Freud e il padre – il problema Totem e Tabù

June 3, 2017 | Autor: Antonino Zaffiro | Categoria: Jacques Lacan, Sigmund Freud, Freud and Lacan, Psicoanalisi
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Freud e il padre – il problema Totem e Tabù

Vi racconterò una storia C’era una volta un’orda di ominidi. Un unico maschio dominava su tutti. Era l’unico che poteva accoppiarsi e, stante questa condizione, era l’unico partner di tutte le femmine e l’unico padre di tutti i giovani nati. L’accoppiamento era, dunque, sua esclusiva prerogativa. I giovani maschi crescevano e, ognuno singolarmente, cercava di far valere la propria potenza lottando con il padre per il potere. Se da questa lotta usciva vincitore allora prendeva il posto del padre, l’orda cambiava capo e la storia continuava. Nel caso opposto, se non soccombeva, veniva scacciato. In un caso come nell’altro, a ben vedere, l’orda restava la stessa (F. 129 e seg.). C’era una volta un’orda di ominidi. Un unico maschio dominava su tutti. Era l’unico che poteva accoppiarsi e, stante questa condizione, era l’unico partner di tutte le femmine e l’unico padre di tutti i giovani nati. L’accoppiamento era, dunque, sua esclusiva prerogativa. I giovani maschi crebbero e un bel giorno, dopo essere stati scacciati ognuno singolarmente, si riunirono tutti insieme e fecero un accordo: in gruppo, forse, sarebbe riuscito loro ciò che era risultato impossibile a ciascuno (F. 145 e seg.). Lo fecero, ebbero la meglio sul padre, ne divorarono il cadavere. Qualcosa però era cambiato, la situazione in cui si trovavano gli ominidi in quel momento era completamente diversa rispetto alle successioni di potere uno a uno verificatesi fino a quel momento. L’orda non era più la stessa, un elemento nuovo aveva preso il posto di un padre assente fin nei suoi stessi resti, dato che erano stati mangiati. “Ciò accadde nella forma del rimorso” (F. 147). Andiamo per piccoli passi e cerchiamo di mettere in luce alcuni punti: anche se “nell’atto di divorarlo, essi realizzarono l’identificazione con il padre, ognuno si appropriò di una parte della sua forza” (F. 146), nessuno, a ben vedere, era tanto più potente degli altri da poter prendere il posto del padre. Se lo fosse stato, infatti, non sarebbe stato scacciato dall’orda e non avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di tutti gli altri fratelli per rientrarvi. La solita linea di successione, la tradizione

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potremmo dire, era stata bruscamente interrotta da un atto senza precedenti e che metteva la comunità tutta in una situazione nuova e fino a quel momento imprevedibile. Niente e nessuno poteva riportare indietro le lancette dell’orologio. Stante ciò – la morte del padre da una parte, la mancanza di un suo omologo dall’altra – “l’impresa non poteva dare piena soddisfazione a nessuno dei suoi autori. Sotto un certo punto di vista essa era stata inutile. Nessuno dei figli poteva infatti attuare il desiderio originario di prendere il posto del padre” (F. 147n). L’unica soluzione possibile, cioè l’unica che non riproponesse un modello oramai non più attuabile per mancanza di candidati idonei e che salvasse “l’organizzazione che li aveva fatti forti” (F. 147), fu quella di porre le condizioni affinché nessuno dei contendenti potesse insediarsi nel posto che era stato originariamente del padre e che però, da un’altra parte, tutti volevano o – a questo punto il trapassato è d’obbligo – avevano voluto. Se la caratteristica del padre era stata il possesso delle donne, allora nessuno dei fratelli, figli tutti del medesimo padre, avrebbe da quel momento in poi potuto possedere le donne che a quel padre sarebbero dovute o potute appartenere. Pur continuando a volerle, cioè, i fratelli stessi si imposero di non possederle e “ciò che prima [il padre] aveva impedito con la sua esistenza, i figli se lo proibirono ora spontaneamente” (F. 147). Il problema allora divenne: come riconoscerle? Lasciamo per un attimo in stand-by questo apparente dettaglio e consideriamo un altro punto che forse, partendo da un’altra parte, ci getterà più luce su di esso. Se, come si è detto, era a quel punto necessario salvaguardare “l’organizzazione che li aveva fatti forti” (F. 147), sorgeva adesso la necessità di rendere in qualche modo trasmissibile quell’evento. Quello che era accaduto – e le sue conseguenze – andava insomma ricordato e tramandato anche a chi non era stato immediatamente presente. Serviva un promemoria, un elemento che, senza essere direttamente impersonato da nessuno dei fratelli presenti o venturi, servisse però a ricordare loro le condizioni dell’unione e che solo a condizione dell’unione nessuno di loro avrebbe rischiato di fare la stessa fine del padre (primordiale). Continuiamo ad andare per gradi. Se la condizione dell’unione era stata la complicità in un atto e se la condizione della sopravvivenza era il mantenere viva quella unione, per renderla operativa non sarebbe bastato raccontarla. Si rendeva necessario che l’atto stesso che aveva fondato quella nuova comunità, ora detta clan e non più orda (F. 149), venisse in qualche modo riproposto. Come farlo, però, se il padre originario era oramai morto? La soluzione escogitata fu quella di trovare un sostituto a esso e di considerarlo intoccabile, ma intoccabile solo e soltanto

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fino al momento in cui avrebbe dovuto essere nuovamente colpito da tutti, nessuno escluso, in modo tale che proprio quei tutti, nella riproposizione sistematica di un gesto compibile solo in gruppo avrebbero su quel gesto stesso ripetuto – ma ripetuto il gesto e ripetuto solo in quella maniera – (ri)fondato la propria unione. La biologia, però, continuava a remare contro. Anche la vittima più coriacea e resistente, infatti, non poteva essere uccisa che una volta sola. Come fare, allora, per continuare a uccidere, ancora e ancora, sempre la stessa vittima? A ben vedere ciò non è del tutto impossibile e non lo è a patto che questo elemento venga in qualche modo reso astratto o comunque che assurga al rango di principio organizzatore. Dice Freud: “il totem si distingue dal feticcio per il fatto che non è mai un individuo isolato come il feticcio, bensì è sempre una categoria di oggetti” (F. 108). Ogni elemento a esso riconducibile divenne così tabù e tale esso a tutti comune ma non contenuto in nessuno fu detto totem o, a un livello ancora più astratto, divinità. Così facendo il padre sarebbe stato da un lato ucciso ogni volta nella persona dei suoi rappresentanti ma dall’altro ogni volta mancato se preso come principio simbolico. Il suo posto, insomma, sarebbe sopravvissuto comunque, con buona pace di chi ci si sarebbe (o sarebbe stato) messo.

Il godimento sacramentale del totem Dicevamo che il totem segna un punto di impossibilità per i membri di una società su di esso fondata. Nessuno può toccarlo se non a condizione di toccarlo tutti insieme e in occasioni ben precise nelle quali si rinnova il crimine originario dell’uccisione del padre. La comunità del clan che non è più un’orda si fonda su quel delitto e, potremmo dire, da esso prende nome. Essa è fondata, infatti, non sull’uccisione di un padre generico ma sull’uccisione di un padre specifico, proprio quello, cioè, che aveva dato origine a quel dato clan, clan che, di riflesso, poteva riconoscersi nell’atto compiuto su un elemento altrettanto dato quale il proprio (e non un altro) padre. Tutti coloro, allora, che partecipano a quel delitto preso nella sua forma rinnovata e metaforicamente riproposta di rito scacrificale saranno l’un l’altro (orizzontalmente) nella stessa posizione in cui si trovarono originariamente i fratelli nei confronti (verticalmente) del padre. Tutti colpevoli, nessun colpevole e, al tempo stesso, tutti complici e membri del medesimo gruppo che diventa tale – medesimo e gruppo – proprio sotto l’insegna di quel delitto: “a nessuno è concesso esimersi dall’uccisione e dal pasto” (F. 144); “diventa un dovere rinnovare il crimine del parricidio

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sacrificando l’animale totemico ogniqualvolta il risultato che da quel crimine si è ricavato […] minaccia di vanificarsi a causa degli influssi variabili dell’esistenza” (F. 149). Mi permetto di aggiungere un’affermazione che spero di riuscire a corroborare con un dato clinico. L’affermazione è: meglio ancora se a intervalli regolari. Il concetto di tempo, insomma, di un prima e di un dopo può nascere sincronicamente – mi si consenta l’apparente tautologia – all’uccisione/eternizzazione del padre. Il dato clinico è il seguente: Bruno, paziente paranoico, aveva trovato un segno paterno nelle sigarette. La sua giornata non si scandiva secondo il movimento circolare di lancette poste su di un quadrante più o meno rotondo ma, al contrario, a seconda del numero di sigarette che separavano un’azione da un’altra. Torniamo a Freud. Si diceva che il padre garantiva con la sua presenza effettiva in carne ed ossa che solo lui avrebbe potuto godere delle donne, che le donne erano sue. Quando i fratelli si imposero di non godere delle donne del padre, essendo stato questi sostituito dal totem, essi passarono di fatto da una esogamia bruta ed imposta concretamente ad una esogamia di principio ed autoindotta ma non per questo meno reale. Le donne del totem non erano diverse in nulla e per nulla dalle donne del padre, se non per il fatto che non c’era più bisogno della presenza concreta di quest’ultimo per riconoscerle come tali. Il principio simbolico bastava di suo a garantire una tenuta sociale fondata sul desiderio. Potete godere di tutti i frutti che volete, tranne che di quelle mele dice la Bibbia. È proprio su questo tranne che si fonda il lato pulsionale del totemismo. Godere delle donne del padre, così come godere del corpo del Dio, uccidendolo e mangiandolo, pone queste azioni lungo un continuum logico che le rende isomorfe: tutto ciò che è riconducibile al totem – lato simbolico – è segnato da un tabù – lato pulsionale – e l’uno e l’altro non sono che versanti opposti della medesima medaglia. Il godimento è interdetto ma, al contempo, possibile solo a condizione di non assumersene individualmente il carico. È, in qualche modo, possibile solo all’Altro. Chi lo facesse, infatti, riporterebbe ipso facto il clan alla sua condizione originaria di orda e, dal proprio lato, si porrebbe automaticamente al posto del (e non di un) padre. Il godimento, pertanto, deve restare dal lato universale del tutti proprio per essere tale per nessuno e restare agognato da ognuno. Nessuno ed ognuno vanno dunque messi dal lato particolare (si veda la differenza fra universale/particolare e singolare nella logica aristotelica).

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E il rimorso? Lungo tutto il corso di Totem e Tabù Freud fa una disanima accurata di una lunghissima serie di studi sull’argomento, tutti studi che, in via descrittiva e fenomenologica, spaziano dall’antropologia alla biologia, passando per la psicologia. Tutte descrizioni che, psicologicamente parlando, colgono covariazioni di fenomeni, non loro relazioni causali. “Solo l’esperienza psicoanalitica” dice Freud “può gettare un raggio di luce in questa oscurità” (F. 131). Per gettare tale raggio di luce egli segue il suo solito metodo, dà voce cioè ai pazienti, nella convinzione che l’inconscio, quanto a relazioni causali, la sappia molto più lunga della scienza. “Le nevrosi [dice] rivelano, da un lato, concordanze vistose e profonde con le grandi produzioni sociali dell’arte, della religione e della filosofia, e dall’altro sembrano una distorsione di tali produzioni. […] Le nevrosi sono formazioni asociali; esse cercano di ottenere con mezzi individuali ciò che nella società si produce attraverso un lavoro collettivo” (F. 79-80). La nevrosi ossessiva è il paradigma che Freud utilizza in questo testo. In tale nevrosi, dialetto dell’isteria secondo Lacan, il soggetto ripropone attraverso una serie di riti proprio l’azione che tali riti dovrebbero evitare. La logica, a ben vedere, è sempre la stessa: c’è un’azione che il soggetto vorrebbe compiere ma non può. Compierla, infatti, provocherebbe tutta una serie di conseguenze spiacevoli. Come fare? Come conciliare cioè, nel medesimo soggetto, due tendenze opposte? Una soluzione possibile è quella di scinderle, di conservarle entrambe ma a condizione di porle reciprocamente in modo che non possano mai venire in diretto contatto l’una con l’altra: una potrà pertanto restare cosciente, l’altra dovrà essere relegata nell’inconscio, anche – perché no? – nella forma di una sua proiezione all’esterno: “Si giunge così a rimuovere l’ostilità inconscia mediante la proiezione e a dar vita a quel cerimoniale in cui si esprime la paura della punizione da parte dei dèmoni” (F. 70-71). Al netto di tutti gli spostamenti immaginari, di tutte le dislocazioni sistematiche del medesimo contenuto, di tutte le permutazioni dei vari elementi all’interno dei sempre medesimi posti, quello che vedremo apparire in negativo nel rito di espiazione o, prima ancora, in tutto il corredo di azioni che impediscono all’ossessivo di compiere l’unica che veramente vorrebbe sarà sempre il medesimo atto dell’uccisione del padre. Atto di cui egli sarà ogni volta innocente spettatore, ma in maniera un po’ troppo sistematica per essere innocente davvero. La divisione soggettiva non potrà essere assunta sul proprio essere, come fa l’isterica, ma riguarderà l’altro, sistematicamente preso una parte per volta: la donna idealizzata e la donna

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degradata, il padre pacifico e il padre del godimento, un soggetto – di suo – sempre ben attento a restare al di qua o al di là ma mai nel qui ed ora di un atto che ne svelerebbe la propria parte di godimento in gioco. Questa, infatti, deve sempre essere lasciata all’Altro. Cosa fa, dunque, l’ossessivo? Aspetta. Aspetta il proprio turno per poter godere come io della coscienza, negando però così la condizione del godimento. Il godimento, in quanto tale, non può infatti sussistere sul medesimo piano di questo io poiché gli è ex-sistente. Il soggetto ossessivo aspetta allora la ricorrenza – del prossimo compleanno come della prossima festa patronale, del prossimo rito come della prossima telefonata in arrivo, al limite addirittura della prossima seduta dall’analista – tutte cose che possono non essere altro, alla fin fine, che la semplice riproposizione della morte – mai per sua mano – del padre. Sarà quello il momento in cui potrà iniziare a godere ma per quello, dirà, c’è sempre tempo.

Criticità Il mito freudiano di Totem e Tabù, per quanto suggestivo, presta però il fianco a molteplici critiche. Freud si propone, fin dall’inizio, di fare un’opera “sulla psicogenesi della religione” (F. 3) e per far ciò si avvale dei racconti dei suoi pazienti. A differenza della scoperta dell’inconscio, però, in questo caso egli utilizza i dati della clinica come conferma di qualcosa che egli pone come già dato. Se nella prima parte, e cioè nell’Edipo, c’è per così dire la dimensione della scoperta, in questa seconda parte, in Totem e Tabù, c’è al contrario qualcosa che è più dell’ordine della ricapitolazione, del ritrovare qualcosa che già si sapeva si sarebbe trovato. In sostanza, trovare ciò che era insito nelle premesse del metodo di ricerca: i fratelli si sentirono in colpa perché in colpa si sentono i nevrotici ossessivi. Un secondo punto, non meno problematico, riguarda il linguaggio, che Freud pone come dato ab origine. Gli ominidi scacciati dall’orda – dice – si misero d’accordo per uccidere il padre. Non abbiamo elementi per giudicare questo dato in maniera compiuta ma resta una premessa troppo forte per non essere presa in considerazione. Il linguaggio, in questo mito, è presente fin dall’orda e precede logicamente il sistema totemico. Questo, semmai, concretizza un nuovo ordine di discorso, strutturalmente diverso rispetto a quello precedente1. 1

A proposito del concetto di discorso come legame sociale si veda: J. Lacan – Seminario XVII – Il rovescio della

psicoanalisi – Einaudi – Torino.

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Un ultimo punto, infine, riguarda il fatto che Freud manca dell’apporto della struttura. Sforzandosi di reperire cosa venga prima, fra il totemismo e il tabù, di fatto si perde in una oscura gara su chi è nato prima fra l’uovo o la gallina. Nessuna teoria, compresa la sua propria e all’anno in cui si trovava, il 1912, quindi ancora al di qua del principio di piacere (Al di là del principio di piacere, che segna una svolta radicale del pensiero freudiano, uscirà nel 1920), riesce infatti a dargli conto di quella che altro non è, con Lacan, che una struttura composta di tre registri, funzionanti solo nel solco del loro annodamento reciproco. Se totemismo e tabù non sono pensabili l’uno indipendentemente dall’altro, allora anche cercare una successione eziologica dall’uno all’altro viene a perdere di senso. Resta un mito, un qualcosa, cioè, “che dà una formula discorsiva a qualche cosa che non si può trasmettere nella definizione della verità” (L. Mito individuale del nevrotico, 14), che esprime “in modo immaginario le relazioni fondamentali caratteristiche di un certo modo di essere dell’uomo” (L. Mito individuale del nevrotico, 15) e che non si può trasmettere per il fatto stesso che il linguaggio, una volta messo in moto, agisce retroattivamente sul soggetto che lo ha mosso, rendendolo precario, barrandolo, rendendo obliata la sua enunciazione dietro i suoi detti in una illusione, questa si proattiva, di intendimento (L. Lo stordito, 1).

Dott. Antonino Zaffiro [email protected] 04100 – Latina

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Bibliografia

S. Freud – Totem e Tabù – in Opere, vol. 7 – Bollati Boringhieri – Torino – 1989 J. Lacan – Il mito individuale del nevrotico – Astrolabio – Ubaldini – Roma – 1986 J. Lacan – Lo Stordito – in Altri Scritti – Einaudi – Torino – 2013 J. Lacan – Il Seminario – libro XVII – Il rovescio della psicoanalisi – Einaudi – Torino – 2001

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