Ghadames tra Oriente e Occidente

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Orienti a cura di

Maria Grazia Giulia Chiappori Contributi di Emilio Spedicato Sergio Masini Bruno Crevato–Selvaggi Rita Tolomeo Marina del Nunzio Marco Bussagli Pierfrancesco Fedi Donatella Schürzel

Indice



On the Decryption of large Numbers in Asian Chronologies and Lengths Emilio Spedicato



The Visit of Magi to Jesus: a new approach confirms ancient texts Emilio Spedicato



Sciti. . . E non solo Maria Grazia Chiappori



Il confronto militare tra Oriente e Occidente Sergio Masini



Ghadames tra Oriente e Occidente Bruno Crevato–Selvaggi



Viaggio a Oriente. La metamorfosi di una capitale: Costantinopoli Rita Tolomeo



Transenne di San Francesco a Messina e vetrate di Giovanni di Bonino Marina Del Nunzio



La storia salomonica di San Pietro Marco Bussagli 





Un esempio tardivo di chinoiserie a Roma Pierfrancesco Fedi



Esotismo a Trieste nella letteratura Donatella Schürzel

ISBN 978-88-548-xxxx-x DOI 10.4399/97888548xxxxx5 pag. 185–246 (giugno 2016)

Ghadames tra Oriente e Occidente B C–S∗ Ma le hanno poi trovate, Mohammed, le stoviglie?

L’odierna strada asfaltata che parte da Tripoli di Libia verso sud si snoda nella fertile gefàra (la pianura coltivata che si estende oltre la costa tripolina per qualche decina di chilometri) sale nel coltivato altopiano del Garian, prosegue per terreni sempre più aridi e ampie valli fluviali scavate in tempi diversi, riconoscibili nella stratigrafia delle pareti rocciose, e giunge a valicare l’erto passo di Nalut, spartiacque tra il bacino mediterraneo e quello sahariano. Dopo Nalut la strada attraversa terre sempre più aride, dove una distesa petrosa si mischia con lingue di sabbia finissima: ci si avvicina al Sahara. Lambendo le piccole oasi di Sinauen e Derg, il percorso arriva infine a una grande oasi: Ghadames, l’ultima prima del Sahara, che inizia proprio lì, circa  km. a sudovest di Tripoli. L’oasi, estesa per  ettari e a  metri d’altitudine, con la cittadina che vi è sorta, è oggi politicamente in Libia, proprio nel punto del triplice confine fra Libia, Algeria e Tunisia. Nel corso della sua storia, ricostruibile almeno sommariamente negli ultimi tre millenni, l’oasi è spesso stata uno dei (non molti) nodi d’incontro tra Oriente e Occidente, e ha più volte mutato area culturale d’appartenenza, con alcune caratteristiche singolari che la rendono un sito di grande suggestione e culturalmente (quasi) unico. È la tesi di questo ∗

Studioso, esperto di Storia delle regioni mediterranee.

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scritto, che è anche la descrizione di Ghadames e il racconto di questi passaggi. . L’oasi libia; punici e romani L’area era provvista d’acqua sin dal III millennio a.C., come attestano resti databili di materiali neolitici ritrovati in loco, e risulta poi frequentata da tribù libie. Questo termine è generico: gli autori classici chiamavano “Libia” l’intera costa settentrionale dell’Africa a occidente dell’Egitto, fornendo anche notizie etnografiche su quei compositi mosaici di popolazioni. Il primo che ne parla diffusamente è Erodoto, che distingue tra le varie genti libie, di tipo caucasoide, e gli etiopi, nome generico per indicare tutte le genti di tipo negroide, dando informazioni anche sulla fauna locale e descrivendo elefanti, buoi, antilopi, gazzelle, pitoni, leoni, orsi ed altri: animali tutti presenti nella regione costiera o nella fascia predesertica, prima della loro estinzione per l’eccessivo sfruttamento fatto da cartaginesi e da romani. Negli ultimi secoli prima dell’era volgare l’oasi era ormai un importante centro carovaniero lungo le rotte del commercio transahariano che dal sud arrivavano sulla costa, ove prosperavano gli emporia punici. Convenzionalmente, il termine (che è la traduzione latina del greco “fenici”) indica i fenici d’occidente. I fenici, popolo di stirpe semita originario dell’attuale Libano, eccellevano nella navigazione e nel commercio, e dall’inizio del I millennio a. C. si espansero nel Mediterraneo, creandosi punti di appoggio in approdi naturali sulle coste frequentate dalle loro rotte. Col tempo questi approdi divennero basi commerciali per gli scambi con i nativi; si trasformarono in insediamenti stabili e in vere e proprie città, sparse in tutto il Mediterraneo. Uno degli insediamenti fenici di maggior sviluppo fu Cartagine, fondata — secondo la tradizione — nell’ a.C. in una posizione felicissima sulla costa africana, nei pressi dell’attuale Tunisi. La

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città crebbe e si arricchì con i traffici commerciali, si svincolò dalla tutela politica della madrepatria e iniziò a sua volta azioni colonizzatrici di tipo commerciale, non demografico, quindi con insediamenti modesti nella propria zona d’influenza. Tra gli approdi commerciali cartaginesi a est della piccola Sirte alcuni di questi, sorti fra VII e IV secolo a.C. e noti con i nomi latini di Leptis, Oea e Sabratha, cominciarono col tempo a vedere insediamenti stabili punici, e i tre nuclei si svilupparono in piccole cittadine, che portarono tutta la regione nell’orbita politica e commerciale cartaginese. Le tre città costiere si dedicavano anche ad attività agricole nonché commerciali con le tribù dell’interno, ovvero della regione che corrisponde all’odierno Fezzan, il Sahara libico, ai margini dell’oasi di cui si discute. La regione, oggi completamente desertica, salvo rare oasi ove sorgono modesti insediamenti, in età preclassica e classica godeva di un clima meno arido e più adatto all’insediamento umano e alle coltivazioni, anche se non si deve pensare a un’area lussureggiante. Erodoto descrive le varie popolazioni come abitanti di aree fertili, intervallate fra loro da giornate di cammino attraverso terre più aride. Lì, nel Fezzan, lo storico greco colloca la popolazione dei Garamanti, che « in una regione infestata dalle fiere, fuggono lontano da ogni uomo ed evitano ogni convivenza; non possiedono armi da guerra e non sanno difendersi » (affermazione, come si vedrà, non corretta), ma « vanno a caccia degli Etiopi trogloditi con i loro carri a quattro cavalli ». La popolazione libia dei Garamanti, dedita all’agricoltura, all’allevamento, al commercio e all’artigianato e con una religione d’influenza egizia, è attestata nell’area tra l’ultima metà del I millennio a.C. e la prima del I millennio d.C., anche con alcuni centri urbani di una certa consistenza, di cui il principale era Garama (odierna Germa). I Garamanti commerciavano con quegli emporia esportando soprattutto frumento, sale, schiavi e anche oro proveniente dal Ghana e importando vino, . Erodoto, Historiae, IV,  e .

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olio e vasellame, attraverso l’oasi ancora senza nome, punto obbligato di passaggio e di rifornimento d’acqua . Nel III secolo a.C. Cartagine si scontrò con la nuova grande potenza mediterranea, Roma, e dopo tre guerre venne completamente distrutta nel  a.C. La sua regione, corrispondente più o meno al territorio dell’attuale Tunisia, divenne provincia romana con il nome di Africa (la provincia era un istituto giuridico che i romani avevano introdotto con la conquista della Sicilia: non più un regime di alleanza con le popolazioni locali, come in Italia, ma territorio soggetto politicamente e governato con funzionari inviati). Le tre città puniche della costa africana entrarono nell’orbita del regno numida; durante la guerra civile che lo contrappose a Pompeo, Cesare sbarcò in Africa, conquistò quel territorio e nel  a.C. lo costituì in provincia, unita vent’anni dopo alla precedente nell’unica provincia senatoria dell’Africa proconsularis, governata da un proconsole. La fascia costiera si romanizzò in modo graduale e pacifico; vi si trasferirono italici, attratti dalle possibilità commerciali e da una legislazione favorevole, perché Augusto aveva adottato una politica liberale verso le città, riconoscendo la loro autonomia interna. Le terre meridionali, oltre la ristretta e fertile fascia costiera, erano poco conosciute e leggendarie, anche se erano note le oasi e la città di Garama. Con la romanizzazione i rapporti fra Roma e le popolazioni libie locali, che sino a quel momento erano quasi sempre stati mediati dai Numidi, divennero diretti e irrequieti, con imposizioni di tributi e assegnazioni di terre da un lato, rivolte e incursioni dall’altro (smentendo Erodoto che . Sul commercio carovaniero transahariano soprattutto in età preromana si veda il recentissimo M S, Trans–Saharan Long–distance Trade and the Helleno–Punic Mediterranean, in Money, Trade and Trade Routes in Pre–Islamic North Africa, Amelia Dowler – Elizabeth R. Galvin, eds, London, British Museum Press, , pp. –. Sull’area in generale, il ruolo dei Garamanti e le connessioni e la connettività in–e transafricana (temi oggi di particolare attenzione storiografica, che non è qui possibile approfondire) un’aggiornata sintesi, con diverse suggestioni per ulteriori letture, è: J C Q, North Africa, in A Companion to ancient history, Andrew Erskine ed., Malden USA, Wiley–Blackwell, .

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parlava dei Garamanti come di una popolazione ignara della guerra). Per questi motivi, al contrario delle altre province senatorie sguarnite di truppe, in Africa venne stanziata la Legio III Augusta, e non mancarono spedizioni verso l’interno per azioni di polizia, gloria personale, bottino. . Cydamus In due periodi soprattutto, fra il  e il  a.C. e fra il  a.C. e il  d.C. vi furono diverse operazioni militari contro Garamanti, Phazani, Getuli, Marmaridi, Nasamoni e Musulami (altre popolazioni dell’area), la più documentata delle quali è quella di Lucio Cornelio Balbo. Nato a Cadice prima del  a.C., fu letterato, politico e militare e autorevole rappresentante dell’aristocrazia romana d’età augustea. Proconsole d’Africa tra il  e il  a.C., guidò una dura rappresaglia contro i Garamanti, che avevano compiuto incursioni nei centri della costa. Balbo conosceva bene il territorio e le tribù locali, e partendo da Sabratha organizzò la spedizione in due colonne, una delle quali arrivò alla nostra oasi, chiamata in latino Cydamus (nome d’incerta etimologia, forse derivato dal nome di un’altra tribù libia locale, i Tidamensi). Da lì si spinse ancora più a sud, penetrando nella Phazania, ovvero il Fezzan sino a Garama. Da lì, forse, si spinse ancora più a meridione, raggiungendo l’ansa del Niger. Rientrò vittorioso a Roma carico di ricchezze e d’informazioni, e nel  a.C. ebbe — primo non italico, e ultimo condottiero non legato alla famiglia imperiale — il proprio trionfo, ex Africa, dopo il quale edificò in città il teatro a lui intitolato, con l’annessa Crypta Balbi. La vicenda è così riassunta da Plinio: intervenit ad solitudines Africae super Minorem Syrtim dictas versa Phazania, ubi gentem Phazaniorum urbesque Alelen et Cillibam subegimus, item Cidamum e regione Sabratae. . . . ultra eum deserta, Mathelgae oppidum Garamantum itemque Debris . . . clarissimumque Garama, caput Garamantum, omnia armis Romanis superata et a Cornelio Balbo triumphata, unius omnium curru externo et

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Bruno Crevato–Selvaggi Quiritum iure donato; quippe Gadibus genito civitas Romana cum maiore Balbo patruo data est. Et hoc mirum, supra dicta oppida ab eo capta auctores nostros prodidisse, ipsum in triumpho praeter Cidamum et Garamam omnium aliarum gentium urbiumque nomina ac simulacra duxisse.

cioè: Verso i citati deserti africani sopra la Sirte Minore si trova la Fazania, dove sottomettemmo il popolo dei Fazani e le città di Alele e Cibilla, oltre a Cidamo della regione di Sabratha. [. . . ] Oltre (al monte Atro) si trovano i deserti, la città di Matelge dei Garamanti e pure Debri [. . . ] e la famosissima Garama, capitale dei Garamanti, tutte vinte dalle armi romane e portate in trionfo da Cornelio Balbo, l’unico cui fu fatto dono di un carro straniero e del diritto dei Quiriti; e a lui, nato a Cadice, venne data la cittadinanza romana, assieme allo zio paterno. È anche da notare che i nostri autori abbiano tramandato che le città sopra citate siano state conquistate da lui, e che sempre lui abbia condotto in trionfo i nomi e le testimonianze di tutti gli altri popoli e città, tranne Cidamo e Garama.

La conquista di Garama non si tramutò in una presenza romana stabile, come invece avvenne a Cydamus, ove continuò per i secoli successivi. Cydamus, al margine meridionale della zona fertile, vide un insediamento stabile di popolazioni pacifiche e fu anche punto obbligato di passaggio di altre spedizioni: quella del  per domare la rivolta di Tacfarinas, scoppiata nel , e quelle d’età flavia contro i Garamanti: Settimio Severo da Capso, Giulio Materno e soprattutto Valerio Festo da Leptis Magna. Nel , Festo raggiunse Garama e costrinse i Garamanti a un’alleanza che garantì la stabilità della regione sino al III secolo. L’età antonina e severiana (II ex.–III in.) è quella del massimo splendore della regione. Antonino Pio aveva attuato una politica centralizzata a Roma, e in tutta l’Africa vi era stata, dal  al , una rivolta quasi generale delle popolazioni indigene; Marco Aurelio, al potere dal , adottò una politica di consolidamento . Plinio, Naturalis Historia, V, –.

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del potere romano in Africa, con concessioni di diritto coloniale, rafforzamento di confini e intensa attività edilizia e urbanistica. Ancor più attento fu l’atteggiamento di suo figlio Commodo che, conscio della dipendenza agricola di Roma dall’Africa e della sua importanza strategica, risistemò strade, acquedotti e le difese meridionali. I traffici commerciali delle tre città costiere erano intensissimi, soprattutto con Roma, dove inviavano prodotti d’ogni genere che giocavano un ruolo importante nell’economia dell’impero: grano, olio, fave, carciofi, fichi, ma anche generi di lusso, come lino, legni pregiati, avorio, polvere d’oro, schiavi negri, fiere per gli spettacoli circensi (molto diffusi e maestosi in età commodiana). Cydamus era un punto di passaggio obbligato delle carovane che portavano queste merci alle tre città provenendo dalla Phazania e dall’Africa subsahariana: resti di fortini indigeni, riferibili al II secolo, sono stati individuati lungo il percorso tra l’oasi e il mare. Inoltre, scavi archeologici effettuati negli anni Settanta del Novecento hanno evidenziato una grande quantità di ceramica romana del II secolo (con qualche elemento successivo, del IV e del V) che corona l’intera oasi. Ugualmente al II secolo è datato l’inizio d’uso di una vasta necropoli di cui si sono riscontrate tracce . Insomma, sin dai secoli precedenti l’era volgare l’oasi che i Romani avrebbero chiamato Cydamus era uno dei nodi principali di una grande rete internazionale di relazioni commerciali, politiche e culturali fra Punici, Garamanti, poi Numidi, poi ancora Romani. Tra la fine del II e l’inizio del III secolo, la situazione politica dell’area cominciò a deteriorarsi; l’imperatore d’origine leptitana Settimio Severo, preoccupato per le incursioni delle tribù dall’interno, organizzò un limes, una linea difensiva nell’entroterra, facendo edificare una serie di fortezze al limite . Sui recenti ritrovamenti archeologici a Ghadames: R R, Dix ans des recherches dans le prédesert de la Tripolitaine. Ghadames, « Libya Antiqua », XIII–XIV (–), pp. –.

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meridionale della zona fertile e stanziandovi una vexillatio della III legione. Le principali di queste fortezze si trovavano (da est a ovest) a Bu Njem, Gheriat el–Garbia e Cydamus, essendo quest’ultima la più meridionale, edificata fra il  e il . I resti del campo militare romano d’età severiana a Cydamus sono stati cercati a lungo dagli archeologi, senza però esito. Le guarnigioni lì di stanza assicuravano il controllo delle grandi oasi, le quali continuavano a costituire tappe obbligate delle tre grandi vie carovaniere che dalla Phazania giungevano alle tre città sulla costa, ma anche luoghi di rifugio dei predatori di bestiame; controllavano le migrazioni delle tribù e la transumanza, nonché il passaggio delle merci. Anzi, alcuni ostraka ritrovati a Bu Njem testimoniano la presenza di una statio camellariorum, dove i camellarii indigeni dovevano versare un portorium, i diritti di dogana, per passare la frontiera e utilizzare le strade carovaniere imperiali; lo stesso certamente doveva avvenire anche a Cydamus. La presenza di queste strutture aveva anche una funzione dimostrativa della potenza militare romana di fronte ai Garamanti. Questi forti non erano probabilmente collegati fra loro da una strada militare o comunque da un confine sempre tracciato e presidiato sul terreno, come in altri limites, perché era sufficiente controllare i vitali punti di rifornimento dell’acqua. In quella fascia, che corrispondeva quindi alla prima linea di difesa, vennero insediati in età severiana migliaia di limitanei, coltivatori che all’occorrenza prendevano le armi, in una inscindibile sinergia tra coltivazione e difesa. Non si trattò però, probabilmente, di un insediamento ex–novo, perché la scelta delle tre fortezze era avvenuta evidentemente in funzione degli insediamenti già presenti nel territorio, ovvero al limite meridionale della zona fertile e di un territorio abitato, coltivato e con ricca vegetazione. Si trattò, piuttosto, dell’organizzazione in maniera paramilitare di una popolazione già presente e dell’insediamento di piccole guarnigioni. A partire dagli anni Quaranta del III secolo, soprattutto dopo lo smembramento della III legione, vi s’insediarono anche veterani di questa.

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Dalla seconda metà del III secolo si assistette a un rapido e crescente peggioramento della situazione dell’Africa romana, dovuto a una serie di concause: instabilità politica, stasi commerciale, inflazione, tensioni sociali, incursioni delle tribù dell’interno e crisi spirituale. Nel  l’imperatore Diocleziano effettuò una grande riorganizzazione dell’impero, che divise in  diocesi, e queste in province. L’VIII diocesi, l’Africa, fu divisa in sei province, e fra queste la Tripolitania, con capitale Leptis. Il nome (“tre città”, in greco) che comparve qui per la prima volta nell’amministrazione, faceva evidentemente riferimento alle tre città costiere di Oea, Leptis e Sabratha, e il limes che passava per Cydamus divenne noto come limes tripolitanus . Questo è però anche il periodo di massimo splendore di un’élite locale romanizzatasi, che erige mausolei monumentali, i cui principali sono noti a Ghirza, una necropoli nella fascia predesertica molto più a est e a nord di Cydamus. Al medesimo periodo — III–IV secolo — e tipologia architettonica sono però riferibili anche gli asnam (idoli, in arabo), ovvero cinque modesti resti di costruzioni nei pressi di Ghadames, fantasticamente attribuiti nel tempo alle più antiche, diverse e immaginarie civiltà, ma invero resti di monumenti funerari dei migliori cittadini locali, libi o punici pienamente romanizzatisi. Rimangono anche altre tracce archeologiche della presenza romana, in particolare capitelli di semplice fattura a imitazione dello stile corinzio, e un paio di epigrafi, note già dalla seconda metà dell’Ottocento . E nell’area rimane anche qualche sparuta, . Sul limes e l’area predesertica, si veda il classico: A D V, Il «limes» romano di Tripolitania nella sua concretezza archeologica e nella sua realtà storica, «Libya Antiqua», I (), pp. –, e il più recente: Farming the desert, I, Synthesis, Graeme Barker ed., London, Unesco Pub., Department of Antiquities (Tripoli), Society for Libyan Studies, , soprattutto pp.  segg., con la bibliografia precedente. . Corpus Inscriptionum Latinarum, VIII  = , cfr. p. .; VIII  = . La prima, d’età aureliana, è perduta; la seconda è riferibile alla necropoli, si trova tuttora a Ghadames ed è stata pubblicata anche in IRT, Inscriptions of Roman Tripolitania, London, King’s College, n. . Le edizioni di quest’ultima che si sono succedute dal  sono però gravemente erronee, perché soffrono di una cattiva trascrizione da parte dell’arabo che ne inviò un disegno all’archeologo francese Jean

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anche se imponente, traccia della fortezza del limes. Uscendo dall’oasi verso sud, in pochi minuti di fuoristrada si arriva alle prime dune del Sahara, dove le pietre, la terra e i radi e ostinati ciuffi d’erba lasciano completamente posto al grande mare di sabbia. Questo si presenta di colpo: i piedi scalzi soffrono calcando un sottile e insidioso ghiaino, e all’improvviso modellano la soffice sabbia che s’insinua ovunque. Giunti sulla cresta della duna (che è sempre immobile e non muta il proprio profilo, il vento che può essere continuo e sferzante non la rimodella) lo sguardo indugia sulle dune che da qui si susseguono, e si perde verso sud e verso ovest, sapendo di trovarsi — oggi — al punto del triplice confine politico tra Libia, Tunisia e Algeria. Poche decine di metri prima di questo ben più impegnativo confine naturale di dune, nella piana arida che si attraversa per arrivarvi sorge un montarozzo dalla forma troncoconica abbastanza tozza. Vi si sale per una ventina di metri grazie a un sentiero, poi ci si arrampica per l’ultima salitina e si giunge sulla sommità: uno spiazzo di qualche centinaio di metri quadrati. Il tutto è arido, spoglio e crollato, ma osservando con attenzione si può riconoscere (o intuire) ciò che rimane della fortezza, stazione d’avvistamento e di guardia del limes. Del tutto diroccata, quasi evanescente ma tenacemente ancora presente. Dall’alto, nel terreno circostante si nota qualche grande circonferenza, resti evidentemente di strutture edificate. Viene da pensare che se, centinaia di chilometri a sud della linea di costa e all’inizio del deserto sconosciuto, questo era il punto più meridionale dell’impero romano, e se il vallo di Adriano in Britannia ne era il limes settentrionale, in mezzo era tutta Roma. E torna alla mente una frase di Cesare Brandi, colpito da sensazioni Antoine Letronne, che la pubblicò come gli era stata comunicata nel ; così la ripresero gli editori successivi, cercando di integrarla in qualche modo e di assegnare un senso compiuto al testo. Dal momento che il primo testimone verosimilmente non conosceva il latino, e forse nemmeno l’alfabeto latino, ne è derivata una tradizione testuale completamente fantastica. Una versione corretta verrà pubblicata prossimamente. Ringrazio Giovannella Cresci, Lorenzo Calvelli e Franco Luciani dell’Università Ca’ Foscari di Venezia per la preziosa consulenza.

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simili in un’area vicina dell’Africa romana: « bisogna veramente provare rispetto per codesti romani ». Nel V secolo in Europa l’impero non riusciva più a contenere la pressione delle tribù germaniche ai confini. Una delle più barbare e devastatrici, i Vandali (tanto che il loro nome rimase nella storia assumendo significato universale) dalla Germania entrò in Gallia, in Spagna, valicò le colonne d’Ercole e dilagò in Africa. Nel  conquistò Cartagine, nel  la Tripolitania. Era un intero popolo che si spostava, con donne, bambini, servi, animali e masserizie; i guerrieri non erano che qualche migliaio, ma le truppe imperiali non riuscirono a contrastare la loro avanzata. Si stanziarono in Africa, ove crollò quindi la presenza politica imperiale mentre la popolazione romana, o di punici romanizzati, poté comunque continuare a condurre la propria vita, certo in condizioni meno privilegiate. I Vandali, però, non si spinsero sino a Cydamus, che ritornò centro tradizionale delle popolazioni locali, perdendo però — o affievolendo molto — il proprio ruolo, per il crollo della domanda in Tripolitania dei prodotti dell’interno . Fra il  e il  i Bizantini (ovvero la parte orientale dell’impero romano, con capitale Costantinopoli), guidati dal generale Belisario, riconquistarono la Tripolitania come primo passo dell’obiettivo strategico, cioè la riconquista dell’Italia, e ripresero possesso anche di Cydamus, ove la presenza bizantina è attestata da alcuni capitelli e plutei; a quest’epoca è datata la cristianizzazione di Cydamus, secondo Procopio. La Tripolitania entrò nella prefettura del pretorio d’Africa e visse un nuovo periodo di prosperità sotto il regime bizantino, con la costruzione . Indagini molto recenti svolte con la tecnica del radiocarbonio hanno evidenziato in modo netto una forte densità della presenza garamantica nella zona già arida nel IV–V secolo; questa densità calò, pur con un rinnovamento degli insediamenti, dal VI secolo. M S – D M – T H, Desert Migrations Project XVI: Radiocarbon Dates from the Murzuq Region, Southern Libya, «Libyan Studies»,  (), pp –; M S – D M, Desert Migrations Project XVII: Further AMS Dates for Historic Settlements from Fazzan, South–West Libya, «Libyan Studies»,  (), pp –.

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di edifici civili e religiosi (fu sede vescovile) sino all’invasione araba. Al medesimo periodo è databile anche il degradamento climatico dell’intera area e il conseguente crollo della presenza garamantica. In conclusione, la storia dell’oasi in età preclassica e classica si può così riassumere: si trattava dell’ultima oasi prima di un’area molto vasta e più arida, al limite di una zona fertile e coltivata; frequentata, e abitata, da popolazioni indigene, soprattutto Garamanti. L’entrata nell’orbita romana — e quindi il primo passaggio dall’antico e tradizionale mondo orientale a quello occidentale — avvenne nel  a.C., con la spedizione di Lucio Cornelio Balbo. Nel II secolo Cydamus era un nodo fondamentale delle grandi vie carovaniere, assicurava le comunicazioni fra l’Africa sahariana e subsahariana e il mare; importava ceramica; non si hanno informazioni sulla sua struttura urbanistica e architettonica, ma si trattava di un insediamento stabile dotato anche di una necropoli; vi risiedevano soprattutto popolazioni locali, romanizzatesi almeno nelle classi più elevate. Nel III secolo vide la costruzione di fortificazioni, l’insediamento di una guarnigione e di limitanei, ed era il punto più meridionale del limes tripolitanus: uno dei punti di contatto nonché di difesa dell’Occidente romano con il resto del mondo. Nel IV secolo, mentre la presenza politica e militare romana si indeboliva, l’élite locale, etnicamente indigena ma culturalmente completamente romanizzatasi, realizzava sfarzosi monumenti funerari. Nel V secolo la presenza vandala a settentrione ridusse il ruolo della città ; nel VI, in età bizantina, riprese i traffici e si convertì al cristianesimo; fu sede vescovile. L’oasi era vissuta per sei secoli nell’ambito politico–culturale occidentale, ove aveva svolto un ruolo attivo di scambio, filtro, avamposto di ambedue i mondi, occidentale e orientale. E non . La più recente sintesi sull’Africa romana è: A I, L’Africa mediterranea in età romana ( a.C.– a.C.), Roma, Carocci, . Non si tralascino le serie di pubblicazioni del Centro di studi interdisciplinari del Dipartimento di storia dell’Università di Sassari dedicate all’Africa romana: http://www.uniss.it/php/africaRomana.php.

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solo: aveva svolto il medesimo ruolo anche nel senso nord–sud, vero crocevia di culture e civiltà. . Ghadames berbera e araba Nel  iniziò l’invasione araba dell’Egitto e poi dell’Africa mediterranea che, anche per l’esiguo numero dei nuovi arrivati, cambiò la signoria ma non il volto etnico delle diverse regioni. Le popolazioni che già abitavano nell’Africa settentrionale a occidente dell’Egitto — le tribù indigene, gli ebrei, i pochi latini rimasti, i punici romanizzati — convissero con i nuovi venuti, esercitando ciascuno i propri costumi e la propria religione. La seconda invasione araba dell’XI secolo – allettanti incentivi stabiliti dalle autorità avevano indotto decine di migliaia di arabi a trasferirsi nel Maghreb, cioè i paesi ad occidente dell’Egitto – mutò invece completamente il quadro politico, commerciale, culturale ed etnico dell’Africa mediterranea e sahariana: gli italici erano già scomparsi, le genti puniche ed ebraiche, la cui presenza era attestata sino a quell’epoca, scomparvero anch’esse, sostituite da una massiccia presenza araba. Solo le diverse genti indigene, o libie, mantennero sempre la propria specificità, coagulandosi in un unico e rilevante gruppo etnico, i Berberi . Dai nuovi signori questi accettarono la religione, convertendosi all’islamismo, e ne impararono anche la lingua, pur conservando a tutt’oggi la propria, suddivisa in molti dialetti. Popolo bellicoso, i Berberi furono segnati da lotte intestine e divisioni interne che spesso non permisero loro di unirsi contro gli invasori, anche se non mancano eroi leggendari come la regina Cahena che visse alla fine del VII secolo, guidò il proprio popolo alla resistenza contro gli arabi, cadde in combattimento e, morente, suggerì di sottomettersi ai nuovi . Il nome deriva dalla dizione «barbari» con cui greci e romani definivano genericamente le genti libie: in età medievale, in Occidente l’intera regione prese il nome di Barberia; berberi gli abitanti, barbareschi i pirati che partivano dalle basi nelle coste africane.

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signori; o il re Califa, che avrebbe guidato la resistenza contro gli Ottomani nel . Sedentari nelle regioni costiere, praticavano il nomadismo nelle regioni interne, dove erano molto diffusi, occupandosi di pastorizia e agricoltura . Un gruppo berbero che, vissuto sempre isolato, più degli altri ha mantenuto la propria identità culturale è quello dei Tuareg . Nomadi o seminomadi del deserto, la loro società è matriarcale; le donne, cui sono affidate la conduzione della famiglia e l’educazione dei figli, usano scoprirsi il viso, e il loro costume tradizionale prevede stoffe coloratissime e molti monili d’argento. Gli uomini invece si coprono il volto (per difendersi dal clima e dal vento del deserto) con un telo di cotone di color bianco, verde o indaco (segno quest’ultimo del rango più alto). Con il sudore, il telo indaco lascia tracce di colore blu sul volto, da cui il soprannome dei Tuareg, «uomini blu». Se alcune popolazioni libie ebbero un loro alfabeto, probabilmente sviluppatosi in Numidia tra la seconda e la terza guerra punica, i Tuareg sono gli unici tra i Berberi ad averlo conservato: il loro alfabeto è detto tifinag. La lingua è invece detta tamascek, ed è suddivisa in moltissimi dialetti, il cui sviluppo è stato favorito dalla dispersione dei Tuareg in tanti piccoli gruppi. Sono un popolo molto superstizioso, che si tramandano leggende popolate di ginn, i dispettosi spiriti del deserto e fanno uso di diversi amuleti. Signori del deserto, sono navigatori fra le sabbie, artigiani e abili nello sfruttare al meglio tutte le poche risorse del loro ambiente. Un loro attrezzo tradizionale è la ghirba, cioè un otre per l’acqua ricavata dalla pelle di capra che, mediante l’evaporazione, mantiene sempre fresca l’acqua . . Oggi i Berberi sono distribuiti in Mauritania, Marocco, Algeria, Tunisia e Libia, ovvero nella vasta area del Maghreb, parola araba che significa «paesi dell’occidente» (rispetto all’Egitto). In Libia è berbera la città di Zuara, sulla costa a ovest di Tripoli, e i Berberi sono diffusi anche in alcune località dell’interno della Tripolitania. . Il termine «tuareg» è plurale: al singolare è tàrgui (femminile targuìa). . Grazie soprattutto ai Liguri presenti in Tripolitania sin dalla metà dell’Ottocento, la parola “ghirba” arrivò in Italia, con il significato traslato di oggetto

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Nell’oasi dell’antica Cydamus, abitata o frequentata da queste popolazioni, gli Arabi giunsero intorno al , nel tempo vi si stabilirono e da allora e sino a oggi vi convivono con i Berberi. Il nome arabo dell’oasi e della città è Ghadames, ovvero Rhadames in berbero, probabilmente una corruzione del latino Cydamus. Il termine berbero Radhames richiama le parole arabe «rhada», pranzo, e «ams», ieri, ovvero «il pranzo di ieri», e ciò ha dato origine a un’etimologia popolare. La leggenda racconta che una carovana si fermò in quel luogo a mangiare; il giorno dopo ripartì, ma nel nuovo luogo di sosta i cavalieri si accorsero di non avere più le stoviglie con cui consumavano il pranzo comune, perché la avevano dimenticate nel luogo del banchetto del giorno prima. Un drappello venne rimandato indietro a recuperarle; giunti sul luogo, la giumenta di un cavaliere, assetata, scavò con lo zoccolo nella terra e trovò l’acqua. «Ain el Faras», cioè la «sorgente della giumenta», divenne il centro della nuova città fondata da questi nomadi. Un’altra versione di questa leggenda attribuisce la giumenta al conquistatore del VII secolo Sidi Ocba Ben Nafa, che completò la conquista araba della Libia. È ormai tempo di descrivere l’urbanistica e l’architettura della città. Venne edificata con sistemi tradizionali, forse già parzialmente in uso in epoca classica ma che si svilupparono dopo l’arabizzazione, più o meno contemporanea all’inasprimento delle condizioni climatiche. L’attuale urbanistica, così particolare e funzionale, è il risultato di un continuo lavoro di sperimentazione e adattamento al clima e alla situazione locale. È un’oasi estesa per  ettari, cinta da mura che racchiudono la città e gli orti degli abitanti, con sette porte corrispondenti ad altrettanti quartieri, che venivano chiuse al tramonto. Costruita con fango, fibre e legno di palma e calce, la città è un intrico irregolarissimo di viuzze quasi sempre coperte (alcune molto indispensabile per la sopravvivenza (non si può sopravvivere nel deserto senza una scorta d’acqua!) ed ebbe molta fortuna fra i soldati italiani di tutte le regioni nelle trincee della prima guerra mondiale, dove «portare a casa la ghirba» significava “salvare la vita”.

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strette e buie), su cui si affacciano le porte delle case. Le volte delle vie coperte sono interrotte ogni tanto da camini per l’aerazione e la luce. I muri lungo le vie principali si allargano verso terra in panchine per gli abitanti, e spesso si aprono anche in piazzette e slarghi dove si ritrovavano gli abitanti della zona. L’intrico di vie coperte con gli angoli frequenti e irregolari, combinato con l’azione mitigatrice delle palme e degli orti, fanno sì che all’interno non penetri né la sabbia portata dal vento né la calura del deserto: anche quando la temperatura esterna sfiora i ° gradi e la vita è veramente difficile, nelle vie di Ghadames il clima è temperato e dà una piacevole sensazione di frescura. Un esempio di condizionamento naturale frutto di sapienza tradizionale e della capacità di adattare un ambiente ostile . Il centro è la grande piazza del mercato, la principale della città, ove si trovano anche le più antiche e grandi moschee cittadine: Atik, risalente forse all’anno  dall’Egira, e Iunis. Sulle pareti di alcuni edifici e delle moschee si notano spolia romani e bizantini reimpiegati: capitelli, plutei, colonne tortili. All’interno della moschea di Iunis vi è una sedia in pietra che fu forse la cattedra vescovile; altre moschee di dimensioni più ridotte sono sparse per la città. Il contrasto fra gli androni coperti bui e freschi e le vie e le piazze allo scoperto, d’un bianco accecante e bruciate dal sole, è molto forte. Agli angoli dei terrazzi che sovrastano le case e sulle sommità dei muri s’innalzano piccole cuspidi, dette sciarafin, destinate a scacciare il malocchio, come le mani o gli altri segni apotropaici spesso modellati in bassorilievo sui muri. La casa tradizionale era costruita in mattoni crudi e gesso; la struttura è pressoché identica per tutte le case della città, anche se le dimensioni . Oggi il clima di Ghadames è tipicamente desertico. La temperatura più bassa si registra in gennaio, tra ° e ° di giorno, con una forte escursione termica fra il giorno e la notte, quando la temperatura può scendere sino a –°. In luglio e agosto la temperatura media, di giorno, è tra i ° e i °, con punte di °, e la notte è solo leggermente più bassa. In primavera soffiano i venti da sud che ricoprono la città della sabbia del deserto. Tra ottobre e marzo può piovere ( mm. all’anno); l’umidità relativa media è compresa fra  e %.

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o le decorazioni possono variare. La porta in legno di palma dà sulla strada; vi possono essere battenti, fermi con perni di legno, e a volte un gran numero di piccole coccarde di stoffa di diversi colori, segno che il proprietario ha compiuto lo hajj, ovvero il pellegrinaggio alla Mecca. Al pianterreno si trovano il magazzino e il gabinetto, ove le sostanze organiche sono raccolte e filtrate in una fossa preparata con un pesto di noccioli di datteri. Una scaletta porta al primo piano con una vasta stanza, riccamente decorata, che è il centro della casa. La decorazione di questa stanza è realizzata dalla promessa sposa prima delle nozze: semplici motivi geometrici dipinti in rosso s’intrecciano e segnano i bordi e le cornici, alternandosi con le porte degli armadietti a muro, solitamente dipinte in verde, giallo e altri colori. A terra si trovano stuoie, tappeti e colorati cuscini; alle pareti, vasellame e stoviglie in rame, vari oggetti decorativi e molti specchi che ampliano l’ambiente. Sul soffitto, un lucernario. Ai lati si aprono, a vari livelli, le diverse camere da letto. Una piccola stanza è l’alcova, frequentata dagli sposi solo la prima notte di nozze, e dove la moglie si ritira in caso di morte del marito per il tempo necessario a verificare che non sia incinta, per questioni d’eredità. Una scala porta al secondo piano, dove si trova la cucina e da dove si accede alla terrazza. Le diverse terrazze sono spesso collegate fra loro, e da lì (dove d’estate batte un sole cocente) si gode la vista dell’intera città con l’oasi. Se la città coperta, con la sua piacevole frescura, era riservata agli uomini, le donne erano confinate nelle terrazze, da dove comunicavano fra loro. Oggi la città comprende circa . case. A una delle uscite della città si trova la fonte d’acqua della città, la sorgente della giumenta, una fonte artesiana profonda  m., che ha sempre soddisfatto le esigenze dell’oasi. All’interno della cinta muraria, la città era (ed è) circondata dagli orti e dai ricoveri di bestiame degli abitanti; oltre ai prodotti dell’orto e dell’allevamento, l’oasi produceva anche molte palme da dat-

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tero , utilizzate in ogni loro parte: tronco, foglie, fibre, datteri, noccioli di datteri, tanto che un detto tradizionale delle genti del deserto, simile a un altro analogo delle nostre latitudini, è che «della palma non si butta via niente». I datteri erano un elemento fondamentale per l’alimentazione: nell’XI secolo la città venne visitata dal viaggiatore arabo Al Bekri, che scrisse: «è una piccola città che abbonda d’acqua e di datteri. Gli abitanti sono berberi musulmani. Si possono vedere i sotterranei che Cahena, quella che si era vista in Ifrikiya, aveva adoperato come prigioni. La popolazione della città si nutre soprattutto di datteri». Al Bekri collocò Ghadames a dieci giorni di marcia da Tripoli, al confine della zona desertica ove, se si sbagliava la pista, si incontravano sabbie mobili dove « viaggiatori e persino eserciti possono perire senza lasciare tracce della loro esistenza » . E il geografo Abulfeda, due secoli dopo, scriveva: Ghadames è nel Sahara, nel terzo clima. Si dice che sia graziosa e popolata. Al suo interno si trova una sorgente perenne al di sopra della quale vi sono i resti di un magnifico edificio costruito dai Romani. Gli abitanti sono berberi musulmani; hanno una moschea dove si tiene la preghiera del venerdì.

Tradizionalmente la città era divisa in due zone, affidate alle due tribù dette dei “Beni Ualìd” e dei “Beni Uazìd” (cioè figli . A Ghadames esistono diciassette qualità diverse di datteri, che maturano in diversi periodi dell’anno, riconoscibili per le dimensioni, il colore e il gusto più o meno dolce. . ‘Abd Allâh ibn ‘Abd al–‘Az¯iz Ab¯u ‘Ubayd al Bekri, –. Scrisse una Descrizione geografica del mondo conosciuto, di cui esistono edizioni critiche contemporanee in lingua araba. W  G  S ne tradusse in francese un estratto, pubblicandolo come Description de l’Afrique septentrionale, Paris ; da questa edizione ho tradotto il brano citato. Cahena è la leggendaria regina berbera (vedi supra); l’Ifrikiya è la regione di Tunisi; le prigioni sotterranee si rifanno a una leggenda già nota all’epoca di al Bekri. . Il geografo Ismail Abulfeda (Ismâ’il Imâd al–Dîn al–Ayyûbî Abu ’l–Fida, –) scrisse una Geografia, poi edita in francese: Géographie d’Abulféda, traduite de l’arabe en français et accompagnée de notes et d’éclaircissements par M. Reinaud, a cura di Joseph–Toussaint Reinaud, Paris, Imprimerie nationale, , da cui ho tradotto i brani citati, qui e infra.

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di Ualìd e di Uazìd, i due mitici fondatori delle rispettive tribù), rispettivamente a nord e a sud della grande piazza del mercato. Ogni zona comprendeva tre quartieri berberi; ve ne era inoltre uno arabo, più un’altra zona abitata dagli schiavi neri affrancati e dai loro discendenti. La ripartizione per quartieri rifletteva realtà anche amministrative di carattere tribale e rivalità ancestrali; la separazione fra le due aree era rigida, e raramente — se non mai — l’abitante di una zona andava nell’altra, tanto che si diceva che un ghadamesino poteva aver viaggiato per tutto il mondo ma non essere mai andato nell’altra zona della sua città. Esisteva quindi una società segmentata (secondo una definizione sociologica) ma anche un’organizzazione urbana che trascendeva le realtà tribali e si basava piuttosto su un notabilitato e un’organizzazione affidata alle figure più autorevoli. Scriveva Abulfeda: « non c’è un capo assoluto; i Ghadamesini sono governati dagli anziani della città ». Un esempio importante dell’organizzazione urbana era l’organizzazione unitaria della gestione delle risorse idriche. L’acqua per l’irrigazione veniva distribuita ai campi con una rete di canalette lungo le stradette principali, da cui si dipartivano piccoli tronchi diretti verso ciascun orto. Questi canali laterali erano chiusi da paratie, che ogni proprietario apriva per il tempo a lui concesso da un rigido sistema centralizzato di controllo, gestito da un autorevole personaggio municipale, il cadùs, che stazionava in una nicchia ricavata sulla parete della moschea di Iunis, nella piazza del mercato, che comunicava con la falda acquifera. Utilizzava come clessidra un secchio di rame forato sul fondo; a ogni svuotamento del secchio (che avveniva in tre minuti) egli faceva un nodo a una corda di foglie di palma, e questa era l’unità di misura del tempo in città. La domanda « quanti nodi? » che i passanti gli rivolgevano, era l’equivalente di « che ora è? ». Con questo suo orologio egli regolamentava il tempo di afflusso dell’acqua in ogni campo: sapendo quando era iniziata la presa d’acqua di un proprietario d’appezzamento (che gli aveva comunicato che andava ad irrigare), trascorso il tempo concesso il cadùs gettava nell’acqua un fascetto legato di bastoncini di legno. Quando

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il contadino vedeva giungere a lui quel fascetto, sapeva che era giunta l’ora di chiudere la canaletta che portava l’acqua al proprio appezzamento (sistemi analoghi erano in vigore anche in altre oasi sahariane). Le attività economiche cittadine erano quindi semplici: agricoltura, allevamento caprino e ovino e piccolo artigianato apprezzato (« vi si preparano pelli eccellenti »), come mostrano gli attrezzi di vita quotidiana tuttora conservati nel museo locale . . Ghadames centro carovaniero Anche dopo il formarsi e consolidarsi del dominio politico arabo nella regione di Tripoli, Ghadames rimase politicamente autonoma, abitata da Arabi e da Berberi, felice risultato del connubio delle due civiltà e uno dei più begli esempi di vita nel deserto. Dal , con la presa di Tripoli, la Tripolitania passò sotto il dominio ottomano e, al pari delle regioni di Algeri e di Tunisi, venne organizzata in provincia, detta in turco vilayet . Ognuna di queste regioni aveva strutture e priorità politiche diverse, e la Porta ne era conscia, oltre a essere esitante a consolidare il proprio potere nel Maghreb per non perdere l’ap. Ceramica multiuso, colorati cuscini in pelle di cammello, setacci per farina, pelle intera di cammello usata come tovaglia nelle feste di matrimonio. Stivali, coloratissime pantofole (prodotto tipico dell’artigianato locale) e cinture, abbigliamento della sposa. Attrezzi metallici per l’uso civile e nei campi: serrature, zappe, stadere, aratri, attrezzi agricoli. Tazze in rame contenenti olio e piombo contro il malocchio e le malattie (i riti si compivano con l’imposizione delle mani). Coltelli, lame, pugnali. Selle da cammello in legno (in legno e fibra di palma è la sella di lusso utilizzata dalla promessa sposa che si reca al matrimonio); cesti di fibra; caratteristici coloratissimi coperchi di vassoi di cuscus. Stoviglie da cucina in legno, scope, trappole per uccelli, macine per il grano. Mobili in legno. Vasetti in fibra di palma, reti, corde per salire sulle palme. Molte varietà di erbe medicinali. Telai e stoffe per costumi tradizionali: la prima notte di nozze la sposa indossava un abito bianco, per poi cambiarlo con uno nero (ricognizione dell’autore). La citazione sulle pelli è del viaggiatore Ibn Sayd, citato da Abulfeda. Per il museo e la descrizione della città vedi B C–S, Libia. Diecimila anni di storia, Torino, Il Tucano, . . Il termine venne tradotto in italiano, e da lì nelle altre lingue europee, con “Reggenza”.

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poggio di quelle entità politiche, essendo in corso il suo aspro confronto con la potenza asburgica. La soluzione pragmatica fu la concessione di una larga autonomia, che permetteva alle Reggenze di praticare la guerra di corsa contro gli Asburgo di Spagna (e non solo, naturalmente) offrendo in cambio il riconoscimento di sovranità, la preghiera nel nome del Sultano, regalie regolari e fornitura di schiavi per i mercati del Levante. Ghadames gravitava verso Tripoli (perché lì si recavano le carovane che passavano per la città, come si vedrà) ma gli Ottomani non vi si spinsero perché, più che una politica di colonizzazione diretta, qui come in altre aree dell’enorme enorme impero preferivano creare le condizioni di una dipendenza politica, economica, anche culturale. L’autorità ottomana nel Maghreb, insomma, agiva soprattutto come organizzatore d’azioni comuni o mediatore e autorità superiore in varie questioni, in particolare quelle concernenti le frontiere interregionali, questioni sempre aperte . Si registra un violento episodio riguardante Ghadames. Tunisi aveva mire sull’oasi, che riteneva propria vassalla e con cui, comunque, intesseva rapporti commerciali. Nel  la popolazione dell’isola di Gerba si rivoltò; già tunisina, vi era di stanza una dispotica guarnigione di turchi tripolini. La popolazione si rivoltò e chiese l’aiuto di Tunisi, che riottenne l’isola. Imbaldanzita dal successo, la Reggenza di Tunisi inviò una spedizione militare verso Ghadames, che nel  riconobbe l’autorità tunisina. Sulla strada del ritorno, però, le truppe vennero assalite dagli arabi nomadi e delle montagne, persero il ricco bottino che avevano conquistato e si salvarono in pochi; Ghadames restò indipendente . . Concetti e temi ben sintetizzati da R D – G¸ I¸, Introduction, in Tripoli, port de mer, port de désert. Table ronde du – novembre , Université Paris  Panthéon–Sorbonne, coordonnée par Rémi Dewière – Güne¸s I¸sıksel, «Hypothèses»,  (), pp. –. . L–C F, Annales Tripolitaines, présentation de Nora Lafi, Saint Denis, Bouchène, , pp. –. Charles Féraud fu console, poi console generale di Francia a Tripoli dal  al , per poi passare a Tangeri. Grande conoscitore del Maghreb, i suoi Annales tripolitaines sono «uno dei più bei testi

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Sembra, quello descritto supra per Ghadames, il quadro di una piccola comunità dedita soprattutto alla difesa contro l’inclemenza del clima e a una debole economia di mera sussistenza, ma non era assolutamente così. Oltre all’economia agricola e artigianale propria, sino a tutta l’età moderna — ovvero sia in età medievale sia in periodo arabo sia in periodo ottomano — Ghadames continuò e incrementò il proprio ruolo tradizionale di nodo di vie carovaniere, perché l’oasi era un passaggio obbligato di una delle due grandi vie che attraversavano il Sahara e convergevano su Tripoli (o in senso inverso vi partivano). Si trattava della via che partiva da Timbuctù e il Mali oppure da Kano e il centro dell’Africa , si dirigeva verso le oasi di Tuat in Algeria e da lì a Ghadames; compiva l’intero percorso in otto o nove mesi. L’altra era quella più orientale che dall’Africa centrale subsahariana si dirigeva verso il Fezzan, e non toccava Ghadames. Frequentate da Arabi, Berberi e Tuareg, queste grandi vie tradizionali permettevano costanti scambi fra l’Africa subsahariana e quella mediterranea, e da lì verso l’Europa e il Levante riprendendo, in un contesto e con attori completamente mutati, gli scenari economici d’età classica. Tra le “merci” più frequenti di queste carovane verso nord vi erano gli schiavi negri, il cui traffico è documentato dal IX sino al XIX dell’erudizione francese sul Maghreb . . . non solo una monografia che ordina una multitudine d’informazioni sulla regione dalla conquista araba del  sino al XIX secolo ma anche un’opera viva, piena della passione dello storico» come ha scritto la presentatrice (traduzione dell’autore). Rimasti inediti, gli Annales furono pubblicati a Tunisi nel , e ora in questa riedizione critica. . Timbuctù è una città di origine tuareg dalle alte costruzioni di fango in una zona arida e sabbiosa ai margini meridionali del Sahara, nei pressi del fiume Niger, nell’odierno Mali. Sede di un sultanato, soprattutto tra il XIV e il XVI secolo fu un importante centro commerciale e culturale. Il fiorentino Benedetto Dei la raggiunse all’incirca nel , ma da allora la città non vide più un europeo. Leone l’Africano la visitò una cinquantina d’anni dopo e la descrisse come un luogo con un gran numero di dottori, uomini di legge, di religione e di cultura; il viaggiatore parlò anche della grande quantità di manoscritti presenti in città. Nell’Europa d’età moderna vi era notizia di questa città dalle grandi ricchezze, che alcuni ritenevano un luogo mitico più che un sito reale. Kano, oggi nel nord della Nigeria, era il centro di una fiorente comunità hausa (un gruppo etnico locale musulmano) dedito alla coltivazione del cotone e al commercio transahariano.

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secolo. Traffico triste ma remunerativo: nel XVII secolo uno schiavo costava  piastre all’origine, ne valeva  a Ghadames, da  a  a Tripoli. Le altre merci che transitavano verso nord erano oro (soprattutto in polvere), avorio, piume di struzzo, mentre in senso inverso viaggiavano mercanzie europee di lusso: cuoio, vetri (soprattutto le veneziane “contarie”, perle e monili di vetro per gioielli, che riscuotevano un grandissimo successo nell’Africa nera), stoffe, seta, carta da Pisa, profumi da Venezia, ottone; dal Levante (in cambio degli schiavi) generi alimentari. Nel XVI secolo fu forte anche la domanda di equipaggiamenti militari (cotte, armature, elmi, spade), provenienti dalla Lombardia e dalla Germania; infine, cavalli. Si effettuavano due carovane all’anno per percorso, ognuna di qualche centinaio di cammelli. La città di Tripoli, «porto di mare, porto del deserto», svolgeva il ruolo di punto di scambio: là si praticavano gli scambi fra i carovanieri del deserto e i «carovanieri del mare», che non s’incontravano, perché dell’intermediazione si occupavano i commercianti tripolini, per la maggior parte (ma non solo) Ebrei, provenienti, a partire dal XVI secolo, dal retroterra tripolino, dalla Spagna e da Livorno. Gli interlocutori europei dei commercianti tripolini erano Ebrei livornesi oppure i Veneziani; Livorno e Venezia erano i grandi centri europei di smistamento del commercio barbaresco. Altri punti d’arrivo in Europa delle merci erano Napoli e Genova. Dal XVI–XVII secolo operarono i mercanti britannici e soprattutto quelli francesi: dalla fine del XVII secolo la Francia — che nel  aveva aperto il primo consolato europeo permanente a Tripoli — ebbe per sé la stragrande maggioranza del traffico. Il commercio transahariano fu quindi, per secoli, una delle due maggiori attività economiche tripoline, l’altra essendo la corsa; le due attività erano del resto parallele e complementari . . L’espressione «porto di mare, porto del deserto» è di N L, Tripoli de Barbarie: port de mer, port du désert (–), in Méditerranée mer ouverte: XIXe et XXe siècles, Christiane Villain–Gandossi dir., Malta, Fondation internationale, , p. –. L’immagine dei «carovanieri del mare» è di J–C Z, Tripoli carrefour de l’Europe et des pays du Tchad –, Paris, L’Harmattan, .

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Anche Ghadames (come il vicino Fezzan ) svolgeva un ruolo simile a quello di Tripoli, sin dall’epoca medievale precedente alla seconda invasione araba. Attiva nella pratica commerciale era la comunità ebraica, presente a Ghadames come nelle altre maggiori oasi del deserto dall’VIII secolo ; dal X Ambedue gli autori forniscono anche molte stimolanti osservazioni sui traffici carovanieri, che N L ripropone anche in Une ville du Maghreb entre ancien régime et réformes ottomanes. Genèse des institutions municipales à Tripoli de Barbarie (–), Paris, L’Harmattan, , passim. Sulle vie carovaniere la bibliografia è comunque ampia; qui segnalo il recente studio dal punto di vista topologico (ovvero delle connessioni delle reti e dei nodi), che propone nuove prospettive di analisi, di J P–K, Multiplying Middle Ages: a topological network model of Trans–Sahara–routes of the th –th cent., , nell’ambito del gruppo di lavoro Topographies of Entanglements della Österreichische Akademie der Wissenschaften di Vienna, nonché il datato, ma utile per qualche suggestione e per catturare lo spirito interpretativo–agiografico dell’epoca, F C, La via del Sud, Tripoli, Cacopardo, . I prezzi sulle varie piazze degli schiavi sono in P  L, Mémoire sur Tripoli de Barbarie (manoscritto conservato alla Bibliothèque nationale de France), che riprendo da A B, Présentation, in A–C F  C, Histoire abrégée de Tripoly de Barbarie  et Suite de l’histoire de la Régence de Tripoly de Barbarie Règne d’Ali Caramanly , s.l. [Saint Denis], Bouchène, , p. , ma passim per tutto questo paragrafo. L’antica comunità ebraica di Tripoli era stata cacciata dalla Spagna, che si era brevemente insediata in città nel ; la colonia quindi si riformò dopo l’allontanamento degli spagnoli. . Come Ghadames il desertico Fezzan non era sotto il dominio politico di Tripoli, perché per conquista era entrato in una vasta area politica dell’Africa centrale, governata dalla dinastia nera dei Sefuwa, islamizzata nel X secolo, che prese il potere nel Kanem, un territorio a est del lago Ciad, nel . Un periodo di turbolenze nel XIV secolo spostò il centro nel Bornu, a ovest del lago, e da lì la dinastia estese il proprio potere in un territorio che andava dal Niger al Nilo, controllando l’oasi di Kawar nell’attuale Niger e il Fezzan, e intrattenendo relazioni commerciali e diplomatiche con l’Egitto, il Marocco, Tunisi e Tripoli. Resse sino all’inoltrato XIX secolo, quando l’intero territorio passò sotto la colonizzazione francese. Con l’arrivo ottomano a Tripoli (e a Bengasi) la situazione politico–militare nel Fezzan vide spesso turbamenti politici, che non ne cambiarono l’assetto ma che fatalmente si riflettevano sulle attività carovaniere. I periodici blocchi della via carovaniera causavano effetti immediati sulla piazza commerciale di Tripoli. Sul sultanato di Bornu vedi R D, «Regards croisés entre deux ports de désert». L’enjeu des sources pour l’étude des relations entre Tripoli et le sultanat de Borno, in Tripoli, port de mer, port de désert. Table ronde du – novembre , Université Paris  Panthéon–Sorbonne, coordonnée par Rémi Dewière – Güne¸s I¸sıksel, «Hypothèses»,  (), pp. –. . G L, On Trans–Saharan Trails. Islamic Law, Trade Networks, and Cross–Cultural Exchange in Nineteenth–Century Western Africa, New York, Cambridge

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secolo anche i musulmani ibaditi . Da tutto il Maghreb questi erano stati attivi nel commercio transahariano nell’VIII e nel IX secolo; dopo la caduta della loro capitale Tahert all’inizio del X secolo, molti si erano stabiliti in località vicine, soprattutto Warglan in Algeria e Ghadames. Il coinvolgimento ibadita nel traffico carovaniero rimase forte sino all’XI secolo, quando la seconda invasione araba modificò completamente il quadro economico, politico e religioso del Maghreb e disperse gli Ibaditi e la comunità ebraica. Nel XII e XIII secolo, dopo la completa arabizzazione della Tripolitania il commercio transahariano ebbe un’espansione, e Ghadames come le oasi sahariane (fra cui Ghat e Murzuq nel Fezzan) incrementarono la loro attività. Scriveva già Abulfeda: «la città è sulla rotta per la regione dei negri detti Kanem». Ormai completamente nell’ambito orientale e non più punto di scambio con l’Occidente, la città rimaneva uno dei nodi fondamentali ove si toccavano e s’integravano le economie arabo–mediterranea e africana. Infatti, in posizione strategica lungo la via carovaniera, Ghadames non era solo un punto di transito, ma era anche piazza commerciale d’intermediazione, dove s’incontravano i mercanti del litorale e i carovanieri del University Press, , p. , che discute anche dell’origine della comunità ebraica nel Maghreb. . Gli Ibaditi erano una corrente religiosa islamica, l’unico ramo tuttora esistente del kharigismo (terza via tra sunnismo e sciismo). Gli Ibaditi si distinguevano per la moderazione e il ripudio della violenza; ritenevano che il comando della comunità dei fedeli non dovesse spettare necessariamente a un discendente del Profeta, ma al migliore dal punto di vista religioso, indipendentemente dal lignaggio e dall’etnia. Fra l’VIII e il X secolo conobbe una grande espansione, sino a comprendere gran parte del Maghreb dove raccolse molti consensi grazie alla politica verso i Berberi, che non li sottometteva automaticamente agli Arabi. Dal  il centro dell’ibadismo maghrebino fu la città di Kairouan (oggi in Tunisia); perduta questa, nel  venne fondata la città di Tahert (dal termine berbero «stazione», nell’Algeria sudoccidentale) e uno Stato ibadita lì incentrato. La città venne presa e distrutta nel  dai Berberi Kutama, sostenitori dei Fatimidi; la comunità ibadita si disperse. I loro commerci transahariani contribuirono alla diffusione dell’Islam nell’Africa centrale. Oggi nel Maghreb rimangono comunità ibadite berbere nell’isola di Gerba in Tunisia, e in Libia a Zuara e nel Gebel Nefusa. Per la loro attività commerciale sino all’XI secolo, G. L, On Trans–Saharan Trails, p. .

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sud, che lì concludevano gli affari, con tecniche e regole tradizionali e ancestrali. Il ruolo era favorito dalla conoscenza in città delle varie lingue, dialetti, usi e costumi delle popolazioni arabe, berbere, dell’Africa centrale che convergevano nell’oasi (conoscenza naturalmente formatasi proprio per la posizione e il meticciamento della popolazione). La piazza del gelso grande e la piazza del gelso piccolo — due piazzette cittadine — erano il centro rispettivamente del commercio degli schiavi e delle schiave: i giovani neri venivano avviati verso il nord, ma qualcuno rimaneva in città; poi affrancati, terminavano le loro esistenze a Ghadames, occupando le case dei quartieri cittadini più oscuri, e ancora oggi vivono in città loro discendenti. Oltre all’attività d’intermediazione in loco, i notabili ghadamesini svolgevano soprattutto una fiorente attività mercantile ad ampio raggio. Mercanti ghadamesini arrivavano direttamente a Tripoli per acquistare i prodotti europei, soprattutto contarie e carta, molto richiesta nell’Africa nera prevalentemente per motivi religiosi (erano diffuse le scuole coraniche e serviva almeno un Corano in ogni villaggio); altri andavano invece a Tunisi, con cui ugualmente la città intesseva rapporti commerciali. Altri ancora percorrevano le rotte carovaniere del Fezzan e oltre. Ibn Battuta, il viaggiatore marocchino del XIV secolo, raccontò di aver viaggiato dal Niger verso settentrione « con una carovana di uomini di Ghadames ». E similmente ad altre realtà commerciali europee d’età medievale e moderna, comunità di mercanti stranieri — Tuareg o Wangara (un’etnia dell’Africa centrale) — risiedevano a Ghadames, e soprattutto mercanti ghadamesini si erano stabiliti nelle principali piazze commerciali con cui intessevano relazioni, diventando quindi il naturale punto di riferimento dei concittadini negli scambi. Una numerosa comunità ghadamesina risiedeva a Tripoli, e sin dal XV secolo vi erano un quartiere e una comunità ghadamesina a Timbuctù, che abbandonò la città nel , a causa dell’invasione marocchina dell’impero Songhai. Giunti in città, i marocchini s’insediarono proprio nel quartiere ghadamesino, cacciandone i residenti, perché era il più bello e fiorente. Ma

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della rilevante diaspora commerciale ghadamesina si parlerà infra. L’espansione marocchina nel Sahara occidentale, peraltro, fece slittare il traffico carovaniero verso l’Atlantico (già in crisi per le attività commerciali portoghesi in quelle coste) verso il Mediterraneo, facendo incrementare ancor più l’attività di Ghadames. Naturalmente, gli scambi tra la costa mediterranea e l’Africa subsahariana non riguardavano solo merci e schiavi, ma anche uomini liberi, saperi, idee, notizie, cibi, comunicazioni; le diverse regioni di quella vastissima area economica rimanevano in costante contatto con loro . Il sistema di comunicazione tradizionale, in quella società comunque alfabetizzata, era la lettera, che qui non veniva trasmessa con un sistema di corrieri organizzato, istituzionale e regolare come nel contermine Egitto mamelucco (sino a quando resse quel regime) ma semplicemente approfittando delle “occasioni” (per usare l’analogo e coevo termine d’area occidentale) ovvero viaggiatori e carovane di passaggio. Un sistema pratico apparentemente più evanescente, debole e insicuro ma in pratica capace di assicurare regolari flussi di comunicazioni. Ghadames era quindi anche un attivo centro di scambi di lettere; l’operazione avveniva con un caratteristico sistema particolare. Da una trave nel tetto di una calletta nei pressi di una porta cittadina pendeva una catenella di ferro con un gancio, cui stava appesa una cesta di fibra, dove chiunque poteva inserire una lettera da spedire in altri luoghi, o andare a vedere se, con la carovana appena giunta, era arrivata posta per sé: nell’ambito del sistema tradizionale di favori e doni, i carovanieri si prestavano volentieri a trasportare la posta in entrata e in uscita dalla città. Non vi era particolare tutela del segreto epistolare; le lettre potevano venire aperte e lette anche da terzi, a volte anche per richiesta diretta del . Come scrisse l’etnografo e ufficiale coloniale Maurice Delafosse (–) «lo scambio di idee, più importante per lo sviluppo della civiltà di quello delle merci», citato da G. L, On Trans–Saharan Trails, p. , che argomenta: «le carovane attivarono flussi d’informazioni mentre i commercianti agivano come ambasciatori culturali all’avanguardia di articolati cambiamenti sociali» (traduzioni dell’autore).

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mittente. Scambi di lettere avvenivano anche fra carovane che s’incrociavano nel deserto (i carovanieri approfittavano di questi incontri nel deserto per inviare lettere personali ai parenti nelle loro residenze) e anche in questo caso, di solito Ghadames continuava a essere usato come nodo di scambio e raccolta. Occorrendo la necessità, per comunicazioni urgenti si potevano inviare corrieri dedicati, normalmente cammellati, in questo caso a pagamento, potevano essere affidati anche beni da trasportare. Scrivere lettere per comunicare con i propri agenti commerciali era uno strumento indispensabile del commercio su lunga distanza, dove i soci d’affari rimanevano separati per anni, a volte decenni, e non potevano comunicare oralmente; l’idea della necessità dell’alfabetizzazione per il successo economico era chiara a Ghadames, che era perciò orgogliosa del grado di alfabetizzazione dei propri cittadini. Lo scambio di lettere era quindi il principale strumento per la trasmissione del flusso d’informazioni, ed era anche mezzo di scambio emozionale e panacea indispensabile per evitare l’alienazione dei mercanti e delle famiglie lontani. La corrispondenza era perciò molto frequente, e il sistema descritto fu attivo sino agli inizi del Novecento, quando venne aperto un moderno ufficio postale ottomano . Il mutare della situazione politica delle regioni coinvolte — nel Fezzan, a Tripoli e in Europa — aveva naturalmente riflessi sull’intensità del traffico. Nel  prese il potere a Tripoli un . Sul sistema comunicazionale ghadamesino, informazioni raccolte sul luogo dall’autore. Inoltre U H, The Dead Ostrich: Life and Trade in Ghadames (Libya) in the Nineteenth Century, «Die Welt des Islams»,  (), pp. –, che informa che i corrieri dedicati erano chiamati raqqas (forse da rakkad, correre), e discute di quattro tappe fondamentali dei loro percorsi: Tripoli–Ghadames, Ghadames–Ghat, Ghat–Air, Air–Kano. G. L, On Trans–Saharan Trails, pp. –, argomenta che il commercio transahariano poteva essere organizzato con successo solo in una «paper economy» che prevedesse registri contabili e gli altri vari documenti economici; nel  l’esploratore britannico Alexander Laing, di cui si discuterà infra, notava: «i mercanti ghadamesini trattano sempre gli affari con lettere di credito o accordi scritti» (citato in J W, The Trans–Saharan Slave Trade, London, Routledge, , pp. , traduzione dell’autore).

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notabile locale di famiglia d’origine anatolica, Ahmad Qaramanli, che diede origine a una dinastia che avrebbe governato la Tripolitania sino al  — formalmente per conto della Porta ma di fatto completamente autonoma — che però non estese il proprio potere sino a Ghadames. Alla morte di Ahmad, nel , il commercio del Fezzan e del suo entroterra africano era sottomesso a Tripoli; la capitale vedeva fervori di traffici con la Gran Bretagna, la Francia e i porti levantini; Ghadames continuava la propria attività tradizionale. Anzi, grazie alla tranquillità politica tripolina il traffico carovaniero verso Tripoli aumentò fortemente tra il  e il , perché Tunisi (il porto più aperto ai traffici con l’occidente) a causa di una lunga instabilità politica aveva interrotto i traffici con l’interno, e le carovane dall’Africa subsahariana che un tempo vi si dirigevano ora convergevano su Tripoli, passando per Ghadames. Dai rapporti del console francese a Tripoli: —  gennaio . Le carovane dal Fezzan e da Ghadames hanno ritardato un po’ più d’un mese per le piogge ed il freddo. Quella del Fezzan, con più di  negri, si attende in ogni momento, mentre quella di Ghadames deve comparire entro la prossima quindicina. —  febbraio. La carovana dal Fezzan è finalmente arrivata [. . . ] —  febbraio. Quella che si aspettava è arrivata [. . . ] —  febbraio. Con grande soddisfazione dei tripolini, ieri sera sono arrivate altre due carovane dal Fezzan e da Ghadames, che hanno portato circa . negri e negre. Queste quattro carovane che, insieme, hanno portato più di . negri, rianimeranno il commercio di questa piazza che languiva [. . . ]

Il  maggio arrivò un’altra carovana di Timbuctù (anche questa era passata per Ghadames). In quattro mesi erano arrivati . schiavi, un numero superiore a ogni attesa. Una situazione quindi felice, che però non resse a lungo, perché i numeri precipitarono rapidamente per una serie di concause . Rapporto del console de Vallière, in J–C. Z, Tripoli carrefour de l’Europe et des pays du Tchad, pp. –, traduzione dell’autore.

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contemporanee o conseguenti: l’incuria e la debolezza del pascià tripolino; la situazione politica (la Russia di Caterina II era in guerra con la Porta dal , e ciò aveva reso più difficile la navigazione mediterranea con conseguente crollo del traffico di schiavi fra la Barberia e gli scali levantini); una forte epidemia, poi la ribellione delle tribù arabe dell’interno, la scarsa sicurezza per le carovane, le lotte interne alla dinastia tripolina, le intromissioni tunisine per ottenere influenza sull’oasi, secondo un’antica aspirazione. Già alla fine del  il rapporto del nuovo console francese diceva: la campagna è in rivolta, a causa della poca fermezza del pascià. Ne consegue che le carovane dal Fezzan e da Ghadames, che portavano negri, oro, senna (una pianta medicinale) e piume di struzzo e si rifornivano qui di mercanzie europee, non vengono più.

Un altro rapporto consolare francese del  notava che da Ghadames arrivava ogni anno una sola carovana con  negri che fruttavano . zecchini, oro per . e  quintali di senna per ., per un totale di . zecchini corrispondenti a . lire di Francia, mentre il coevo rapporto britannico citava cifre diverse:  negri per . zecchini,  quintali di senna per ,  sacchetti di polvere d’oro per ., piume di struzzo per , per un totale di . zecchini, mentre in senso inverso da Tripoli a Ghadames andavano merci per . zecchini . Il declino era ogni anno sempre più evidente e crescente. Ghadames non poteva non risentire di questa stagnazione economica. La fine del XVIII secolo è un momento di trapasso nell’Africa subsahariana, dove il sorgere di nuovi principati e ampie migrazioni di popolazioni cambiarono gli equilibri politici; contemporaneamente, grandi rivolgimenti politici si ebbero in Francia e poi in tutta Europa, e finalmente anche nella Reggen. L–C F, Annales Tripolitaines, p. , traduzione dell’autore. . J–C. Z, Tripoli carrefour de l’Europe et des pays du Tchad, pp. –.

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za. Nel  il nuovo pascià Qaramanli, Yussuf, riuscì a riportare l’ordine a Tripoli e inaugurò un nuovo periodo di prosperità per la città, sicuro rifugio per i corsari e porto importante per il commercio. I primi porti mediterranei per l’interscambio con Tripoli erano Malta, Bengasi, Livorno, Smirne, Trieste, Tunisi, Alessandria, Istanbul, i porti francesi. Alla morte di Yussuf nel  la situazione politica si destabilizzò di nuovo e nel  la Porta ottomana riprese il controllo diretto della regione, anche per evitare una presa di possesso europea, come quella di un lustro prima ad Algeri . È stato osservato che in età moderna la città di Tripoli è caratterizzata dal contrasto tra le dimensioni minime del dominio diretto della propria area contermine e l’estensione della propria area commerciale, dal lago Ciad alle Alpi a Istanbul. Questa specificità avvicina il caso tripolino a quello di un’isola, e la geografia umana ha una consolidata tradizione di studi sui paragoni deserto / mare, città crocevia / isola. La città era punto di contatto fra lo spazio mediterraneo e quello sahariano; i suoi commercianti svolgevano ruolo d’intermediazione e di contatti commerciali tra l’Africa centrale, l’Europa e il Levante, facilitando circolazione di uomini e beni e intrattenendo rapporti diplomatici e commerciali. Tripoli era anche un punto di frontiera, di rivalità fra il mondo cristiano e quello musulmano, nonché di frontiera riguardo al rapporto fra centro e periferia . Queste corrette osservazioni, però, possono essere svolte anche per Ghadames, con la sola differenza che qui mancò il contatto con il mondo occidentale. Ghadames, piccola oasi in una regione arida, senza un dominio diretto al di fuori delle propria mura, era uno dei centri di una vasta area commerciale che si estendeva dall’Africa nera sino al Mediterraneo (e da lì ben oltre, con l’intermediazione di Tripoli). « Uno dei centri », . Nel , è noto, la Francia aveva preso l’Algeria, riducendola a propria colonia. Sulla città di Tripoli dal  al , anno della conquista italiana, è fondamentale il citato N. L, Une ville du Maghreb entre ancien régime et réformes ottomanes. . Una bella sintesi di questi concetti in R D – G¸ I¸, Introduction, in Tripoli, port de mer, port de désert.

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perché ruolo analogo era svolto dalla regione del Fezzan, l’altra grande via di transito delle carovane verso Tripoli. Rispetto al Fezzan, però, Ghadames si caratterizzava per la dimensione non diffusa ma urbana, quindi concentrata, istituzionalizzata, governata. I suoi mercanti, notabili in città, erano presenti e attivi anche in altre piazze; la città favoriva la circolazione di uomini, beni, notizie; come Tripoli, era cosmopolita e plurilingue. La differenza con Tripoli è che in questo lungo periodo Ghadames rimase confinata nell’ambito culturale orientale (o africano), senza essere né conosciuta né frequentata da europei. Perse quindi il ruolo di nodo nei rapporti oriente–occidente che le era proprio in età classica, mutandolo in quello di nodo centrale e d’intermediazione di una lunga via commerciale, economica e culturale che si sviluppava nel mondo orientale in senso nord–sud, continuando a mettere in contatto aree diverse, in questo caso l’Africa araba mediterranea con quella subsahariana e nera dei grandi bacini centrali. In questa fase e in una prospettiva di lungo periodo il suo ruolo, in conclusione, fu quello di mediazione commerciale, linguistica, culturale, comunicazionale all’interno del mondo orientale.

. La perla del deserto Per tutta l’età moderna, Ghadames era rimasta dunque sconosciuta mondo occidentale. La lenta riscoperta iniziò dal XVIII secolo, grazie ai consoli europei. S’è visto, il primo consolato permanente europeo a Tripoli fu francese, dal ; Claude Lemaire fu il capostipite di una serie di diplomatici di grande valore, che con le loro attività e corrispondenze aprirono la Barberia e l’Africa alla comprensione della Francia e dell’Europa. Dall’inizio dell’Ottocento viaggiatori europei cominciarono a raggiungerla e a descriverla, e Ghadames divenne nota come «la perla del deserto» per il fascino e la suggestione della sua particolarissima architettura e urbanistica.

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Per prima si mosse la Gran Bretagna. Dalla fine delle guerre napoleoniche sino alla metà del secolo la Tripolitania fu una dei principali punti di partenza dell’espansionismo britannico in Africa; Tripoli divenne il Gateway to Africa, e molto fu merito del console britannico Hanmer Warrington, in carica dal  al  . Sotto la sua guida, il governo britannico organizzò tre spedizioni (si voleva promuovere il commercio e ottenere l’abolizione della tratta degli schiavi ): la missione Ritchie–Lyon del –, dall’esito infausto (doveva arrivare a Timbuctù e al Niger, ma si fermò a Murzuq nel Fezzan per la morte di Ritchie), la missione nel Bornu del – e la missione Laing, –. Vale la pena trattare della missione Laing. Come s’è visto, dal XV secolo nessun europeo era giunto a Timbuctù, che in Europa era immaginata come una città dalle grandi ricchezze. Il primo europeo che vi giunse, pare, fu lo scozzese Mungo Park, nel ; il suo arrivo è noto da un superstite della sua spedizione, perché Park morì annegato nel Niger. Vent’anni dopo un altro scozzese, Alexander Gordon Laing, ufficialmente era deciso a partecipare al concorso lanciato dalla Società geografica di Parigi per un premio di . franchi per chi fosse riuscito a trovare ed esplorare la foce del fiume Niger, ma in realtà aveva l’incarico del governo britannico di ricognire le rotte del deserto verso Timbuctù. All’inizio del  egli era a Tripoli per preparare la spedizione. Lì il giovane . J W, The Gateway to Africa: Consul Warrington and Tripoli, «The Journal of Libyan Studies»,  (), pp. –. . Com’è noto, l’idea dell’abolizione della tratta degli schiavi (non della schiavitù) a fronte della mutata sensibilità, di ampi movimenti d’opinione nonché di calcoli politici, iniziò in Gran Bretagna alla fine del XVIII secolo, per divenire poi un’idea comune europea. Nel  entrò in vigore in Gran Bretagna lo Slave Trade Act, dopodiché accordi internazionali e leggi nazionali portarono alla sostanziale fine della tratta in Africa. In Algeria con la presenza francese; in Tunisia formalmente nel ; in Tripolitania e in Egitto nel . . J B–L, Impressions of Fezzan in : the Borno Mission Diaries of Lieutenant Hugh Clapperton, R.N., «The Journal of Libyan Studies»,  (), pp. –.

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(era nato nel ) s’innamorò, ricambiato, di Emma, figlia di Warrington, che il  luglio di quell’anno celebrò egli stesso le nozze, con la condizione che queste rimanessero platoniche sino a che Laing non avesse compiuto la sua impresa, per la quale egli partì due giorni dopo la cerimonia. Si addentrò verso sud; in ottobre toccò Ghadames giungendovi da est; da lì scese a sud, poi a ovest e ancora a sudovest, lambendo il massiccio dell’Ahaggar, per arrivare finalmente a Timbuctù il  agosto . Era stato il primo europeo a compiere la traversata da nord a sud del Sahara. Sulla via del ritorno, in fuga dallo sceicco locale che lo voleva morto perché, infedele, aveva contaminato le terre musulmane, venne raggiunto e ucciso, probabilmente il  settembre . La notizia arrivò a Tripoli da Ghadames tramite il console francese; Warrington cercò almeno di recuperare gli appunti di Laing, ma le informazioni giunte dicevano che erano stati distrutti. L’affare divenne causa di gravi turbolenze politiche tra Gran Bretagna, Francia e Tripoli, trasformandosi in una sordida diatriba diplomatica, vero inizio di una guerra fredda fra le Potenze per il controllo dei confini meridionali dell’Africa maghrebina. Così come le sue carte, i resti di Laing non furono mai ritrovati, anche se nel , su indicazione di un arabo ottuagenario, l’esploratore Albert Bonnel de Mezières trovò due scheletri sotto l’albero del villaggio di Sahab,  chilometri a nord di Timbuctù, forse i resti di Lang e di un suo servo. Laing inviava regolarmente lettere al suocero, relazionando sul suo viaggio. Descrisse anche Ghadames, stimandone una circonferenza di quattro miglia e una popolazione di . persone; notò che gli schiavi neri erano trattati bene, godevano di diversi privilegi e con il loro lavoro potevano comperarsi la libertà, valutata  dollari. E non faceva mai mancare qualche riga per Emma. Nella sua ultima, datata  settembre, raccontava della fuga precipitosa, accennava a Timbuctù, si doleva di aver trascurato la giovane sposa: «ho iniziato centinaia di lettere per lei, ma non sono riuscito a finirne una. È sempre in cima ai miei pensieri e non vedo l’ora del nostro incontro, ormai

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prossimo, a Dio piacendo». L’incontro non avvenne mai; nel  Emma venne convinta dal padre a sposarsi con il viceconsole britannico di Bengasi e morì a Pisa sei mesi dopo. Laing affidava le sue lettere, uniche e preziose testimonianze del suo viaggio, alle carovane che incontrava e che passavano per Ghadames, dove venivano scambiate secondo il sistema tradizionale descritto supra e, oltre a tramandare il sapore dell’esplorazione eroica, in questo caso sino al suo tragico epilogo, costituiscono anche un vivido esempio dell’efficacia di quel sistema di corrispondenza. Diciannove mesi dopo il tragico tentativo di Laing il francese René Caillé fu il primo europeo che, giunto a Timbuctù travestito da musulmano, riuscì a tornare . In quegli anni intanto, s’è visto, cambiava profondamente la situazione politica del Maghreb. La Reggenza di Algeri venne presa dalla Francia nel , che la eresse a colonia e manifestò un forte interesse per Ghadames, che aveva ora al confine e che veniva considerata base di partenza per un’espansione economica e politica verso l’Africa centroccidentale subsahariana. La Reggenza di Tunisi rimase autonoma (sarebbe diventata un protettorato francese nel ); Tripoli ritornò sotto il diretto dominio ottomano nel . Da allora gli Ottomani iniziarono la conquista dell’intera Tripolitania, partendo dal Gebel, ovvero l’altopiano del Garian oltre la gefara tripolina, che era in rivolta agli ordini dei capi locali. Le operazioni militari vennero condotte con ferocia, ottenendo la sottomissione del Fezzan e di Ghadames nel ; il primo governatore inviato in città venne però ucciso lungo la strada e fu rimpiazzato da un certo Bukuba, nero, uomo intelligente ed energico che s’installò solidamente nell’oasi, che da allora rimase sotto il diretto dominio ottomano con governatori di rango sempre più elevato e, dagli . Su tutto l’affare: Encyclopaedia britannica, Alexander Gordon Laing; L.–C. F, Annales Tripolitaines, pp. –; T M, Le dernier voyage de Laing de Tripoli à Tombouctou –, Paris, Société Francaise d’Histoire d’Outre–Mer, ; infine E R, Ho visto l’oro di Timbuctù, «La Lettura» ( febbraio ), p. .

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anni Settanta, anche con una guarnigione per la quale, a ridosso dell’oasi, venne costruito un forte, un edificio organizzato in un corpo centrale e due ali laterali circondato da una cortina muraria con camminamenti e garitte sulla sommità. La presa di possesso ottomana della città fu un evento di grande rilevanza dal punto di vista economico, perché si rifletteva sul sistema fiscale, ma anche dal punto di vista sociologico: la città aveva perduto la propria tradizionale indipendenza. La comunità mercantile ghadamesina, intanto, continuava i propri traffici, non solo dalla città. Una sua caratteristica costante sin dall’ultima età medievale, infatti, era la diaspora mercantile. Esponenti delle famiglie mercantili cittadine, s’è visto, si stabilivano nelle principali piazze commerciali con cui intessevano relazioni. Formavano comunità fiorenti e semipermanenti; s’integravano nelle società ove si stabilivano, sposandosi e assumendo nomi locali; ricoprivano ruoli importanti e incarichi di prestigio; poiché parlavano molte lingue (anche a Ghadames si parlavano le principali lingue dell’Africa centrale) agivano come mediatori culturali, di pace e di commercio fra i diversi popoli. «Si va dove c’è il denaro» era un proverbio ghadamesino. Il legame con la città natale era però sempre forte, e in vecchiaia tutti vi ritornavano. Un detto tradizionale ghadamesino era: «raramente qualcuno di noi muore fuori da Ghadames». Nel  Clapperton, della missione Bornu, aveva incontrato tre mercanti ghadamesini a Ghat, e li aveva descritti come tipici rappresentanti della cosmopolita comunità mercantile sahariana, viaggiatrice e ben informata sui fatti del mondo; lo interrogarono sui recenti sviluppi politici nel Mediterraneo. I mercanti ghadamesini erano ben conosciuti nell’Africa subsahariana: le popolazioni hausa dell’area di Kano usavano il termine generico «arabi» per definite le varie genti del Nordafrica che arrivavano nei loro territori per commerciare ma per i Ghadamesini, e solo per loro, utilizzavano il nome più specifico di Adamusawa. Anche nei periodi di declino economico, nei vari empori subsahariani rimanevano comunità stanziali di mercanti ghadamesini, e ancora alla fine del secolo ve ne erano

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nell’Africa sahariana occidentale, a Timbuctù, Arawan, Tuat; a sud in varie località del Bornu; nel Fezzan a Ghat; sulla costa mediterranea a Tripoli e Tunisi . Ritornando in città, il traffico carovaniero transahariano ebbe una notevole crescita nella prima parte del XIX secolo, sia per la nuova dominazione ottomana in Tripolitania, che promosse il traffico fornendo sicurezza, sia per la presa francese di Algeri, che ebbe come conseguenza lo spostamento delle carovane che da Timbuctù un tempo si dirigevano in Algeria e che ora puntavano verso il Marocco a ovest o la Tripolitania a est, per sfuggire alle regolamentazioni doganali attive alla frontiera meridionale dell’Algeria. La via più frequentata divenne quella da Kano a Ghadames via Ghat. E proprio i mercanti ghadamesini erano stati i veri promotori della ripresa economica generale dei primi anni Quaranta, al centro di una vasta rete commerciale che collegava i porti mediterranei dell’intera costa africana settentrionale dall’Algeria all’Egitto con le piazze mercantili dell’Africa subsahariana occidentale, pur senza muoversi più come un tempo. I limiti meridionali dei loro viaggi erano ora Ghat, al massimo Agades (una piccola cittadina sahariana, capitale di una delle federazioni tradizionali tuareg, oggi nel Niger), mentre rimanevano comunità stanziali non infime di mercanti ghadamesini nei vari empori subsahariani. E soprattutto, in quegli anni Ghadames continuava a essere un grande mercato schiavistico. Sono stati stimati  arrivi in media all’anno a Tunisi nella prima metà del XIX secolo, mentre mancano invece stime attendibili del traffico verso Tripoli. Dall’agosto al novembre  risiedette a Ghadames James Richardson, viaggiatore britannico attivista del movimento antischiavista: cercava informazioni sul commercio transahariano di schiavi e non solo. Egli stimò una popolazione di . persone, inclusi  schiavi o stranieri; notò che la città, ove « il commercio è la base della sua celebrità, e i suoi mercanti sono conosciuti in lungo e in largo per tutta l’Africa », sebbene inse. U H, The Dead Ostrich, passim.

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rita nel territorio della confederazione dei Tuareg dell’Azdjer e praticamente senza difesa, era rispettata come entità indipendente, e vi era un rapporto di mutua collaborazione tra i mercanti ghadamesini e i Tuareg, che fornivano guide, cammelli e la necessaria protezione alle carovane, e in cambio erano soci d’affari dei mercanti. I signori del deserto, del resto, non si sarebbero certo trovati bene in un luogo con case alte, vie strette e un’attiva vita cittadina. A dire di Richardson, le rotte fra Timbuctù, Kano e Ghat non erano molto sicure; solo il tratto fra Ghadames e Ghat poteva essere percorso anche da soli con tranquillità. Di norma, racconta, una grande carovana partiva da Ghadames in novembre verso Kano; a Ghat incrociava la carovana verso nord, che portava schiavi, senna e avorio. Egli stimò che la grande carovana annuale portasse fra i  e i mille schiavi, mentre quelle intermedie, più piccole, ne avessero da una quarantina a un centinaio. Gli schiavi venivano convogliati su Tripoli e da lì nel Levante, salvo quelli venduti direttamente a Ghadames per la Tunisia meridionale. Un buono schiavo adulto veniva trattato fra i  e i  dollari, mentre individui meno robusti costavano fra i  e i  (ma per la traversata del deserto occorrevano individui di forte costituzione, che peraltro costavano poco per il mantenimento perché venivano nutriti quasi esclusivamente con datteri). Dopo aver pagato la tassa governativa di  dollari, non rimaneva molto profitto per i mercanti. Il quadro schizzato da Richardson non è florido, e fa comprendere come quel commercio fosse ormai in declino a Ghadames. In effetti, dalla fine degli anni Quaranta il traffico di schiavi decadde, sia per la presenza francese in Algeria (che non permetteva la tratta) sia per l’abolizione di questa anche in Tunisia (sancita nel  ma effettiva solo a Tunisi e nelle aree contermini), che causò la limitazione del traffico alle zone più meridionali dell’Algeria e della Tunisia, fuori dal controllo delle autorità centrali, nonché a Tripoli, dove la domanda era ancora forte. Verso l’entroterra transahariano rimaneva vivo l’interesse britannico, che continuava la politica di Warrington. Nel 

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un viceconsolato britannico venne aperto a Murzuq nel Fezzan, e nel  si decise l’apertura di un altro viceconsolato a Ghadames, che avvenne dopo la fine dell’incarico a Warrington, nel : l’Occidente ritornò così in città. Lo scopo era triplice: lo sviluppo del commercio britannico, il contenimento della sempre più pressante e minacciosa espansione francese e l’abolizione della schiavitù. Richardson aspirava a quel posto, ma il console a Tripoli George Crowe diede un giudizio negativo e l’incarico venne affidato a Charles Hanmer Dickson, figlio di John Dickson, per trent’anni medico dei reggitori di Tripoli e nipote per parte di madre di Warrington. Cresciuto a Tripoli, Charles parlava arabo e turco e aveva già prestato servizio al consolato di Tripoli e al viceconsolato di Bengasi. Quando arrivò in città, Ghadames non era già più quella di un tempo. La forte tassazione ottomana, l’insicurezza delle strade (compresa quella per Tripoli), soprattutto il forte calo se non l’interruzione del commercio di schiavi e infine la perdita di ciò che rimaneva di quel traffico a causa di piccole bande di predoni, erano tutte concause delle gravi difficoltà dei mercanti cittadini; molte famiglie si erano già trasferite in piazze più attive, a Ghat, Tunisi o nel Sudan. Nel  Dickson notava che il prezzo degli schiavi era di – dollari per un maschio, – per una femmina, molto meno che a Murzuq; notava anche (ma forse era solo un’illusione) che cominciava nei trafficanti di schiavi una sorta di coscienza, e quindi repulsione, morale. Secondo i suoi rapporti, il traffico annuale di schiavi per Ghadames fra il  e il  era rispettivamente di , ,  (stima), ,  (stima), ,  individui, per un totale di . e una media annua di  uomini o donne. In quegli stessi anni il traffico da Murzuq (poi verso Tripoli, Bengasi o l’Egitto) era cinque volte tanto. Dopo l’abolizione della tratta in Algeria e Tunisia (dove divenne effettiva in tutta la Reggenza solo con il protettorato francese nel ) questa venne finalmente decretata dalla Porta a Tripoli (e a Bengasi e in Egitto) nel , su pressione della Gran Bretagna, che le era alleata nella guerra di Crimea. Le

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azioni europee per l’abolizione della tratta erano mosse dal rigore morale e dalla convinzione ideologica che la fine della tratta nel Sahara avrebbe incoraggiato il commercio legittimo e portato pace e prosperità, ma il risultato effettivo fu invece molto diverso, perché la fine della tratta portò alla rovina il fragile sistema sahariano di scambi e le economie e le comunità che vi dipendevano. In effetti, già verso la fine degli anni Quaranta gli investimenti dei mercanti ghadamesini nel traffico schiavistico erano calati da un terzo a un quarto dei loro capitali. Nel frattempo, i mutati interessi politici e indirizzi strategici britannici (l’approccio sahariano all’Africa interna venne abbandonato per concentrarsi sul grande potenziale del sistema fluviale del Niger) portarono alla chiusura dei due consolati di Ghadames e Murzuq, rispettivamente nel  e nel  . Il costante aumento della pressione europea, ideale e coloniale, determinò quindi un rapido cambiamento politico ed economico, che avrebbe potuto distruggere la tradizionale economia ghadamesina. Come reagirono i quei mercanti? In modo ammirevole, grazie alla loro capacità commerciale e alla combinazione fra intraprendenza, pazienza, resistenza e intelligenza, insomma alla loro resilienza. Altre loro doti, riconosciute anche dagli Europei, erano l’affidabilità e l’onestà, che derivavano dalla loro appartenenza alla Senussìa, una rigorosa confraternita religiosa sorta in Cirenaica. Per secoli erano stati abituati ad agire in modo pragmatico, accettando compromessi politici per i propri interessi economici, e anche negli anni Cinquanta . Per i temi trattati in questo paragrafo, vedi G. L, On Trans–Saharan Trails, passim; U H, The Dead Ostrich, passim. Il saggio dello studioso tedesco, di ampio respiro, si basa sull’analisi di un corpus di  documenti ottocenteschi (lettere, note di carico, registri di carico, e simili) scoperti in una casa ghadamesina dell’eminente famiglia berbera degli Yusha, relativi ai loro traffici e pubblicati da uno studioso locale membro della famiglia; l’esame di questo corpus ha permesso all’autore, conscio ed emozionato del privilegio, di «essere ammesso in un mondo chiuso, personale e privato» di una società chiusa all’osservazione esterna. Infine J. W, The Trans–Saharan Slave Trade. Nell’opera, che tratta di una vasta area geografica ed è corredata da un ricco elenco di fonti e bibliografia, è particolarmente d’interesse il capitolo The slave trade through Ghadames and Ghat, pp. –.

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riuscirono ad adattarsi e a riconvertirsi, integrandosi in un’area economica maggiore alla periferia del sistema europeo. Da un lato iniziarono a cooperare in maniera più incisiva con le reti commerciali e finanziarie d’imprenditori ebrei che collegavano l’Europa (soprattutto Malta e Livorno) con Timbuctù, il Nordafrica e il Levante, ampliando il loro spazio economico ma senza ottenere reali benefici; dall’altro, si volsero al traffico di altri beni di consumo. I prodotti inviati al sud erano cotoni britannici, contarie, seta grezza tinta, fez, burnus e barracani (capi d’abbigliamento tradizionali), tappeti, lame, aghi, fusciacche rosse. Verso nord (nell’Europa in espansione economica di quegli anni vi era forte domanda di molti generi di consumo) andavano cera d’api, pelli, senna, incenso (da Timbuctù); oro in polvere e in lingotti; zebed, ovvero secrezioni animali usate in profumeria; vistoso cotone colorato; pelli ricamate in seta in diversi colori (per cui Ghadames era famosa nel mondo musulmano sin dal Medioevo) e soprattutto avorio, di cui transitavano per la città  tonnellate l’anno, e piume di struzzo. In questo modo, negli anni Cinquanta, Ghadames riuscì a rimanere attiva e importante nel contesto economico sahariano, anche nell’ambito dell’ormai fiorente commercio globale del tempo era diventata una piazza di modesto interesse. Nel  le tasse della città fruttavano . sterline all’anno; nel  l’importo era ridotto a . sterline . Un esempio, interessante anche per un aspetto particolare, è la storia del mercante Isa. Isa bin H.mida bin Muh.ammad bin Musa bin Muizz al–Shawani al–Ghadamisi, ghadamesino (ma forse di famiglia di origine dal villaggio di Shawa,  km. a nordest di Ghadames, come suggerisce « al–Shawani »), era il capo di una compagnia mercantile a base famigliare che commerciava con la valle del Niger. Negli anni Cinquanta aveva aperto una filiale a Timbuctù: inviava sale, tabacco e tessuti e riceveva oro, alimenti (miele, farina di baobab, tamarindo, . Questi temi sono stati trattati soprattutto da U H, The Dead Ostrich, passim.

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grano, burro di Galam, ovvero una sostanza grassa simile al burro ricavata dai semi di un albero), tessuti, piume di struzzo, noci di cola (un albero delle foreste tropicali africane) e schiavi; come mezzi di pagamento usava oro e conchiglie (la ciprea venne usata in tutta l’Africa centrale subsahariana, nel Fezzan e a Ghadames sino al XIX secolo). La sua attività è nota perché si è conservato un corpus di dieci lettere scambiate tra Isa (o qualcuno della sua azienda) e due suoi agenti, che trattavano di questioni di conti e di mercato. I due agenti erano due suoi schiavi, Sanbu Isa e Anjay Isa, musulmani e alfabetizzati, con un ruolo di rilievo come agenti commerciali, un rapporto di rispetto e di confidenza reciproci con Isa e uno status personale relativamente autonomo; a Timbuctù avevano moglie . Negli anni Cinquanta, e ancor più nel decennio successivo, il prodotto di lusso più apprezzato in Europa erano le piume di struzzo, usate in grande quantità per la moda femminile, nei cappelli, nelle uniformi di gala e in altre tenute. Tra il  e il , il prezzo pagato a Tripoli dai mercanti europei per le piume di struzzo aumentò quindici volte, con un picco nel ; la moda europea delle piume di struzzo salvò dal crollo il commercio transahariano negli anni Sessanta. All’inizio degli Ottanta, però, a Londra, Parigi e Vienna il gusto e la moda cambiarono, e il prezzo delle piume di struzzo crollò. Non fu la sola causa, ma per Ghadames iniziò una fase depressiva. Le merci cominciarono a rimanere invendute, a parte l’avorio . Le lettere furono scritte direttamente dai due schiavi o con l’intermediazione di scribi professionisti, che non mancavano a Timbuctù. Una partì da Ghat, le altre da Timbuctù o altre città commerciali dell’ansa del Niger. Furono scritte tra il  e il , un periodo di declino economico e d’instabilità politica per le lotte fra diverse forze locali e gli arabofoni, che cessarono solo con la presa di possesso francese e l’effettivo dominio del territorio, nell’ultimo decennio del secolo. Il corpus è una fonte preziosa non solo per la storia della mercatura ghadamesina, ma anche per quella della schiavitù in Africa. È conservato presso l’Istituto di studi superiori e di ricerche islamiche Ahmad Baba di Timbuctù (I) ed è stato pubblicato da B S. H – Y D A, The Arabic Letters of Ghadames Slaves in the Niger Bend, in African Voices on Slavery and the Slave Trade, , The Sources, Alice Bellagamba – Sandra E. Greene – Martin A. Klein, eds, New York, Cambridge University Press, , pp. –. I conserva anche altre lettere di schiavi.

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che continuava a vendersi bene (ma anche a esaurirsi). D’altro canto, aumentavano le tasse, e la Porta rifiutava di adattarle alla nuova situazione economica; i prezzi salirono e ciò portò a una prima emigrazione da Ghadames verso Tunisi. Quella capitale, che nei secoli era stata uno dei punti di riferimento dell’oasi, attirava i giovani, che vi andavano a studiare: un detto tradizionale diceva « si nasce a Ghadames, si è educati a Tunisi » . In questo scorcio di anni la regione di Ghadames, che come s’è visto era stata frequentata da diversi viaggiatori europei (e non sono stati citati tutti) divenne insicura per gli occidentali. Nel , proveniente dalla carriera amministrativa francese divenne console di Francia a Tripoli Charles Laurent Féraud, arabista e già conoscitore della Tripolitania. Grazie alla sua conoscenza della lingua, dei luoghi e dei costumi, egli poté crearsi una rete d’informatori locali. A Ghadames il suo uomo era un tal El–Hadj Tahar el Ba Sidi, affiliato all’ordine sufi Tidjani (fondato da Ahmad Al Tidjani e favorevole ai francesi) che era in ottime relazioni con diversi capi tuareg. Grazie ai suoi contatti, Féraud preparò il terreno alla missione Flatters. Paul François Xavier Flatters (nato a Laval, Francia, nel ) era un militare francese che aveva percorso quasi tutta la propria carriera in Algeria. Nel , come tenente colonnello, venne incaricato di studiare il modo di collegare l’Algeria al Mali con ferrovia, e nel  partì per una missione ricognitiva del percorso che durò diversi mesi. Féraud lo aveva informato delle relazioni che, tramite il suo uomo a Ghadames, aveva con i capi tuareg dei territori che Flatters avrebbe attraversato; egli avrebbe potuto «con tutta tranquillità servirsi dell’intermediazione di Tahar per mandarmi notizie». Per quanto riguarda le comunicazioni, Féraud inviò anche a Parigi un rapporto più dettagliato: Le relazioni tra i Tuareg e Ghadames sono giornaliere e le lettere possono tranquillamente essere spedite all’interno con il loro tramite. Da Ghadames a Tripoli le carovane sono frequenti. El–Hadj . Anche questi temi sono stati trattati soprattutto da U H, The Dead Ostrich, passim.

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Bruno Crevato–Selvaggi Tahar el Ba Sidi è un cittadino eminente di quella città e i seguenti notabili tuareg sono suoi amici: a questi i viaggiatori potranno rivolgersi per inviare a Tripoli i loro rapporti (segue un elenco di sei nomi presso i Tuareg dell’Azdjer e tre presso i Tuareg dell’Hoggar). Da Tripoli a Ghadames io potrò spedire le comunicazioni per i nostri viaggiatori, quando saranno arrivati dai Tuareg.

La missione Flatters raggiunse Ghadames e da lì, con stupore di Féraud, anziché puntare a sud verso il Mali, si diresse a Ghat. La missione aveva forse anche lo scopo segreto (questo il sospetto che nacque) di assicurare un certo controllo francese su quelle due importanti oasi; la Francia aveva da tempo, infatti, un atteggiamento ambiguo e un malcelato interesse su quei centri carovanieri e commerciali. Nel frattempo, nell’interno della Tripolitania era scoppiata una rivolta araba contro la dominazione turca; alcune carovane furono catturate, anche i Tuareg erano in subbuglio. Flatters era partito per una seconda missione e Féraud era preoccupato, perché il colonnello stava entrando in territorio in rivolta. Inviò lettere d’avvertimento a Flatters e lettere ai capi tuareg dell’Hoggar — assicurando sulle intenzioni pacifiche della missione francese — inoltrate per la via di Ghadames e previste a destino entro  giorni. Fu inutile: il  febbraio  Flatters e quasi tutta la sua spedizione furono uccisi dai Tuareg ostili . Non era stato l’unico assassinio di quegli anni. Altri viaggiatori europei vennero uccisi per ragioni probabilmente commerciali; nel  nei pressi di Ghadames erano stati assassinati tre missionari francesi che, pare, avevano acquistato una certa influenza in città. Questi episodi fecero sì che Ghadames diventasse una sorta di “città proibita” per gli Europei, che per un trentennio non vi misero più piede: Ghadames era rientrata completamente in Oriente. Negli anni Ottanta un certo traffico carovaniero continuava e il commercio continuava a essere la sola fonte di reddito . Su tutta la questione: M A. E W, Charles Féraud et la Lybie, ou Portrait d’un Consul de France à Tripoli au XIXme siècle (–), Tripoli, Dar Al Farjani, , pp. –.

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per la città, senza però prospettive e possibilità d’investimento. Secondo un viaggiatore dell’epoca, a Ghadames « si poteva solo spendere e non guadagnare ». Ma le entrate venivano più che altro dalla vendita di pochi prodotti alimentari: meloni, datteri, cereali, olio, pomodori, zucchero, erbe medicinali. Nel  il panorama di Ghadames era di povertà diffusa. I mercanti continuavano a cercare di fare del loro meglio, continuando i traffici fra i poli tradizionali e importando dall’Europa — oltre ai prodotti consueti — beni da rivendere a caro prezzo nell’Africa centrale, come rivoltelle a sei colpi, tè e spezie, metallurgia sofisticata. Ma cominciavano a mancare i prodotti più richiesti da inviare in Europa: l’avorio soffriva della caccia spietata agli elefanti; Timbuctù non inviava più oro; le piume di struzzo, nonostante tutto ancora richieste, soffrivano la concorrenza degli allevamenti sudafricani. I mercanti si modernizzarono usando il telegrafo che il governo aveva da poco installato, e il vapore da Tripoli che svolgeva cabotaggio costiero. Non si poteva però modernizzare il sistema carovaniero, che aveva servito Ghadames per più di un millennio ma che ora mostrava tutti i limiti di efficienza per sostenere i flussi di traffico richiesti da un mercato globale sempre più in espansione. Dagli anni Ottanta la Francia aveva cominciato a costruire ferrovie nell’Africa subsahariana occidentale verso la costa atlantica, e gli invii via ferrovia e poi vapore in Europa erano più veloci e con ben più elevate capacità di carico: un solo treno poteva trasportare tutto il traffico carovaniero di un anno. Il declino era ormai inarrestabile; la crisi generale del commercio sahariano si consumò alla fine del secolo. L’atteggiamento dei Ghadamesini passò dalla curiosa e partecipe osservazione delle attività coloniali europee a un’insicurezza diffusa, sino alla completa rassegnazione. La parola usata per “abbondanza”, “ricchezza”, che prima aveva un significato materiale, verso la fine del secolo sembra diventare immateriale ed enfatizzare la transitorietà e la vanità. Ghadames, secondo il condivisibile giudizio di Harmann, è anche un paradigma per

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il processo di soggezione dei territori islamici alle potenze coloniali. Per i Ghadamesini, l’antidoto contro l’avanzata europea si doveva cercare nella propria fede e nella propria cultura, ma evidentemente l’ancestrale bagaglio di questa cultura non era sufficiente; l’ideale e la realtà islamica non erano più tra loro in sintonia. Scriveva un mercante ghadamesino nel : « possa Dio aiutarci nella liberazione dei credenti, Dio il cui cuore è stato sino a questo momento tenero con noi ». Il collasso finale, all’alba del Novecento, lasciò Ghadames (e gli altri centri sahariani) privi della loro tradizionale attività. Molta parte della popolazione emigrò, dirigendosi a Tunisi (soprattutto gli anziani), a Tripoli (i giovani), o in Siria, in Egitto, in Turchia, con un flusso costante che durò anche nel nuovo secolo . Non era più la diaspora commerciale e l’espansione dell’area economica della città, ma un’emigrazione per necessità; Ghadames non era più uno dei centri di un’area economica integrata dall’Europa all’area del Niger, ma sotto la spinta della modernità che aveva cercato di raggiungere ma non aveva saputo interpretare era collassata in un piccolo villaggio agricolo e artigianale. L’Occidente aveva lasciato ancora una volta un segno profondo nella città. E cercava spazio anche l’espansionismo francese verso Ghadames, o almeno così si temeva a Tripoli, per cui dalla fine dell’Ottocento il compito principale della guarnigione ottomana a Ghadames fu il pattugliamento del deserto. Il  maggio  venne siglato un accordo che tracciò sulla carta la frontiera fra Tunisia e Tripolitania dal mare a Ghadames, ma ancora nel dicembre di quell’anno vi fu un lieve incidente di frontiera con i francesi. Nel febbraio  partì una missione francese per la delimitazione sul terreno dei confini fra la Tunisia e la Tripolitania, in vista dell’ormai prossima guerra italiana di conquista. La missione francese era incaricata anche, se non . Anche questi temi sono stati trattati soprattutto da Ulrich H, The Dead Ostrich, passim, che — come per i paragrafi precedenti — li ha rilevati (soprattutto gli aspetti emozionali e attitudinali dei mercanti di Ghadames) grazie al corpus documentale sopra citato.

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di realizzare l’antico sogno di acquisire Ghadames, almeno di riprendere i contatti commerciali, da tempo interrotti, come s’è visto. Nonostante la decadenza, Ghadames conservava intatto il suo fascino per gli Europei. « Ghadames! Che fascino ha esercitato questo nome in tutti quelli che hanno vissuto nel sud dell’Algeria e della Tunisia ». Così Léon Pervinquière, geologo dell’amministrazione coloniale francese, aggregato a quella missione, l’ultimo viaggiatore che descrisse la città prima dell’età coloniale. Bella la sua descrizione della città: Per il viaggiatore che arriva da nord, Ghadames appare dapprima come una stretta striscia d’un verde nerastro ai piedi di un leggero rialzamento del terreno; a destra della pista, qualche collina color ruggine dalla sommità piatta; a sinistra, un pan di zucchero, il Ras Ghadamsi dove staziona in permanenza una vedetta per segnalare l’arrivo dei predoni del deserto e dare l’allarme. Più da vicino, si distingue una lunga muraglia grigia, da cui spuntano le garzette delle palme. Il contrasto è forte tra il verde brillante del palmeto e il colore opaco e scuro della piana intorno alla città, tra la ricca vegetazione dell’oasi e l’assoluta sterilità dei dintorni. I giardini, come la città, sono circondati da una cortina muraria con qualche torretta; per il Sahara, è una protezione efficace.

Egli stimò  o . abitanti in città, più un migliaio della diaspora. In fresche pagine, tracciò un vivido quadro della vita quotidiana in città, con le capre in libertà per le vie che di fatto svolgevano un ruolo di nettezza urbana; i bambini che andavano a scuola per quasi tutto il giorno; le donne tuareg e nere che discutevano; i concertini la sera; i cumuli d’immondizia sparsi all’interno e all’esterno; il mercato, che il venerdì era ancora un crogiolo di diverse genti africane; le modalità d’acquisto delle merci dei grandi mercanti con le contrattazioni; gli interni delle case; la diffidenza di molti notabili e della popolazione; i belli spiriti di altri notabili con cui riusciva a conversare e ad avere qualche informazione; l’abbigliamento; l’alimentazione (couscous e altri piatti arabi, poca carne, grano e datteri; tè più che caffè). Gli animali presenti: cammelli, asini, capre, pochi cavalli, pochi gatti, molti topi (mangiati dai locali), diverse va-

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rietà di uccelli e di rettili (anch’essi mangiati). Descrisse anche i giardini e i palmeti. Enumerò le diverse qualità di datteri e gli altri alberi da frutto presenti nell’oasi: mandorli, fichi, aranci, peschi, melograni, tutti non in grande quantità. Le verdure coltivate: cipolle, melanzane, fave, pomodori, aglio, spinaci, rape, peperoni, infine meloni e angurie. I cereali: grano, miglio, sorgo, mais, orzo. Desolante però il suo quadro delle aree coltivate; all’interno della cerchia muraria vi erano – ettari ancora coltivati, ma un’altra cinquantina erano abbandonati, con i resti dei giardini, qualche muro, tronchi di palma spezzati. Egli s’interrogava sulla causa di questo abbandono che, a suo parere, non stava nella carenza d’acqua (registrato all’epoca). Piuttosto, il fenomeno pareva coincidere con l’arrivo ottomano, e la forte tassazione introdotta poteva essere una spiegazione: i cittadini avevano interesse a non parere ricchi. Ma la causa principale doveva essere, a suo parere, la fine della tratta, e quindi della manodopera schiavile. I Ghadamesini non coltivavano, e ancora all’epoca gli unici coltivatori che si trovavano erano neri: ma erano pochi ed era necessario pagarli. Pervinquière descrisse nel dettaglio anche l’amministrazione cittadina: già in mano al notabilato locale secondo il sistema tradizionale maghrebino, era stata riformata dagli Ottomani, con un Consiglio municipale di cinque imperiali e quattro Ghadamesini, al cui capo vi era il kaimakan ottomano; le tradizionali strutture di gestione urbana dei notabili locali parevano però perdurare e sovrapporsi alla riformata gestione ottomana . . L P, La Tripolitaine interdite. Ghadamès, Paris, Hachette, , pp. – (Chapitre III. Ghadames, la cité mystérieuse) e passim. Le citazioni si trovano rispettivamente alle pp.  e – (traduzioni dell’autore). Inoltre N L, Ghadames cité–oasis entre Empire ottoman et colonisation, in La Libia tra Mediterraneo e mondo islamico. Atti del Convegno. Catania, Facoltà Scienze Politiche, – dicembre . Aggiornamenti e approfondimenti, a cura di Federico Cresti, , pp. –, che utilizza e discute il testo di Pervinquière. Riguardo alla persistenza delle strutture gestionali tradizionali la studiosa, specialista di storia urbana del Maghreb, osserva che «al momento del passaggio sotto la tutela coloniale italiana Ghadames era quasi già perduta per gli Ottomani, come dimostra, più che la consistenza o meno della guarnigione, la difficoltà di pesare sull’amministrazione cittadina. Le strutture tradizionali non

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Infine, l’analisi di Pervinquière del commercio ghadamesino ne conferma la mediocrità all’alba del Novecento. L’oasi non riusciva a nutrire tutti, e molti emigravano. La povertà era diffusa; la maggior parte delle famiglie economizzava al massimo per non morire di fame; non rimanevano più che una decina di famiglie ricche, che praticavano ancora il commercio a lunga distanza, ma non trattavano direttamente le merci, e spesso le carovane non passavano nemmeno più per Ghadames. Per costoro continuava a sussistere la rete della diaspora: uno dei pochi mercanti ancora ricchi, El Hadj Ali bin Ahmed, aveva un fratello a Tripoli, un figlio a Ghat, un genero a Tuat, un altro genero e quattro altri rappresentanti a Timbuctù e nell’Africa subsahariana. Il commercio, comunque, era mal organizzato; anzi, era «nel marasma», e i margini di guadagno erano molto ridotti. Un traffico carovaniero di piccolo cabotaggio esisteva ancora, ma si trattava di piccole carovane di venti o trenta cammelli e serviva soprattutto a rifornire la città di derrate alimentari. E se il commercio era mediocre, ancora di più lo era l’artigianato, che ormai produceva un solo prodotto: le colorate pantofole ricamate di Ghadames con la punta all’insù . Ristretta nel proprio spazio economico, impoverita, ridotta da centro di grande commercio intercontinentale a villaggio agricolo e artigianale, tenacemente attaccata al proprio passato, rassegnata ma ancora con sprazzi di vitalità, è questa la Ghadames del , nel momento di un altro passaggio cruciale della sua lunga storia.

erano state cancellate, i mercanti non avevano perduto le loro prerogative». . L P, La Tripolitaine interdite. Ghadamès, pp. – e passim. Degna di nota la notizia che nel  al Congresso geografico di Roubaix era stato espresso il voto per una ferrovia transahariana da Bizerta in Tunisia a Libreville nell’Africa equatoriale francese (oggi è la capitale del Gabon) via Ghadames, ma il progetto non ebbe seguito.

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. Ghadames italiana Dagli anni Ottanta dell’Ottocento era iniziato anche l’interesse italiano sulla Tripolitania e la Cirenaica, che si affiancava a quello francese. Ma non val la pena ripercorrerlo qui; le premesse politiche e le vicende militari della conquista italiana della Libia sono ben note. Basterà quindi ricordare che la guerra italo–turca per la Tripolitania e la Cirenaica iniziò il  settembre  e terminò a dicembre dell’anno successivo, anche se l’effettiva presa del possesso del territorio, e soprattutto la sua pacificazione, avvennero ben più tardi. Truppe italiane entrarono a Ghadames il  aprile  e vi rimase una guarnigione permanente, che però — nell’ambito della situazione politico–militare del momento, che vide l’abbandono delle località dell’interno per la rivolta araba — si ritirò dall’area il  novembre . Ritornò il  febbraio , ma sgomberò nuovamente il  luglio dello stesso anno. Ghadames ritornò ancora una volta autonoma, continuando le proprie attività tradizionali. Nel  iniziarono le operazioni italiane di ripresa di controllo del territorio; agli inizi del  era stato ormai ripreso e presidiato l’altopiano del Garian, e il governo spingeva per la rioccupazione di Ghadames, al fine di fissare definitivamente il confine con la Tunisia francese. Diverse pattuglie ricognivano il territorio a sud di Nalut; vennero avviati contatti politici e si formò una colonna agli ordini del maggiore Volpini, che occupò Sinauen il  febbraio, Derg il  (ci fu un breve scontro) e Ghadames il  febbraio  . Nei primi momenti, quando esisteva solo la città nell’oasi e il forte già ottomano, sede della guarnigione e dell’amministrazione italiana, Ghadames era ancora un luogo ben poco noto per gli italiani, che colpiva l’immaginazione per l’esotismo e affascinava per le suggestioni tradizionali e orientali. Ne è esem. La letteratura sul periodo coloniale è vasta. Qui scelgo una fonte coeva, agiografica ma puntuale dal punto di vista della cronaca: La nuova Italia d’oltremare, a cura di Angelo Piccioli, Milano, Mondadori, , vol. I, pp. –.

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pio questa composizione dello scrittore Raffaele Calzini, che raggiunse la città nel febbraio  con un raid automobilistico: Ghadames. Turchese pallida incastonata al centro di un bacino di rame, perla bianchissima abbandonata in una sosta di carovaniere, silenziosa oasi che ridoni vita e la speranza col canto delle tortorelle e con lo sciacquìo dell’acqua attinta dagli schiavi alle scroscianti toralat, paradiso contro cui flottano le ondate nere dello sconfinato Fezzan e del Kawar misterioso; per le alte mura che nascondono il tuo volto come la zmala che copre il volto dei Tuaregh erranti, per le tue fresche strade sotterranee in cui sfilano i Gadamesini furbi e loquaci, per i tuoi giardini fruttiferi intiepiditi dall’acqua dei rigagnoli, per la tua zavia senussita sulle cui merlature gorgheggia il marabuttino bianco–nero usignolo dei crepuscoli africani, per le terrazze merlate delle tue case dove le donne cantano, cantano, cantano, accompagnandosi col suono del tekellatin e solcano il buio della notte con grida spasimanti che illuminano simili alle stelle cadenti; poiché non ti posso dare la polvere d’oro, che Timbuctù ti dava, il profumo degli aromi mescolati nel bekur che Ghat ti mandava, l’avorio e le piume di struzzo che ti arrivavano a carovane dal Sudan, la giovinezza degli schiavi, che il kurbasc dei negrieri guidava alle tue porte, ai tuoi mercati, ai tuoi fonduchi, Ghadames, città moribonda che il deserto e la civiltà assaltano anno per anno e sgretoleranno fra poco, Ghadames, il tuo stesso nome — qui sostammo ieri — ti colloca nel pensiero ogni giorno, Ghadames, regina spodestata, l’ultima nostalgia africana del pellegrino romeo è per te . . R C, Da Leptis Magna a Gadames, Milano, Treves, . Raffaele Calzini fu giornalista e scrittore di tono dannunziano; viaggiò molto e scrisse numerosi libri di viaggio (A B, Raffaele Calzini, in Enciclopedia italiana, I Appendice, Roma ). Le toralat sono le fontanelle d’acqua in città; il Kawar è una grande oasi nel Teneré, una regione desertica del Sahara meridionale da dove, secondo la leggenda, era giunto a Ghadames il conquistatore Sidi Ocba Ben Nafa dopo aver combattuto e vinto le tribù locali. La zmala è il telo usato dai Tuareg. La zavia senussita era la sede locale della Senussia, una confraternita religiosa sorta in Cirenaica, diffusa anche in Tripolitania e in particolare a Ghadames. Il marabutto era una tomba o un cenotafio di un uomo molto pio ricordato dopo la morte. Il tekellatin è uno strumento musicale. Il bekur è una pasta composta da cera, pece, incenso e piante aromatiche, che si mette su un piccolo braciere per profumare l’aria. Il kurbasc era la frusta di nerbo usata dai negrieri. Il fonduco, o funduk, il ricovero dei viaggiatori.

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All’epoca la città contava circa . abitanti, di cui però molti ancora diffusi nella diaspora commerciale, non ancora sopita. Al di fuori dell’oasi l’Italia costruì pochi edifici: l’aeroporto, una palazzina commerciale, un posto di ristoro e l’ufficio postale, aperto il  novembre . Nei primi tempi il servizio di trasporto postale fra Ghadames e Nalut (dove arrivava la corriera da Tripoli) si svolgeva su dromedario, l’ultimo respiro delle carovane. Il forte già ottomano divenne sede militare e amministrativa italiana; ora ospita il locale museo. La città si era integrata nel duttile sistema coloniale italiano ed era ritornata pienamente in Occidente, dedicandosi all’agricoltura, all’artigianato, al piccolo commercio e a una nuova fonte di reddito: il turismo, destino di diverse città con un presente più misero del proprio grande passato. Negli anni Trenta la città divenne infatti un centro turistico rinomato; il percorso turistico usuale ripercorreva quello tradizionale delle carovane con sosta a Nalut, nel bell’albergo in stile razionalista costruito dall’architetto (che molto operò nelle colonie italiane) Florestano Di Fausto. In città venne edificato l’albergo Ain el Faras di fronte all’omonima fonte. Bell’esempio di architettura in stile razionalista adattato alle suggestioni arabe, si sviluppava su quattro lati intorno ad un ombreggiato patio centrale. L’ala d’ingresso, con l’accettazione e il bar, era decorata con mosaici a piastrella e affreschi con scene di fantasie arabe in stile novecentista. Il  novembre  Benito Mussolini, Capo del governo, sollevò Italo Balbo da ministro dell’aeronautica per designarlo Governatore della Tripolitania e della Cirenaica, le due colonie mediterranee italiane. Balbo, nato a Quartesana in provincia di Ferrara nel , aveva aderito giovanissimo al fascismo, era stato caposquadrista nel ferrarese, poi quadrumviro della rivoluzione; aveva fattivamente contribuito al consolidamento del potere fascista; nel novembre  Mussolini, titolare del ministero dell’aeronautica, lo aveva designato sottosegretario con funzioni di ministro, e tre anni dopo lo aveva promosso ministro. Come ministro dell’aeronautica, Balbo aveva portato profonde innovazioni nell’organizzazione (capacità nella quale eccelleva) e aveva guidato alcune spettacolari crociere aree in formazione nel Mediterraneo

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e in Atlantico, in un’epoca in cui queste imprese erano temerarie e dall’esito incerto. L’ultima, la Crociera aerea del decennale (° luglio –  agosto ) da Orbetello a Chicago e ritorno, aveva avuto una straordinaria risonanza internazionale e altrettanta popolarità per l’aviazione italiana e per lui personalmente. Al culmine del proprio prestigio aeronautico e personale, Balbo venne sostituito al ministero. Si è parlato dell’invidia di Mussolini per la popolarità del quadrumviro e del carattere punitivo del provvedimento, che rientrava invece nella logica e nella prassi del capo di governo, che ogni tre o quattro anni sostituiva regolarmente i propri principali collaboratori; e il governatorato a Tripoli era una carica prestigiosa. Il  gennaio  Balbo giunse in quella che avrebbe trasformato in una splendida capitale, Tarabulus Al Baydà, Tripoli la bianca, la « bianca sposa del Mediterraneo ». Non si discuterà qui della sua politica coloniale (l’unificazione delle due colonie, la creazione delle quattro provincie, la colonizzazione e i villaggi di fondazione, le organizzazioni politiche, l’atteggiamento verso gli ebrei libici, il ruolo militare sino all’abbattimento del suo aereo nei primi giorni di guerra a causa del fuoco amico), ma solo del suo legame personale con Ghadames. Il luogo gli si confaceva e lo attraeva: è rilevabile soprattutto da testimonianze locali che nei fine settimana, libero da impegni di governo, spesso andava a Ghadames pilotando egli stesso il proprio apparecchio. Soggiornava nel grande edificio, di una certa solennità, che affaccia su una piazzetta scoperta a fianco dei giardini e adibito a palazzina governatoriale, già sede della missione ottomana: una casa merita una menzione speciale: è la più recente e senza dubbio la più importante di Ghadames. A fianco dei giardini, ha l’aspetto di una fortezza, ma in realtà è un funduk, cioè una sorta di caravanserraglio e magazzino merci, costruito sul bordo occidentale dell’oasi da El Habib, uno dei grandi commercianti di Ghadames. Lì era alloggiata la missione ottomana. . L. P, La Tripolitaine interdite. Ghadamès, p.  (traduzione dell’autore). In anni recenti l’edificio era stato restaurato e adibito (almeno sino al )

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Balbo diede anche impulso all’attività edilizia immediatamente al di fuori della città storica, facendo realizzare alcuni edifici in stile razionalista, e fece aumentare la portata dell’acqua della fonte grazie allo scavo di un nuovo pozzo artesiano profondo  metri, che permise l’allargamento dell’oasi e la messa a coltura di nuovi terreni . L’altro legame, naturalmente, era frutto solo di uno scherzo del caso ma suggestivo: Italo portava lo stesso nome di Cornelio, il proconsole romano che aveva portato per la prima volta l’Occidente nell’oasi, . anni prima. Vi si svolgevano anche manifestazioni, tra cui il Circuito aereo delle oasi, la cui prima edizione è del  . Nel  risiedevano in città una quarantina d’italiani.

a sede del gruppo di lavoro internazionale, cui partecipava anche una missione italiana, che si occupava della tutela e del restauro della città storica. . Oltre agli scritti più apologetici, divulgativi o d’occasione, sono disponibili essenzialmente due biografie di Italo Balbo. A carattere rigorosamente scientifico quella di G R, Italo Balbo. Lo squadrista, l’aviatore, il gerarca, Torino, Utet, ; inoltre G B G, Italo Balbo, Milano, Vallardi, , poi Milano, Bompiani, . . All’inizio dell’anno era sorta l’idea di una competizione aerea in Tripolitania per l’aviazione turistica, allora agli albori e del tutto assente in Libia. Venne quindi organizzato un circuito aereo che avrebbe toccato località dell’interno e della costa, chiamato Circuito delle palme, anche se poi fu più conosciuto con il nome di Circuito delle oasi. Si trattava di una gara di regolarità e velocità per aviatori civili che prevedeva, secondo le modalità dell’epoca, partenze cadenzate, lanci di messaggi in punti prefissati lungo il percorso per confermare il passaggio e atterraggi e decolli in campi intermedi. Vinceva chi compiva l’intero percorso, con regolarità di lanci e di atterraggi, nel minor tempo. La partenza della prima edizione venne fissata per il  maggio , ma venne rinviata al  per il forte ghibli che spirava: il vento del deserto riempiva ogni cosa di sabbia che ostruiva i motori e impediva la visuale. Calmatosi il vento, partì la prima tappa: venti apparecchi volarono da Tripoli a Ghadames, con un lancio di messaggio ad Azizia (dove finisce, verso sud, la grande oasi di Tripoli) un atterraggio a Nalut, un altro lancio nell’oasi di Sinauen e un secondo atterraggio a Derg, l’ultima oasi prima di Ghadames. La tappa si svolse regolarmente, anche se fra Nalut e Sinauen gli aviatori incontrarono una tempesta di sabbia. Le tappe successive videro ritardi per le avverse condizioni meteorologiche, ma alla fine portarono i concorrenti a Homs e Tripoli, dove giunsero il  maggio.

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. Guerra e dopoguerra a Ghadames Il  giugno  l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania contro Francia e Gran Bretagna, e l’Africa settentrionale divenne uno dei principali teatri di guerra. I combattimenti si svilupparono soprattutto sul fronte orientale fra le armate italo–tedesche e quelle britanniche, ma anche la Francia vi ebbe un ruolo. Sin dalla fine del  le forze della «Francia libera» del generale De Gaulle si erano organizzate nelle colonie francesi del Ciad, Camerun, Congo e Gabon; comandante militare del Ciad era il colonnello Leclerc, che iniziò ben presto una serie di azioni di disturbo contro i presidi italiani in Libia. Nel marzo  conquistò l’oasi di Cufra, nel deserto orientale della colonia, e alla fine del , quando le forze italo–tedesche che difendevano la Libia erano in ritirata dalla Cirenaica e dalla Sirtica verso Tripoli, Leclerc iniziò da sud l’occupazione del Fezzan. Conquistata la regione puntò verso Ghadames, ove entrò la sera del  gennaio  . Per preparare l’occupazione, l’ gennaio  una squadra aerea franco–statunitense di  bombardieri partì dalla propria base algerina a bombardare la cittadina. L’obiettivo era il forte sede della guarnigione italiana,  metri a sud della città, ma le bombe (. chili) caddero fuori bersaglio, non centrando l’obiettivo (nessun militare italiano subì danni) bensì le case della città vecchia. Ne vennero distrutte , danneggiate ; fu gravemente colpita anche la moschea Atik, e morirono  persone, oggi ricordate come martiri. L’intera regione del Fezzan, ovvero la parte sudoccidentale della Libia con le cittadine–oasi di Sebha, Ghat, Ubari, Murzuk e Brack nonché Ghadames, estremità settentrionale dell’area . Una cronaca contemporanea: Général I, L’Épopée Leclerc au Sahara –, Paris , pp. –. L’occupazione di Ghadames avvenne a cura del raggruppamento leggero agli ordini del capitano Abzac, che partì da Brack e attraversò  chilometri di Sahara. Abzac cadde in Tunisia due mesi più tardi, e nel periodo dell’occupazione francese (vedi infra) gli venne intitolata una piazzetta di Ghadames.

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rimasero sotto occupazione militare francese (ricordata dalla popolazione locale per la sua durezza) formando il « Territoire militare du Fezzan et Ghadames », per il quale la Francia non nascondeva la ripresa delle velleità annessionistiche d’antica data. L’amministrazione francese adottò per la regione un simbolo tradizionale tuareg, una specie di elaborata croce, riprodotto anche in monili d’argento, che in linguaggio berbero si chiama rahla e rappresenta, stilizzata e idealizzata, una sella per dromedario trottatore (che in originale è in cuoio) di origine tuareg. La rahla ricorda quindi il deserto, i Tuareg, la loro vita aspra ma libera, da padroni di loro stessi e delle loro azioni, il loro rapporto reciprocamente utile con il dromedario: perciò un simbolo di vastità, libertà, caldo sole, autosufficienza, vita raminga. Dagli occidentali la rahla è poi stata detta « croce di Agades », dal nome della cittadina sahariana; venne riprodotta anche in francobolli emessi dall’amministrazione francese per il territorio. Dal  l’antica colonia italiana di Libia era quindi divisa in tre aree: oltre alla parte francese vi era la Cirenaica, amministrata autonomamente dalla forza politico–religiosa locale della Senussìa, e la Tripolitania, sotto amministrazione britannica. Dopo un ampio dibattito e diverse proposte e richieste, l’Onu optò per la costituzione di un United Kingdom of Libya, riunendo le tre parti. La Libia divenne indipendente il  dicembre , e Ghadames non entrò a far parte della Tunisia o dell’Algeria francese, com’era aspirazione della Francia, ma della nuova entità politica. Con la creazione del Regno Unito Ghadames conobbe una nuova, anche se rada, fase di frequentazione occidentale, come tappa di spedizioni scientifiche nel deserto — continuando quindi la propria vocazione naturale — e come meta di turismo internazionale; l’albergo cittadino Ain El Faras era attivo e frequentato. Nel  il regista e produttore cinematografico statunitense Henry Hathaway (che nel  aveva girato il noto film Niagara) realizzò Legend of the Lost, poi distribuito in Italia con il titolo di Timbuctu. Opera di media qualità, la vicenda racconta di tre

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avventurieri che affrontano il Sahara alla ricerca di una città perduta e di un tesoro; gli attori che impersonavano i protagonisti erano John Wayne, Sophia Loren e Rossano Brazzi. Benché la trama e il titolo facessero riferimento alla mitizzata città del Mali, gli esterni nel deserto vennero girati a Ghadames; l’avvenimento coinvolse l’intera comunità, perché gli abitanti furono tutti o quasi utilizzati come comparse. In città si conserva ancora il ricordo dell’evento, e in particolare di Sophia Loren, diva amabile e gentile, cordiale e simpatica con tutti gli abitanti. L’avvenimento chiuse, di fatto, questa fase occidentale di Ghadames. Con la chiusura della Libia al turismo dopo il , anno della presa di potere da parte di Gheddafi, l’albergo venne abbandonato. Oggi è ancora al suo posto, cadente e saccheggiato degli arredi. Le palme rinsecchite non rinfrescano più un giardino riarso; le camere e i bagni sono stati depredati dei mobili e dei sanitari; rimangono il bancone del bar, qualche traccia di decorazione al muro, le carte dell’amministrazione abbandonate in grande quantità alla rinfusa a terra e uno strato di polvere, terriccio e sporcizia, oltre all’odore dell’abbandono. Morto il turismo in Libia, Ghadames si era di nuovo chiusa all’Occidente. Nel  il dittatore libico Gheddafi decise che anche l’antica città di Ghadames doveva avviarsi verso la modernità come tutta la Libia, e fece edificare una città nuova a ridosso dell’oasi, dal lato del castello e degli edifici coloniali. Sorsero anonimi edifici in una città a pianta squadrata, gravitante intorno alla piazza della moschea e degli edifici pubblici. La città venne collegata con il nord da una lunga linea aerea di cavi telegrafici e telefonici, che corrono a fianco dei piloni dell’energia elettrica; venne allestito anche un aeroporto militare. Si volle ingrandire anche la fonte della giumenta, per aumentare la portata dell’acqua. I lavori, condotti con imperizia, ruppero il misterioso equilibrio delle acque e della sorgente, che ridusse anziché aumentare il proprio flusso: oggi l’acqua non limpida della fonte si stabilizza nella grande cisterna a un livello molto più basso di quello d’un tempo. Gli abitanti furono invitati — o spinti — a trasferirsi nella nuova città e quella tradizionale, ora

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città vecchia, si svuotò — anche se i proprietari delle abitazioni tradizionali ne conservarono il possesso — e si dedicarono ad attività economiche manifatturiere, pur continuando a coltivare gli orti nella città vecchia. Se durante l’inverno il riscaldamento nelle nuove case era gradito, d’estate il condizionamento artificiale non riusciva a dare conforto contro il grande caldo, e gli anziani preferivano passare la giornata nella frescura naturale dei vicoli della città vecchia. Da allora esistono due Ghadames: la prima è un’anonima città moderna, senz’anima, sorta dal nulla davanti al deserto e che vive nel riflesso dell’altra. I giovani di Ghadames, avulsi dal loro tessuto culturale tradizionale e proiettati verso una modernità necessaria ma anodina, non sono più uomini del deserto, che non frequentano, né uomini dell’oasi, né uomini di città. La seconda è una città tradizionale, vuota ma aggrappata ancora con ostinazione alla vita, che esiste anch’essa nel riflesso della consorella. Ghadames non è più un luogo del confine fra Oriente e Occidente, e non oscilla più, alternata, fra l’una e l’altra area culturale, ma si è separata e cristallizzata in due città diverse. Dalla seconda metà nel Novecento non esistono più aree dove Occidente e Oriente vivano in simbiosi: ovunque, le due aree culturali hanno consumato la loro frattura e spezzato i fragili legami che in qualche luogo li univano. A Ghadames la frattura si è creata in modo originale, con la costruzione di una nuova artificiale modernità che ha separato emozionalmente e fisicamente i due tronconi. Dalla seconda metà degli anni Novanta del Novecento la Libia si era riaperta al turismo occidentale, e un gran numero di turisti arrivava anche a Ghadames. Fu costruito un nuovo albergo, molto spartano, poi un altro; case private si aprirono ai turisti. La città moderna godeva delle nuove risorse economiche, quella vecchia vedeva un riutilizzo turistico–museale di alcune delle proprie abitazioni tradizionali, compiendo un percorso analogo a quello di tanti altri luoghi storici europei. Si era sviluppato, soprattutto fra i giovani, anche un certo fervore per il recupero delle tradizioni culturali ghadamesine

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in via di sparizione, soprattutto l’artigianato e i balli tradizionali. Tra i gruppi spontanei più attivi vi era il Gruppo popolare per l’arte ed il folclore di Gadames, nato nel : giovani volontari che avevano raccolto il patrimonio culturale tradizionale del folclore ghadamesino (e di Ghat) e si erano assunti il compito di preservarlo e tramandarlo, mettendo in scena spettacoli di danze tradizionali . In queste danze i danzatori, uomini, portavano costumi vivaci e colorati, ed eseguivano le loro pantomime anche con l’aiuto di bastoni o spade. Le donne (presenti solo con i Tuareg) potevano formare gruppi orchestrali o vocali, che accompagnavano la danza con il suono di strumenti a percussione realizzati con pelle di gazzella o con strumenti a corda e con nenie tradizionali. Nella Libia fortemente statalizzata di quegli anni, sorse anche un festival ufficiale di danze popolari e folcloristiche, che (almeno sino al ), si teneva in città a ottobre, che aveva però il sapore amaro dell’avvenimento turistico, più che popolare. Durante i suoi tre giorni il famoso (e sopravvalutato) festival comprendeva manifestazioni folcloristiche, esibizioni di gruppi di danzatori provenienti da diverse località libiche e africane, spettacoli di cammellieri con i loro animali, mostre di artigianato popolare, spettacoli rievocativi delle tradizionali carovane del deserto. In quei giorni la città era animatissima, e anche le calli interne della città vecchia, normalmente quasi . Il gruppo proponeva questi balli: Istikbal (ricevimento): per ricevere gli ospiti prima della loro entrata in città. Eid (festa): eseguito durante le feste nazionali e religiose. Riham (lance): eseguito dai tuareg al ritorno dalla caccia. Fellah (contadino): il lavoro del contadino dall’aratura alla raccolta. Agiuz (vecchio): un anziano, incontrando un gruppo di giovani che danzano, ricorda il passato, ridiventa giovane e partecipa alle loro danze. Sultan (sultano): uno sposo, assieme agli amici, esprime la propria felicità per il matrimonio. Afrah (feste): eseguito da giovani sotto i vent’anni in tutte le feste. Acachz (bastoni): eseguito da giovani con bastoni, sulle note dei tamburelli e della ghita, uno strumento tradizionale. Hadra: dei seguaci della confraternita sufi eseguito nelle feste religiose. Drasa: la lavorazione del grano e dell’orzo dopo la raccolta. Rabea (primavera): la felicità per l’arrivo della primavera. Casca, rappresentazione danzante di un dramma popolare: un uomo usa l’acqua del pozzo di un’altra tribù; quest’ultima attacca la tribù del ladro e avviene lo scontro; intervengono i capi delle due tribù e il conflitto si seda (informazioni raccolte dall’autore).

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del tutto vuote e silenziose, erano così frequentate da rendere difficoltosa la circolazione pedonale. Ma la nuova Ghadames sfruttava la vecchia: per entrare in quest’ultima, contrariamente al resto dell’anno i turisti dovevano pagare un biglietto d’ingresso, d’importo elevato (nel ,  euro). Era la definitiva cristallizzazione e musealizzazione della Ghadames orientale, ormai completamente distaccata e sfruttata dalla nuova. L’Occidente irruppe ancora prepotentemente a Ghadames nel maggio , quando venne annunciata la scoperta nell’area di un grande giacimento di gas naturale, ma non sono noti gli esiti successivi della scoperta . Nel  scoppiò in Libia la guerra civile. Posta subito sotto assedio, le forze del National Transitional Council entrarono in città il  agosto. Pare che la città abbia subito bombardamenti di una certa intensità, ed è fondato il timore di ampie distruzioni anche nella più che millenaria area storica. Ambedue le Ghadames, o quel che ne rimane, sono ora nuovamente nell’Oriente più celato.

Conclusione Esistono luoghi del mondo che si sono trovati nei punti d’intersezione delle aree geografiche, delle culture, delle civiltà. Alcuni lo sono rimasti solo per qualche tempo, altri hanno continuamente offerto questa possibilità alle civiltà del vecchio mondo. Ghadames è uno di questi, come appare soprattutto in una prospettiva di lungo periodo, e come ho cercato di mostrare in queste pagine. Un’altalena fra mondi culturali diversi, convergendo sull’uno o sull’altro, attingendo o gravitando in alternanza fra questi. Ghadames, pochi ettari umidi e fertili nel grande mare di sabbia, arido, ostile e infido; Ghadames, Schwerpunkt (mi spiace, non esiste parola migliore di questa tedesca) di una rete di rapporti che, di rimbalzo in rimbalzo, . http://libyabusiness.tv/video/announcement-of-gas-discovery-in-ghadamesbasin?goback=%Egde__member_#%.

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arrivava al vallo di Adriano o andava dalle Alpi a Timbuctù o da Londra al golfo di Guinea. Ghadames, che ha seguito una parabola simile a quella di altre grandi città; aperta, cosmopolita, colta, pragmatica, ricca, resiliente. Capace di cadere e di risollevarsi ma con un percorso ormai compiuto e cristallizzatosi, e perciò osservabile con disincanto e attenzione. Un autentico e utile paradigma dei rapporti tra Occidente e Oriente, del bouleversement (mi spiace ancora, non esiste parola migliore di questa francese) fra i diversi mondi nello scorrere della storia. Dopotutto, è Mediterraneo. Ma Ghadames non è solo questo. È anche un luogo lontano nello spazio, nel tempo e nel sogno, che si raggiunge all’improvviso dopo un lungo viaggio. La notte, all’esterno dell’albergo al di fuori dell’oasi e della città nuova, il cielo è limpido, le stelle sono grandi, luminose e vicine, il silenzio è continuo e la mente si lascia andare alle suggestioni del deserto, dei ricordi, della storia di quei luoghi dai legionari alle carovane ai tanti popoli passati da lì da conquistatori, da commercianti o in catene. Fantasticando nel luminoso silenzio della notte, vengono alla mente le parole di Ralph Bagnold, un viaggiatore inglese che negli anni Venti e Trenta del Novecento percorse più volte il deserto orientale della Libia. Non era il medesimo deserto di Ghadames, ma le sensazioni sono le stesse. Dopo una giornata faticosa trascorsa in viaggio a bordo di una Ford modello T artigianalmente adattata alle asprezze del terreno, Bagnold e il compagno giungono al campo e si riposano: c’era una tranquillità gloriosa, dopo le vibrazioni e il trambusto del giorno. Il silenzio era assoluto. All’aperto ci si metteva con ansia in attesa di un pur minimo rumore, il frinìo di un grillo o il canto di un gallo. Ma nulla accadeva; solo una piccola zaffata di secca aria del deserto che faceva risacca nell’incavo delle orecchie. Sembrava quasi strano che le stelle lassù potessero brillare con algido vigore senza emettere alcun suono. . R A. B, Lybian Sands. Travel in a Dead World, London, Hodder and Stoughton, , ora London, Eland,  (traduzione dell’autore).

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Addenda Al termine del lavoro, non posso lasciare senza spiegazione la frase in esergo. Sono stato a Ghadames una ventina di volte fra il  e il , e spesso ho lì incontrato Mohammed, un anziano, distinto e simpatico signore ghadamesino che guidava i turisti nella città vecchia. Mi chiamava “grande amico” e mi raccontava sempre la leggenda (che per lui, naturalmente, era felicemente reale) del “pranzo di ieri” e della giumenta assetata. La frase è una domanda che non gli ho mai fatto; e ora che Ghadames non è più raggiungibile, mi dà uggia il rimpianto di non potergliela fare.

Figura .

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