Giordano Bruno. De immenso, I, 1-3. Bruno e Schopenhauer

July 6, 2017 | Autor: Miguel A. Granada | Categoria: Giordano Bruno
Share Embed


Descrição do Produto

III

VERITÀ E DISSIMULAZIONE L’INFINITO DI GIORDANO BRUNO TRA CACCIA FILOSOFICA E RIFORMA RELIGIOSA

a cura di Massimiliano Traversino Opera pubblicata con il contributo della Fondazione Parco Letterario Giordano Bruno - Nola

IV Proprietà letteraria riservata. I diritti di traduzione in qualsiasi forma, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo, della presente opera sono riservati alla Editrice Domenicana Italiana s.r.l., come per legge per tutti i paesi.

© 2015 Editrice Domenicana Italiana srl Via Giuseppe Marotta, 12 - 80133 Napoli tel. +39 081 5526670 - fax +39 081 4109563 www.edi.na.it - [email protected] Il catalogo EDI è scaricabile gratuitamente dal sito

Giuseppe Piccinno.

ISBN 978-88-98264-50-6

V

SOMMARIO

M. Traversino,

............................................

IX

PARTE PRIMA Percorsi del pensiero bruniano: cosmologia, antropologia, etica, magia, cristianesimo a. Bönker-vallon, sul nesso tra cosmologia e antropologia in Giordano Bruno .............................................................................

3

M. a. Granada, Giordano Bruno. De immenso, I, 1-3, con .................

17

M. CaMpanini, confronto .......................................................................

45

M. CaMBi, Magia e lullismo nel pensiero di Giordano Bruno .............................................................................

63

T. leinkauf,

a. sChüTz,

.................................................................

85

..

125

M. Traversino, Giordano Bruno: spunti dal De docta ignorantia di .......................................................................... 155

VI

soMMario

PARTE SECONDA Elementi della semantica bruniana della natura: immanenza e trascendenza p. r. BluM, Giordano Bruno: l’Aristotele dissimulato ......

173

a. Bönker-vallon, eretica nel pensiero di Giordano Bruno ........................

193

J.-f. MalherBe, di Giordano Bruno ........................................................

209

B. aMaTo, Naturalis philosophia e divina philosophia nel Camoeracensis Acrotismus di Giordano Bruno ............ 223 a. MonTano,

......................................................

247

d. knox, De la causa, principio et uno ............................................... 277 PARTE TERZA Religione, politica e diritto nel tardo Cinquecento di Bruno e oltre d. panizza, Il cosmopolitismo e le sue aporìe in Alberico Gentili ........................................................................... 295 e. BluM, Religione e politica nel pensiero di Giordano Bruno ............................................................................. 309 p. prodi, Giordano Bruno e il papato ................................

331

B. sirks,

343

........

G. GarneTT, La Francogallia di François Hotman: la storia come diritto consuetudinario ........................................ 359 r. GiaCoMelli, L’immagine dell’Anticristo. Diffusione e metamorfosi di un topos negli scritti degli esuli italiani ............................................................. 381

soMMario

VII

M. Traversino, americani ......................................................................

411

Gli Autori ...........................................................................

507

Indice dei nomi ..................................................................

515

17

GIORDANO BRUNO. , I, 1-3, CON ALCUNE RIFLESSIONI SU BRUNO E SCHOPENHAUER miguel a. granada

Alla memoria di Rita Sturlese e Alfonso Ingegno, da cui tanto ho imparato su Bruno

In questo incontro bruniano, tenuto nella piccola paspeculazione, vorrei concentrarmi su quello che ritengo sia il suo canto del cigno, il grande poema cosmologico , pubblicato a Francoforte nell’autunno del 1591 insieme al e dopo la pubblicazione in primavera del . È noto che solo pochi mesi dopo, nel maggio del 1592, sceso ormai a Padova e Venezia, Bruno sarebbe stato denunciato all’Inquisizione veneziana. Da questo momento, Bruno sarebbe stato, in grandissima misura e per quanto riguarda la libera creazione e speculazione terzo dei poemi francofortesi, intitolato appunto acquista un rilievo particolare e può a buon diritto essere ritenuto il testamento non solno teologico-religioso. Questa dimensione dell’opera si

18

miguel a. granada

impone ad un’attenta lettura sia nei primi capitoli che in quel famoso «Perit ergo Peripateticum illud caelum primum rerum omnium quae natura constant principium et 1 , riprende non soltanto il grande e principale tema dell’opera, ma anche le battute iniziali, ovvero i primi capitoli del primo libro dopo la dedica al principe Enrico Giulio di Braunschweig. Nell’impossibilità di occuparmi della totalità di quest’opera ammirevole (anzi geniale), mi limiterò ai primi tre capitoli, nella speranza di mostrare che in essi Bruno riesce a esprimere con la massima lucidità: 1) i punti salienti della propria cosmologia ingiosa e antropologica, senza dimenticare il ruolo storico ed epocale di cui egli si ritiene investito; 2) il proprio modo di operare, partendo non di rado da concezioni e testi di autori precedenti, assunti letteralmente (senza inquesto modo piegata a una concezione del tutto nuova, vorrei analizzare il modo in cui, nell’uso sovversivo di una di queste fonti (appunto il cristianissimo Marsilio Ficino della ), Bruno anticipa, per quanto riguarda il tema dell’atteggiamento davanti alla morte, il problema del timore di con un’autentica conoscenza dell’essere e della sostanza. Queste posizioni saranno in seguito sostenute da uno dei più grandi ammiratori del Nolano in epoca moderna, Arthur Schopenhauer, nel suo capolavoro g. Bruno, , VIII, 10, in [da ora in poi OL], a cura di F. Fiorentino , Morano, Napoli-Firenze 1879-1891, vol. I, t. 2, p. 316. Vd. la traduzione italiana in g. Bruno, : , a cura di C. Monti, Utet, Torino 1980, p. 806: «Sono venuti meno ormai il cielo peripatetico, principio e termine di tutti gli esseri naturali». 1

19

giordano Bruno. De immenso, i, 1-3

).

1.

(

-

, I, 3: IL CONCETTO DI SISTEMA PLANETARIO ( ) COME STRUTTURA FONDAMENTALE NELL’UNIVERSO INFINITO

Procederemo (per guadagnare in intensità) in ordine inverso, partendo dal capitolo terzo del primo libro per risalire al capitolo primo, dove Bruno ha già stabilito che tolo, nella traduzione di Carlo Monti, «Disposizione dei sistemi dei mondi nell’universo. Distinzione tra gli astri sono visibili i pianeti che sono intorno agli altri soli»2. “Sistemi dei mondi” traduce l’espressione latina “Synodus ex mondis”, che è una voce coniata da Bruno per designare quello che nel linguaggio d’oggi si direbbe un “sistema planetario”3. Certo, il concetto di sistema planetario era già presente nei dialoghi cosmologici pubblicati nel 1584 a Londra, benché un equivalente in lingua italiana non comparisse ne e nemmeno nel De . L’espressione fa tuttavia la sua apparizione già negli parigini contro i peripatetici del 1586 e in modo più articolato nel del 1588. Ora, quando nel , stampato nel 1591, Bruno inizia l’esposizione della sua concezione della lo, ad essere avanzata è innanzitutto questa nozione di 2

Vd. m. a. granada, (edd.), 154. 3

cit., p. 426. , in e. canone - g. ernst , vol. II, Roma, coll. 142-

20

miguel a. granada

tizione di sistemi planetari, ognuno dei quali è formato da una stella o sole centrale e un numero più o meno ti raramente visibili”. Il titolo del capitolo ci informa su un ulteriore punto molto importante: i due elementi che compongono il sistema o differiscono tra loro nella misura in cui la stella centrale brilla di luce propria, avendo l’elemento fuoco come componente predoproprio sole. Nel corso del capitolo Bruno spiega anche la ragione del terzo punto indicato nel titolo: perché i pianeti che ruotano attorno ad altri soli (gli “esopianee per la loro enorme distanza da noi. Questa concezione implica che tra le stelle e il nostro sole non sussiste alcuna differenza: ogni stella è un sole intorno al quale devono ruotare, in virtù dell’omogeneità della natura, altri pianeti, in modo analogo a come appunto il Sole è circondato dalla nostra Terra e dagli altri suoi pianeti. Ma ne deriva anche il fatto decisivo che le stanti dalla Terra o dal Sole centrale, a seconda che si accetti la concezione geocentrica o copernicana. Anzi, ogni stella si troverà rispetto alle stelle vicine a distanze simili a quella che intercorre tra il nostro sole e le stelle / soli ad esso più vicine / i. Ad ogni modo, non è dalla semplice omogeneità della natura e da quanto è dato constatare nella nostra regione celeste che si inferisce l’esistenza necessaria di un sistema planetario per ogni stella. Questo capitolo del aggiunge anche una ragione detta “legge tum sumere ab undis»4, cioè «è necessario, secondo una

4

OL, I, 1, p. 209.

21

giordano Bruno. De immenso, i, 1-3

nutrimento] dalle acque [i pianeti]»5, allo stesso modo in cui i pianeti traggono dal loro sole la luce e il calore di cui hanno bisogno. Il sistema planetario diverrà così una struttura “perfetta”, nella misura in cui esso è la prima grazie all’interscambio regolato di materia che ha luogo tra i contrari di cui è costituito, con ciò evitando la periodica o consunzione nel fuoco affermata dagli Stoici. Non mi è possibile presentare in questa sede il capitolo bruniano, per cui rinvio a quanto ho già altrove segnalato6. Mi soffermerò su altri due punti, certamente molto importanti per comprendere la portata decisiva di questo capitolo. Il primo attiene alla scelta del termine , e non per designare la struttura cosmologica fondamentale. Se in antichità tuale e se con l’avvento del cristianesimo il termine si precisò nel senso di un’assemblea religiosa, molto probabilmente Bruno lo avvertì invece come più che adatdové risultare al Bruno particolarmente funzionale a rappresentare la realtà cosmodèi e numi), che con i loro movimenti celebrano in un sé agli uomini eppure accessibile tramite la loro contemplazione intellettuale, come Bruno non aveva mancato di

5

Vd. m. a. granada, , id., «Synodus ex mundis», cit.; id., 6

cit., p. 426.

, in H. HuFnagel - a. eusterscHulte (edd.), Budapest-New York 2013, pp. 91-105.

39, 469-495; , CEU Press,

22

miguel a. granada

capitolo primo7. designa dunque una congregazione di dèi visibili che festeggiano la divinità causa prima permettendoci di unirci ad essa attraverso la contemplazione intellettuale della sua genitura unica. Il secondo punto riguarda la conclusione del commento in prosa, dove Bruno introduce un motivo molto importante assente nei versi precedenti. Nel concludere questa presentazione dei punti salienti della sua cosmologia, il Nolano afferma che la dottrina dei o sistemi planetari era affermata già nell’antichità prearistotelica. La concezione dell’alimento che il sole trae dalle esalazioni umide emesse dai pianeti nello spazio, concezione ripresa dallo stoicismo antico e tramite esso va già per lo stoicismo antico — attribuita a Omero, dove è “silenicamente” (vale a dire, velatamente) esposta nel mito del banchetto di Zeus e degli dèi olimpici tra i neri Etiopi8. Si tratta dunque di una “sapientia” o vera cono7 OL, I, 1, p. 205: «in immenso aethereis spacio [...] unde tot astrorum, mundorum inquam magnorumque animantium, et numinum uni altissimo

bonitas intellecta conspicitur, proque sua dignitate innumerabilium deorum, mundorum dico adsistentia, concinentia, et gloriae ipsius enarratione, cit., p. 422: «nell’immenso spazio dell’etere, [...] donde contempliamo un così grande numero di astri, mondi, dico, e grandi esseri animati e divinità che celebrano l’uno altissimo in una danza senza numero e senza ed inefabile potenza delle cose visibili, si può comprendere e rimirare la sempiterna, immensa maestà e bontà che, per la sua eccellenza, per l’armonica presenza di innumerevoli dèi, di mondi, dico, e per la manifestazione 8 Cf. il passo in questione nella traduzione di Carlo Monti: «Si vedrà chiaramente che siamo guadagnati non a favole, ma a quella sapienza che si nasconde sotto i sileni, poiché un demone, cioè il furore omerico, induce Giove, con gli altri Dei, cioè le stelle a libare ad Oceano presso gli Etiopi. Gli Etiopi sono i corpi opachi dei pianeti, in cui domina l’elemento dell’acqua, i quali sono celebrati anche per la loro qualità di numi ospitali. E in verità, coloro che presero il nome di convitati divini, sono quei soli che, tanto per ricordare qualche motivo, vengono denominati Dei per la

giordano Bruno. De immenso, i, 1-3

23

scenza del reale che, dopo le tenebre dell’età aristotelica, ritorna alla luce con Bruno nella sua qualità di “Dux” e “Vates”, secondo termini adoperati nel capitolo primo9. 2.

, I, 2: LA VICISSITUDINE NELLA STORIA, LA STRUTTURA SILENICA DELLA REALTÀ E LA VERA SAPIENZA

Il capitolo secondo è un complemento all’introduzione svolta nel capitolo precedente, il cui altissimo livello e intensità appaiono ora nettamente diminuiti. Ciononostante, esso offre al lettore alcuni motivi che chiariscoprecedenti. Prendendo le mosse dal mito platonico della caverna, quale era già stato mutuato all’inizio del De la 10 , Bruno insiste sulla propria particolare dimensione storica di liberatore dell’animo umano incarcerato11: «La sacra mente mi ordina di portare a termine tenebroso abisso cerca di innalzare gli animi prigioneri con mistiche armonie verso la bellezza dei mondi splendenti intorno all’altissimo»12. Ora, però, viene precisato in modo forse più chiaro che la differenza fra animali loro posizione ragguardevole: ma spiegheremo, poi, più chiaramente, come quelli si nutrano con l’acqua, con un altra argomentazione diversa da quella del volgo». Su questo motivo vd. m. a. granada, , «Bruniana & Campanelliana» 3 (1997), pp. 185-207. 9 OL, I, 1, p. 202. 10 , ed. (in seguito ), vol. III, pp. 43-47. La caverna o carcere, però, è (come era stato cere vere» (OL, I, 1, p. 201). Il motivo della caverna era già alla base dell’elogio del Nolano nel primo dialogo de ( , II, p. 47). 11 Cf. Cena, p. 47: «Il Nolano [...] ha disciolto l’animo umano e la cognizione che era rinchiusa ne l’artissimo carcere de l’aria turbulento». 12 cit., p. 423.

24

miguel a. granada

“solari” e “notturni” non riguarda soltanto le specie, ma si presenta anche all’interno della specie umana, di sorta cettata e portata a termine da pochi («Perpaucique homines veri sunt, quique deorum / alta inter multos habiti sunt indole digni»)13, ora che la ruota vicissitudinale del tempo ha stabilito il ritorno «del sole de l’antiqua 14 . La maggioranza però preferirà rimanere «nell’antico cunicolo»15, o più precisamente: «vedrai visibilmente turbato nel volto, allorché non potrà sopportare i raggi fulgenti del Sole abbagliante, colui che, reso pavido dall’abitudine ai fatui discorsi, è rimasto irretito nei lacci della volgar philosophia»16. Abbiamo così conferma dell’adesione bruniana all’idea di un’aristocrazia dell’intelletto d’origine classica, giuntagli per il tramite sia della tradizione platonica che dell’aristotelismo radiIl commento in prosa spiega comunque che l’atteggiamento volgare di resistenza alla verità ha come causa la seduzione dell’apparenza, l’incapacità o resistenza ad aprire la corteccia esterna delle cose per arrivare alla vera essenza della realtà. Insomma, Bruno ritorna sulla struttura silenica della realtà che già Erasmo aveva illustrato in precedenza ed esorta ad aprire il sileno (positivo) per scoprirvi la verità nascosta: «eccellenti castagne si nascondono sotto l’irtosità dei ricci, sostanze assai preziose sotto i sileni [subque silenis preciosissimae quandoque merces occultantur]»17. In questo modo viene anticipato, come un tesoro prezioso, il successivo richiamo già segnalato alla verità silenicamente espressa e velata nel racconto omerico del OL, I, 1, p. 207. Riteniamo che il motivo del ritorno del sole dopo la notte abbia anche Cena, II p. 41. 15 cit., p. 423; OL, I, 1, p. 207: «tentabunt veterem adremeare cavernam». 16 cit., p. 423; OL, I, 1, p. 208. 17 cit., p. 424. 13 14

giordano Bruno. De immenso, i, 1-3

25

banchetto degli dèi olimpici presso gli etiopi. Ma penso che sia appunto la verità del “para-dosso” eliocentrico o copernicano (paradosso che, come sappiamo, è la via o condizione indefettibile per la riscoperta della vera ripetizione di sistemi planetari) quel che Bruno invita a prendere in considerazione, chiamando in seguito alla prudenza nel giudizio, in un passo di portata generale, ma che credo possiamo collegare con quanto era stato detto nel quarto dialogo de a proposito del paradosso copernicano. Dice infatti il : Est sententia, quam prima eminus fronte stultam, et contrade proximo vera comperta est, demumque penitius considerata tum necessaria tum evidentissima comprobatur18.

In una prospettiva più chiaramente temporale, ci aveva detto: Io prima che avesse questa posizione [il moto della Terra] per cosa certissima, alcuni anni a dietro la tenni semplicemente vera. Quando ero più giovane e men savio, la stimai verisimile. Quando ero più principiante nelle cose speculative, la tenni sì fattamente falsa, che mi maravigliavo d’Aristotele che non solo non si sdegnò di farne considerazione, ma anco spese più della mittà del secondo libro Del cielo e mondo forzandosi dimostrar che la terra non si muova. Quando ero putto et a fatto senza intelletto speculativo, stimai che creder questo era una pazzia19.

Per questa incapacità di vedere al di là delle apparenze (Copernico aveva già detto nel non pubblicato 18 OL, I, 1, p. 208; cit., p. 424. «Sono parole che, ad una prima considerazione, ho giudicato stolte ed indegne

profondamente esaminate, appaiono sia necessarie che oltremodo evidenti». 19 II, p. 217.

26

miguel a. granada

cano massimamente di stabilire l’immobilità della terra si fondano principalmente sulle apparenze. Sono precisamente questi argomenti i primi che crollano dopo che anche noi rovesciamo la detta immobilità appellandoci alle apparenze»)20 il peripatetico ossoniense Torquato so l’adagio erasmiano “Anticiram navigat”21. Allo stesso modo, Bruno dirà più avanti nel , alludendo all’atteggiamento spregiativo di Aristotele nei 22 , che la dottrina delle esalazioni umide dei pianeti (quindi il sileno omerico del banchetto degli dèi olimaggiungendo che quelle tesi «non sono ritenute degne di alcuna contradizione dal volgo imperitissimo»23. Ma, aggiunge subito Bruno, , adagio con cui egli intende affermare la struttura vicissitudinale del percorso storico, con l’eterna alternanza di periodi di luce e tenebre e quindi la sua personale dimensione storica di «ministro non mediocre e non volgare di un secolo migliore che ora inizia»24, oppure (per riprendere il passo successivo ne La Cena) che «il Nolano andava a far provvisione d’elleboro per risaldar il cervello a questi pazzi barbareschi»25. Torniamo però al nostro secondo capitolo. Prendendo le mosse dall’intellettualismo morale che egli condivide, 20 coPernico, n. koPernikus,

nostra traduzione. Cf. il testo latino in , nach den Handschriften herausgegeben, übersetzt und erläutert von Fritz Rossmann, Darmstadt, 1948, p. 12: «Etenim quibus Physiologi stabilitatem eius [Terrae] potissime conantur, apparentiis plerumque innituntur; quae omnia hic in primis corruunt, cum etiam propter apparentiam versemus eandem». 21 II, p. 213. 22 , I, 6-7; II, 2, 354b 33-34. 23 OL I, 2, pp. 229 sgg.; cit., p. 745. 24 OL I, 1, p. 381; cit., p. 563. 25 II, p. 213.

27

giordano Bruno. De immenso, i, 1-3

lega, Bruno denota il destino parallelo di “sapienza” e inferno) sono legate consequenzialmente a conoscenza e ignoranza. Per questo motivo, una volta che nella società ne conseguono cercano il lucro ( ). L’esito di un simile percorso fatale è — come già enucleatosi nello e ribadito nel tanto da costituirne uno degli assi portanti — non solfalsa religione che sottopone il potere politico alla credulità (“stolta e vana fede”) da essa amministrata. Non v’è dubbio che Bruno ha in mente lo spettacolo offerto dall’Europa contemporanea, lacerata dalle guerre civili Stati, i regni e gli imperi sono sconvolti, rovinati, banditi, assieme ai saggi, ai prìncipi e ai popoli»26. Ora, come premessa della restaurazione della vera argomento dell’opera appena iniziata il recupero della è che insieme ricerca e coltura della verità, una attività dagnarsi il pane» ( ), ma «si procurano le cose necessarie alla vita senza sottomettere a cose più vili la maestà della verità, che deve essere coltivata per se stessa»27. Ovviamente, Bruno fa sua quella concezioe trasmessa dagli autori del periodo ellenistico e impeca del vero e del buono, praticando un atteggiamento di

26 27

.

cit., p. 425; OL, I, 1, p. 208.

28

miguel a. granada

per conformarsi ad esso28. Fedele a una tale concezione, Bruno cita, per sovvertirlo, l’adagio comune «Primum ditari oportet, et philosophari postea» («Prima è necesne alla sapienza classica, che è veramente ricco «colui disprezza tutte queste cose»29. Di conseguenza, il vero sé le sue ricchezze» («portat quas habet divitias diviatiarum amator»)30 ha», cioè per quella sapienza o conoscenza che ancora non ha conquistato. In questo senso, conclude Bruno il capitolo, dobbiamo interpretare gli aneddoti riguardanti le enormi ricchezze spese da Platone e Aristotele per procurarsi rispettivamente i libri di Filolao e di Speusippo: un mezzo «per l’acquisto della vera sapienza», giammai l’inverso31.

Vd. gli studi ormai classici di P. Hadot, , Einaudi, Torino 2010; , Einaudi, Torino 2005. 29 cit., p. 425; OL I, 1, p. 209. Bruno aveva già sostenuto questa tesi nello , sempre sulla scorta di Seneca; vd. , V, pp. 239 sgg. e per il debito nei confronti di Seneca, m. a. granada, , Herder, Barcelona 2005, pp. 259-277. 30 L’espressione è attribuita da Cicerone a Bias di Priene, uno dei sette sapienti (vd. , I, 1, 8). Seneca invece la attribuisce a Stilpone di Megara; cf. , 9, 18-19 e , 5, 6-7. Bruno aveva tratto l’aneddoto dalla lettera a Lucilio nello ; cf. , V p. 379. 31 cit., p. 425; OL I, 1, p. 209. Gli aneddoti provengono, per quanto riguarda Platone, da Diogene Laerzio, , III, 9 (Vita di Platone) e VIII, 85 (Vita di Filolao) e IV, 5 (Vita di Spesusippo) per Aristotele. Non si dimentichi che queste rapide battute riguardanti la vera sapienza saranno poi riprese e sviluppate in modo più articolato nel libro conclusivo del . Cf. OL I, 2, pp. 286 sgg. 28

giordano Bruno. De immenso, i, 1-3

3.

29

, I, 1: UNIVERSO INFINITO E UNO; PERMANENZA NELL’ESSERE. FICINO, BRUNO E SCHOPENHAUER

Arriviamo così, in questo percorso contro corrente, al primo e importantissimo capitolo. Come negli altri due capitoli, anche in questo Bruno riprende motivi e temi già svolti nei dialoghi italiani. Ora però è nel De l’in(e anche nel ) che troviamo i precedenti di questo capitolo. Il breve esordio in versi si ricollega al terzo e ultimo sonetto aggiunto a l’epistola proemiale al . Sono versi, come è noto, dove Bruno contrappone la sorte del volgo “attonito” ai “pochi” che riescono con la forza della “mente” “falso principio” del geocentrismo. Bruno non si limita e la maggioranza che rimane prigioniera dell’opinione erronea. Fiero della sua dimensione storica, presenta se stesso come «Guida, Legge, Luce, Vate, Padre, Autore e Via»32, in una tacita contrapposizione (resa palese nella conclusione del commento in prosa) alla dimensione salegli indica un cammino che ognuno deve intraprendere da sé, con le forze della propria mente. Gli “attoniti” incapaci di questo sforzo restano in attesa di una rivelazione e legge religiosa che offra loro l’unione con il dividell’intelletto e della volontà, di raggiungere, tema peraltro argomentato in modo esteso già negli . 32 cit., p. 418; OL I, 1, p. 202: «Reddor Dux, Lex, Lux, Vates, Pater, Author, Iterque».

30

miguel a. granada

miale al

, affronta le implicazioni teologiche stanziale dell’universo e della sua relazione con la causa divina, che si presenta e rivela nella sua creazione in ne d’un percorso intellettuale e dell’autentica comunione con la divinità che avviene attraverso la contemplazione stato fatto nel dialogo italiano — “perfezione dell’uomo” («gravissimam perfectoque homine dignissimam racolo” esaltato nell’ ermetico e nella sua cristianizzazione ad opera del Ficino33. Lasciamo però questi motivi conclusivi riguardanti unisce motivi della tradizione peripatetica averroista con l’assimilazione alla divinità propria della tradizione pla34 , ed esaminiamone le premesse. Bruno al riconoscimento di una capacità inesausta della materia di ricevere forme sempre nuove; dai sensi egli deriva la realtà che situa l’uomo al centro variabile di un universo il cui orizzonte è sempre diverso35 33 OL I, 1, p. 206: «Hinc miraculum magnum a Trismegisto appellabitur homo, qui in Deum transeat quasi ipse sit deus, qui conatur omnia cit., p. 422. Cf. , § 6 e Marsilio Ficino, , XIV, 3, vol. II, p. 256 (ed. R. Marcel, Les Belles Lettres, Paris 1964). 34 Vd. m.a. granada, , in id., El

, Herder, Barcelona 2000, pp. 193-259, in particolare 230-259; m. a. granada, , in id., bre, Herder, Barcelona 2002, pp. 297-329. 35 Questo motivo si ricollega ovviamente al principio dell’omnicentrabi”. Il tema viene sviluppato inizialmente in Prete,

, I, 4. Vd. a. del

31

giordano Bruno. De immenso, i, 1-3

dà ragione della capacità dell’imaginazione e dell’intelleto di oltrepassare ogni numero e ogni grandezza, sia 36 . Il motivo però che viene presentato in modo più diffuso è dal discorso di Ficino in XIV, 2-5, e alterandolo sensibilmente, il Nolano sostiene che il biso37 avFicino giudicato impossibile e quindi inidoneo a soddiumana, portando piuttosto ad ammettere l’esistenza di sussistenza. Ecco i passi paralleli di Bruno e Ficino, che daranno la misura d’un simile stravolgimento: , in F. tinguely (ed.), 36 37

, Droz, Ginevra 2008, pp. 33-47. cit., p. 420; OL I, 1, p. 204.

OL

appetit semper esse quidquid aliquando est; ubique videre, quidquid alicubi videt; [...] toto frui qui parte fruitur; [...] et consequutis non est contentum, ubi aliquid ulterius remanserit assequendum». Cf. Ficino, Deus est omnia? Conatur mirum in modum. [...] Cum intellectus querat res omnes intelligere et intelligendo formis earum penitur vestiatur, conaffevtat bonis omnibus perfrui. Fruendo autem rebus, seipsam rebus quibus fruitur unit (ed. Marcel, cit., vol. II, pp. 256, 258); ., XIV, 5: «Humanus animus, et is quidem omnis, vitam aliquam cogitat sempiternam, quam statim cogitatam affectat, semperque cupit esse. [...] Appetit noster animus esse. Sed numquid naturalis est huiusmodi appetitus? Est absque dubio non minus naturalis animo nostro quam caeteris rebus appetitus essendi. At enim appetit esse semper. Num haec semper essendi cupiditas ita naturalis est, sicut essendi? Est plane» ( ., pp. 262 sgg.).

32

miguel a. granada

Ficino, II, pp. 250 sgg.:

, XIV, 2, ed. Marcel, vol.

Cognita una quadam alicuius rei veritate non quiescimus, sed aliam inquirimus rursusque aliam, quamdiu putamus veritatem aliquam superesse noscendam. Idem in bonis comparandis inspicitur. Omne autem verum et omne bonum Deus ipse est, qui primum verum est primumque bonum. Ergo Deum ipsum appetimus. [...] Finis ergo noster est per intellectum Deum videre, per voluntatem viso Deo frui, quia summum bonum nostrum est summae potentiae nostrae obiectum summum sive actus perfectissimus circa ipsum. [...] Quare in sola nus, quae naturalem sola terminit appetitum;

Bruno,

, I, 1, pp. 203 sgg.:

Hic [homo] dum omnia curat atque facit, illud praecipuum esse ducit, ut mens in primo vero, et voluntas in primo bono conquiescat quandoquidem in conquirenda bonitate, adipiscendisque bonis humanus nunquam intellectus et affectus expletur; unde evidentissime constat non ad particularia bona atque vera, quae ultra semper aliud et aliud attendant et concupiscant; sed universale bonum, atque verum, extra et ultra quod nullum queat verum reperiri, atque bonum. Quoties enim aliquam superesse noscendam veritatem, et quamdiu semper inquirimus, aliud semper appetimus. Non igitur in quando est; ubique videre, quidquid alicubi videt; [...] toto frui qui parte fruitur; [...] et consequutis non est contentum, ubi aliquid ulterius remanserit assequendum.

to Diana dove si rispecchia l’inaccessibile Apollo, per 38 . In usare la terminologia del dialogo 38

VII, dialoghi II, 2 e 3.

giordano Bruno. De immenso, i, 1-3

33

questo modo, l’unione con Dio può attuarsi in questa vita attraverso la contemplazione intellettuale dell’universo pitolo, riprendendo i motivi dell’epistola proemiale al De , «divinitatis naturaeque splendorem, fusionem et communicationem [...] perquirimus [...] in augusta omnipotentis regia, in immenso aetheris spacio, in inpotentia»39. no non sia realizzabile. Si tratta del desiderio naturale, secondo Ficino, di immortalità dell’anima individuale. Nelle parole di Ficino, Omnino appetitus essendi naturalis est, quoniam rebus statim natis inest cunctis atque continuus. [...] . Sed numquid naturalis est huiusmodi appetitus? Est absque dubio non minus naturalis animo nostro quam caeteris rebus appetitus essendi. At enim . Num haec semper essendi cupiditas ita naturalis est, sicut essensempiternum esse cognoscit et naturaliter appetit. [...] Praeterea, cum non sit frustra desiderium naturale, consequens est ut naturaliter exoptatum. [...]. Vitam vero sempiternam omnes cupimus atque semper, etiam dum non advertimus cupere. Itaque non est huius assecutio impossibilis.40

39 OL I, 1, p. 205; cit., pp. 421 sgg.: «ricerchiamo lo splendore, l’effondersi e la partecipazione della divinità [...] nell’augusta regia dell’onnipotente, nell’immenso spazio dell’etere, . , IV, pp. 37-47; VII, pp. 417-423. 40 , XIV, 5, ed. Marcel, vol. II, pp. 262-265 (corsivo nostro).

34

miguel a. granada

Ora, secondo Bruno, bisogna distinguere tra ed ora, in questo momento. tà un unico desiderio: essere sempre. Inteso nel secondo vita presente nella sua attuale individualità, è quello che Bruno chiama la o amore di sé, che il Nolano studia nelle opere magiche come strumento utilissimo al mago per vincolare a sé gli altri essere umani: «La prima ragione per la quale ogni realtà è suscettibile di vincolo deriva in parte dal fatto che essa , e in parte dal fatto che essa desidera essere condotta a perfezione secondo tale condizione e all’interno di essa. In questo sé»41. La ragione è che «tutte le cose desiderano mantenersi nel loro essere presente, perché ; così, vi è una sorta di generale vincolo d’amore, reciprocamente dell’anima rispetto al proprio corpo e — a suo modo — del proprio corpo rispetto all’anima»42 manenza dell’essere presente, però, non è realizzabile e benché fondato sulla natura degli enti particolari e su un livello di conoscenza limitato e particolare (che altro non è che nei confronti della totalità), va contro la natura universale. Ecco le parole di Bruno, che sono una smentita implicita delle parole precedenti di Ficino:

41 , in g. Bruno, , edizione diretta da M. Ciliberto, a cura di S. Bassi, E. Scapparone, N. Tirinnanzi, Adelphi, Milano 2000, par. 43, pp. 468-469: «Ratio prima, qua -

servari philautia in genere» (corsivo nostro). 42 , ed. ., par. 48, pp. 230-233: «universa in praesenti esse consistere cupiunt, quandoquidem ; ideo generale quoddam vinculum est amoris, reciproce animae ad proprium corpus et — modo suo — proprii corporis ad animam» (corsivo nostro).

giordano Bruno. De immenso, i, 1-3

35

Neque nos ab istius lucis apprehensione [la necessità dell’utae (sicut omnia particularia in praesenti forma perpeturari desiderant) defraudatur: inde enim istud evenit, quod, cum materia particularis universos simul actus comprehendere nequeat, successive comprehendit atque sigillatim43, ita, quod praesens est tantum cognoscit atque desiderat: Per naturae ergo dictamen , (quae est a contractione formae ad hanc materiam, et limitatione materiae ab hac forma) ; nescit enim aliud unde venit et quo vadat.44

Il desiderio, dunque, di un eterno prolongamento della nostra individualità risponde a una “legge naturale” (così traduce Monti), ma questa o questo conato (per usare il termine spinoziano) naturale viene perturbato e incanalato in una direzione sbagliata dall’ , risultante del nostro attaccamento o vincolo con la nostra particolare “individuazione”: desideriamo non soltanto essere, ma essere sempre quello che siamo ora. La mansempre con l’essere quello che siamo in questo momento è all’origine del timore davanti alla morte, come aveva

43

La materia non può ricevere simultaneamente tutte le forme. Per que-

forme che aspirino anch’esse, come possibili o in potenza, all’esistenza. Bruno non cita l’eloquente prosopopea della natura in lucrezio, , III, 870-977, con l’esortazione ad accettare la morte all’individuo che resiste alla dissoluzione. Non v’è dubbio però che il Nolano la conosceva perfettamente. Vd. , nota 49. 44 OL, I, 1, pp. 204 sgg. (corsivo nostro). Cf. cit., p. 421: «E non ci deve distogliere dal cogliere la luce di tal principio il fatto che anche il desiderio della vita presente (poiché ogni cosa tende a perpetuarsi nella forma presente) sembri essere smentito: ciò deriva dal fatto che, non potendo la materia comprendere assieme tutti gli atti, li comprende solo volta per volta e separatamente, per cui desidera e conosce solamente ciò che è presente: secondo una legge naturale (che deriva dal contrarsi della forma nella materia, e dalla conseguente limitazione che la materia subisce da quella forma); non conosce, infatti, donde viene e dove va» (corsivo nostro).

36

miguel a. granada

45 detto chiaramente il . L’ignoranza della differenza tra essere e essere individuale (tra la vera so-

erronea del desiderio di perpetuità, perché la nostra conoscenza è irrimediabilmente limitata: conosciamo quello che siamo adesso e ci vincoliamo ad esso, ignorando da dove veniamo e dove andiamo. Attribuendo valenza singolare all’essere universale che siamo, ignoriamo le individuazioni che ci hanno preceduto e quelle future che verranno dopo come succesive singolarità dell’essere. È appunto l’ignoranza che nelle opere magiche viene posta, come abbiamo visto, all’origine de la , dell’amore di sé, cioè del desiderio delle cose particolari di «mantenersi nel loro essere presente, perché non comprendono o rimangono dubbiose di fronte all’essere di una diversa e nuova condizione; così, vi è una sorta di generale vincolo d’amore, reciprocamente dell’anima rispetto al proprio corpo e — a suo modo — del proprio corpo rispetto all’anima»46. Per questo motivo, aggiunge Bruno, se ci fossero note le forme individuali nelle quali prenderà forma in futuro l’anima universale, che ora è individuata in noi, non ci sarebbe motivo per rattristarsi: Ideo si anima, cui instrumenta corporis equini sunt comparata, sciret eam manere corporis humani et omnium reliquorum instrumenta seriatim, vel confuso ordine quodam, neque defunctionem praesentium instrumentorum ad futuram deinceps (secundum innumerabiles species) vitam pertinere quippiam, non tristaretur. , immo inter-

45

, IV, p. 275: «

. Perché non son pervenuti ad intendere che il principio vitale non consiste negli accidenti che resultano dalla composizione, ma in Vd. anche M. A. granada, , cit., pp. 220 sgg. 46 Cit. , nota 42.

giordano Bruno. De immenso, i, 1-3

37

dum illam ultro appetit, illi ultro occurrit47. Manet ergo substantiam omnem pro duratione aeternitas, pro loco immensitas, pro actu omniformitas48.

nità e onniformità (possesso di tutte le forme) della sostanza quale Uno non soltanto ci libera dalla confusione in cui era caduto Ficino, vale a dire dall’aspirazione irnito, semplice modo della sostanza universale49. Si tratta 47 , III, pp. 279-281 aveva attribuito questa sapienza a Pitagora: «Non è mutazione che cerca altro essere, ma altro modo di essere. E questa è la differenza tra l’universo e le cose de l’universo: perché quello comprende tutto l’essere e tutti modi di essere; di queste ciascuna ha tutto l’essere, ma non tutti i modi di essere. [...] ogni produzzione di qualsivoglia sorte che la sia è una alterazione; rimanendo la sustanza sempre medesima, perché non è che una, uno ente divino, immortale. Questo lo ha possuto intendere Pitagora, che non teme la morte ma aspetta la mutazione. [...] Ecco come non doviamo travagliarci il spirto, ecco come cosa non è per cui sgomentar ne doviamo: perché questa unità è sola e stabile, e sempre rimane: questo uno è eterno; ogni volto, ogni faccia, ogn’altra

a «esser spogliato dall’umana perfezzione e giustizia» ( , , VI, p. 473) dove c’è la ripresa di un noto passo del commento di Averroè alla di Aristotele, vd. quanto abbiamo detto in m. a. granada, , «Bruniana & Campanelliana» 5 (1999), pp. 305-331. 48 OL, I, 1, p. 205. cit., p. 421: «Perciò, se l’anima, a cui sono preparati gli strumenti del corpo equino, sapesse che le aspettano successivamente gli strumenti del corpo umano e tutti gli altri, magari in un ordine confuso, e che la morte degli strumenti presenti non concerne affatto la vita futura (secondo innumerabili specie) non avrebbe motivo per rattristarsi. , anzi, talvolta, spontaneamente ad essa tende, a lei spontaneamente va incontro. Ad ogni sostanza aspetta l’eternità per quanto concerne la durata, l’immensità per quanto concerne il luogo, la totalità delle forme per quanto concerne l’atto» (traduzione con mie correzioni). 49 Nel ( , III, p. 207) Bruno aveva già affermato che e negli astri. A questo livello l’universo «è tutto quel che può essere» ( ). Al livello però degli individui particolari, l’universo «non è già

38

miguel a. granada

certamente della Sapienza alla quale Bruno rinvia nel secondo capitolo e che costituisce la perfezione dell’uomo e il . Per concludere il percorso della nostra analisi, diremo che non è diversa (a nostro parere) la saggezza presentata da Schopenhauer nel suo . Non v’è dubbio che Bruno è, con Spila Volontà come principio e struttura assoluta dell’essere universale, come Sostanza, introduce una frattura decisiva nel pensiero occidentale, dal momento che la volontà non è più uno strumento dell’intelletto dotato di preminenza ontologica, ma è piuttosto il contrario: l’intelletto è il semplice strumento della Volontà e della sua cieca autoaffermazione. Ferma restando questa differenza fondamentale, anche Schopenhauer riconduce ed interpreta il desiderio individuale di essere sempre come l’affermazione della Volontà legata alla sua oggettivazione o individuazione empirica nel mondo della Rappresentazione. Come Bruno, anche Schopenhauer ritiene illusoria, e frutto della mancata conoscenza della vera dimensione universale dell’Essere, questa aspirazione all’immortalitutto quel che può essere» ( ), perché resta ancora l’attualizarsi degli innumerevoli individui che possono essere e necessariamente saranno nel , IV, pp. 265-269) deve “rigettare” le forme individuali per dare esistenza (sempre fugace) a sempre nuovi particolari. Non c’è dubbio che Bruno faparire (cf. Lucrezio, , III, 870-977). È quanto si evince, dopo la domanda irrazionale del pedante («Non credete che se la materia si contentasse con la forma presente, nulla alterazione o passione arrebe domìno sopra di noi, non moriremmo, sarrebemo incorrottibili et eterni», , IV, p. 229), dalla risposta di Gervasio: «E se la si fosse contentata di quella forma che avea cinquanta anni addietro, che direste? Sareste tu Polihimnio? [...] Come dumque ti piace che le altre forme abbiano ceduto a questa, cossì è in volontà de la natura che ordina l’universo, che tutte le forme cedano a tutte. Lascio che è maggior dignità di questa nostra sostanza, di farsi ogni cosa ricevendo tutte le forme, che ritenendone una sola, et essere parziale. Cossì al suo possibile ha la similitudine di chi è tutto in tutto» ( ., pp. 229-231). Si noti che qui la nostra sostanza viene

giordano Bruno. De immenso, i, 1-3

39

tà personale50 e il timore davanti alla morte. È infatti nel supplemento numero 41 alla seconda edizione del , intitolato «Über den Tod und die Unzerstörbarkeit unseres Wesens an sich» ( )51, che Schopenhauer, come già Bruno in precedenza, cerca di scongiurare il timore nei confronti della morte, con un discorso, dove non rinveniamo certamente riferimenti espliciti a Bruno, ma che Bruno avrebbe potuto perfettamente zione della sostanza universale con la Volontà: Se dunque considerazioni di questa specie sono certo appropriate a suscitare la convinzione che c’è in noi qualcosa che la morte non può distruggere; ciò accade comunque se ci innalziamo a un punto di vista, guardando dal quale la nascita non è l’inizio della nostra esistenza. Ma da ciò segue che ciò che viene provato come indistruttibile dalla morte, non è propriamente l’individuo, che [...] come tale però può essere ha nessun ricordo della sua esistenza prima della sua nascita, così esso non ne potrà avere alcuno della sua esistenza attuale dopo la morte. Ma è nella che ognuno pone il suo Io: questo gli appare dunque come legato all’individualità, con la quale perisce senz’altro tutto ciò che a lui, come individuo, è particolare e lo distingue dagli altri. La sua sopravvivenza senza l’individualità diviene quindi per lui indistinguibile dal perdurare degli altri esseri, ed egli vede sprofondare il proprio Io. Ma chi così congiunge la sua esistenza all’identità della e pretende perciò per quest’ultima una durata 50 Anche Schopenhauer distingue, in modo simile a Bruno (cf. nota 49), le specie, per lui le prime oggettivazioni della Volontà, collegate alle idee platoniche («Nel secondo libro ho spiegato che l’oggettità adeguata della volontà come cosa in sé, in ognuno dei suoi gradi è l’idea platonica»,

costante successione, attraverso le quali la specie prosegue la sua vita immortale. Come Bruno, anche Schopenhauer (morto nel 1860, subito dopo la pubblicazione di di Darwin nel 1859) resta fedele cie. 51 Come è noto, questo supplemento fu preso da Thomas Mann nel suo romanzo (1901) per dar luogo alla consolazione e riconciliazione con la vita del suo personaggio Thomas Buddenbrook.

40

miguel a. granada in ogni caso ottenere solo a prezzo di un passato altrettanto morte lascia intatta è altra da quella della coscienza individuale, allora essa dev’essere indipendente, come dalla morte, così anche dalla nascita, e quindi in rapporto ad essa dev’essere ugualmente vero il dire: «Io sarò sempre» e il dire «Io sono nella parola Io si annida il più grande equivoco, come vedrà senz’altro colui che terrà presente il contenuto del secondo libro e la separazione fatta in esso della parte volente dalla parte conoscente del nostro essere. A seconda di come intendo del mondo, questo mio fenomeno personale è una parte altrettanto piccola del mio vero essere». [...] Per ciò ognuno sa di sé soltanto come di quell’individuo quale si presenta nell’intuizione esterna. Se egli potesse invece aver coscienza di quel che è ancora oltre a ciò e all’infuori di ciò, lascerebbe perdere volentieri la sua individualità, riderebbe della tenacia del suo attaccamento ad essa e direbbe: « ?» [...] Invece, mantenendo appunto quella distinzione tra fenomeno e cosa in sé [Volontà, Wille], si può affermare che l’uomo è bensì come fenomeno transitorio, ma che il suo essere in sé non segue la stessa sorte, che esso è dunque indistruttibile [...] Che essa [la Volontà] tema in noi la morte, proviene da ciò, che qui la conoscenza le fa vedere il suo essere solo nel fenomeno individuale, donde sorge per essa l’illusione di scomparire con quello [...]. Nascita e morte sono il continuo rinnovellarsi delche è essa sola per così dire la sostanza dell’esistenza52.

Credo che Bruno sottoscriverebbe per intero una simile posizione. Ad ogni modo, vediamo confermata la più o meno grande connessione bruniana di queste tesi schoto a Bruno, dal paragrafo 54 della prima edizione de Il (1818), vale a dire il paragrafo che il supplemento 52 a. scHoPenHauer, , a cura di S. Giametta, Rizzoli, Milano 2002, pp. 687-689, 692, 699, 701.

giordano Bruno. De immenso, i, 1-3

41

pretende completare nella seconda edizione (1844). Secondo della quarta e ultima parte dell’opera (“Libro quarto: Il mondo come volontà. Seconda considerazione: Col raggiungimento della conoscenza di sé, affermazione e negazione della volontà di vivere”), il paragrafo in questione segue il breve paragrafo 53. Infatti, questo paragrafo si era aperto indicando che l’opera entrava nella parte «più seria, giacché riguarda... l’intero suo contenuto»53. Il paragrafo 54 afferma che la morte riguarda unicamente il fenomeno, vale a dire l’individuo singolare, rimanendo invece imperituro perché eterno il suo vero essere, la volontà universale: «Infatti è vero che ognuno è perituro solo come fenomeno, mentre come cosa in sé è senza tempo e quindi anche senza dalle altre cose del mondo, come cosa in sé è la volontà che appare in tutto, e la morte sopprime l’illusione che separa la sua coscienza da quella degli altri: questa è la sopravvivenza»54. l’individuo «la stessa volontà di vivere in una singola oggettivazione, tutto il suo essere si ribella alla morte»55. Arrivato a questo punto, Schopenhauer ci pone davanti del mondo» che sia capace di «superare i terrori della nell’individuo dato, sul sentimento immediato»56. Allobe niente da temere che noi gli conferiamo, aspetterebbe con indifferenza la morte appressantesi veloce sulle ali del tempo, considerandola un’apparenza mendace, un fantasma impotente, capace di spaventare i deboli, ma senza alcun potere su colui che sa di essere egli stesso quella volontà di cui tutto il mondo è oggettivazione o 53 54 55 56

., p. 507. ., pp. 523 sgg. ., p. 525. .

42

miguel a. granada

. La posizione espressa da Bruno nei 58 59 e del , come passi citati del 60 o pure altrove, nella epistola proemiale al nello in relazione alla costellazione della Lepre, non ci appare affatto diversa61. Riteniamo sia non impossibile, ma anzi molto probabile, che Schopenhauer, buon conoscitore dell’opera italiana di Bruno62, avesse presenti questi passi, o altri simili nelle opere del Nolano, nel presentare nel modo ora visto la capacità della 57

., pp. 525 sgg. , nota 45. , nota 47. 60 , IV, p. 41. 61 , V, p. 471-473: «il cieco Spavento de la morte [...] non già (se non con vane forze) s’accoste dove 57

Vd. 59 Vd. 58

in alto, dove è aperta la verità, dove è chiara la necessitade de l’eternità d’ogni sostanza; dove non si dee temer d’altro che d’esser spogliato dall’umana perfezione e giustizia che consiste nella conformità con la natura superiore e non errante». Cf. , nota 47, il riferimento a questo passo dello . 62 Vd. la nota aggiunta alla seconda edizione de ( , p. 722) dove, oltre a segnalare l’assoluta re un passo del , Schopenhauer prosegue nei seguenti termini: «Chi legge questo suo scritto capitale, come anche gli altri suoi scritti italiani, prima cossì rari, ora accessibili a tutti grazie a una edizione tedesca [quella curata da Adolf Wagner, Leipzig 1830], troverà con me che egli ma drammatica. Si immagini il delicato, spirituale, pensoso essere, quale ci viene incontro da questo suo scritto, tra le mani di rozzi preti infuriati un secolo più illuminato e più mite, sicché la posterità, la cui maledizione doveva colpire quei diabolici fanatici, è ora già la contemporaneità». Sulla fortuna di Bruno nell’Ottocento, vd. , a cura di Eugenio Canone, Pisa-Roma 1998, dove pure manca un contributo sulla fortuna del Nolano in Germania. La lacuna è in qualche modo colmata dall’ del curatore, che menziona non soltanto l’intenzione di Schopenhauer nel primi anni venti di tradurre in tedesco il (p. xx), ma anche la presenza dell’edizione Wagner nella biblioteca di Schopenhauer e la sua conoscenza degli scritti bruniani già negli anni 1814-1817 trascorsi a Dresda, il che spiega la presenza del Nolano già nella prima edizione de .

giordano Bruno. De immenso, i, 1-3

43

tamente a un «coraggio di vivere tanto grande da fargli accettare volentieri e di buon grado, per i godimenti della vita, ogni fastidio e pena a cui questa è soggetta»63. Ma ecco lo stesso Schopenhauer affermare subito dopo che «a questa posizione potrebbe essere condotto [l’indivi64 . Per Schoillusione», lucida davanti alla morte e nonostante quanto sembra evincersi dai passi commentati del primo capitolo del , «è, per la conoscenza, la posizione 65 . dell’

, cit., p. 525. ., p. 527. 65 ; vd. , nota 50. Ci ha colpito fortemente non aver trovato nessun accenno alla vicinanza concettuale tra Bruno e Schopenhauer, per quanto riguarda i temi pressi in considerazione, nell’opera postuma di i. VeccHiotti, , Urbino 2000. Ci pare tanto più sorprendente per quanto Vecchiotti fu uno dei più grandi conoscitori di Schopenhauer e del pensiero indiano. Non ci è stato possibile mente la questione. 63 64

Lihat lebih banyak...

Comentários

Copyright © 2017 DADOSPDF Inc.