Frank Capra. Accadde una notte

August 7, 2017 | Autor: Arianna Salatino | Categoria: American Cinema
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Arianna Salatino FRANK CAPRA “ACCADDE UNA NOTTE”

MIMESIS

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INDICE

Dialogo con Vito Zagarrio 9 Biografia del regista 21 Scheda del film 25 Analisi del film Accadde per caso 27 «The audience is always right» 35 Le star, i personaggi 45 «You’re just a headline to me». Peter Warne 49 «I’ll stop a car, and I won’t use my thumb!». Ellen Andrews 54 «Much deeper than just slipping on a banana peel». Accadde una notte e la Screwball Comedy 63 La struttura dello scontro. Reciprocità e simmetrie 71 Variazioni sul sesso. Le mura, la tromba e altre metafore 79 «Tell it short, quick, exciting». Il linguaggio, il sonoro, la stampa 87 C’è ma non si vede. Lo stile 95 E vissero tutti felici e contenti? 103 Bibliografia 115

Maybe there really wasn’t an America, maybe it was only Frank Capra. (John Cassavetes)

DIALOGO CON VITO ZAGARRIO

Accadde una notte è una delle commedie più felici del cinema classico oltre che uno dei film più ottimisti e fortunati di Frank Capra, il regista che ha meglio incarnato il Sogno Americano e lo spirito ricostruttivo del New Deal. La speranza, i buoni sentimenti, i piccoli gesti di eroi quotidiani immancabilmente premiati dal lieto fine: sono questi i temi che il cinema di Capra generalmente ha evocato. Tu invece hai insistito a lungo per una contro-lettura di Frank Capra – un Capra “malgrado lui” – scardinando i luoghi comuni del “capracorn” e andando oltre il sentimentalismo di facciata e la retorica reazionaria e populista solitamente associata al suo nome. L’ottimismo, in Capra, spesso è solo apparente, e a ben guardare esiste un sottofinale tragico dietro ognuno dei suoi happyendings. In questo film il contrasto tra realismo sociale e fantasie escapiste è particolarmente evidente. Dove finisce la favola e dove incomincia la realtà? Accadde una notte è davvero un film così rassicurante? Accadde una notte è un film un po’ schizofrenico: da un lato c’è la fiaba tradizionale, la “Cinderella-story” presente in tutti i film di Capra – come ha dimostrato Raymond Carney in American Vision – con l’archetipo rassicurante del matrimonio finale (in quanti altri film, successivamente, abbiamo ritrovato il topos della sposa che all’ultimo momento scappa con colui di cui è innamorata realmente?), quindi la conclusione felice e l’happy-ending che il pubblico si aspetta. Dall’altro lato però c’è un contesto sociale, storico e politico piuttosto tragico. Intanto è l’America della Depressione, quella che emerge da alcuni indizi del film… Hai parlato di “lapsus”. Io li chiamo lapsus, ma forse è un po’ eccessiva questa mia definizione. Si tratta di momenti di rilassamento della tensione narrativa, in cui vengono fuori gli aspetti più crudi di quell’America, aspetti che lo stesso Capra vorrebbe rimuovere (per questo io parlo di Frank Capra “malgré lui”). In Accadde una notte a un certo punto – quando Gable sta tornando da Claudette Colbert ma scopre che lei se n’è andata – c’è un passaggio a livello che viene attraversato da un treno carico di vagabondi: quello è il treno dei disperati, dei tramps, è il treno della Depressione. Siamo a soli cinque minuti dalla fine del film, e pare che tutto stia andando nel peggiore dei modi. Sì; come sappiamo, i momenti climax in Capra avvengono proprio un attimo prima del finale. Ci si trova in uno stato di grossa “depressione” – non soltanto economica, ma anche morale – da cui poi improvvisamente ci si risolleva (non sempre succede, ma insomma, quasi sempre). Nonostante la

risalita, però, lo spettatore ha comunque introiettato quei momenti: il treno dei vagabondi, la lunga fila di donne in coda per la doccia (il motel in cui i due protagonisti passano la notte non è affatto un posto allegro). E poi lo stesso autobus notturno in cui si svolge questa storia on the road, dove una donna sta svenendo per la fame e la gente ha l’abitudine di dormire nei fienili. C’è un senso di vagabondaggio, qui, che dice di un’America piuttosto amara. Lo stesso Gable, che campicchia facendo il giornalista, viene licenziato e rimane senza soldi, vuole rimediare facendo uno scoop ma poi si innamora e ci rinuncia: altro archetipo, basta pensare a Vacanze romane di William Wyler, con Gregory Peck e Audrey Hepburn, dove lui è un “Cinderella-man” e lei una principessa. Lì l’amore non funzionerà. Non funzionerà ma l’happy-ending c’è lo stesso: c’è una grande complicità tra i due, si capisce che il loro amore resterà anche senza il matrimonio. Accadde una notte è un film che è doppio in questo senso: da una parte c’è la tragedia incombente di quegli anni, dall’altra si intravedono già i segnali del New Deal. Mi sembra che Frank Capra – come fanno gli artisti – abbia avuto una grande capacità di intuire prima l’arrivo della Depressione, poi quello del New Deal, con l’uscita dalla Crisi. E poi Capra qui intuisce anche i generi: si appropria del road movie (Accadde una notte è un grande travel-film), si ispira alla letteratura (il film è l’adattamento di una novella di Samuel Hopkins Adams), riesce a costruire dei modelli per tanto cinema futuro (il viaggio in autobus, per esempio, sarà ripreso pochi anni dopo da Alessandro Blasetti in Quattro passi tra le nuvole). Capra gira Accadde una notte in un momento di svolta della sua carriera, in cui la sua un’ambizione per l’Oscar è accompagnata alla frustrazione per non essere mai stato legittimato come avrebbe voluto. Quindi si tratta di un film molto importante sia nella sua filmografia che, più in generale, nella filmografia americana di quegli anni. Forse anche in quella mondiale, e fino ad oggi. Accadde una notte rimane veramente un caposaldo. L’anno in cui uscì il film, il 1934, è infatti un anno importante nella storia del cinema hollywoodiano: il sonoro comincia ad assumere una forma più consolidata, la commedia diventa screwball, le norme di censura del codice Hays vengono adottate in maniera effettiva dagli Studios. La carriera di Capra, come dicevi, si trova a un punto di svolta: i film girati fino ad allora sembrano mostrare una realtà molto più cupa e amara di quella che emergerà negli anni successivi, una realtà per la quale è difficile immaginare un lieto fine.

Che cosa succede a partire da Accadde una notte? Esiste, in Frank Capra, un prima e un dopo rispetto a questa data? Accadde una notte rappresenta proprio il turning point del cinema di Frank Capra. Mi ricordo che quando abbiamo organizzato la retrospettiva sul primo Capra [in occasione della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, nel 1988] abbiamo scelto due date precise: il 1928 e il 1934. Sono questi gli anni di maggiore sperimentazione di Capra, e quelli della sua produzione più interessante, se riletta oggi. Dopo il 1934 c’è il Capra più famoso, ma anche forse il Capra più scontato, quello a cui si possono applicare sempre gli stessi stilemi, le stesse categorie teoriche. È il Capra che predilige un modo di produzione diverso, con attori affermati e la prevalenza, nei suoi film, di grandi messaggi verso la società. Lo sceneggiatore Robert Riskin, a partire da questo momento, diventa il suo alter ego, soprattutto per quanto riguarda l’invenzione delle storie. E poi dal ’36 – quando si afferma la politica rooseveltiana e l’America comincia a cambiare – ci saranno Mr. Deeds Goes to Town, Lost Horizon, You Can’t Take it With You, Mr. Smith Goes to Washington, Meet John Doe. Sono gli anni del Capra classico, che culmineranno con It’s a Wonderful Life, summa di tutta la sua opera, mentre dal ’46 in poi ci sarà una fase di stagno e debolezza, ma anche di consacrazione finale attraverso i remakes che Capra fa dei suoi stessi film, come Riding High e Pocketful of Miracles (che poi restano comunque tutti film interessanti: rivedere oggi State of the Union con Spencer Tracy e Katharine Hepburn forse non è poi così male come pensavo la prima volta che l’ho visto, ed anche Riding High, oltre ad essere un film gustosissimo, è un caso di “riciclaggio postmoderno” piuttosto interessante, perché qui Capra utilizza materiali di repertorio del suo vecchio film). Ma è prima del ’34 che in Capra c’è un periodo estremamente effervescente; ha inizio nel 1928 con due film sulla Depressione e la povertà americana (non a caso sono due film sul cibo): That Certain Thing e So This is Love. Il primo è una riflessione molto lucida sul capitalismo americano: cos’è “quella certa cosa”? è il segreto della protagonista Molly di vendere panini tagliando il prosciutto un po’ più spesso di come facevano gli altri (invece di risparmiare tagliandolo sottile, Molly intuisce che si può guadagnare di più offrendo un prodotto migliore: se ci pensi è una bella formula anche per un’Italia “McDonaldizzata”), fino a creare un’impresa alimentare di un successo tale da dimostrare al padre del giovane miliardario di cui è innamorata – che fino a quel momento la rifiutava perché povera – di essere una brava capitalista, conquistando così sia lui che il figlio. Si sente continuamente il senso della fame, c’è una specie di commistione tra commedia dell’arte italiana e tragedia della disperazione. In una famosa sequenza di So This is Love uno dei protagonisti affamati vede apparire un pollo arrosto dentro una vetrina.

In That Certain Thing, accanto al tema della fame, ci sono tante altre piccole anticipazioni di Accadde una notte, per esempio la presenza di una coppia formata da partner di classi sociali diverse, una situazione che ritorna continuamente in Capra. Sì, il tema della coppia è fondamentale e ricorrente nella sua filmografia, e il famoso studio di Stanley Cavell su Accadde una notte in Pursuits of Happyness: The Hollywood Comedy of Remarriage è senz’altro illuminante (le atmosfere di Capra si ritrovano tra l’altro nel film di Gabriele Muccino del 2006 che ne riprende il titolo, The Pursuit of Happyness, la ricerca della felicità). Il contrasto di classi unito alla storia d’amore – generalmente celebrata come un patto sociale tra i due partner – a partire da That Certain Thing e fino a You Can’t Take it With You sarà un tema costante. In quegli anni poi, prima del ’34, ci sono i “film delle catastrofi”, si vedono disastri dappertutto. In The Matinee Idol un dramma teatrale viene rappresentato in maniera talmente disastrosa che la tragedia si trasforma in commedia, e tutti scoppiano a ridere (un tema che riprenderà Mel Brooks in The Producers). The Way of the Strong addirittura si conclude con il suicidio del gangster protagonista, che un po’ come ne La bella e la bestia si era innamorato di una violinista cieca. È un melodramma puro, e compare qui il primo suicidio del cinema di Capra. Poi c’è la trilogia militare: Submarine, Flight e Dirigible sono film in cui si susseguono incidenti di ogni tipo: il dirigibile e l’aereo precipitano, il sottomarino resta imbrigliato nelle trappole degli abissi, in tutti e tre i film c’è la storia di un’amicizia tra uomini che però viene messa in crisi dalla presenza di una donna, e questo è molto interessante: il melodramma è sempre legato a delle idee di catastrofe e distruzione. Ancora, The Miracle Woman si conclude con l’incendio di una chiesa, The Younger Generation racconta il dramma delle nuove generazioni e finisce in modo tragico, in Ladies of Leisure Barbara Stanwyck è una “donna di piacere” – una escort dei giorni nostri – che per amore si butterà dal piroscafo che la sta portando a Cuba, e sarà salvata in un finto happy-ending a cui nessuno crede. In Platinum Blonde abbiamo invece una situazione simile a quella di Accadde una notte: anche qui il giornalista è un “Cinderella-man” che si innamora di una miliardaria, ma questa gli rende la vita talmente difficile che alla fine lui la lascerà dopo aver trovato la donna giusta, quella che sempre gli era stata accanto ma che lui non aveva mai notato. E poi c’è The Bitter Tea of General Yen, un’altra storia d’amore impossibile in cui gli amanti non troveranno nessuna conciliazione e il protagonista finirà col suicidarsi.

A proposito di catastrofi. The Catastrophe of Success è il titolo della biografia di Frank Capra curata da Joseph McBride, uno dei suoi più grandi conoscitori (e suo massimo detrattore).

Accadde una notte è stato il primo vero grande successo di Capra, è un film che fu acclamato dal pubblico dell’epoca con entusiasmo crescente e che fruttò alla Columbia incassi mai raggiunti fino ad allora. Secondo una celebre definizione di McBride, questo successo non sarebbe stato altro – nella carriera di Capra – che “some kind of accident”: qualcosa che lui non meritava affatto, essendo il prodotto dell’appropriazione ingrata e vendicativa, da parte sua, del lavoro compiuto da altri (prima di tutti il suo sceneggiatore Robert Riskin). Quanto pensi che la lettura di McBride sia ingiusta nei confronti di Capra? Io ho conosciuto McBride, l’ho incontrato a Bologna durante una retrospettiva su Capra, nel 2009. Lì abbiamo discusso le nostre posizioni, e tra l’altro nella più recente edizione del suo libro McBride risponde alle obiezioni che avevo mosso nei confronti della versione precedente. Devo dire che io e lui siamo accomunati da uno stesso amore per uno stesso oggetto di studio, e quindi poi, in qualche modo, abbiamo appianato qualsiasi polemica. A me non piaceva però il suo tipo di approccio metodologico: che vuol dire che il merito è dello sceneggiatore? Si aprirebbe qui un grosso discorso sul ruolo dello sceneggiatore nel cinema: è più importante Amidei o Rossellini? E perché non si dice la stessa cosa di Risi o di Monicelli nei confronti di Age e Scarpelli? Anche quel cinema allora è tutto rubato. Ma che cosa vuol dire? perché si deve parlare di una “sindrome di impostore”? È un falso problema. Sì. È stato merito di Capra prendere Riskin e mettere insieme quel “pacchetto” per il film, è stato merito suo metterlo in scena, perché la sceneggiatura – come sappiamo – non basta, quindi metodologicamente non capisco questa “sindrome dell’impostura” di cui parla McBride nei confronti di Capra, non mi convince. Se prendiamo La vita è meravigliosa, la sceneggiatura non è di Riskin, ma di Frances Goodrich, Jo Swerling e altri. Allora questo non sarebbe un film di Capra? O ancora, ribaltando i discorsi: quanto devono i registi contemporanei alla fotografia di Luca Bigazzi? Questo significa forse che il vero “autore” di questi film dovrebbe essere considerato Bigazzi? La stessa cosa vale per Storaro con Coppola. L’artista è il regista. Capra ha fatto una vera e propria rivendicazione sindacale su questo: “il nome sopra il titolo” – che è la sua autobiografia – significa questo, che il nome del regista, nei titoli del film, è il primo ad apparire, mentre fino ad allora, nello Studio System americano, comparivano prima quello della casa di produzione e poi quelli delle Star. Con Capra c’è un primo rovesciamento di questo sistema – non dal punto di vista della teoria: le battaglie di Capra non sono certamente quelle dei Cahiers du cinéma! – ma dal punto di vista dei diritti salariali e sindacali sì. Come avrebbe potuto, proprio lui che aveva portato avanti un simile discorso sul ruolo dell’autore,

delegare tutto al suo sceneggiatore? Nessuno ha mai pensato di definire – per esempio – De Sica un impostore nei confronti di Zavattini. Eppure, che autore sarebbe stato De Sica senza Zavattini? Pensiamo poi a Fellini e Pinelli… quanti altri esempi ci sarebbero? È stato merito di Capra sapersi contornare di bravi collaboratori e realizzare il suo sodalizio con Riskin. Detto questo, è comunque meritorio il lavoro biografico fatto da McBride, la sua vasta raccolta di dati e informazioni. Ma questo è un altro lavoro. Il mio è un lavoro di interpretazione dello stile e dei testi.

Ecco: parliamo di stile. Accadde una notte è un film perfettamente classico, ha una trama semplice e lineare, procede senza intoppi verso la risoluzione delle cose, il suo ritmo è convincente, i personaggi ben caratterizzati e ogni cosa è funzionale al raggiungimento dell’obiettivo finale: la formazione della coppia. C’è l’Edipo, c’è Shakespeare, c’è la nascente screwball comedy, c’è un finale da fiaba, il sogno di rivalsa sociale e quello dell’amore romantico. Tutto questo funziona in maniera eccellente, e sorprende il modo in cui Capra riesce a combinare generi, codici, linguaggi e temi così diversi attraverso uno stile generalmente considerato “invisibile” (Capra non aveva, per esempio, il “tocco di Lubitsch”, quell’inconfondibile marca autoriale che caratterizzava la regia di ogni sua commedia). Come avviene, dal punto di vista della regia, questa operazione? Quando si parla di “tocco di Lubitsch” non si fa riferimento a movimenti di macchina particolari o a piani sequenza, come potrebbe avvenire per esempio parlando di Hitchcock. È in una specie di “leggerezza” che consiste quel tocco, in uno stile tipico di recitazione. Perché questa riconoscibilità non ci sarebbe anche nei film di Capra? C’è un’identità molto forte nel suo cinema, c’è un mondo, e si capisce benissimo. Lo stile di recitazione è veicolato da un montaggio molto sapiente, in cui anche mostrare un primo piano piuttosto che un campo medio permette di raggiungere una grande intensità. In Accadde una notte il pubblico scoppia a ridere davanti alla scena in cui Peter insegna ad Ellie come inzuppare nel latte una ciambella, ma quando poi lui corre da lei e non la trova più lì ad aspettarlo, cala l’angoscia più profonda. Capra dimostra di saper giocare molto bene sul piano delle emozioni. Certo, se i Cahiers du cinéma stabiliscono dei parametri di gusto tali per cui, politicamente, Capra è considerato un conservatore, uno di destra, ecco, credo che ci sia allora un forte preconcetto di tipo ideologico. Altrimenti si vede bene – dal punto di vista stilistico – che in Capra c’è un tocco da maestro, soprattutto nella recitazione.

Se si prendono i grandi personaggi dei suoi film è possibile rilevare una vera e propria continuità nei loro ruoli: il Clark Gable di Accadde una notte, il Gary Cooper di Mr Deeds, il James Stewart di You Can’t Take it With You, poi ancora il Gary Cooper di Meet John Doe, hanno in comune cose molto simili, delle particolari dolcezze e aggressività, delle situazioni caratteriali che ritornano nel loro tipo di recitazione. Anche lo sviluppo drammaturgico e narrativo, da un film all’altro, è riconoscibilissimo in Capra, che in questo è senz’altro un autore. Ma poi che cosa vuol dire “autore”? Oggi lo stesso concetto di “auteur”, di artista, non ha più tanto senso. C’è un mondo coerente, una visione unitaria, nel suo cinema? Sì. E allora a me basta questo. Pensiamo un attimo per inquadrature. Se dico “Accadde una notte”, qual è la prima immagine che ti viene in mente? Ci sono dei punti del film in cui trovi che le soluzioni registiche adottate siano particolarmente convincenti? Così di primo acchito penso alla scena in cui Gable prende la Colbert tra le braccia prima di attraversare il ruscello; sta per farsi sera e in controluce si vedono i riflessi del tramonto che sfumano sull’acqua creando degli effetti molto belli. Ma ci sono tante altre immagini che mi vengono in mente: la famosa scena dell’autostop, con la Colbert che scopre la gamba, e poi le “mura di Gerico” – quella la coperta che Gable, prima di andare a letto, appende nella stanza per dividerla in due – un’allusione alla verginità molto coraggiosa per quei tempi, l’immagine di un imene che “crolla” simboleggiando il cedere di una donna e di un uomo al loro reciproco desiderio. Volendo pensare oggi in termini di gender, le figure femminili di tutti i film di Capra sono straordinarie, è straordinaria quella galleria di donne – a volte cattive che diventano buone pentendosi del loro ruolo, spesso geniali e comunque mai secondarie rispetto agli uomini che affiancano – che Capra costruisce da Ladies of Leisure fino a Pocketful of Miracles. Sono personaggi femminili molto complessi e mai a tuttotondo. Si potrebbero oggi “applicare” a Capra delle categorie di studio molto diverse da quelle che ho adoperato quando ho iniziato ad occuparmi del suo cinema, nel 1982. Io ho visto per primo tutti i suoi film e li ho portati in una retrospettiva qui in Italia, perché quelli usciti prima di Accadde una notte non erano mai stati distribuiti fino ad allora. È chiaro che oggi – con attrezzature nuove anche dal punto di vista generazionale, perché credo che i giovani possano vivere e vedere Capra in maniera diversa – si potrebbero approfondire queste categorie di gender e di masculinity: qual è l’idea di mascolinità in questi uomini spesso fragili,

deboli, uomini che vogliono uccidersi, o che come James Stewart in Mr. Smith, preso in giro per le sue gaffe, risultano così comici e buffi? Non sono eroi, non sono dei “machi”. Lo è un po’ Clark Gable in Accadde una notte, il maschio con i baffetti latini, però anche lui poi viene totalmente sopraffatto dalla situazione, dominato dalla Colbert che è invece una donna capace di disobbedire al padre, tuffandosi dal suo yacht per raggiungere la costa e viaggiare sola, fino a fermare gli uomini in autostop. Pensa poi a quante implicazioni psicoanalitiche contengono questi film: l’incubo di non essere mai nati in It’s a Wonderful Life – un tema molto più complesso di quanto non si pensi – , l’ossessione del suicidio presente in molti altri film, il tuffo nell’acqua che ritorna come gesto rituale di rifugio, di fuga o di espiazione, attraverso l’immersione in un “liquido amniotico” ripreso ogni volta in maniera simile, con un plongée dall’alto. Un’altra pista di lettura possibile è il rapporto di Capra con il modo di produzione, quindi il rapporto con la Columbia ed Harry Cohn, poi il distacco e il tentativo, con la Liberty Film, di una produzione indipendente (Capra tende a firmare i suoi film con “produced by”, quindi è regista ma anche producer). Questo conta molto, e da questo dipende anche lo stile: Capra apparteneva alla Columbia, che era una della minors americane, ed era costretta a prediligere alcuni argomenti e ad utilizzare certi attori. Anche questa sarebbe una lettura inedita del cinema di Capra, che aiuta a non ricadere nelle ideologie e nelle convenzionalità.

Infatti il cinema Capra si presta a letture molto diverse, ed è sicuramente riduttivo limitarsi a quella più tradizionale, che ha interpretato la sua opera come una gigantesca fiaba, facendone la ricetta vincente del cinema americano di quegli anni afflitti dalle conseguenze della Depressione, dai totalitarismi e dalle guerre («Questo doveva essere il mio lavoro: risollevare gli animi», scrive Capra stesso nella sua autobiografia). È però innegabile che Accadde una notte, da questo punto di vista, riuscì ad offrire agli spettatori di tutto il mondo il sollievo impagabile di credere in un lieto fine, e questa fu una delle ragioni del suo successo. Quanto può considerarsi attuale una riflessione di questo tipo oggi, nel clima di crisi economica, disagio e paura sociale che stiamo attraversando? Un film del genere, almeno sul piano dell’immaginario, può ancora consolarci?

Come messaggio ideologico non credo proprio. Il messaggio ideologico è quello che Capra ci spaccia, quello del Capra cosciente, il Capra che invita a volersi bene, a confidare nell’aiuto dei nostri vicini, ad avere una grande forza di volontà nel perseguire i nostri obiettivi. È un Capra

populista e paternalista, una specie di Beppe Grillo non arrabbiato, il cui messaggio è quello di mandare a casa i politici corrotti perché è di gente come “John Doe” che c’è bisogno, di qualcuno che sappia rappresentare i buoni cittadini onesti. Questa è una ricetta molto naïf, di un buonismo che francamente, visto in maniera così superficiale, potrebbe risultare insopportabile. Ma non lo è, perché poi questi personaggi vivono, prendono vita, diventano commoventi. La vita è meravigliosa per esempio, dal punto di vista del plot, è veramente il peggio del conservatorismo americano: da una parte c’è un uomo che ha fatto la sua fortuna attraverso una compagnia di costruzione che concede prestiti – è l’ideale dell’American Dream, quasi un piccolo Berlusconi rampante – e dall’altra parte c’è Potter, il grande capitalista senza pietà. Poi alla fine tutto si risolve bene grazie al deus ex machina, con questa trovata molto populista della colletta civile. È una soluzione un po’ infantile ma certamente lascia emergere il ritratto di un uomo forte, di un leader che ha il pieno consenso dei cittadini. Nel populismo americano, ma anche in quello italiano, questo conta molto: i nostri leader populisti, nel bene come nel male, hanno delle cose “capresche”. Basta pensare al successo di Grillo, o alla scena politica di Renzi che nelle primarie si rivolgeva agli elettori chiamandoli per nomi immaginari. C’è molto di Capra in questo fare appello all’etica civile contro la corruzione dei potenti. Lo stesso Obama di “Yes We Can” incarna la favola del nero che diventa presidente degli Stati Uniti. Sono cose che evidentemente risiedono nell’immaginario americano e in quello occidentale. Un messaggio di fiducia, speranza e “bene comune”? Sì, ma ripeto: c’è un Capra che deve essere riletto al di là di queste cose, dei presunti messaggi dei suoi film. A me questi messaggi importano poco, non mi interessa un Capra ideologico, perché altrimenti, se cavalchiamo il Capra ideologico, cavalchiamo il Capra dell’autobiografia (se leggi la premessa di John Ford al libro, è fortemente reazionaria). Prendiamo un film come The Bitter Tea of General Yen: c’è il suicidio del protagonista, c’è un’attrazione morbosa e totale di una donna – in tempi in cui si parla molto di violenza sulle donne – per un uomo che la tratta male, c’è l’incontro di due “razze” diverse. Se ragioniamo in termini di political correct, sono tutte cose che gli americani non amano. Però poi c’è questa intensità degli sguardi, la seduzione, l’intensità del desiderio femminile, il sogno di lei che viene violentata da un uomo mascherato, la perversione… Se facciamo una lettura ideologica questo è un film che dovrebbe essere ripudiato: lui è un dominatore, rapisce una donna, lei se ne innamora, lui espia

uccidendosi. E invece ciò che più interessa è la costruzione del film, la sua fotografia edulcorata; The Bitter Tea of General Yen è un film sognato e voyeurista. Esiste allora un’attualità di Capra? Capra ha influenzato gran parte del cinema successivo soprattutto con i suoi temi, che sono molto presenti nella commedia italiana contemporanea, di cui mi sono occupato. Pensa alle commedie di Giulio Manfredonia: in Se fossi in te tre amici si chiedono che cosa accadrebbe se ciascuno di loro si trovasse a vivere la vita dell’altro, e questo è un tipico tema di Capra. Oppure, nel Principe abusivo di Alessandro Siani, il poveraccio di turno deve conquistare la principessa: è il problema della screwball comedy, con il passaggio sociale e il salto di classe. Colpi di fulmine di Neri Parenti – il “film di Natale” di due anni fa – in uno degli episodi racconta di un ambasciatore molto fine che si innamora di una pescivendola e decide di dimenticare la buona educazione e imparare le maniere popolane come parlare il romanesco sboccato per avvicinarsi a lei. I temi di Capra si ritrovano in tutta la commedia degli anni Novanta, dai fratelli Coen – con Mister Hula Hoop, dove c’è un angelo che salva la vita a un uomo che sta per suicidarsi – a Eroe per caso di Stephen Frears, in cui il vagabondo, l’ “uomo qualsiasi”, diventa un eroe mediatico. Capra ha influenzato moltissimo questo cinema, consciamente o inconsciamente, e le sue tematiche sono entrate a far parte del nostro immaginario diventando degli archetipi tali che uno arriva a fare una sceneggiatura e ne subisce l’influenza senza neanche pensarci. Un’altra cosa importante di Capra è la massa (un concetto che riprenderà De Santis in alcuni suoi film), in cui, per esempio, nei rapporti con le banche si parte da una telefonata – che poi diventa due, tre, dieci, cento telefonate – fino ad arrivare al governatore dello Stato di New York e far scoppiare la crisi economica. In John Doe e in American Madness è così che si propagano la contestazione e la rivolta, è così che si diffonde il panico tra la folla, come un coro che cresce. Siamo vicini, se ci pensi, anche alla crisi internazionale attuale: probabilmente è partita così anche la voce dello spread, nei meccanismi dell’alta finanza. Oggi è molto attuale questa riflessione di Capra. Bisogna fare un tentativo di revisione dei suoi film, ripensarli, rivederli, riflettere su diversi tipi di lettura tentando anche nuove ipotesi ermeneutiche. È soprattutto di questo che il cinema ha bisogno.

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