Fenomenologia eretica “iuxta propria principia”

September 6, 2017 | Autor: Luca Taddio | Categoria: Epistemology, Phenomenology, Visual perception, Realism, New Realism
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Fenomenologia eretica “iuxta propria principia” LUCA TADDIO



Daß alle unsere Erkenntnis mit der Erfahrung anfange, daran ist gar kein Zweifel”, sentenzia Kant in apertura alla prima Kritik. L’affermazione che tutte le nostre conoscenze inizino dall’esperienza, ahimè, è ancora “cosa” dubbia. Sul banco degli imputati troviamo, come maggiore responsabile della strage di certezze sull’esistenza del mondo esterno, il concetto di “rappresentazione” che rende mediata, e non immediata, la nostra esperienza. L’evidenza della cosa che si offre alla nostra coscienza è apodittica, ma non la sua esistenza nel mondo esterno. La rappresentazione segna una distanza dal mondo difficilmente sanabile dal linguaggio e dalle cure offerte dalle metafisiche di matrice “soggettivistica”. Eppure vi sono ottime ragioni per pensare la conoscenza come qualcosa di immediato: non ogni conoscenza, ma l’inizio della conoscenza in quanto tale. Questo inizio non va incentrato unicamente nel cogito, nel pensiero o nel linguaggio, non risiede nel “nome” che dice la cosa, non riposa nel linguaggio, bensì nella cosa stessa, nel fenomeno colto iuxta propria principia. Il linguaggio rappresenta un aspetto, un possibile sistema di riferimento sulla cosa. Rovesciamo la prospettiva dal pensiero al phainomenon, per ri-tornare al logos. Possiamo ritrovare il senso della fenomeno-logia nella relazione e nel rinvio di questi due concetti che ne compongono il termine. Tale giunzione sarà operata attraverso l’“esperienza immediata”, nozione che contraddistingue la storia della fenomenologia: altrove abbiamo definito “eretica” questa fenomenologia, per la sua eterodossia rispetto a aut aut, 356, 2012, 141-155

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Husserl; qui proveremo a fornirne una sintesi attraverso alcune considerazioni preliminari. Chuang Chou, dopo aver sognato di essere una farfalla ignara di Chuang Chou, ridiventa improvvisamente Chuang Chou, non sapendo più se ha sognato di essere una farfalla, oppure se è una farfalla che ha sognato di essere Chuang Chou. Potremmo trovarci realmente nella situazione di Chuang Chou? Perché non potremmo essere il sogno di una farfalla? Perché non riusciamo a incarnare questo dubbio? Il senso del nostro agire non è vissuto come l’effetto di una causa recondita: cosa cambia per noi sapere se il sogno è un prodotto della realtà, oppure la realtà il prodotto di un sogno? Le nostre esperienze rimangono immutate mentre congiuntamente diamo vita all’ennesimo dualismo tra apparenza e realtà: potremmo scoprire la realtà che sta al di là dell’apparire di un mondo illusorio. Ipotizzare che il mondo sia un sogno non è sufficiente per accogliere il dubbio. Infatti, per dubitare realmente del mondo esterno, dobbiamo avere buone ragioni: quali sono i criteri che consentirebbero a Chuang Chou di credere realmente di essere una farfalla? Potrebbe “incarnare” il dubbio nel corpo della farfalla? Può un sistema di riferimento coerente vivere all’interno del dubbio? Se Chuang Chou fosse realmente una farfalla si comporterebbe come una farfalla, poiché penserebbe come una farfalla. Chuang Chou, dubitando di conoscere la propria natura, porta a espressione la propria “forma di vita”, che è diversa da quella di un lepidottero e incapace di comportarsi coerentemente al mondo del lepidottero. Il mondo esterno non è solo “nostro”, ma è anche quello della farfalla. Se il nostro mondo fosse un altro rispetto a quello della farfalla, allora non potremmo possedere alcun criterio per cogliere la logica del suo comportamento nel mondo. Il comportamento fenomenologico della farfalla ha per noi senso a prescindere dalla causa metafisica sottostante. Se l’esito di una certa tradizione metafisica ci ha portato a ritrovare l’inizio della nostra conoscenza nella coscienza, un’altra svolta metafisica ci ha condotto tra le braccia del linguaggio. Questa culla di parole e concetti non sembra aver consolato del tutto l’animo del filosofo. Il 142

mondo è sì a portata di mano, ma lo sguardo del filosofo non tocca unicamente la semplice presenza del mondo, testimoniata dal senso comune; è rivolto alla sua giustificazione. Infatti non dubitiamo, come invece Hume, che domani il sole sorgerà: la difficoltà risiede nella giustificazione filosofica di questo evento. Lo stesso Cartesio, prima di dubitare di tutto, testimonia una certa “fatica” connaturata al dubbio. Husserl, in risposta a Cartesio, sospende il giudizio sull’esistenza del mondo esterno. Questa mancata giustificazione rappresenta per la filosofia uno “scandalo” già denunciato da Kant. L’arte non fa eccezione: Magritte pensa al mistero dell’esistenza come qualcosa di “assolutamente” mentale, tema su cui Borges disegna alcune delle sue parabole. Un mondo-sogno che tra cinema e letteratura torna sistematicamente come immagine, calco della stessa matrice filosofica: “Il mondo è una mia rappresentazione”. Premessa nefasta che ritroviamo non solo in Schopenhauer ma, implicitamente, in gran parte della psicologia contemporanea. Il mondo sarebbe quindi qualcosa di mediato, un prodotto del nostro cervello, del linguaggio o della nostra coscienza. Questo ci ha insegnato a lungo la filosofia, questo ci ripete oggi instancabilmente la scienza: il mondo non è come appare, il suo apparire è un’immagine soggettiva della vera realtà invisibile sottostante. Morale: l’incontro col mondo esterno è sempre qualcosa di mediato. Strano è il destino che accomuna il concetto di “mondo” a quello di “verità”: entrambi sono ricondotti a costruzioni o rappresentazioni soggettive dipendenti dal soggetto. D’altro canto, sembra evidente che l’inizio della nostra conoscenza sia inscritto nella coscienza e dicibile solo a partire dal linguaggio. Infatti, ogni nostro discorso non può che cominciare dalla parola, dal linguaggio, dalla coscienza. E se evitassimo di sospendere il giudizio sull’esistenza del mondo esterno, se evitassimo di scomodare Dio e la sua necessaria perfezione, come invece fa Cartesio, se evitassimo queste o altre acrobazie filosofiche per giustificare l’esistenza del mondo esterno? Queste acrobazie sono necessarie solo se isoliamo il linguaggio e la coscienza dalla nostra corporeità o, meglio, dal nostro essere soggetti incarnati nel mondo. Ritroviamo il senso della nostra oggettiva soggettività nella relazione all’ambiente circostante. Quando Kafka trasforma 143

Gregor Samsa in un insetto, egli presuppone un io come sostanza indipendente dal corpo. Così facendo, trasferisce l’anima in un altro corpo. Il dualismo cartesiano opera un radicale allontanamento dalla cosa: di contro, la fenomenologia segna un contromovimento verso le cose stesse: “Wir wollen auf die ‘Sachen selbst’ zurückgehen”. La tradizione fenomenologica a cui ci rivolgiamo è incentrata sulla nozione di “esperienza immediata”, che incarna alla lettera il motto della fenomenologia. Nozione che va intesa in chiave monista: cogito, coscienza, io, mente sono processi incarnati nel nostro “corpo vissuto”. Nell’esperienza immediata – sia nei fenomeni interni che esterni – non c’è traccia di dualismo. Il dualismo nasce invece dall’intreccio dell’esperienza in prima persona con l’esperienza in terza persona. Prendiamo il caso di un uomo deprivato di ogni esperienza sensoriale, inclusa quella del corpo proprio. Il soggetto del nostro esperimento mentale non può sviluppare alcuna forma di pensiero, poiché il cogito è sempre l’articolazione di “qualcosa”, e questo qualcosa dev’essere inizialmente dato affinché vi possa essere pensiero. Deprivato di ogni esperienza, il soggetto è un corpo senz’anima, ma può esistere una mente senza corpo? L’inizio della conoscenza del cogito presuppone percezione e ritenzione, ossia la possibilità di avere memoria di questa esperienza. Il cogito esercita il dubbio sull’apparire del mondo immaginandosi perfettamente autonomo e indipendente dall’apparire, istituendo così la propria legittimità. Ma il cogito, per sua natura, non è legittimato a dubitare: per questo abbiamo “fede” nel mondo esterno. Il nostro credere nella sua esistenza non è il risultato di un ragionamento. Come il senso del cogito, anche la sensatezza del dubbio trae origine dal mondo. Il cogito, per essere sé, deve già implicare altro da sé: l’apparire del mondo esterno. Cosa ci garantisce che a questo apparire corrisponda effettivamente un mondo esterno? Nulla, se non che il mondo, nel suo apparire, appare come qualcosa di esterno. Se accogliamo il mondo nella sua immediatezza, le cose si manifestano come un “là” rispetto a un “qui”, e il nostro corpo non è un limite alla conoscenza, ma è la possibilità stessa della conoscenza. Non ci sarebbe per noi “cosa” senza quel limite che costituisce 144

l’orizzonte della sua conoscibilità. Il cogito non può negare il mondo tout court, né trattarlo come un’ipotesi da cui può prescindere. Il pensiero, per essere tale, dev’essere pensiero di qualcosa che prima viene dato. Il cogito non può sussistere senza la dimensione fenomenica precategoriale. Potremmo affermare l’opposto, ossia che la percezione, per essere tale, dev’essere pensiero? Senza pensiero o coscienza non potremmo affermare la nostra percezione, ma è il cogito che crede di poter dubitare del mondo esterno. Il cogito non riconosce che il suo essere altro dalla percezione ha origine nell’apparire fenomenico ed è per questo che il dubbio prende corpo solo “mordendo” il mondo. Se vedere e pensare fossero tutt’uno, se il mondo fosse una nostra rappresentazione, allora il dubbio del cogito non avrebbe soluzione. E la relazione tra noi e il mondo cadrebbe irrimediabilmente tra le braccia dello scettico. Iniziamo a chiarire la nozione di “esperienza immediata” attraverso lo schema denominato da Paolo Bozzi “schema psicofisico S-D”: è il classico schema tracciato alla lavagna nelle aule universitarie per spiegare la percezione. La lavagna è il luogo per eccellenza dell’ontologia, il luogo dove i dualismi prendono corpo. La scena è la seguente: osserviamo un uomo percepire un cubo rosso collocato alla sua sinistra. A sinistra si rappresenta la sorgente degli stimoli: l’oggetto fisico o stimolo distale. Trattandosi di un cubo solido colorato, a destra seguiranno treni di onde elettromagnetiche di una certa frequenza. L’assetto determina lo stimolo prossimale che, raggiungendo la retina, ne provoca la stimolazione attraverso il fascio luminoso che parte dal cubo, le cui superfici sono in grado di riflettere la luce grazie alla loro natura fisico-chimica. Proseguendo nello stesso verso di lettura, troviamo l’occhio dell’osservatore. Le immagini dell’occhio e del cervello possono, a seconda del tipo di discussione critica, essere più o meno dettagliate. A destra della retina troviamo il chiasma ottico, i nuclei genicolati laterali, l’area 17. In questa rappresentazione della percezione, dove collochiamo la nostra esperienza immediata del cubo? Convenzionalmente all’estrema destra, sopra il disegno del cervello, simboleggiamo la percezione fenomenica della cosa, indicandola con phi. 145

Phi rappresenterebbe la percezione fenomenica della cosa direttamente esperita. Lo schema psicofisico tracciato alla lavagna è la rappresentazione di ogni possibile spiegazione causale della percezione. Esso non coincide con l’esperienza diretta vissuta in prima persona; rappresenta, piuttosto, la situazione in cui qualcuno guarda un’altra persona mentre osserva qualcosa. Procedendo dal cubo in direzione della testa dell’osservatore, lungo le varie tappe che compongono lo schema, non incontriamo mai l’esperienza diretta del soggetto percipiente in quanto tale: ogni sua parte è la rappresentazione indiretta, interna o esterna, della percezione. Ogni singolo segmento dello schema può essere oggetto di ulteriori indagini scientifiche, più o meno approfondite, di carattere fisico, chimico, fisiologico ecc. La descrizione causale della percezione della cosa è il risultato di un’immagine epistemica della realtà. Essa intende spiegare la percezione analizzando la situazione – tipicamente da laboratorio – descritta poco fa, dove lo sperimentatore analizza e verifica quanto il soggetto in prima persona osserva. Questa situazione va distinta dalla descrizione fenomenologica per la quale, invece, vi è l’osservazione in atto così come viene vissuta in prima persona. Le descrizioni del dato percepito qui e ora giacciono su un diverso piano, quello del reale, rispetto alle descrizioni causali che sono una rappresentazione delle prime. Confondere ciò che sappiamo della cosa percepita, intesa come oggetto fisico e scientifico (proprio di una spiegazione causale), con ciò che viene direttamente percepito, significa compiere l’errore dello stimolo, secondo l’espressione introdotta da Köhler. Se come resoconto dell’osservazione diretta del cubo affermassimo che si tratta di un aggregato di atomi, commetteremmo l’errore dello stimolo, avendo indirettamente applicato una conoscenza “fisica” della cosa all’esperienza diretta. Dalle descrizioni fenomeniche corrette sono escluse le proposizioni che rinviano a un sapere non direttamente riscontrabile e interosservabile. Per esempio, non si può dire che al rosso del cubo corrisponda una data frequenza dello spettro elettromagnetico, poiché la natura ondulatoria e corpuscolare del rosso non è di fatto direttamente percepibile. Tutte le nostre descrizioni fenomeniche sono guidate dal cubo presente che c’è là, con le sue proprietà direttamente riscontrabili. 146

L’indagine scientifica ha l’obiettivo di spiegare la percezione: per quanto approfondita, tale spiegazione dovrà, alla fine, spiegare perché percepiamo “così come percepiamo” (“as such” direbbe Köhler), phi secondo il nostro schema. “Il potere esplicativo delle spiegazioni causali – scrive Köhler – dipende dall’ampiezza e profondità delle analisi fenomenologiche” e dalle nuove scoperte che la fenomenologia sperimentale è in grado di produrre. Il progresso delle scoperte della fenomenologia sperimentale, come scienza degli osservabili in atto, amplia continuamente l’explanandum di cui le teorie non fenomenologiche dei processi sottostanti la percezione si fanno carico. In fenomenologia ogni nuova scoperta riduce lo spazio logico di tutte le teorie logicamente possibili e, contemporaneamente, falsifica teorie esistenti. Se la scoperta di un nuovo fatto può far crollare le teorie che intendono spiegare la percezione attraverso un modello causale, non si dà il caso contrario, poiché nessuna nuova scoperta scientifica, interna allo schema psicofisico S-D, può in qualche modo falsificare l’esperienza diretta. Ciò significa che ogni fatto che possiamo osservare è in grado di rendere false un gran numero di possibili proposizioni su di esso, mentre la correttezza di una teoria scientifica non modifica né altera il piano dell’esperienza. La scienza e le “verità” che essa persegue sono state concepite per determinare ciò che non è possibile cogliere direttamente attraverso l’osservazione: il dato osservato, a rigore, non è né vero né falso. La “verità”, secondo una consolidata tradizione filosofica, appartiene alla sfera del giudizio e del pensiero, non al fatto fenomenicamente esplicito. Per meglio comprendere il significato della fenomenologia della percezione come descrizione dell’esperienza immediata “completa e non prevenuta”, per usare le parole di Koffka, possiamo prendere a prestito un’immagine fornita da Leibniz nella Monadologia (§ 17): “La percezione e ciò che ne dipende non è spiegabile con ragioni meccaniche, mediante figure e movimenti. Supponiamo che vi sia una macchina la cui struttura faccia pensare, sentire, percepire, e concepiamola, pur con le stesse proporzioni, più grande, per potervi entrare come si entra in un mulino: ebbene, una volta dentro occorrerebbe comunque constatare che non vi si trovano che dei pezzi che si tengono l’un l’altro, e che non c’è nulla che possa ren147

dere conto della percezione”. Secondo l’immagine leibniziana, la percezione visiva corrisponde a ciò che osserviamo direttamente e non comprende i meccanismi sottostanti la percezione diretta delle cose, che non spiegano il senso della percezione. Infatti, la percezione non si percepisce né, normalmente, si ha coscienza della coscienza: si percepiscono direttamente le cose del mondo esterno. Possiamo osservare che esse si presentano nella loro oggettività oppure, come talvolta accade, accoglierle per il loro carattere di “soggettività”, come nel caso di immagini consecutive e simili, senza uscire dall’osservazione in atto, senza con ciò riferirci ai processi neurofisiologici sottostanti. Il caso descritto da Leibniz evidenzia come la percezione diretta sia altra cosa dai meccanismi transfenomenici sottostanti: la fisiologia del cervello corrisponde ai meccanismi del mulino che non danno ragione dell’esperienza immediata delle cose, oggetto d’indagine della fenomenologia sperimentale. In un passo delle Osservazioni sulla filosofia della psicologia (I, § 11) di Wittgenstein troviamo un’idea simmetrica a quella leibniziana, ossia la non riducibilità dell’esperienza immediata ai processi sottostanti la percezione: “Supponiamo che uno faccia la seguente scoperta. Egli indaga i processi sulla retina di persone che a momenti vedono quella figura come un cubo di vetro, a momenti come fili metallici ecc., e trova che quei processi sono simili a quelli che egli osserva quando il soggetto guarda un cubo di vetro, oppure una struttura di filo metallico ecc. Si sarebbe portati a prendere questa scoperta come prova per assumere che veramente vediamo in modo differente. Ma con quale diritto? Come può l’esperimento dire qualcosa sulla natura dell’esperienza immediata? – Esso la sistema in una specifica classe di fenomeni”. Wittgenstein intende rimarcare il fatto che sono le proprietà dell’esperienza percettiva “immediata” a consentire di “interpretare” l’apparato ottico e non viceversa. Torniamo al dubbio scettico e chiediamoci a questo punto se possiamo effettivamente dubitare dell’esperienza immediata: come possiamo dubitare della verità del mondo esterno? Due le vie tradizionali indicate da Cartesio: possiamo dubitare dei sensi e delle conoscenze che ne derivano oppure, in modo più radicale, at148

traverso l’ipotesi di un genio maligno, possiamo mettere in dubbio ogni nostra conoscenza sul mondo. Prendiamo in esame la prima situazione. Cartesio afferma che non possiamo basarci su ciò che ci ha ingannato anche una volta soltanto: i sensi ci ingannano, ma quando e come ci ingannano? Esaminiamo un caso tipico, rappresentato dall’illusione ottico-geometrica di Müller-Lyer. Quando diciamo che la cosa denominata “illusione di Müller-Lyer” possiede in realtà la stessa lunghezza, è il linguaggio a depistarci: sembra che abbiamo misurato la cosa, l’illusione di Müller-Lyer, quando invece abbiamo misurato i due segmenti. Per misurare il fenomeno osservato, che appare nella sua ricchezza espressiva oggettivamente “illusorio” (un fatto intersoggettivamente osservabile, riscontrabile ecc.), dobbiamo operare una spoliazione della cosa. L’azione di misurazione comporta un certo grado di astrazione rispetto alla cosa qualitativamente esperita: la misurazione prescinde dalle appendici che determinano l’illusione in quanto tale. Il righello appoggiato rispettivamente sui due segmenti non misura la Müller-Lyer bensì unicamente la lunghezza dei segmenti, due segmenti uguali appaiono anche uguali. Affermare che misuriamo l’illusione di Müller-Lyer, per poi definire l’uguaglianza della lunghezza della figura, è una semplificazione di ciò che in verità appare e che noi chiamiamo illusione. Il righello non misura l’illusione. Misurare l’illusione significa piuttosto chiederci se continuiamo a vedere un segmento più lungo dell’altro, magari provando a variare la posizione delle appendici della figura: questa misura però non ce la “dice” il righello, bensì l’occhio, o meglio l’esperienza immediata. Disegnando un’illusione alla lavagna dimostriamo forse che la percezione è soggettiva? Eppure l’illusione è un fatto che possiede due requisiti epistemologici: 1) l’evento è ripetibile; 2) l’evento è intersoggettivamente condivisibile. Questi due requisiti determinano in ambito scientifico l’attribuzione di oggettività. Si potrebbe obiettare che questo caso di illusione ottico-geometrico è astratto e fuorviante poiché non lo possiamo incontrare in natura: è escogitato ad arte per ingannarci. Analizziamo allora l’altro classico esempio del bastone spezzato nell’acqua, che è giudicato illusorio poiché il bastone, fuori 149

dall’acqua, è visto come intero. Il confronto tra la situazione A (bastone nell’acqua) e la situazione B (bastone fuori dall’acqua) determina il giudizio di illusione sulla situazione A, anche se di fatto entrambe possiedono un proprio statuto di oggettività, in quanto intersoggettivamente condivisibili e ripetibili. Infatti, tutte le volte che il bastone è immerso nell’acqua lo vediamo spezzato: il bastone appare secondo le modalità proprie del suo essere nell’acqua. Per vedere la “stessa cosa” diversa, dobbiamo necessariamente modificare le condizioni di osservabilità del fenomeno. Possiamo dire che il bastone è lo stesso? Diversi sistemi di riferimento determinano risposte opposte, ma non in contraddizione, poiché “spezzato” e “intero” si riferiscono a due rispetti diversi della cosa. Il bastone nell’acqua infatti appare sempre spezzato: sarebbe un errore dello stimolo dire che è intero poiché lo sappiamo intero. Possiamo dire che nell’acqua rimane intero unicamente modificando il sistema di riferimento, non più percettivo ma concettuale. Il bastone diventa in tal caso un oggetto, una rappresentazione della realtà che è altro dalla realtà incontrata. Riflettiamo su un altro caso (l’esempio è di Bozzi). L’acqua bolle a temperature diverse a seconda che ci si trovi al mare o in montagna: ciò che il termometro indica è qualcosa di diverso dall’effetto constatabile. Ipotizziamo che si tratti di un’illusione e affermiamo che l’ebollizione dell’acqua è un’apparenza. Il procedimento per constatare l’esistenza dell’illusione è inverso a quello applicato alla Müller-Lyer: lo strumento di misurazione indica che i segmenti sono uguali, la nostra esperienza dice che sono diversi. Nel caso della temperatura di ebollizione, invece, constatiamo che i due casi sono analoghi, mentre lo strumento di misurazione indica che sono diversi. Sappiamo grazie alla fisica che nell’ebollizione non interviene unicamente la temperatura, ma vi è un’altra variabile, la pressione, che il termometro non è in grado di rivelare. Gli strumenti di misurazione forniscono dunque una scala numerica che non misura la realtà globale del fenomeno, ma un unico parametro che interviene in quel dato fenomeno. Se diciamo che l’illusione di Müller-Lyer è un’illusione ottica, dobbiamo anche dire che il vedere l’acqua bollire in montagna è una semplice illusione, e da questo circolo vizioso non 150

si esce. Emergono asimmetrie che si verificano conseguentemente all’utilizzo di strumenti di misurazione: all’interno della fisica si riscontrano quando uno strumento rivela che due fenomeni sono diversi, mentre lo “status fisico” osservabile ne decreta l’uguaglianza; all’interno della psicologia si verificano quando l’uguaglianza tra due fenomeni è assicurata dal criterio operazionale, mentre la disuguaglianza dall’osservazione diretta. L’utilizzo delle cose nella pratica quotidiana porta a ritenere vera la misurazione e falso ciò che deriva dall’osservazione, ma ciò che lo strumento applicato all’osservabile indica non è la realtà, bensì un’integrazione cognitiva: un attributo non rilevabile mediante osservazione. Le integrazioni cognitive non sono ascrivibili direttamente alle cose. Prendiamo ora in esame la seconda via per dubitare del mondo esterno indicata da Cartesio: il dubbio radicale frutto dell’ipotesi del genio maligno, il quale, essendo potentissimus, potrebbe ingannarci sistematicamente. Tutto ciò che appare alla coscienza non corrisponderebbe alla realtà, ma alla volontà del genio maligno. Ciò che vediamo potrebbe essere il risultato di una stimolazione artificiale che ci fa credere di percepire un mondo che non esiste. Il “cervello in una vasca” di Putnam, il programma Matrix, la realtà di Abre los ojos di Amenábar sono esempi creati con la medesima logica sottostante. Così Il sogno del re di Carroll: “Egli sogna, adesso. E cosa credi che sogni? / Nessuno lo può indovinare. / Ma come, sogna di te. E se smettesse di sognare di te, dove credi che saresti tu? / Dove sono ora naturalmente. / Niente affatto; non saresti in nessun luogo. Perché tu sei soltanto una cosa dentro il suo sogno. / Se il re dovesse svegliarsi, tu ti spegneresti… puf… proprio come una candela”. Il re è causa dell’apparire fenomenico. Al di là delle variazioni moderne che possiamo incontrare nella letteratura filosofica o in quella artistica, la metafisica implicita è la medesima espressa elegantemente da Cartesio. Secondo Wittgenstein, un dubbio applicato all’intera conoscenza non è né formulabile – poiché ogni parola rimanderebbe al mondo per poi metterlo in dubbio – né adottabile come atteggiamento coerente nella vita pratica. Nella prassi quotidiana si può dubitare di qualcosa, ma nessuno dubita realmente di ogni cosa. Se qualcuno 151

dicesse di dubitare di tutto, le sue azioni sarebbero poi coerenti? Costui si comporterebbe effettivamente come se il mondo non fosse reale? Se non riscontrassimo alcuna differenza nelle azioni di colui che dubita rispetto a colui che non dubita, quale conclusione dovremmo trarne? Wittgenstein, a proposito del comportamento tipico del dubbio e di quello dell’assenza di dubbio, sostiene che “il primo c’è soltanto se c’è il secondo” (Della certezza, § 354). Potremmo utilizzare, come principio di economia, il rasoio di Ockham e, data l’indipendenza dell’apparire del mondo esterno dal pensiero, riconoscere l’insensatezza dell’ipotesi di un dubbio radicale. Anzitutto, colui che dubita dovrà esibire le ragioni del proprio dubitare e dovrà agire conformemente a esso: affinché un comportamento possa essere identificato come tipico del dubbio, le circostanze in cui si manifesta devono essere appropriate. Prendendo a prestito un concetto di Merleau-Ponty, potremmo dire che il dubbio non viene mai “incarnato”: nessuno agisce conseguentemente all’assunzione del dubbio iperbolico, poiché dubitare di tutto equivale a non dubitare di nulla. Se dubitiamo del mondo non possiamo comportarci come se non ne dubitassimo affatto. Essendo il dubbio iperbolico un “perfetto inganno”, chi lo accoglie mantiene le medesime esperienze e certezze di chi non lo accoglie. Possiamo concretamente assumere un comportamento conforme al dubbio radicale? Relegheremmo così il dubbio a un atto di fede e non di ragione e non vi sarebbe alcuna differenza tra i concetti di dubitare e non dubitare. Uniamo ora i due ragionamenti: prendiamo da un lato lo schema psicofisico e dall’altro l’ipotesi del genio maligno e chiediamoci dove, ossia in quale parte, potremmo collocare l’ipotesi del genio maligno all’interno dello schema psicofisico S-D. Risposta: potrebbe trovarsi in ogni singolo segmento in quanto l’intero schema rappresenta una spiegazione causale dell’apparire della cosa. Potrebbe sostituire l’oggetto fisico (stimolo distale) e le onde elettromagnetiche, potrebbe risiedere in una parte del cervello o sostituirlo interamente, potrebbe occupare il posto dello stimolo prossimale, quello dell’immagine retinica ecc. Ogni parte è “causa” della percezione, esattamente come il genio può rappresentare 152

la causa della presunta evidenza del mondo esterno. Potrebbe sostituire ogni parte tranne l’esperienza fenomenica immediata della cosa con la quale deve necessariamente coincidere. La nostra esperienza fenomenica è indipendente dalla metafisica sottostante il fenomeno o, se si preferisce, possiamo considerarla una metafisica di livello zero: neutra rispetto a tutte le metafisiche. Nessuna spiegazione causale transfenomenica coglie l’esperienza percettiva in quanto tale: essa cioè non è localizzabile all’interno dello schema psicofisico. “Nessuna spiegazione”, afferma Köhler, “può mutare un fenomeno o la sua localizzazione.” L’esperienza immediata non è negli stimoli, né nella retina, né nella fisiologia del cervello. Il problema non è definire correttamente il “concetto” di percezione, bensì descrivere l’esperienza in modo appropriato. La “fenomenologia sperimentale” individua le condizioni di apparenza di un dato fenomeno senza uscire dagli osservabili in atto: le variabili dipendenti e indipendenti sono condizioni che risiedono nel mondo, mai nel soggetto che determina il sistema di riferimento implicito tramite il proprio corpo. Le condizioni messe in luce per l’apparire fenomenico valgono in tutti i mondi possibili, quindi il fenomeno iuxta propria principia non è più qualcosa di contingente, ma di necessario. Possiamo dubitare della causa dell’apparire, non dell’apparire in quanto tale. Ma la causa dell’apparire deve alla fine rendere ragione del perché il mondo “appare così come appare”. L’esperienza fenomenica immediata, rispetto alla realtà sottostante, può vantare solo diritti senza doveri, se non quello di essere ciò che è: un fatto osservabile. Questo fatto inserito all’interno di un sistema di riferimento ecologico costituisce l’inizio della conoscenza, l’inizio dell’apparire della verità. La cosa non può che offrirsi secondo una certa prospettiva fenomenica per completarsi-implementarsi fenomeno-logicamente. Senza tale “limite” non potremmo parlare di Lebensform: il limite struttura il nostro comportamento, il nostro In-der-Welt-sein, direbbe Heidegger. L’esperienza immediata si costituisce in quello che James chiama “tempo di presenza” (specious present): in questo “istante vissuto” la fenomenologia rinnova incessantemente l’origine di senso della cosa inscritta nell’espressività del mondo. L’esperienza 153

immediata è il nostro primo sistema di riferimento: essa ci orienta nel mondo e guida il senso delle nostre azioni. Tale sistema ecologico determina la nostra forma di vita. Inizialmente avevamo legato il destino della verità al destino della soggettività; chiarito quest’ultimo, attraverso la nozione di esperienza immediata, anche la nozione di verità può essere letta in chiave fenomenologica come sistema di riferimento. Il relativismo è il presupposto della verità e non la sua negazione: l’affermazione della verità è sempre relativa a un certo contesto. Ecco un nuovo compito per la fenomenologia: il chiarimento concettuale del sistema di riferimento implicito alla nostra conoscenza. Abbiamo messo in luce come per dubitare dobbiamo pensare al mondo come rappresentazione, come qualcosa di mediato. Per poter dubitare del mondo vedere e pensare devono essere considerati tutt’uno: il mondo è una nostra interpretazione, una nostra costruzione soggettiva. Non possiamo dubitare dell’esperienza immediata in quanto essa è autonoma dal cogito e dalla metafisica sottostante. Il dubbio comporta una messa in discussione del nostro agire, della nostra forma di vita. In conseguenza al dubbio, il senso che guida le nostre azioni ne è profondamente alterato, poiché l’agire è incarnato nel mondo della vita. La nostra natura è relazionale: non ci sarebbe conoscenza del cogito senza l’inizio estetico che lo contraddistingue. La conoscenza del dubbio e della certezza dell’esistenza del mondo esterno si danno entrambe nella relazione tra l’apparire fenomenico della cosa e il logos. Il reale si configura in una logica intrinseca alle modalità di apparenza nell’esperienza immediata: le modalità di datità fenomenica strutturano il visibile come fenomeno interno o esterno, determinandone il grado di realtà. I poli soggettivo e oggettivo dell’apparire della cosa dipendono dal sistema di relazione implicito, che è sempre in funzione dell’uso che intendiamo farne. A partire dall’utilizzo e dal fine della cosa il polo che emerge può essere soggettivo o oggettivo e ciò comporta un dato sistema di riferimento implicito: l’assolutizzazione di una polarità rende l’altra aporetica. Il dubbio scettico non fa eccezione e si configura come assolutizzazione di un sistema di riferimento; il dubbio 154

metafisico deriva dalla collisione di due sistemi di riferimento in contraddizione tra loro. Tanto il mondo trascendente del genio maligno quanto la scienza rappresentano una metafisica sottostante l’esperienza immediata, intendono essere causa e origine quando invece sono un’espressione seconda del mondo. La sensatezza del dubbio è stabilita dal coordinamento reciproco di ordine logico e ordine estetico. Come abbiamo visto, l’insensatezza del dubbio è emersa attraverso incongruenze sia fenomeniche che logico-linguistiche. Ogni angolo buio dell’apparire su cui il dubbio intende infiltrarsi è destinato a essere illuminato dal doppio vincolo fenomeno-logico: il dubbio non riesce a trovare il suo ubi consistam. Il mondo si offrirà per essere smascherato, proprio come recita un aforisma di Kafka: “Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te”.

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