriale di Trieste, pp. 15-20.

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istituzioni locali: il Comune, la Camera di commercio, la Giunta provinciale amministrativa. Cecovini accennava ancora a forti divisioni in seno alla classe dirigente del capoluogo giuliano: E fu ancora l’ing. Bonazzi a combattere perché ogni diffidenza e resistenza fosse vinta. Era infatti il momento più vicino alla realizzazione e quindi anche il più adatto, perché l’ultimo utilizzabile, a provocare l’offensiva del conservatorismo, che sempre si oppone alle idee innovatrici. Invidia per coloro (la vecchia ‘Zaule’) che, avendo fin dal 1907 creduto nell’avvenire della valle, si vedevano ora premiati dalla valorizzazione dei terreni; paura di coloro che, avendo già industrie in esercizio in altre zone cittadine, potevano temere che l’insediamento di nuove, più moderne e in una zona modernamente concepita e attrezzata, potessero finire coll’attenuare o annullare i loro precedenti sforzi. La lotta, surrettizia, fu tuttavia serrata e tenace. Non vi furono pubbliche espressioni di opposizione alla creazione del porto industriale: ma le pressioni personali, l’uso di influenze oscure, il lavoro sotterraneo di corrosione fu quasi per trionfare.157

«Con la sbarra di confine calata alle spalle di Trieste» Le pressioni non riuscirono tuttavia a prevalere, perché l’Ente del Porto Industriale di Trieste venne costituito nel maggio 1949. Il Governo militare alleato si era mostrato sensibile a promuovere uno strumento economico in grado di attenuare in prospettiva l’elevata disoccupazione e diminuire la dipendenza dell’economia portuale dalla crisi del traffico commerciale e dell’industria cantieristica, allora come non mai legata al supporto di politiche di sovvenzione; ma anche, e non era l’ultima considerazione, uno strumento in grado di erigere una barriera contro la pressione jugoslava alimentata dalla tensione politico-sociale, e di precostituire, grazie agli ingenti investimenti che avrebbe attratto, una condizione favorevole al ritorno della Zona A del Territorio libero di Trieste all’amministrazione italiana. Sullo sfondo, gli obiettivi di contenimento dell’espansione dell’area di influenza comunista e di stabilizzazione dell’area di competenza angloamericana a cui rispondevano gli aiuti Erp.158 Non a caso, la creazione di una zona franca industriale, ritenuta vantaggiosa da buona parte dell’opinione pubblica e soprattutto sostenuta dal dibattito sulla stampa, sarebbe stata respinta, in considerazione delle prospettive di integrazione dell’area nello spazio nazionale italiano nutrite dalle autorità alleate, che il regime di franchigia doganale non avrebbe facilitato. L’Ente per il Porto Industriale di Zaule (poi Epit, Ente porto industriale di Trieste) sarebbe stato varato a ridosso delle elezioni amministrative, sulla base della trasformazione della precedente società a carattere misto pubblico-privato in organismo a carattere interamente pubblico, con gli ordini nn. 102, 103, 104, emanati dal generale di brigata e direttore generale per gli affari civili Ridgley Gaither, pubblicati nella «Gazzetta Ufficiale» del Gma n. 14 del 21 mag157. Ibid., p. 39. 158. Vedi per questo ordine di considerazioni S. Magagnoli, Arcipelaghi industriali. Le aree attrezzate in Italia, Torino 2007, pp. 211-242, in partic. p. 218. Per il ruolo di volano degli aiuti Erp all’economia triestina, soprattutto riguardo la cantieristica, cfr. Sapelli, Trieste italiana, pp. 216-217.

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gio 1949. I provvedimenti emanati ripristinavano fino a tutto il 1958 per le aree interessate le agevolazioni fiscali previste dalla “legge per Napoli” del 1904, applicate dalla legge del 1928 e decadute nel 1943, e le attribuivano al neocostituito ente pubblico. Il punto più significativo consisteva nella dichiarazione di pubblica utilità del progetto del porto industriale, in base al quale si autorizzava l’esproprio dei terreni, appartenenti alla vecchia “Zaule”, senza riconoscerne l’aumentato valore in seguito alle opere di infrastrutturazione e bonifica ivi realizzate: «L’espropriazione di fabbricati, di fondi, nonché di altre proprietà private necessaria ai fini dello sviluppo ai fini dello sviluppo del Porto Industriale di Zaule, si effettuerà in conformità alle disposizioni contenute nella legge 25 giugno 1865, n. 2359, e successive modificazioni, con esclusione, in ogni caso, del maggior valore delle proprietà in seguito a migliorie o altro, risultato o da risultare da lavori intrapresi dal Dipartimento dei Servizi Pubblici (già Lavori Pubblici) o su direttive dello stesso».159 Le attribuzioni dell’ente erano ampie: oltre a promuovere l’espropriazione di fondi, aveva facoltà di acquistare e vendere fondi e fabbricati, provvedere alla concessione di terreni demaniali, promuovere ed effettuare l’esecuzione di lavori quali bacini, capannoni, strade, fognature, installazioni di energia elettrica, gas e acqua, nonché di servizi ferroviari; poteva esigere diritti e canoni, e amministrare le proprietà immobiliari.160 I preventivi semestrali di spesa dovevano essere approvati dal Governo militare alleato, che si riservava ampi poteri discrezionali nella designazione degli organismi dirigenti dell’Ente: nominava infatti il presidente del Consiglio direttivo e approvava la nomina del direttore esecutivo, e aveva facoltà di revocare, in qualsiasi momento, il presidente o qualsiasi membro del consiglio direttivo, e di richiedere la nomina di nuovi rappresentanti.161 Il discorso del generale Airey, comandante della zona del Territorio Libero di Trieste, al varo del lavori dello stabilimento Italcementi, aveva esplicitato gli intenti strategici che informavano il sostegno al porto industriale: La prosperità della nostra zona non può essere assicurata a meno che non costruiamo qui nuove industrie; non possiamo dipendere sempre e solamente dalle vecchie fonti di sussistenza le quali non sono sufficienti adesso a sopportare la nostra aumentata popolazione. Anche dipendiamo in grande misura dall’aiuto esterno, ma i milioni del piano Marshall possono con l’andare del tempo cessare, e con la sua fine Trieste dovrà dipendere ancora di più dall’Italia se vorrà mantenere la sua prosperità, che è salita lentamente ma sicuramente in stretta connessione con l’economia italiana.162

Con la restituzione all’Italia della Zona A del Territorio libero di Trieste, nell’ottobre 1954, gli obiettivi delle autorità amministrative di governo dell’area si sarebbe159. AST, Prefettura, Atti Generali, b. 1358/1946, Ordine n. 102, art. 3, in «Gazzetta Ufficiale», n. 14, 21 maggio 1949. Testo trasmesso da Ente Porto industriale di Zaule a Prefettura di Trieste, 2 maggio 1950. 160. Ibid., Ordine n. 104, Attribuzioni dell’Ente. 161. Ibid., Composizione dell’Ente. Il Consiglio direttivo era composto da tre rappresentanti della Direzione delle Finanze e dell’Economia del Gma, e da un rappresentante per ognuna delle seguenti autorità: Presidente di Zona; Sovrintendente di Finanza; Provveditore dei Lavori Pubblici; Amministrazione ferroviaria; Capitano del Porto; Comune di Trieste; Camera di Commercio; Magazzini Generali; Associazione degli Industriali; Armatori; organizzazione dei lavoratori. 162. Riportato in Coceani, L’ascesa industriale, p. 334.

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Figura 10. Mappa del piano regolatore della zona industriale di Trieste, 1950 (fonte: Archivio di Stato di Trieste, Commissariato del Governo, lavori pubblici. Serie Territorio libero di Trieste (FTT) b. 39/3, fasc. Opere marittime, perizia n. 2886/1950, tratto da Archivio di Stato di Trieste, Biblioteca Statale di Trieste, Soprintendenza archivistica per il Friuli Venezia Giulia, L’evoluzione delle strutture portuali della Trieste moderna tra ’800 e ’900, Trieste 2004, p. 138)

ro mostrati in sostanziale continuità con quelli perseguiti dall’Amministrazione militare alleata, impegnandosi con decisione in politiche di sostegno ai settori strategici dell’economia del porto giuliano, dalla cantieristica, che non era mai scomparsa dall’orizzonte delle incentivazioni pubbliche, al porto industriale, ampliandone la superficie e investendovi in opere edilizie e di servizi infrastrutturali.163 All’indomani della riunificazione, Bonazzi enumerava le realizzazioni attuate nel primo quinquennio di vita dell’ente, dall’approvazione del piano regolatore per un territorio di circa cinque milioni di metri quadrati, alla quasi completa ultimazione del canale navigabile; a nuove linee ferroviarie di raccordo agli stabilimenti, strade interne, bonifiche e fognature, un elettrodotto e l’impianto della rete di illuminazione. Era stata interamente costruita la nuova sede dell’ente. Le industrie in attività annoveravano il ripristino della raffineria Aquila, interamente ricostruita, e della Esso (Standard Oil); la costruzione di un impianto Italcementi – il cui progetto, ricorderemo, risaliva a uno stabilimento dell’Ilva del 1938 – e di una quarantina di piccole e medie industrie (colorifici, serramenti in 163. Magagnoli, Arcipelaghi industriali, pp. 219-226. Vedi anche nell’insieme R. Drozina, Cenni su cinquanta e più anni della zona industriale, Trieste 1999.

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lega di alluminio, paste alimentari, legni compensati, insetticidi e detersivi, abbigliamento). Una delle aree prospicienti il canale navigabile era già stata «accaparrata» dalla Montecatini, e ci si augurava la prossima nascita dello stabilimento.164 All’indomani dell’emanazione degli ordini da parte del Gma, Bonazzi, di fronte all’assemblea degli azionisti della Sapi convocata per decretarne lo scioglimento, aveva rivendicato la continuità della società da lui presieduta con il costituendo ente pubblico: date infatti le «difficoltà tecniche» della trasformazione della società in ente, un comitato appositamente formato da rappresentanti del Comune, della Provincia della Camera di Commercio, aveva predisposto un progetto di statuto per un nuovo organismo. «In quello stesso tempo il Gma su nostra pressione e su nostro consiglio, stilizza finalmente gli Ordini, che segnano la riuscita della nostra iniziativa e l’accettazione delle nostre proposte. Tali Ordini, sia pure con qualche lacuna facilmente colmabile, regolano in modo unitario la questione del porto industriale di Zaule sulla base dei progetti da noi predisposti». E ancora: «Noi riteniamo che una cosa sia a tutti ben chiara e dimostrata: che cioè la nostra Società ha ideato, sviluppato, divulgato e in gran parte realizzato l’iniziativa del Porto Industriale di Zaule […] Cambia la forma dell’Ente, ma la sostanza rimane sempre la stessa: la nostra iniziativa!».165 Tanta enfasi suggerisce tuttavia la presenza di ostacoli. Come ricordava Bonazzi stesso, i primi contatti con il Gma risalivano al settembre 1947; le autorità locali, dopo «estenuanti dibattiti», si erano convinte della bontà del progetto del porto industriale; l’opinione pubblica pronunciava un «plebiscito favorevole»: «la Cittadinanza, attraverso la stampa di ogni tendenza, si dichiara incondizionatamente favorevole al progetto»; di più, «i solerti rappresentanti della stampa locale […] con costanza e tenacia degna del loro compito, ci hanno affiancato in maniera veramente encomiabile, dando così un notevole appoggio all’azione di propaganda, che la Società si era proposta per la divulgazione dell’iniziativa».166 Nei mesi trascorsi fra l’avvio dei contatti e l’istituzione del nuovo ente, tra i due gruppi che facevano capo rispettivamente alla vecchia società “Zaule” – sicuramente più orientata verso obiettivi di speculazione fondiaria167 – e alla Sapi aveva preso forma un contrasto, che aveva per oggetto la titolarità dei lavori di valorizzazione attuati nel vallone destinato alla zona industriale. Già dal gennaio 1947 il barone Demetrio Economo, presidente della Società immobiliare Zaule, si rivolgeva al Gma per illustrare l’azione svolta dal 1905, anno di nascita dell’associazione, al 1928, con l’emanazione della legislazione speciale. Economo sosteneva che l’attività dell’Associazione negli anni dell’anteguerra fosse stata «molto intensa e proficua», finanziando in proprio la costruzione del tron164. I. Bonazzi, Realizzazioni del Porto industriale di Trieste, Trieste, s.n.t., novembre 1954. 165. AST, Prefettura, Atti Generali, b. 1358/1946, Porto industriale di Trieste SpA, Relazione del Consiglio di Amministrazione sull’attività ventennale (1929-1949) presentata il 27 giugno 1949 in occasione della riunione dell’Assemblea generale degli Azionisti, pp. 6-7. 166. Ibidem. Fra le carte della Prefettura è conservato un ritaglio del giornale «Il mare», che ripercorre le vicende sopra esposte, attribuisce alla Sapi l’iniziativa dell’avvio delle trattative, sollecita l’emanazione degli Ordini da parte del Gma, e rivendica di aver avuto l’idea di sciogliere la vecchia società e ricostituire un nuovo ente (ibid., Il Porto industriale. Sorgano al più presto le ciminiere nel Vallone di Zaule, in «Il mare. Trieste mercantile», a. III, n. 24, 12 giugno 1948). 167. Cfr. Magagnoli, Arcipelaghi industriali, p. 213.

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co ferroviario Zaule-Campomarzio concessa dal governo asburgico, l’avvio dello scavo del canale, lo spostamento di una polveriera militare, e svolgendo numerosi rilievi topografici e idrografici. Con la legge del 1928, però, ne era stata «compromessa ogni futura possibilità di vita», disponendo «la possibilità di esproprio da parte di un costituendo Ente parastatale, cui sarebbe stato devoluto il compito di continuare a dar corso alle varie iniziative già da tempo in atto, per rivendere indi i terreni così valorizzati alle industrie interessate». Era proprio la legittimità di tale ente, ossia la Sapi, ad essere contestata dal barone Economo: «[la Sapi] svolse una limitata attività sotto la protezione del passato regime. Oggi questa Società, che ledeva apertamente oltre che i diritti acquisiti dall’Associazione per i fondi di Zaule, anche quelli di tutti gli altri proprietari della zona, è venuta a cessare, né si vede come essa possa riprendere, mancando ormai la pregiudiziale fascista che stava a suo fondamento».168 Ciononostante, la Zaule proponeva alla Sapi di costituire, con l’apporto di un «forte gruppo industriale-finanziario», un nuovo organismo che accomunasse le due società: «La nuova situazione politica di Trieste, mentre promette di rendere possibile la realizzazione degli scopi comuni alle due Società, sembra consigliare l’accomunamento delle iniziative e delle attività dei due Enti, al fine di far concorrere gli sforzi al raggiungimento dei comuni fini sociali».169 Proposta che veniva respinta all’unanimità dal Consiglio di Amministrazione della Sapi, giudicando i fini sociali della Zaule «antitetici ai nostri».170 Nell’occasione della discussione sulla proposta di fusione, Bonazzi ripercorreva in un promemoria le vicende societarie, chiarendone l’atto di nascita in rapporto al passato regime e la necessità strategica dell’opzione industrialista, sia come “prezzo della redenzione” dopo la prima guerra mondiale, che come antemurale alla minaccia titina, dopo la seconda. «Il progetto di porto industriale di Trieste è sorto in virtù di una legge in un periodo che tutti abbiamo deprecato»; tuttavia, andava ribadito che «la Redenzione […] ha chiuso un ciclo storico e che da tale momento in tutti gli italiani di sicura fede doveva aprirsi una mentalità orientata verso nuove mete», vale a dire, «Trieste doveva sentire la necessità di supplire con nuove attività quelle che sarebbero state le deficienze naturalmente determinatesi in dipendenza del nuovo stato geo-politico». Il porto industriale, in quest’ottica, veniva a rappresentare una necessità storica, dovuta all’integrazione nello spazio economico nazionale che comprendeva peraltro «numerosi e ben ubicati altri porti». Ma ciò che venne a mancare fu l’impegno della classe economica triestina: «un pronto intervento del capitale locale, che avrebbe dovuto sentire in quell’ora l’efficacia dell’azione coll’offrire un più largo apporto per dimostrare tangibilmente al Governo il suo vivo interesse alla sorte dell’economia locale, avrebbe potuto bilanciare, o meglio, aver ragione dell’azione contrastante».171 Al mo168. AST, Prefettura, Atti Generali, b. 1358, Società Anonima Immobiliare Zaule a Governo Militare Alleato; oggetto: la zona industriale di Trieste, a firma Demetrio Economo, presidente, e Antonio Marussi, segretario, Trieste, 15 gennaio 1947, p. 3. 169. Ibid., Demetrio Economo per Società immobiliare Zaule a Società anonima Porto Industriale di Trieste, 14 maggio 1947, p. 1. 170. Ibid., Allegato a Verbale del Consiglio di Amministrazione [della Sapi] tenuta in Trieste […] il giorno 31 maggio 1947, p. 6. 171. Ibid., p. 2.

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mento attuale, alla necessità storica dell’industrializzazione di Trieste, si era aggiunta la necessità politica, che «s’individua nella capacità di saper erigere, non baluardi d’acciaio, ma un baluardo che sia centro d’attenzione e cantiere di opere, che offrano pane e serenità a chi in esso lavora». E un fine che configurava una sorta di funzione pubblicistica nell’obiettivo dell’industrializzazione del porto giuliano: «la nostra Società, il cui capitale è per il 70% circa in mano di Enti pubblici o Enti di preminente interesse nazionale, assume la fisionomia di un ente che opera nella cerchia di interessi collettivi. Il compito che ci è affidato è di indubbia utilità pubblica».172 Sulla linea della richiesta della dichiarazione di utilità pubblica la Sapi si sarebbe attestata, accettando di trasformarsi in Ente allargato, che comprendesse anche la Società concorrente. A questo proposito sarebbero state presentate soluzioni diverse, come l’ipotesi di un Consorzio che raccogliesse anche gli enti locali gli istituti finanziari e industriali più importanti della città, avanzata dalla prefettura173 e preferita dalla Sapi, mentre la “Zaule” avrebbe insistito per una forma interamente pubblica, e «non come ora di azionariato misto», poiché «non si ritiene giusto che l’espropriazione di pubblica utilità vada a scapito degli azionisti della Zaule ed a favore anche degli azionisti privati dell’apporto industriale».174 La soluzione pubblicistica sarebbe stata alla fine accettata anche dalla Sapi, che sarebbe riuscita a far passare il principio della pubblica utilità, ma non la richiesta della costituzione di una zona franca industriale, avanzata in seguito alle preoccupazioni generate dalla creazione del Territorio libero di Trieste, per il regime di isolamento territoriale che avrebbe potuto comportare, e appoggiata dalle istituzioni locali (Consiglio comunale, Consiglio di zona, Camera di commercio).175 Qualche mese dopo, Bonazzi, essendo ancora impregiudicata la questione del regime di franchigia doganale, aveva chiesto al Governo Militare Alleato di soprassedervi, per non compromettere le altre richieste, preparando al contempo la traccia dei tre ordini, emanati dal Gma per la creazione dell’Ente zona industriale l’anno successivo.176 I contrasti intestini avevano dunque rallentato la risoluzione del problema, ma avrebbero sortito comunque un esito di composizione e compromesso, tale da configurare un superamento delle contrapposizioni fra gruppi economici, che risalivano ai 172. Ibid., pp. 4-8. 173. «Dovrebbe insomma essere creato per tal modo un Ente consorziale, di tale importanza effettiva, morale e pratica, e di tale eutorità quale ente rappresentativo di tutta l’economia locale, da imporsi all’attenzione e alla considerazione dei futuri governanti di Trieste e del cosiddetto T.L.T.», ibid., Prefettura di Trieste, Il presidente di zona per la zona di Trieste, Edmondo Puecher, al presidente del Consiglio di Zona Fernando Gandusio, 21 giugno 1947. 174. Ibid., promemoria 21 maggio 1948, sottolineatura nell’originale; vedi anche ibid., Società Anonima Immobiliare Zaule al Presidente di zona Gino Palutan, Trieste, 3 giugno 1948, dove la “legge per Napoli” che consente l’esproprio per pubblica utilità è definita «legge antidemocratica per eccellenza» (p. 1). 175. Ibid., S.A. Porto Industriale di Trieste, Progetto di una costituenda zona industriale franca nel porto di Trieste, Trieste, 21 ottobre 1947. Il termine “franca” è aggiunto a penna. Vedi anche Id., 15 dicembre 1947. I progetti sono a firma Bonazzi. 176. Ibid., S.A. Porto Industriale di Trieste al Presidente di Zona, Promovimento industriale di Trieste, 11 maggio 1948. Vedi anche, per la posticipazione della questione del porto franco industriale, ibid., Processo verbale della seduta del Consiglio comunale tenuta addì 19 maggio 1948, e Relazione del Consiglio di Amministrazione della Sapi all’Assemblea degli Azionisti del 30 giugno 1848.

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decenni precedenti. È vero, infatti, che nella concorrenza che opponeva i due organi societari si leggevano tracce dei contrasti in seno alla classe dirigente triestina, così come si erano configurati all’indomani della “redenzione”, laddove i gruppi ritenuti più legati al nesso asburgico – come era il caso degli Economo, ma anche della famiglia Brunner – avrebbero scontato una forma di marginalizzazione dai provvedimenti di sostegno economico, a favore di settori meglio inseriti nei canali di intermediazione politica ed economica con il nuovo regime.177 Come era il caso della Sapi, essa stessa una “creatura” della legislazione speciale del regime fascista ed effetto di un impulso “politico” in direzione industrialista, che rappresentava una certa soluzione di continuità con i tradizionali orientamenti della classe dirigente. Con le parole di Bonazzi, «la nostra iniziativa […] cadeva in un terreno ostico o quantomeno indifferente, per la mancanza di una coscienza industriale nella nostra città. Si riteneva allora, dai più, che la vita economica di Trieste dovesse ritenersi sufficientemente garantita dalla sua tradizionale attività di traffico, subendo passivamente l’alea del commercio».178 Di fatto, quella che nel 1949 si affermava con la nascita dell’Ente zona industriale, era una sostanziale linea di continuità fra fascismo e postfascismo, laddove ciò che veniva realizzato sotto l’egida del Governo Militare Alleato era il principio contenuto nella legislazione del 1928, dell’industrializzazione sorretta da investimenti statali e assistita da enti e imprese a partecipazione pubblica.179 E vale la pena richiamare qui i giudizi coevi di Roletto sul «fenomeno dell’imboscamento» dei capitali riguardo le necessità dell’industrializzazione presso «certi ambienti meno preparati moralmente» e «imbevuti di malsano “cosmopolitismo»,180 per riprendere in esame a questo punto la questione della scarsa propensione da parte dell’élite economica del capoluogo giuliano ad investimenti produttivi in direzione di una crescita industriale sostenuta, alla quale rispondeva l’impulso “politico” della legislazione speciale con i provvedimenti del 1928 e la creazione della Sapi. Uomini e politiche per il porto industriale A ben vedere, non è il caso di accreditare un’interpretazione seccamente dualistica e antitetica fra una linea “endogena” imperniata sulla “continuità impossibile” di Trieste, porto di transito, e una linea industrialista interamente esogena, indotta dal centro politico per il tramite di funzionari e “tecnici” dell’economia, e accolta dall’élite economica locale solo una volta erosi i margini di mantenimento degli equilibri esistenti. Con le parole di Bonazzi, solo quando, «dopo la guerra, con il fatale atto di nascita del Territorio Libero, con la sbarra di confine calata alle spalle di Trieste, con l’agricoltura assente, con scarsità d’industria e traffici paralizzati, la nostra città ven177. Sul confronto storico fra vecchie e nuove élite cfr. sempre Millo, L’élite del potere a Trieste, pp. 245-299, e Sapelli, Trieste italiana, pp. 58-102 e 111-137. 178. Cfr. AST, Prefettura, Atti Generali, b. 1358, Relazione del Consiglio di Amministrazione della Sapi all’Assemblea degli Azionisti del 30 giugno 1848, p. 5. 179. Cfr. R. Petri, Storia economica d’Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (19181963), Bologna 2002, pp. 97-104. 180. Roletto, Il porto di Trieste, p. 69.

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ne a trovarsi pressoché isolata tra due mondi in contesa», allora «ostilità vere a proprie alla creazione del porto non ne esistono più».181 In realtà, l’opzione industrialista si era presentata a più riprese nel corso dei decenni fin dal periodo asburgico. Già nel 1875 venivano pubblicati i risultati dei lavori di una commissione mista istituita dal Municipio e dalla Camera di Commercio triestini per sostenere l’economia del porto, dove veniva raccomandata la diffusione di una cultura industriale e la costruzione di nuovi impianti come mezzo per l’ulteriore valorizzazione dei traffici triestini vincolandoli alle industrie di trasformazione del retroterra. Più tardi, al termine della Grande guerra, il podestà di Monfalcone Arturo Rebulla pensava ad un vasto piano di espropri, bonifiche, collegamenti ferroviari, facilitazioni fiscali e finanziamenti pubblici – peraltro concepito ancora in ambito asburgico – per l’impianto di una zona industriale fra Trieste e Monfalcone, anticipando le linee del dispositivo del 1928, che inizialmente comprendeva infatti anche Monfalcone.182 È vero dunque che una riflessione sull’opportunità di incentivazioni all’industria in rapporto al traffico portuale si era sviluppata nel corso dei decenni a cavallo fra Impero asburgico e Regno d’Italia; ed è vero anche che l’istituzione della zona industriale attraverso l’estensione della legge per Napoli era stata richiesta in loco dalla Federazione provinciale fascista di Trieste, per «ritemprare» l’economia triestina con l’ampliamento della produzione industriale diretta non solo all’estero ma anche al mercato nazionale.183 Ma è particolarmente significativo, ad attenuare l’interpretazione “dualistica” sopra accennata, porre attenzione ai protagonisti della vicenda della Sapi durante il ventennio che va dalla sua fondazione alla trasformazione in Ente zona industriale, finalmente operativo. Dalle carte dell’Istituto della Ricostruzione Industriale, che attraverso la Banca Commerciale-Sofindit controllava la maggioranza delle azioni Sapi, vediamo che il primo presidente della Società è stato Fulvio Suvich, grande sostenitore dell’orizzonte “mitteleuropeo” per i traffici giuliani e fautore degli accordi italo-austro-ungheresi del 1934.184 Nel 1932, in seguito all’assunzione della carica di sottosegretario di Stato agli affari esteri, le sue dimissioni dalla presidenza della Società furono accolte con la deliberazione di non procedere alla surroga della carica, quale «atto di riconoscenza e deferenza» «per la passione da lui manifestata per le finalità sociali», e per l’ efficacia del suo interessamento «per la definizione delle difficili pratiche con i dicasteri centrali».185 Nell’insieme, nella composizione dei primi Consigli di amministrazione si rifletteva una rappresentanza di interessi radicata nei settori forti dell’economia triestina, e supportata da personaggi chiave della mediazione politica. Come vicepresidenti dell’esercizio 1931 – per la durata quadriennale 181. Relazione del Consiglio di Amministrazione della Sapi all’Assemblea degli Azionisti del 30 giugno 1848, pp. 5-6. 182. Cfr. Fragiacomo, La grande fabbrica, la piccola città, pp. 26-28, 53-54, 107-110. 183. Cfr. Sapelli, Trieste italiana, pp. 101-102. 184. Archivio Centrale dello Stato [ACS], Fondo Iri, numerazione rossa, b. 91, fasc. Note e memorie degli Uffici Iri. Società Anonima Porto Industriale di Trieste, Inserto C, Composizione Consiglio di Amministrazione e Collegio dei sindaci, anni d’esercizio 1932, 1933, 1934. da cui traggo tutte le informazioni sui Consigli di Amministrazione. 185. Ibid., Inserto 18, Assemblee, Bilanci e Relazioni. Soc. Anonima Zona industriale del Porto di Trieste, Verbale della seduta del Consiglio d’Amministrazione del 30 settembre 1932.

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delle cariche, analogo a quello della fondazione – figuravano Guido Segre, esponente del legame tra il capitale nazionale (Comit, Fiat) e le imprese locali, consigliere di amministrazione dei Crda, della società Arsa, dello Jutificio triestino e Giovanni Banelli, ex ministro dell’Economia Nazionale fra il 1924 e il 1925, poi presidente dei Magazzini Generali, consigliere d’amministrazione di varie società armatoriali, come il Lloyd Triestino, la Navigazione Libera Triestina, la Società di navigazione Gerolimich, di cui era all’epoca vicepresidente. Fra i consiglieri, nella veste di fiduciario Comit, figuravano Camillo Ara insieme a Giovanni Seitz, e inoltre: l’armatore Mario Tripcovich; il fiduciario degli interessi marittimi legato alla famiglia Cosulich, Alberto Moscheni; il direttore della Ras Arnoldo Frigessi di Rattalma; l’industriale Gerolamo Gaslini; Edgardo Morpurgo, direttore delle Assicurazioni Generali e vicepresidente di Confindustria; il podestà di Trieste Giorgio Pitacco; Bruno Coceani, allora funzionario del partito e podestà di Monfalcone; e ancora Enrico Marchesano, alto dirigente della Ras, consigliere di amministrazione Crda, futuro presidente dell’Iri; Giorgio Sanguinetti, presidente dell’Unione Industriale fascista della Venezia Giulia. Negli anni successivi sarebbero entrati l’armatore Alberto Cosulich; il commissario dei Magazzini generali, Armando Gaeta; Ernesto Alpron, direttore della Banca Nazionale di credito; Enrico Paolo Salem, grande azionista della Ras, vicino a Frigessi e Brunner, senza che l’equilibrio della composizione degli interessi fosse sostanzialmente alterato. L’elenco degli azionisti nel 1936 annoverava, oltre all’Iri che deteneva la maggioranza relativa, Comune e Provincia di Trieste, Consiglio Provinciale dell’Economia Corporativa, e inoltre la Società Cosulich, la Navigazione Libera Triestina, Assicurazioni Generali, Ras, Crda e altri minori.186 Nel corso dei primi anni di vita, il timone era saldamente tenuto dal gruppo dirigente, nell’assoluta consapevolezza dello stato di inattività della Società: una proposta di Sanguinetti di parziale smobilizzo per una quota del capitale sociale «oggi non necessaria per la limitata attività consentita dalle circostanze», veniva respinta dal vicepresidente Segre, con l’argomento, riportato nella minuta ma non nella versione a stampa del verbale, che ciò sarebbe equivalso a «dichiarare così implicitamente l’impotenza della Società a conseguire lo scopo che si era prefisso e quindi non potere validamente sostenere di fronte al Governo l’opportunità di ottenere il mantenimento dei benefici avuti».187 L’anno successivo la minuta riportava una descrizione impietosa dell’azione sociale, rilevando che «la Società in rapporto alle sfavorevoli condizioni generali, non ha pressoché svolto dalla fondazione alcuna attività limitandosi a convocare raramente il proprio Consiglio: per il raggiungimento del fine sociale è stata svolta una propaganda mediante circolari, opuscoli etc. per diffondere la conoscenza dei vantaggi di carattere fiscale riservati alle nuove industrie nonché delle op186. Ibid., Verbale della VII Assemblea generale ordinaria della Società anonima per azioni “Zona industriale del Porto di Trieste”, 22 giugno 1936. 187. Ibid., Minuta dattiloscritta del verbale dell’assemblea 13 giugno 1932. Nella versione a stampa era limitato alla «impressione molto sfavorevole che esso [smobilizzo] susciterebbe nei circoli cittadini, che hanno viceversa bisogno di essere rincuorati dall’atteggiamento fermo e pieno di fiducia degli enti economici» (Verbale della seduta del Consiglio d’Amministrazione del 30 settembre 1932, p. 231). La proposta di riduzione del captale sociale sarebbe stata ripresentata nel 1935 (ibid., Corrispondenza varia, Direzione Centrale Banco di Roma a Iri, Roma, !6 settembre 1935).

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portunità offerte alle industrie stesse dal porto di Trieste dalle sue linee di navigazione etc.; tale propaganda non ha dato risultati positivi»; ma dava notizia anche di «contrasti vivaci» circa l’opportunità di attuare un programma di lavori sui terreni di Monfalcone inclusi nell’area del porto industriale, sostenuto da «elementi che hanno interessi a Monfalcone (Cantieri Navali, Cosulich, Federazione industriale)» e osteggiato da «elementi più rappresentativi di Trieste», contrari alla creazione di nuovi impianti «che non potrebbero non rappresentare una concorrenza per il porto di Trieste il quale ha vasti impianti attualmente in parte inoperosi»: decidendo in conclusione di «limitare prudentemente l’azione della Società».188 E negli anni successivi la Sapi si sarebbe in effetti attenuta a tale prudente limitazione, riducendosi all’amministrazione del patrimonio sociale.189 Ciononostante, il governo avrebbe confermato fino a tutto il 1938 le agevolazioni tributarie previste dalla legge 1928, per la zona industriale di Trieste,190 dove nel frattempo era sorta la raffineria Aquila. L’anno successivo, il 1938, l’unico atto approvato fu l’assegnazione di un contributo al Comitato triestino dei traffici. Ma i toni non erano sereni. Il presidente Guido Segre sentiva di dover dar conto delle ragioni che non avevano ancora consentito un avvio dei lavori di valorizzazione della zona industriale, individuandole in «depressione economica […] tendenza generale al concentramento anziché all’espansione delle attività industriali, troppo breve durata del periodo di proroga […] condizioni ambientali particolarmente sfavorevoli, nonché la scarsità dei mezzi finanziari a disposizione della Società», e auspicando di conseguenza un’ulteriore proroga dei privilegi fiscali, che poi sarebbe stata concessa ancora per un quinquennio, fino al 1943. Più preoccupato del mutamento del quadro internazionale dovuto all’espansione tedesca era Bruno Coceani, che si richiamava alle «importanti dichiarazioni fatte da un’altissima personalità politica al recente Convegno di Milano per gli studi di politica internazionale circa la ripresa delle funzioni del porto di Trieste nei suoi rapporti con il settore balcanico e danubiano in seguito alla recente svolta della situazione politica dell’Europa centrale».191 Con l’ottenimento della seconda proroga dei privilegi fiscali, si intravedeva un inizio di attività. Nel marzo 1940 il governo stanziava 20 milioni per lo scavo del canale navigabile a cura del Genio civile, e veniva aumentato il capitale sociale per poter procedere all’acquisto dei terreni necessari: in quell’occasione Cosulich interveniva per compiacersi dell’«attività così felicemente avviata e diretta all’intensificazione della zona industriale di Trieste», e per sottolineare che essa «nell’ora attuale di cordiale unione politica fra i due grandi Stati, assume un’importanza capitale per i vasti compiti che la società sarà chiamata ad assume188. Ibid., Società Anonima per Azioni “Zona industriale del Porto di Trieste”, Assemblea Generale ordinaria del 28 giugno 1933. Nessuna delle considerazioni sopra citate è stata riportata nel verbale a stampa. 189. Ibid., Verbale della VII Assemblea generale ordinaria della Società anonima per azioni “Zona industriale del Porto di Trieste”, 22 giugno 1936. cit. 190. Ibid., Verbale della VIII Assemblea generale ordinaria della Società anonima per azioni “Zona industriale del Porto di Trieste”, 28 giugno 1937. 191. Ibid., Verbale della IX Assemblea generale ordinaria della Società anonima per azioni “Zona industriale del Porto di Trieste”, 21 giugno 1938, pp. 5-6. Nel frattempo erano stati cooptati Italo Bonazzi e il fiumano Edmondo Oberti di Valnera.

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re».192 Ma poi il vicepresidente Bonazzi doveva informare il Consiglio d’Amministrazione che i lavori demaniali di escavo non potevano continuare a causa dello stato di guerra;193 e due anni dopo, durante l’occupazione tedesca e sotto i bombardamenti angloamericani, doveva aggiungere che «i lavori di sistemazione del porto, non solo sono definitivamente sospesi, ma quelli che erano in via di avanzata costruzione sono stati abbandonati a sé stessi con grave pregiudizio avvenire», tuttavia assicurando che la progettazione del piano regolatore dell’area e le «concrete trattative con gli industriali» proseguivano comunque.194 A guerra finita, in attesa delle deliberazioni che avrebbero poi dato vita al Territorio libero di Trieste, Bonazzi, dichiarando «la nostra fede ardente e tenace di poter dare rapide prove del secondo Risorgimento nazionale in questo contrastato lembo di Patria, che è stato e sarà fucina di onorato lavoro», informava di avere esposto i progetti del porto industriale al Governo Militare Alleato, che aveva dimostrato «vivo interesse» per l’opera, rammaricandosi che nonostante gli affidamenti pubblicamente dati dal Gma lasciassero sperare nell’inizio dei lavori, questi non avessero ancora avuto luogo.195 L’anno dopo, mentre «i nostri occhi dolorosamente guardano schiere di volonterose maestranze che attendono il risveglio della nostra economia», nessuna attività concreta era ancora iniziata, 196 e solo nel 1948 Bonazzi poteva come abbiamo visto annunciare la prossima costituzione dell’Ente. Il nodo del mancato avvio del porto industriale va dunque certamente ricondotto al nesso funzionale fra il carattere finanziario-armatoriale delle élites del capoluogo giuliano e la loro scarsa propensione ad investimenti industriali che esulassero dalla navalmeccanica e dagli altri impianti “tradizionali”: nesso che riecheggiava nelle deplorazioni del futuro rettore Roletto sull’«imboscamento dei capitali» e la necessità di «trasfusioni di sangue» nell’economia del porto giuliano. Una conferma di ciò era la presenza costante di esponenti dei settori forti dell’economia triestina nel Consiglio di amministrazione di una Sapi che ha evitato accuratamente di attuare investimenti produttivi nell’area fino al secondo dopoguerra: una prudenza che può essere messa in relazione alla preoccupazione di non distrarre fondi dalle sovvenzioni pubbliche alla cantieristica.197 E, certo, a un esito di stallo degli investimenti nel porto industriale sortivano le divisioni interne ai gruppi dirigenti, come ci ricordava il «vivace contrasto» del 1932 circa gli investimenti su Monfalcone, che per il timore che risultassero concorrenziali rispetto agli impianti portuali del capoluogo, venivano sospesi, e con essi qualsiasi altra attività della Società. Ma questa sia pure esile traccia 192. Ibid., Verbale d’assemblea generale ordinaria della Società anonima per azioni “Porto industriale di Trieste”, 24 giugno 1940, pp. 12-13. 193. Ibid., Verbale d’assemblea generale ordinaria della Società anonima per azioni “Porto industriale di Trieste”, 27 giugno 1942, p. 2. 194. Ibid., Verbale d’assemblea generale ordinaria della Società anonima per azioni “Porto industriale di Trieste”, 24 giugno 1944, p. 4. 195. Ibid., Verbale d’assemblea generale ordinaria della Società anonima per azioni “Porto industriale di Trieste”, 27 giugno 1946, p. 5. 196. Ibid., Verbale d’assemblea generale ordinaria della Società anonima per azioni “Porto industriale di Trieste”, 30 giugno 1947, p. 3. 197. Su questo punto cfr. Magagnoli, Arcipelaghi industriali, p. 216.

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ci suggerisce come all’origine del mancato sviluppo del porto industriale come effetto delle divergenti strategie delle élite economiche triestine andasse ricercata non tanto una contrapposizione tra impulso industrialista esogeno e riflesso “marittimo” endogeno, quanto una gerarchia di priorità circa la destinazione delle risorse che potevano essere ricavate dalle sovvenzioni pubbliche, dirette o indirette: risorse che fino al termine del secondo conflitto mondiale venivano indirizzate prevalentemente al grande settore dell’economia marittima. E d’altronde, va ricordato che la produzione e l’occupazione industriali, al di fuori della zona portuale, erano comunque cresciute nel corso degli anni Trenta: l’impiego di forza lavoro operaia era aumentata di quasi il 60% tra il 1934 e il 1938, passando, in termini assoluti, dai 12.000 addetti del 1924 agli oltre 34.000 del 1938; il tasso di industrializzazione locale era nello stesso periodo incrementato a un tasso annuo dell’11,5%, superando la media nazionale.198 A suffragare la tesi della gerarchia di priorità, e non della contrapposizione, fra economia marittima e industriale, stava la figura di Bruno Coceani, uno fra i più forti sostenitori della necessità di uno sviluppo industriale per il porto giuliano. Bruno Coceancig – così suonava il cognome prima dell’“italianizzazione” del 1928 – era nato a Monfalcone nel 1893; dopo la licenza liceale proseguì gli studi universitari a Vienna, Firenze e Padova, dove si laureò nel 1917; l’agitazione irredentista, a cui aveva aderito dalle file del partito repubblicano, diventò con lo scoppio della guerra forte attivismo interventista, partendo poi volontario al momento dell’entrata in guerra dell’Italia. Tornato a Trieste insignito della croce di guerra e insegnante di liceo, fu tra gli animatori dei comitati cittadini antibolscevichi, sostenne l’impresa fiumana, fondò insieme a Fulvio Suvich la sezione triestina dell’associazione nazionalista. Nel 1923 fu incaricato di portare a termine la confluenza del partito nazionalista nel Pnf; fu per un anno segretario politico del fascio triestino, poi emarginato per divergenze con l’ala estremista di Francesco Giunta, e riammesso nel 1926, quando divenne segretario dell’Unione industriali della Venezia Giulia, ricoprendo poi incarichi su designazione della Confindustria, come quello di commissario nazionale della Federazione dell’Industria della pesca. L’anno successivo fu nominato podestà di Monfalcone; il suo legame alla famiglia Cosulich fu sempre dichiarato e ribadito a più riprese. Dal 1934 fu eletto deputato. Dall’ottobre 1943 fu prefetto di Trieste sotto occupazione tedesca; condannato in contumacia nel 1946 per collaborazionismo, fu poi assolto nel 1947, svolgendo, tornato a Trieste, soprattutto attività giornalistica e saggistica.199 Il profilo che emerge fra anni Venti e Trenta è quello di un uomo legato ai settori forti dell’economia del porto giuliano, in particolare agli ambienti armatoriali. I complessi carteggi relativi al tentativo non riuscito di inserirlo nella lista dei candidati alle elezioni del 1929, conservati fra le carte del Fondo Coceani all’Archivio di Stato di Trieste, ne evidenziano il ruolo di fiduciario degli interessi armatoriali e industriali. La sua candidatura per l’inclusione nella lista elettorale era stata avan198. Ibidem. 199. Per informazioni biografiche su Coceani cfr. la nota introduttiva a Deputazione di storia patria per la Venezia Giulia, Archivio Bruno Coceani (1893-1978), parte I, inventario a cura di N. Guidi, dattiloscritto, 2006, pp. III-V. Vedi anche, per i resoconti a sfondo autobiografico registrati durante il suo ufficio di prefetto sotto occupazione tedesca, B. Coceani, Mussolini, Hitler, Tito alle porte orientali d’Italia, Bologna 1948, ristampa Gorizia 2002.

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zata in prima istanza dall’Unione Industriale Fascista della Venezia Giulia, presieduta da Sanguinetti, che insieme ad Arminio Brunner lo raccomandava al direttore generale di Confindustria – e rappresentante presso il Gran Consiglio del Fascismo – Gino Olivetti, come pieno interprete degli interessi industriali, «sia perché gode della fiducia intera degli industriali delle tre provincie [Trieste, Gorizia e Pola] e domina per la sua decennale esperienza i problemi della regione, sia perché in queste terre politicamente ha potuto affermarsi per la sua lunga azione politica».200 Tuttavia, erano state sollevate difficoltà formali circa la sua eleggibilità, relative alla sua funzione di segretario dell’Unione industriale: dunque subordinato e non diretto rappresentante di interessi. Per superarle, Sanguinetti aveva in proposito avuto un colloquio con il presidente di Confindustria, Benni, e avanzato argomenti significativi: senza Coceani «ne risulterebbe questa situazione, che tre provincie della Vanezia Giulia di notevole importanza industriale a contatto con i paesi danubiani e con l’Oriente in posizione periferica e non ancora integralmente saldate alla vecchia Italia, resterebbero senza una effettiva e diretta rappresentanza degli interessi industriali».201 Sulla stessa linea insisteva con Morpurgo: «Certo la mancanza di una effettuale rappresentanza della nostra classe nella futura Camera corporativa, metterebbe Trieste in posizione di inferiorità pregiudizievole, tanto più grave quanto maggiormente delicata e difficile di fronte alle altre province è la nostra posizione di emporio marittimo e di città periferica all’estremo e più sensibile confine della nazione».202 Risultando insuperabili gli ostacoli, a sostegno di Coceani si muoveva la Federazione degli Armatori Giuliani, presieduta da Cosulich, pregando il prefetto di segnalare direttamente a Mussolini il sostegno all’allora podestà di Monfalcone, che in una lettera a Bottai, ministro delle Corporazioni, veniva detto godere della «stima unanime di tutti gli industriali della Venezia Giulia» ed essere la persona «più indicata per rappresentare nella Camera Corporativa gli interessi delle nuove provincie», confermando in un telegramma il «vivo desiderio» della Federazione degli armatori dell’elezione di Coceani.203 I medesimi argomenti sarebbero stati riproposti nella tornata elettorale successiva e con analogo procedimento, ma con maggiore successo: il presidente dell’Unione Industriale Fascista della Venezia Giulia avrebbe segnalato al commissario generale di Confindustria, Alberto Pirelli, i candidati Francesco Giunta, Bruno Coceani, Domenico Pacchiarini, Cesare Sacerdoti e Guido Segre, precisando che alme200. AST, Fondo Coceani, busta 44, fasc. 479, copia di lettera di Sanguinetti a Olivetti, 30 gennaio 1929, non firmata. La lettera era girata anche a Edgardo Morpurgo nella sua veste di vicepresidente di Confindustria, e sostenuta con i medesimi argomenti (ibid., copia di lettera di Sanguinetti a Morpurgo, 30 gennaio 1929, non firmata). Morpurgo rispondeva garantendo il suo interessamento alla causa e il suo apprezzamento per la persona di Coceani (ibid., Morpurgo a Sanguinetti, Roma, 31 gennaio 1929). Tuttavia, il candidato di Morpurgo era Cesare Sacerdoti. 201. Ibid., Presidenza Unione Industriale Fascista della Venezia Giulia [a Gino Olivetti], Trieste, 5 febbraio 1929. Da aggiunte a penna si ricava che la seconda designazione è quella di Sacerdoti. 202. Ibid., Presidenza Unione Industriale Fascista della Venezia Giulia a Edgardo Morpurgo, Trieste, 5 febbraio 1929. Lo stesso giorno Sanguinetti ribadiva a Benni la doppia designazione, Coceani e Sacerdoti. 203. Ibid., copia di lettera a Bottai, Roma, 23 febbraio 1929, non firmata; Biglietto del segretario della Federazione fascista degli armatori a Coceani, 23 febbraio 1929; telegramma a firma Cosulich a Bottai, 23 febbraio 1929.

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no tre dei nominativi designati avrebbero dovuto essere inclusi nella lista elettorale, «affinché possano essere giustamente rappresentati gli interessi industriali di questa Regione che essendo ai confini della Nazione e abbisognando di una sicura saldatura alla madre Patria, richiede una forte rappresentanza politica anche in relazione al compito importante nei riflessi dell’economia degli Stati danubiani».204 Il suo profilo di fiduciario degli interessi industriali nella loro declinazione marittimo-armatoriale risultava negli interventi ufficiali di Coceani come vicepresidente dell’Unione industriali della Venezia Giulia, dove difendeva la funzione internazionale dell’emporio giuliano e la necessità – non scontata – che le aziende triestine impiegassero personale specializzato di origine straniera, per agevolare gli affari e rendere più proficue le relazioni commerciali.205 Ma con il rinnovo, per un biennio, delle agevolazioni fiscali per il porto industriale, Coceani interveniva per indicare estesamente «i nuovi compiti di Trieste», a partire dalla valorizzazione della zona industriale, che non aveva potuto sino ad allora estrinsecarsi a causa del prolungarsi della crisi economica, e che avrebbe necessitato di un più lungo periodo di proroga delle agevolazioni per poter predisporre uno sviluppo più sicuro relativamente ai tre comparti di spicco della produzione triestina: il metallurgico, l’edile e il chimico.206 La posizione di Coceani, che puntava al contemperamento della funzione di transito del porto giuliano con la promozione dello sviluppo industriale, si chiariva in occasione della visita a Trieste di Giuseppe Volpi, creatore di Porto Marghera, nella sua veste di presidente della Confederazione Fascista degli Industriali. Coceani ricordava che la “redenzione” e l’integrazione del porto giuliano nel contesto nazionale italiano avevano «imposto su nuove basi il problema dell’esistenza economica di Trieste privata come fu di tutto il suo retroterra, se cioè si dovesse perseverare nella antica attività o se non convenisse meglio e presto attrezzarla per nuove attività più conformi al suo rinnovato assetto politico». E dunque «per assidere la sua prosperità su basi meno instabili e aleatorie di quelle costituite dal suo commercio internazionale di transito si pensò di dare alla provincia una struttura industriale»: e nonostante le avversità e i colpi della crisi economica, «prevalentemente emporio commerciale di larghi traffici Trieste è divenuta cospicuo centro industriale». Tuttavia, non poteva essere oscurato il fatto che Trieste restava soprattutto la “porta orientale” dell’espansione verso l’area danubiano-balcanica: 204. Ibid., busta 22, presidenza Unione Industriale Fascista della Venezia Giulia ad Alberto Pirelli, Trieste 30 gennaio 1934 e 1° gennaio 1934. Una copia dattiloscritta riportava un promemoria non firmato, Appunti su Coceani, dove si dichiarava che «Trieste è sempre più favorevole alla deputazione Coceani e da ogni parte perviene a noi l’eco dei consensi generali. Dopo conosciuta la candidatura Cobolli, Coceani è diventato la bandiera della città». Cobolli-Gigli sarebbe poi stato ministro dei Lavori Pubblici. 205. Ibid., busta 3, fasc. 32, ritaglio dal «Bollettino industriale», n. 67, 25 ottobre 1929, La seduta del Consiglio Direttivo della nostra Unione. Vedi anche ibid., ritaglio dal «Giornale d’Italia», 27 marzo 1927, Lo sforzo ammirevole dell’industria navale triestina. La Venezia Giulia e la produzione nazionale, dove afferma che «la grande supremazia italiana nel campo delle costruzioni navali è dovuta principalmente al concorso altissimo dei cantieri giuliani» 206. Ibid., I compiti economici di Trieste in un’intervista all’on. Bruno Coceani, in «L’organizzazione industriale», 7 gennaio 1937. Il testo dell’intervista era integralmente riportato nel «Piccolo» e nel «Popolo di Trieste» il giorno dopo.

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A Trieste spetta una missione per la posizione geografica e per la sua storia di fedeltà millenaria a Roma. Questo dono della natura e questo titolo di nobiltà fanno di Trieste uno strumento prezioso per la politica mussoliniana di potenza e di espansione. È sempre stato e non potrà non essere il ponte di collegamento tra la conca danubiana e i paesi del Levante. Semmai in regime fascista le premesse necessarie per esercitare questa sua intermediazione economica sono state rafforzate. Oltre quindi una funzione autarchica contingente Trieste ha una sua funzione storica nazionale verso i mondi che la circondano indicati dalla chiaroveggente politica di accordi del Duce.207

Anche per la “porta orientale” dunque, poteva sorgere una nuova Porto Marghera, purché le funzioni di transito, veicolo della politica di potenza, e quella industriale, strumento di integrazione nello spazio nazionale, si contemperassero nella consapevolezza della «funzione storica nazionale» assegnata a Trieste dalla posizione geografica. Integrazione mancata, concorrenza interna Esaminiamo ora brevemente i mezzi e i metodi di cui si è giovato il Governo fascista per dar nuovo impulso all’emporio e meglio orientarlo nelle sue storiche funzioni rispetto all’estero, innestandolo in pari tempo nell’economia generale del paese. Tre sono gli elementi fondamentali che giuocano sull’andamento dei traffici di un porto: i mezzi terrestri di trasporto, le linee di navigazione e l’organizzazione locale. […] Dal lato tecnico si è d’altronde provveduto con larghezza di mezzi all’ampliamento degli impianti portuali, con la costruzione di nuovi poderosi magazzini, con l’erezione di un silos granario provvisto di elevatori pneumatici, con la migliore sistemazione e l’arredamento del grande Molo VI, con la costruzione della stazione marittima, dell’idroscalo ecc. Per la perfezione dei nuovi impianti e la regolarità delle operazioni, oggi il porto di Trieste ha il vanto di essere considerato il migliore del Mediterraneo.208

Verso la metà degli anni Trenta, le pubblicazioni che sottolineavano la vastità di concezione e di esecuzione delle opere portuali realizzate nel capoluogo giuliano, fatta salva la non trascurabile misura di intenti celebrativi della «chiara e perfetta visione» del «Governo fascista che volle dotare Trieste d’un porto attrezzato modernamente»,209 coglievano tuttavia un fenomeno effettivamente in corso di svolgimento. I lavori di ampliamento e consolidamento delle strutture ricettive del porto, avviati dal governo asburgico dopo l’abolizione del porto franco (1891) e interrotti dalla guerra, sarebbero stati completati nei primi anni Trenta. La riorganizzazione dei servizi por207. Ibid., busta 10, fasc. 151, dattiloscritto dell’intervento al Consiglio Provinciale delle Corporazioni alla presenza di Giuseppe Volpi, 29 novembre 1937, pp. 6-7. Il resoconto della visita e dei discorsi pronunciati in «L’Unione Industriale», 30 novembre 1937, e nel «Piccolo» dello stesso giorno. L’obiettivo del contemperamento fra traffici e industria veniva ribadito da Coceani a guerra iniziata, che prospettava, riecheggiando il quadro ottimistico tratteggiato dal Comitato triestino dei traffici e dallo stesso Cosulich in quei primi mesi di guerra, l’opportunità che «l’Unione elabori uno studio particolareggiato sulle future possibili realizzazioni che potranno determinarsi in riflesso alla nuova Europa» (ibid., ritaglio dal «Piccolo di Trieste», 22 settembre 1940, La situazione industriale di Trieste). 208. AST, Prefettura, Gabinetto, busta 308/1935, Il porto di Trieste in regime fascista, dattiloscritto s.d., s.a., protocollato 31 maggio 1935, pp. 7-9. 209. Cfr. G. Cesari, Il Porto di Trieste, Trieste 1933, p. 15.

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Figura 11. Carta topografica del porto di Trieste: particolare del porto franco nuovo Duca d’Aosta, con indicazione dei lavori eseguiti a cura dei Magazzini generali, 1938 (fonte: Archivio di Stato di Trieste, Prefettura, Gabinetto, busta 433/1941)

tuali e le sovvenzioni statali adottate per controbilanciare gli effetti della cessazione dei privilegi di franchigia avevano infatti portato già verso gli ultimi anni del XIX secolo a una forte intensificazione dei traffici, che costringeva vapori e piroscafi ad attendere in rada il loro turno per le operazioni di carico e scarico: ma l’ampliamento del punto franco vecchio attraverso l’incorporazione del molo IV, la costruzione di nuovi edifici, l’installazione di nuovi macchinari non furono sufficienti. Si completò anche il porto doganale, allargando le rive, e nel 1903 fu avviato il progetto di costruzione di un secondo punto franco, con il porto Sant’Andrea. Il nuovo scalo (poi porto Emanuele Filiberto Duca d’Aosta), protetto da tre lunghe dighe foranee – che avrebbero poi permesso di individuare il vallone di Zaule come sito idoneo all’installazione del porto industriale – collegato da binari ferroviari, arredato da vasti hangar e capannoni, corredato da moderna attrezzatura meccanica, nasceva anche in corrispondenza dell’apertura di una nuova linea ferroviaria transalpina, la ferrovia dei Tauri. Dopo i danneggiamenti causati dalla guerra, i lavori di puntello e ricostruzione di moli e banchine ricominciarono nel 1927, approfondendo ed escavando i fondali. Fu consolidato il molo V, completato e arredato il molo VI con i suoi ampi magazzini. Vennero attrezzati grandi impianti frigoriferi per la conservazione delle merci. Fu co-

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struita la stazione marittima passeggeri; realizzato il pontile in cemento armato del porto petroli San Sabba; un nuovo idroscalo civile venne inaugurato nel 1934.210 L’istituto incaricato di porre in essere i grandi lavori di ripristino e ampliamento del porto fu individuato nell’Azienda dei Magazzini Generali, fondata nel 1880 e statizzata nel 1894. Con decreto Legge 7 agosto 1925, n. 1792, veniva stanziato un cospicuo fondo di 110 milioni a favore dell’Azienda, che contestualmente (Rdl 3 settembre 1925, n. 1789) veniva privatizzata. Costituita così in ente autonomo, a cui era affidata l’amministrazione di un vasto patrimonio mobiliare di proprietà demaniale, l’azienda veniva destinata alla gestione unificata del coordinamento tecnico-commerciale di servizi e traffici portuali, insieme al completamento e sviluppo degli impianti e delle opere; avrebbe iniziato la sua attività il primo luglio 1926,211 la sua peculiare organizzazione sarebbe servita da modello all’omonimo ente fiumano, costituito nel 1927. Il criterio che presiedeva all’ampiezza e al fervore dei lavori di ricostruzione e ammodernamento delle strutture portuali veniva esplicitato in una pubblicazione a cura degli stessi Magazzini Generali: il grande valore rappresentato dal patrimonio di mezzi e strutture amministrato dall’Azienda autonoma triestina non si limitava al solo valore intrinseco, ma andava individuato nell’«elemento potenziale della capacità così creata di affrontare i nuovo problemi dei traffici. […] Così il porto di Trieste è attrezzato sotto ogni aspetto ad assolvere il compito di lottare contro la concorrenza straniera, di contribuire alla espansione economica italiana, di assumere la importante funzione commerciale, economica e politica che l’alto pensiero del Duce gli ha assegnato nel settore dell’Adriatico».212 In altri termini, se l’efficienza tecnica del porto di Trieste, come asseriva ancora la pubblicazione citata, era stata raddoppiata rispetto al 1913, ciò obbediva a un obiettivo strategico complessivo, che consisteva nell’attrezzare il porto giuliano ad assolvere la funzione di grande scalo internazionale, che corrispondeva all’immagine di “Trieste, porto di transito” modellata sugli ultimi anni asburgici, ma che era assai lontana dalla realtà economica e geopolitica del periodo interbellico. Eppure, tutti gli sforzi posti in essere per ricostruire ed ampliare le strutture portuali – che facevano risaltare, per converso, lo stallo dei lavori di creazione del porto industriale – e mai interrotti anche negli anni di crisi, erano indirizzati a creare le condizioni ottimali per accogliere una ripresa che “certamente” si sarebbe avviata, per riconquistare una centralità che “naturalmente” era riservata a Trieste dal suo destino geografico. Di fatto, il porto giuliano era sicuramente sovrattrezzato rispetto all’effettivo volume di traffico. La funzione strategica attribuita all’ammodernamento del porto – quella di riacquistare una funzione preminente nei traffici internazionali – ha probabilmente svolto, in concreto, una funzione anticiclica, agendo come bacino di assorbimento di manodopera e di sostegno alle imprese edilizie e metallurgiche interessate al vasto programma di opere pubbliche per le costruzioni portuali durante il lungo periodo di stagnazione economica. In fondo, ciò era un riflesso di quanto stava avve210. Vedi l’elenco cronologico delle costruzioni in Autorità portuale di Trieste, Il porto di Trieste. Cronaca e storia delle costruzioni portuali, pp. 59-129. 211. Cfr. Magazzini Generali di Trieste, Il porto di Trieste nell’era fascista, aspetti economici, Trieste 1935, pp. 27-37. 212. Ibid., p. 33.

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Figura 12 Porto di Trieste, Hangar cotoni al molo VI, 1933 (fonte: G. Cesari, Il Porto di Trieste, Trieste 1933, p. 20)

nendo nello sviluppo urbano ed edilizio del capoluogo giuliano: oltre all’estensione dell’impianto viario e tramviario, all’espansione della rete elettrica, telefonica e idrica, le “opere del regime” comprendevano la costruzione di abitazioni popolari, e soprattutto profondi e incisivi lavori urbanistici nel centro metropolitano, con demolizioni di grande entità – che avrebbero compromesso irrimediabilmente il raffinato impianto neoclassico del cuore della città – e costruzione di edifici monumentali rappresentativi: il Faro della vittoria, la citata Stazione marittima da fronte a Piazza Unità d’Italia, la trasformazione in complesso monumentale del stesso colle di San Giusto; e poi il palazzo di giustizia e la grande mole dell’edificio universitario, a sovrastare i quartieri residenziali digradanti verso il mare.213 Era un intento fra l’anticiclico e il celebrativo, che si ritrovava nella grandeur con cui erano stati impostati i grandi piroscafi costruiti dai cantieri di Monfalcone, come la bellissima motonave Victoria, varata nel 1931 proprio mentre la famiglia Cosulich stava perdendo la propria autonomia proprietaria e si stava sottomettendo ai grandi gruppi finanziari nazionali.214 In definitiva, era anche una funzione retorica, quella cui assolveva la realizzazione di impegnative opere portuali, pubbliche e urbanistiche, finalizzata ad asserire il rilievo di “Trieste in regime fascista”, a giustificare il senso della “redenzione”, e – con la 213. Per le trasformazioni urbanistiche nel complesso della politica del regime cfr. E. Apih, Trieste (Storia delle città italiane), Roma-Bari 1988, pp. 124 ss. 214. Sulla motonave Victoria vedi Staccioli, La cantieristica a Trieste e gli anni Trenta, pp. 22-37.

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Figura 13. La motonave Victoria in costruzione, 1930-1931 (fonte: V. Staccioli, La cantieristica a Trieste e gli anni Trenta, Trieste 1982, p. 45)

modernizzazione portuale – a preparare il capoluogo giuliano a riprendere la sua funzione di porto di transito e centro di traffici internazionali: un’asserzione che non contemplava, in quanto pleonastico, la costruzione di un polo industriale. Quest’ultimo aspetto stava anche a indicare la natura dell’integrazione di Trieste nello spazio economico nazionale e nel suo affollato sistema portuale. La proiezione internazionale di Trieste ne marcava la specialità, ne differenziava i bisogni e le richieste, rispetto agli scali adriatici e tirrenici, a prevalente funzione regionale. In tal modo si intendeva negare all’origine l’esistenza di una potenziale concorrenzialità della nuova arrivata, soprattutto rispetto al porto lagunare. Come chiariva il commissario ai Magazzini generali, Gaeta, È naturale e legittima la coesistenza dei porti di Venezia e di Trieste perché l’uno vive della suo funzione regionale e quella internazionale si mantiene in limiti del tutto inapprezzabili e l’altro invece non può tendere che allo sviluppo della sua funzione internazionale e costringe quella nazionale nei ristretti confini degli interessi locali – se aspirasse Trieste ad uno sviluppo nazionale – le interferenze con Venezia sarebbero inevitabili e gli interessi di quest’ultima dovrebbero essere necessariamente lesi. Ma un’azione di questo genere non è mai stata neppure tentata – sia detto ciò a onore degli elementi triestini.215

Ma con la crisi emergeva impietosamente una sotterranea concorrenza, soprattutto laddove si fosse voluto avere accesso al “mercato delle sovvenzioni pubbliche”. 215. AST, Prefettura, Gabinetto, b. 272/1934, Promemoria del commissario Armando Gaeta [a prefetto Tiengo], 4 ottobre 1933, pp. 1-2.

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I documenti prodotti dall’azienda dei Magazzini generali – sicuramente un diretto competitore, relativamente all’accesso a finanziamenti pubblici, del Provveditorato al porto lagunare, come dichiarava esplicitamente Gaeta argomentando le cifre del bilancio di previsione dell’esercizio 1933-34, ossia formulando le richieste di finanziamenti216 – impostavano le osservazioni sull’andamento dei traffici commerciali sul raffronto con Venezia: Il traffico ferroviario ha subito nel porto di Trieste una perdita superiore a quella registrata nel porto di Venezia; ciò è dovuto essenzialmente al fatto che Venezia, partecipando ai traffici internazionali soltanto in minima misura, ha potuto difendere meglio le sue posizioni grazie alla maggiore resistenza che l’economia nazionale ha opposto e oppone tuttora alla persistente crisi economica, nonché al crescente sviluppo del porto industriale di Marghera (petrolio, benzina, olii minerali e residui, minerali metallici, metalli greggi, piriti e ceneri di pirite, fertilizzanti ecc.) ed all’allargamento del retroterra verso la Lombardia. Il porto di Trieste, invece, cui s’appoggiano in assoluta prevalenza traffici provenienti dall’estero, ha dovuto subire in pieno la ripercussione sfavorevole delle difficilissime condizioni economiche dei vari Stati danubiani che formano il suo retroterra estero.217

Ciononostante, il prefetto riportava al ministro delle corporazioni l’allarme degli «ambienti commerciali» circa la voce corrente, che l’Unione provinciale fascista dei trasporti della città lagunare avesse chiesto l’estensione a Venezia delle “tariffe adriatiche”: ma «gli ambienti triestini interessati confidano che l’eventuale richiesta non sarà accolta dal Governo fascista», perché le tariffe adriatiche erano uno speciale provvedimento per Trieste e Fiume «quali porti di uno Stato successore dell’Austria», che le aveva adottate; inoltre, l’applicazione delle tariffe a Venezia sarebbe ingiustificata, perché mentre Trieste e Fiume con il passaggio all’Italia avevano perso il loro retroterra, «il porto di Venezia nulla ha perduto della zona d’influenza che aveva prima della guerra».218 Erano preoccupazioni riecheggiate dalla stampa. Nel febbraio 1933 «Il Popolo di Trieste» pubblicava una riflessione molto pessimistica sul movimento degli scambi triestini, sottolineandone la severa contrazione, e il fatto che Trieste, con Genova, era il porto italiano che risentiva maggiormente della crisi. Venezia, al contrario, aveva addirittura aumentato il traffico.219 Poco dopo l’organo del fascismo locale chiariva che la flessione dei traffici triestini era dovuta al privilegiamento di Venezia: le linee di navigazione, obbligate a farvi scalo, avevano privato Trieste del movimento forestieri e rischiavano di privarla del traffico merci: «è bastato imporre l’obbligo a tutti i piroscafi passeggeri di toccare così nell’andata come nel ritorno il porto di Venezia, per vedere ridotto a cifre ridicole il nostro traffico passeggeri. […] Ma s’era detto che tutti dove216. AST, Prefettura, Gabinetto, b. 240/1933, Il R. Commissario ai Magazzini Generali di Trieste al prefetto Carlo Tiengo, oggetto: Bilancio di previsione per l’esercizio 1933/34, pp. 3-4. 217. Ibid., [Magazzini generali], relazione generale; Movimento ferroviario nei porti di Venezia e Trieste nell’anno 1932. Analoghe considerazioni ibid., b. 352/1937, Magazzini Generali di Trieste, Movimento ferroviario nei porti di Venezia-Trieste-Fiume nel III trimestre 1930, dove a Trieste viene associata, per similitudine di condizione, anche Fiume. 218. AST, Prefettura, Gabinetto, Busta 272/1934, il prefetto Tiengo a ministro Corporazioni, Agevolazioni richieste da Venezia nel traffico estero, Trieste, 11 aprile 1934. 219. Il commercio di Trieste nel 1932, in «Il Popolo di Trieste», 7 febbraio 1933; vedi anche I traffici marittimi in promettente ripresa, in «Il Popolo di Trieste», 29 marzo 1934.

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vano sacrificare qualche cosa sull’altare della perequazione del benessere nazionale, e Trieste assistette senza fiatare alla sparizione del suo movimento dei forestieri».220 Si trattava certo di scaramucce, che tuttavia assumevano il contorno di epifenomeni della difficile integrazione dell’economia triestina nel contesto nazionale, laddove venissero poste in correlazione con i contemporanei e ben più profondi sommovimenti negli assetti proprietari dell’economia marittima giuliana. Come abbiamo scorto dalla vicenda della creazione dei Cantieri Riuniti dell’Adriatico, la perdita del controllo azionario sui cantieri di Monfalcone da parte della famiglia Cosulich si era risolta nella penetrazione dei gruppi economici “nazionali”, come la Fiat e, in particolare, il “gruppo veneziano” Volpi-Cini – che riusciva anche, nel frattempo, a esercitare una sorta di controllo “coloniale” sull’industria estrattiva istriana attraverso il controllo della società “Arsa” – per il quale peraltro è stata ipotizzata una strategia di predeterminazione di una condizione di vantaggio per Venezia prima della “redenzione” di Trieste, sua concorrente come “porta orientale” dell’espansionismo adriatico, con la tempestiva deliberazione della nascita di Porto Marghera proprio nel penultimo anno di guerra, nel 1917.221 E che la posta in gioco fosse, in ultima istanza, il “mercato delle sovvenzioni”, il mantenimento dei canali di finanziamento aperti dal centro politico, era dimostrato da un documento confidenziale di Antonio Moscheni – come sappiamo, fedele rappresentante degli interessi marittimi presso le istituzioni – in cui intendeva contrastare l’eccessivo ottimismo diffuso in seguito all’aumento dei traffici del 1934, rilevando che Trieste non aveva ancora consolidato le proprie posizioni, e quindi era ancora bisognosa di sostegno.222 Più acuta e scoperta era la concorrenzialità che opponeva il porto di Trieste a quello di Fiume. I due fenomeni avevano ascendenze differenti, il primo derivando direttamente dagli effetti dell’integrazione nello spazio economico italiano, ed essendo il secondo un retaggio della difficile convivenza e alla divisione di “sfere di influenza” nella monarchia austroungarica.223 Per la ricostruzione del contrasto fra i due porti ex asburgici, rimando al testo di Stefano Petrungaro in questo stesso volume. Qui restano da sottolineare alcuni aspetti. I toni impiegati nei confronti di Fiume erano aspri, e rasentavano il disprezzo. Gaeta si riferiva alla «creazione artificiosa del porto di Fiume» da parte della Corona ungherese, il quale «sorse e poté vivere solo in odio al porto rivale di Trieste – a così breve distanza non vi era e non vi è fondamento naturale di vita e di sviluppo dei due grandi porti aventi identica funzione economica»; la prosperità di Fiume nell’anteguerra non fu che l’effetto di tale artificio, ma «Fiume non fu mai un vero e proprio mercato», e ciononostante il Governo fascista si affrettò 220. Le esportazioni da Trieste e le linee di navigazione, in «Il Popolo di Trieste», s.d. (ma prob. 28 febbraio 1933). Occorrevano, piuttosto, linee rapide e dirette in partenza da Trieste verso il Levante (l’unica rimasta era quella verso la Palestina), sull’esempio di quanto aveva fatto il ministro Costanzo Ciano per le linee di terra. 221. Per questa tesi cfr. Fragiacomo, La grande fabbrica, la piccola città, pp. 116-117. 222. AST, Prefettura, Gabinetto, Busta 272/1934, Dr. Moscheni no. 628, Confidenziale. Precisazioni in merito all’aumento del traffico triestino, 24 settembre 1934. 223. Vedi G. Tatò, Trieste e Fiume: la concorrenza tra i due porti nelle carte della Camera di Commercio di Trieste, in Trieste, Austria e Italia tra Settecento e Novecento. Studi in onore di Elio Apih, a cura di M. Cattaruzza, Udine 1996, pp. 181-196.

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ad estendervi i vantaggi conquistati per Trieste; l’attuale debolezza di Fiume non era dovuta alla concorrenza di Trieste, ma a quella di Sussak, e tuttavia con l’attuale amministrazione del porto di Fiume, retta dall’ex legionario Host-Venturi, «le aspirazioni all’incremento del proprio scalo a detrimento aperto e dichiarato di quello di Trieste sono divenute vive e assillanti».224 L’asprezza dei toni si mostrava soprattutto laddove si trattava di competere per assicurarsi un trattamento favorevole da parte delle politiche e delle provvidenze pubbliche, e soprattutto in periodo di crisi: l’accusa di Gaeta era infatti quella di «minare quel po’ di vita commerciale che è rimasta a Trieste».225 Anche quando si affermava, in linea generale, la convergenza di interessi dei due porti altoadriatici circa il commercio di transito con il retroterra danubiano, tuttavia quando si passava ai provvedimenti pratici, si denunciava l’«assoluto sfavore» delle condizioni del porto giuliano: «intendiamo parlare specialmente della recente estensione al vicino porto di Fiume delle tariffe italiane di esportazione spec. ridotte, mentre tale estensione è stata con motivi non convincenti negata a Trieste punto franco […] per una unilaterale preferenza tariffaria […] acuendo così la già disastrosa situazione commerciale della piazza».226 E Gaeta vi aggiungeva l’argomento politico, che avrebbe dovuto dirimere la questione una volta per tutte: favorire Fiume a danno di Trieste non era concepibile: «l’indebolimento di Trieste ha una portata politica assolutamente imparagonabile con quello di Fiume perché farebbe avverare la predizione catastrofica, prediletta dai nostri nemici, che l’unione di Trieste all’Italia avrebbe segnato la sua fine».227 Erano posizioni ribadite in modo martellante. Sulla questione, Cosulich si era rivolto direttamente a Suvich, sottosegretario agli Esteri.228 E Moscheni si incaricava di illustrare periodicamente al prefetto le ragioni dell’opposizione degli ambienti armatoriali triestini di fronte alle richieste fiumane.229 Di fronte al rischio di schiacciamento da parte della concorrenza estera, tuttavia, occorreva cercare di fare fronte comune. Già nel 1931 i due porti avevano cercato di trovare un accordo nella vertenza tariffaria che li opponeva, senza successo.230 La ri224. AST, Prefettura, Gabinetto, b. 272/1934, Promemoria del commissario Armando Gaeta [a prefetto Tiengo], 4 ottobre 1933. 225. Ibid., p. 5. 226. AST, Prefettura, Gabinetto, b. 308/1935, Promemoria Problemi interessanti i trasporti marittimi adriatici in generale e il gruppo Cosulich-Lloyd triestino in particolare, Trieste, gennaio 1933, p. 9. 227. AST, Prefettura, Gabinetto, b. 272/1934, promemoria del commissario Gaeta al prefetto Tiengo, 9 ottobre 1933, p. 2. 228. Ibid., lettera di Moscheni per conto di Cosulich, Società Triestina di Navigazione a Prefetto, 12 luglio 1934. 229. Ibid., Dr. M[oscheni]. no. 424, Allegato confidenziale, Osservazioni sulle richieste avanzate dal porto di Fiume, 8 luglio 1935. Le richieste erano relative ai seguenti argomenti: Discriminazione dei noli marittimi a favore di Fiume e a danno di Trieste; Toccata di Fiume da parte delle linee triestine; Zonificazione del traffico, con la riserva a Fiume del traffico ungherese; Richieste del 1932: inclusione di Fiume negli accordi con l’Austria, Cecoslovacchia-Suedbahn Etc. Segue: Elenco dei favori concessi unilateralmente a Fiume; Memoriale sulla ripartizione del traffico fra Trieste e Fiume; Studio comparativo del movimento di Trieste e Fiume con il retroterra estero; Osservazioni sulle proposte presentate al Governo dall’azienda dei Magazzini Generali di Fiume. 230. Ibid., prefetto Porro, come presidente Consiglio provinciale dell’economia, a Ministro dell’Interno, Trieste, 9 gennaio 1931. Il prefetto proponeva, «visto il divergente atteggiamento delle due parti» e «per non inasprire ancora il dissenso», che un’ulteriore riunione fosse convocata direttamente a Roma.

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Una Porto Marghera per la “porta orientale”? Traffici e industria a Trieste

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organizzazione delle linee di traffico marittimo realizzata con la nascita della Finmare, e l’esito di marginalizzazione dei due porti altoadriatici che ne era seguito, aveva portato a una nuova ricerca di accordo, e a una contestuale nuova richiesta di stanziamenti a fronte delle nove funzioni assegnate ai porti.231 Ma era soprattutto con la realtà dell’Anschluss, che annunciava lo sconvolgimento degli assetti di quella “media Europa” che costituiva il “naturale retroterra” dei due porti altoadriatici, che veniva sentita l’urgenza di un’azione concordata. Già nelle prime ore successive all’annessione dell’Austria, i Comitati dei traffici triestino e fiumano avrebbero prodotto infatti un documento congiunto, deliberando di «pregare il Ministero degli Affari Esteri di mantenere integralmente gli attuali provvedimenti di difesa dei traffici altoadriatici, ritenendo che essi potranno avere sostanziale importanza pratica nelle future negoziazioni con la Germania». Un memoriale allegato illustrava le ragioni della richiesta di difesa dello status quo: «per i porti di Trieste e Fiume si tratta di tutto quasi il loro traffico ferroviario e quindi della loro stessa vita». Le tariffe adriatiche «devono considerarsi la pietra angolare di tutto l’edificio creato per regolare e promuovere i traffici dell’Adriatico con l’Europa centrale»: una loro eventuale nuova regolamentazione «non potrà in nessun caso rappresentare un miglioramento della posizione dei porti adriatici», e dunque «appare evidente l’opportunità per noi di fare in modo che subentrino dei cambiamenti più tardi che sia possibile».232 Era una posizione tutto sommato tardiva, che non poteva oscurare né la forte concorrenzialità che aveva opposto i due porti altoadriatici nella comune dipendenza da politiche pubbliche e nella ricerca di maggiori vantaggi marginali, né l’esito di gerarchizzazione interna al “sistema” portuale altoadriatico. Il suo sovradimensionamento aveva visto prevalere la capacità propulsiva di Venezia – che aveva instaurato un rapporto di dipendenza con l’economia polesana – ai danni di Trieste, che a sua volta aveva fortemente osteggiato il tentativo espansivo di Fiume.

231. Ibid., busta 352/1937, Promemoria sulle riunioni dei giorni 8 e 25 marzo 1937 al Cpec dei rappresentanti di Trieste e Fiume per un migliore coordinamento dei due porti di fronte alle nuove funzioni. Sono presenti il giorno 8 marzo per Trieste: Guido Segre, Cosulich, Perusino commissario MMGG, Aldo Suppani direttore MMGG, Rodolfo De Parisi, Alberto Moscheni. 232. AST, Prefettura, Gabinetto, b. 365/1938, Verbale della riunione triestino-fiumana che ebbe luogo a Trieste presso il Consiglio Provinciale delle Corporazioni il giorno 17 marzo 1938 alle ore 16 per esaminare le conseguenze per i traffici adriatici della nuova situazione in Austria, e Allegato: Provvedimenti da prendere nel campo dei traffici in relazione all’unione dell’Austria alla Germania, cit. a p. 1. Erano presenti alla riunione: per Trieste Antonio Cosulich, Erminio Fabbri, Alberto Moscheni, Gualtiero Rubbia, Aldo Suppani; per Fiume Arturo Gregorutti, rag. Morovich, Angelo Valbusa.

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