Federico Chabod (da Enciclopedia Machiavelli, Roma 2015)

June 3, 2017 | Autor: E. Cutinelli-Rendina | Categoria: Machiavelli
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CHABOD, FEDERICO

Essendo una terra pontificia, la città diventò una delle basi operative di Cesare Borgia, impegnato nella conquista della Romagna (M. ai Dieci, Imola, 23 ott. 1502, LCSG, 2° t., pp. 387-93; Il modo che tenne il duca Valentino, in SPM, p. 601, § 26). Proprio a C. trovò la morte Ramiro de Lorqua, il governatore borgiano della Romagna, fatto uccidere dallo stesso Cesare (M. ai Dieci, da C., 26 dic. 1502, LCSG, 2° t., pp. 519-21; cfr. Principe vii 28). M. soggiornò nella città tra il 13 e il 26 dicembre 1502, nel corso della seconda missione presso il duca Valentino, nonché nei primi giorni di ottobre 1506, al seguito della spedizione organizzata da papa Giulio II contro Bologna. Nella città romagnola fu celebrato il concistoro che decretò l’interdetto contro i bolognesi (M. ai Dieci, Forlì, 9 ott. 1506, LCSG, 5° t., pp. 503-04). Nel 1527, durante la legazione presso Francesco Guicciardini, M. tornò a interessarsi di C., poiché essa rappresentava lo snodo di uno degli itinerari che potevano condurre le truppe imperiali verso la Toscana (cfr., per es., M. agli Otto di pratica, Bologna, 4 marzo 1527, LCSG, 7° t., pp. 202-04). Bibliografia: Storia di Cesena, 2° vol., Il Medioevo, 2 tt., a cura di A. Vasina, Rimini 1983-1985, e 3° vol., La dominazione pontificia (secoli XVI-XVII-XVIII), a cura di A. Prosperi, Rimini 1989.

Erminia Irace

Chabod, Federico. – Nato ad Aosta nel 1901 e morto a Roma nel 1960, C. fu tra i massimi storici del 20° sec., i cui studi spaziarono dalla storia tardomedievale alla contemporaneistica, dalla storia delle idee a quella economica. Trovò in M. uno dei centri più profondi e costanti dei suoi interessi fin dalla tesi di laurea sul Principe, condotta sotto la guida di Pietro Egidi nell’Università di Torino e discussa nel luglio del 1924. La tesi, alla quale era giunto dopo larghe ricerche sulla genesi delle Signorie nell’Italia settentrionale, fu pubblicata, rielaborata e ampliata (Azzolini 1989-1990) l’anno successivo, e rimarrà il suo maggior contributo su Machiavelli. C. si era intanto visto affidare la curatela di un’edizione introdotta e commentata del Principe che uscì nello stesso 1924, suscitando l’immediato consenso di Benedetto Croce, il quale ben coglieva uno dei caratteri fondamentali dell’interpretazione di C., consistente nel dar risalto, accanto al molte volte studiato Machiavelli teorico, al Machiavelli uomo “d’immaginazione” [...]; e cioè uomo di passione e di fantasia, la cui vita interiore culminò in un gran sogno, il sogno del Principe (B. Croce, Nuove pagine sparse, 2° vol., 19662, p. 229).

Già nei lavori d’esordio C. fu capace di tracciare una strada tutta sua, che non era quella dell’erudizione

positivistica, pur pienamente posseduta e messa a profitto, ma ancor meno era l’altra che in quegli anni si esprimeva nell’approccio giuridico-sistematizzante di Francesco Ercole, di cui C. respingeva tanto il metodo quanto la curvatura tra l’autoritario e il nazionalistico che proprio allora tale approccio si apprestava a ricevere nella cultura fascista. Il proposito di battere altra via rispetto alle letture attualizzanti di M., intese a farne il profeta dell’Unità d’Italia o il teorico dello Stato etico, era peraltro ben trasparente nel bisogno profondo, da cui C. si mostrava mosso, di comprenderne l’opera non solo nel quadro della società che l’aveva vista nascere e nei confronti del quale essa intendeva agire, ma anche alla luce della complessa e inquieta personalità umana del suo autore. Considerata pertanto sotto l’aspetto storico, piuttosto che l’opera di un precusore, anticipatrice di una nuova Italia, quella di M. appariva a C. «l’espressione teorica, il riassunto ideale dello svolgimento della vita italiana fra il Tre e Quattrocento» (Scritti sul Rinascimento [1950], 1965, p. 171). Tale interpretazione faceva centro essenzialmente sul Principe, che C. considerò sempre il vertice di M., e in ogni caso l’opera sua più tipica. Sul piano intellettuale come su quello pratico, essa rappresentava l’esito estremo delle dinamiche che nell’Italia centro-settentrionale avevano condotto alla crisi dei comuni, e attraverso il progressivo isterilimento delle dialettiche sociali su cui questi erano sorti, avevano finito con l’imporre la nuova figura del signore ordinatore e pacificatore. Sennonché tale signore, proprio per il modo in cui si era imposto sulla scena e per la stessa materia sociale che era chiamato a governare, non era in realtà, a giudizio di C., che l’espressione compiuta di quella perdita di sostanza etico-civile che aveva reso la società comunale incapace di pervenire a forme più mature e compiute di statualità. Era proprio per contrastare questo processo di decadenza che M. aveva scolpito, quasi estraendoli ed essenzializzandoli dalla recente storia italiana, i tratti del principe nuovo: Questo mondo, vuoto di profondi motivi morali e politici, senza forza di masse, vivente solo nella isolata virtù di individui sparsi, i quali imprimono la propria orma in una materia fiacca e senza coesione, viene espresso nella sua primordiale e suprema natura nel Principe (Scritti su Machiavelli [1925], 1964, p. 56).

Così, nel delineare il principe nuovo, M. per un verso mostrava la sua straordinaria intelligenza storica, capace di penetrare il senso di tutta un’epoca; ma per altro verso, indicando il soggetto del riscatto proprio nella solitaria figura del principe, avulsa da qualsiasi realtà etica e sociale, forgiava uno strumento del tutto interno alla crisi stessa. Donde per C. non solo

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il carattere di «illusione» del Principe, ma anche alcuni degli equivoci più significativi in cui M. era caduto, come quello sulle armi mercenarie, considerate e quasi ossessivamente assolutizzate quali causa, piuttosto che effetto, della crisi italiana. L’altro aspetto della sua interpretazione generale – non meno importante del primo e parimenti produttivo di notevoli analisi specifiche – consisteva nel cogliere nella personalità e nella psicologia di M. una «possente immaginazione creatrice» (Scritti su Machiavelli [1925], 1964, p. 56) che al Fiorentino consentiva di elaborare la propria esperienza storica e trascenderla in una lezione di verità, l’autentica verità dell’agire politico. Della politica M. aveva saputo comprendere meglio di quanto fosse mai avvenuto prima i lineamenti essenziali e l’intima necessità. In ciò, facendo propri i termini dell’interpretazione crociana di un M. scopritore dell’autonomia e della necessità della politica, C. indicava l’acquisizione universale e imperitura, sul piano del pensiero, dell’opera di M.; acquisizione alla quale egli era appunto potuto pervenire grazie alla potenza e alla produttività della sua «immaginazione»: ecco sin da ora – scriverà nel suo ultimo importante lavoro machiavelliano – quel non fermarsi mai all’analisi, pur lucida, di una determinata situazione politica, anzi il bisogno direi istintivo di risalire d’un subito da quei dati di fatto a considerazioni di carattere generale, d’intravvedere in quel concreto episodio una delle tante e mutevoli incarnazioni di qualcosa che non muta, perché eterno – la lotta per la potenza, e cioè l’agire politico. Nelle considerazioni di questo funzionario intorno agli eventi del giorno, in relazioni ufficiali al suo governo, irrompe già la grande “immaginazione” machiavelliana: e vale a dire l’improvvisa e folgorante intuizione, in tutto simile a quella del grande poeta, che in un evento qualsivoglia coglie e afferra il ritmo di una vicenda eterna ed universale, connaturale agli uomini (Scritti su Machiavelli [1925], 1964, p. 373).

A questa interpretazione di M., già sostanzialmente delineata nella monografia del 1925, C. rimarrà sempre fedele, avendo peraltro modo di approfondirla e specificarla in diversi lavori successivi: dal saggio del 1927 in cui, in polemica con Friedrich Meinecke, argomentava a favore di una composizione di getto di tutto il Principe, alla ‘voce’ pubblicata nel 1933 nell’Enciclopedia Italiana, dalla conferenza del 1952 su Metodo e stile di Machiavelli, ove il motivo esegetico dell’«immaginazione politica» gli consentiva di formulare notevoli osservazioni sullo stile, fino al corso accademico dell’anno seguente su Il segretario fiorentino, nel quale ripercorreva il lento accumularsi dell’esperienza politico-diplomatica di Machiavelli. Conseguenza della sua tesi di fondo sul significato storico del Principe e della sua «inattualità» era che non

certo in senso moderno poteva parlarsi di «nazione» e di «Stato» in M., come avveniva nelle tante letture a cui con sobrietà e quasi implicitamente C. si era opposto fin dai suoi primi scritti (Sasso 1964). Privo di carattere nazionale quando tale carattere lo si fosse inteso alla maniera romantica, il Principe aveva però per C. altro e maggiore significato ‘nazionale’. In senso generale, perché dava giustificazione sul piano del pensiero di ciò che la storia europea veniva elaborando nel suo seno: ossia la formazione di quegli Stati nazionali che M. legittimava, in forza del suo naturalismo, nella loro particolarità e nella loro assoluta indipendenza da ormai tramontati ideali universalistici. Per questo verso il Principe apriva il nuovo corso della storia europea come storia di nazioni. Ma l’operetta aveva inoltre un valore nazionale in senso tutt’affatto particolare, perché offriva agli italiani, se non certo una profezia della loro unità, un più intimo richiamo alla serietà e alla durezza della lotta politica. Ed era questa una severa lezione che C., lasciando risuonare nella sua pagina accenti desanctisiani, ma anche gentiliani e forse gobettiani, vedeva impartita da M. ai suoi stessi contemporanei contro lo spirito dei tempi. Nel corso universitario che più tardi (1943-44) dedicò all’idea di nazione, C. osservava che nello svolgimento storico di tale idea – con considerazioni che poi varranno in parte anche per la nozione di Stato – a M. va assegnata una funzione che potrebbe esser detta di premessa, in quanto fu bensì con lui che divenne non più proponibile, nella storia del pensiero politico europeo, l’universalismo medioevale, ma il suo interesse andava piuttosto all’unità statale che non alla nazione. E quindi, se anche in lui è possibile scorgere varie attenzioni per il ‘carattere’ e la ‘natura’ dei popoli, per un altro e più sostanziale aspetto egli si colloca al di qua della genesi della moderna idea di nazione, nei confronti della quale costituisce certo una premessa importante, ma piuttosto remota. Bibliografia: Gli scritti su M. di C. sono riuniti nel 1° vol. delle Opere di Federico Chabod. Scritti su Machiavelli, Torino 1964, più volte ristampato e da ultimo con prefazione di C. Vivanti (1993). Vanno inoltre tenuti presenti gli Scritti sul Rinascimento, Torino 1965, e quindi i due corsi universitari, usciti postumi, entrambi a cura di A. Saitta, E. Sestan: L’idea di nazione, Bari 1961, e Storia dell’idea d’Europa, Bari 1961. Su C. interprete di M. si vedano la recensione di G. Sasso agli Scritti su Machiavelli, «La cultura», 1964, 2, pp. 646-59; G. Sasso, Il guardiano della storiografia. Profilo di Federico Chabod e altri saggi, Bologna 20022, pp. 1-210; G. Sasso, Storiografia e decadenza, Roma 2012, pp. 122-33. Si vedano inoltre: L. Azzolini, Note in margine alla tesi di laurea di Federico Chabod: “Del Principe di Niccolò Machiavelli”, «Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici», 1989-1990, 11, pp. 635-63; E. Cutinelli-Rendina, Rileggendo gli Scritti su Machiavelli di Federico Chabod, in Nazione, nazionalismi ed Europa nell’opera

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CHRIST, JOHANN FRIEDRICH

di Federico Chabod, Atti del Convegno, Aosta 5-6 maggio 2000, a cura di M. Herling, P.G. Zunino, Firenze 2002, pp. 1-40.

Emanuele Cutinelli-Rendina

Chiesa. – Scrivendo della C., con quasi assoluta regolarità di senso, M. intende lo Stato pontificio con la sua alta gerarchia, e non la più vasta e potenzialmente universale comunità dei fedeli in Cristo. Non per questo egli si limita a fare di tale istituzione uno Stato fra gli Stati, un puro e semplice elemento nel sistema degli Stati italiani ed europei del suo tempo, come pure a prima vista potrebbe sembrare. E infatti, consacrando alla C. di Roma capitoli cruciali delle sue opere maggiori ‒ dal Principe ai Discorsi sino alle Istorie fiorentine ‒, M. dà luogo a una valutazione storico-politica alquanto complessa e articolata che si intreccia profondamente e con originalità di esiti alla sua riflessione sulla funzione politica delle religioni e delle istituzioni deputate al culto. Questo argomento può essere pertanto affrontato con maggiore pertinenza lì dove si tratta della religione (→). Redazione

Chirone → mito.

Christ, Johann Friedrich. – C. nacque a Coburgo il 26 aprile 1701 e morì a Lipsia il 3 settembre 1756. Dopo aver studiato filosofia e diritto presso l’Università di Jena, divenne segretario dei duchi di Meiningen e accompagnò i rampolli della famiglia a Halle, dove frequentò la locale università seguendo i corsi di Christian Thomasius. Passò in seguito a Lipsia, dove si laureò nel 1728 e iniziò la carriera di docente che lo condusse fino alla carica di rettore. All’Università di Lipsia insegnò storia, ma anche poesia, avendo tra i suoi allievi Gotthold Ephraim Lessing (Krause 2003, pp. 90, 532). Le sue lezioni, pubblicate postume da Johann Karl Zeune con il titolo di Abhandlungen über die Litteratur und Kunstwerke vornemlich des Alterthums (1776), fanno ampio uso di storici francesi fino ad allora mai studiati in Germania e mostrano un’inedita attenzione ai realia della vita antica, configurando una didattica della storia e dell’arte che fu presa a modello da Christian Gottlob Heyne (suo allievo diretto) e da Johann Joachim Winckelmann (Justi 1898, 19233, 1° vol., pp. 336, 344 e segg.), e ha fatto collocare C. tra i fondatori della Altertumwissenschaft (Espagne 2010, pp. 15-17).  L’interesse per M. maturò all’interno di una personalità decisamente eclettica: C. fu collezionista

di libri e oggetti antichi, grande conoscitore della letteratura latina (Sandys 1908, 1958, p. 20), ma anche attento all’arte e alla cultura moderna nei suoi viaggi nelle capitali europee e in tante città italiane. Documento principale dell’eclettismo di C. sono le sue Noctes academicae (1727-1729), dove ricerche di antichistica e diritto romano convivono con riflessioni sulla storia e sulla letteratura. Tra queste ultime spicca la Pro Hieron. Cardano censura Baelii male habito, una difesa di Girolamo Cardano dai giudizi espressi da Pierre Bayle nel suo Dictionnaire historique et critique, nella quale C. trova anche l’occasione di annunciare un futuro lavoro su Machiavelli. L’opera apparve tre anni dopo, non «vernacula lingua», come preannunciato nelle Noctes, ma in latino, «segno che il suo autore si proponeva di raggiungere un pubblico di lettori più vasto e meno provinciale» (Procacci 1995, p. 283). I tre libri De Nicolao Machiavello […] in quibus de vita et scriptis item de secta eius viri atque in universum de politica nostrorum post instauratas litteras temporum ex instituto disseritur historiaeque civilis, et rei litterariae passim ratio habetur furono stampati a Halle nel 1731 da Johann Christoph Krebs, con una dedica a Rudolf von Bünau, suo compagno di viaggi e parente di Heinrich von Bünau presso la cui biblioteca lavorò Winckelmann. Nella dedicatoria è subito espresso il fine dell’opera: rimuovere la «vulgata opinio» che vehementius invaluit adversus hunc hominem («violentemente prevalse contro quest’uomo»). Nel 1741 i libri furono ristampati, forse per la concomitanza con l’uscita dell’Anti-Machiavel di Federico II di Prussia (Signorini 1972, p. 104). Il De Nicolao Machiavello, primo esempio di critica sistematica, riveste una grande importanza nella storia della critica machiavelliana: «per la prima volta le opere del Segretario fiorentino venivano lette come quelle di un classico, senza residui di preoccupazioni scolastiche e definitorie» (Procacci 1995, p. 286). Nel primo libro, C. parte dalla constatazione della damnatio universale di cui sono fatti oggetto M. e, in particolare, il suo scritto più celebre, quel Principe reputato dai più tanquam saevae tyrannidi incentivum («come incentivo a una crudele tirannide»). Scartando l’interpretazione obliqua del trattato (che ha comunque presente), egli anticipa la tesi che verrà argomentata dettagliatamente nei libri successivi: il M. repubblicano e popolare dei Discorsi, chiaramente monarcomaco, può conciliarsi con il M. del Principe solo considerando quest’ultimo come una sorta di postilla senile ai Discorsi. Narrata sommariamente la sua vita, C. conclude il libro elencando le tesi dei principali avversari di M., compresa, in posizione di punta, la curia romana.

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