Giordano Bruno: L\'Eroico Furioso

August 16, 2017 | Autor: Marco Eggenter | Categoria: Giordano Bruno, Eroici furori, Filosofia del Rinascimento
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Giordano Bruno, Eroici Furori, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 17-19
Ivi.
Ibid. I, II, p.37
Ivi. p.38
Ivi.
Giovanni Corsi fu biografo del Ficino. Nella sua Vita, scritta nel 1506 e pubblicata a Pisa nel 1771, ci da il seguente ritratto del suo aspetto fisico: "Statura fuit abmodum brevi, gracili corpore et ali quantum in utriusque humeris gibboso: lingua parumper hesitante, atque in prolatu dumtaxat litterae S balbuziente: et utraque sine gratia: cruribus, ac brachiis sed praecipue minibus oblongis: facies illi obducta: et quae mitem ac gratum adspectum praebent color sanguineus, capilli flavi, ac crispantes; ut qui super frontem in altum prominebat".
L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, a cura di D. Quaglioni, Roma-Salerno, 1993
G. Bruno, Eroici Furori, op.cit. Argomento del Nolano, p.5
Ivi.
G. Bruno, De Vinculis in generale, in Giordano Bruno, Opere Magiche, a cura di Simonetta Bassi, Elisabetta scapparone, Nicoletta Tirinnanzi, Adelphi, Milano 2000
G. Bruno, Spacio de la bestia trionfante, a cura di E. Canone, II° ed, Milano 2001, pp. 34-35
Firpo, Il processo di Giordano Bruno, op. cit. p.301
G. Bruno, Eroici Furori, op. cit., dial. IV, p. 53
Ivi.
Ivi.
E. Cornelio Agrippa, De occulta Philosophia, op. cit.. vol. II, p. 308
G. Bruno, Eroici Furori, cit. p. 121
Ibid. p. 7
Ibid. p. 53
Ivi. p. 55
Leone Ebreo, Dialoghi d'Amore, a cura di D. Giovannozzi, Introd. Di Eugenio Canone, Laterza, Roma-Bari 2008.
G. Bruno, Eroici Furori, op. cit. p. 54
Ivi.
Apuleio, Le metamorfosi o L'Asino d'oro, BUR Rizzoli, Milano 2008, XI, V, p.707
Eroici Furori, cit. p.127
Ibid.
Ivi. p. 14
G. Bruno, De la causa, principio et uno, in Ouvres complètes de Giordano Bruno, collection dirigée par Y. Hersant, edition critique établie par G. Aquillecchia, Paris 1996, p. 315
G. Bruno, Eroici Furori, op.cit, p.7
L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, op. cit.
G. Bruno, Eroici Furori, op. cit., p.4
Il Cantico dei Cantici, a cura di Guido Ceronetti, Adelphi, Milano 1998, pp.39-40 e 44-45
Ibid. p.78
Ivi.
Ivi. p. 79
Ibid. p. 13
G. Bruno, De la causa, principio et uno, op. cit., Dialogo I
G. Bruno, La Cena delle Ceneri, ripr. Anast., con una presentazione di M. Ciliberto, Pisa 1994, dial. II
Ivi. p.157


GIORDANO BRUNO: L'EROICO FURIOSO
Divina vis quaedam est in rebus omnibus;
Amor ipse pater, fons et Amphitrites est vinculorum.

Giordano Bruno,De Vinculis in generale.



"Filoteo Giordano Bruno da Nola, dottore in una teologia meglio eleborata e professore di una sapienza innoqua e più pura, filosofo conosciuto, approvato e onorevolmente accolto nelle principali Università d'Europa, in nessuna parte straniero, fuorché presso gente barbara ed ignobile, quegli che ridesta gli animi sonnecchianti, che doma la ignoranza presuntuosa e recalcitrante, che in tutte quante le sue azioni attesta l'amore per gli uomini in generale, che non fa differenza tra Italiano e Inglese, maschio e femmina, mitrato e incoronato, uomo di toga e uomo d'arme, uomo cocollato e uomo non cocollato, bensì più ama colui che nelle relazioni sociali si manifesta più pacifico, civile, fedele e utile, che non guarda a testa unta, a fronte segnata, a mani levate e a membro circonciso, e invece guarda (la dove può scorgersi il volto del vero uomo) all'anima e alla cultura dell'intelletto, detestato dai propagatori di stoltezza e dagli ipocritelli, caro ai galantuomini e agli studiosi, e fatto segno di plauso dai più nobili ingegni…"

Così si descrive Giordano Bruno nella lettera, pubblicata nel 1583 ed indirizzata all'eccellentissimo Vicecancelliere dell'Università di Oxford, ai chiari Dottori e celeberrimi Maestri.
Parole con le quali il filosofo di Nola si presentava alle autorità oxfordiane a viso aperto. Certo, è innegabile che vi traspaia uno sproporzionato senso di sé (ma questa era la sua specifica caratteristica giacché si considerava un Mercurio ritornato sulla terra), ma si legge anche la sua idea di filosofo votato, in tutto e per tutto, alla ricerca della più profonda verità, al di la delle ingombranti ombre delle autorità e delle consolidate opinioni.
Chi fosse questo "frate sfratato", come visse in modo tribolato la sua breve esistenza, come morì martire sul rogo appiccato in Campo de' Fiori il 17 febbraio del 1600, dopo un lungo e travagliato processo, è cosa a tutti nota.
Meno nota è certamente la complessità del suo pensiero, tanto oscuro e variegato, da essere interpretato, di volta in volta e asseconda delle mode dei tempi, come quello di un anarchico, di un eretico impenitente, dell'eroico iniziatore della scienza moderna o di un potente mago.
Non è certo questo il luogo e neppure è mia intenzione esaminare in dettaglio i diversi aspetti della filosofia nolana, ma solo quello di segnalare e di cercare di ripercorrere uno degli aspetti del suo pensiero, un tema che emerge con chiarezza nel suo pensiero, in particolare nella sua originalissima interpretazione della prassi magica: il tema del ruolo svolto da Eros nell'indicare al filosofo il cammino verso la sapienza.
Già nel Sigillum Sigillorum, opera per un certo verso antesignana della speculazione sulla magia che occupò il Nolano negli anni in cui visse in Germania, aveva dichiarato che Eros era da considerarsi come uno dei quattro rettori dell'universo, in virtù del quale tutto è stato prodotto.
Una forza insita in tutte le cose, un Grande Demone la cui azione si manifesta nel congiungere forma e materia, anima e corpo e, attraverso gli enti intermedi, tutti gli enti manifesti nell'universo.
Eros è, a detta di Bruno, quel principio unitario che regge e giustifica ogni movimento, sia esso inteso in senso orizzontale, quale il fenomeno vicissitudinale che caratterizza la vita, sia inteso come movimento spirituale, nelle sue due declinazioni di asciensio e disciensio.
Nell'universo bruniano tutto si muove, è mosso e nelle stesso tempo e legato dai vincoli del desiderio, così come vuole il potente Eros. La sapienza, allora, che si esprime attraverso la pratica magica, fonda la sua ragione proprio su questo eterno principio che vede tutte le cose come spinte da un impulso interiore, da un intimo incitamento, ad esplicarsi nell'infinita vicissitudine dei contrari, rifuggendo il male e ricercando il bene.
Comprendere o meglio identificarsi con questa forza vincolante è la chiave necessaria per mettere in moto qualsiasi operazione che riguardi una conoscenza ontologica, naturale, metafisica o magica.
Non è un caso, allora, che Bruno abbia dedicato al tema dell'Amore un'opera, gli Eroici Furori, forse il più denso e complesso dei Dialoghi Italiani, scritto in terra Inglese, a Londra, nel 1585.

Gli "Eroici Furori"
Il seme da cui germoglia la trama filosofica sulla quale si tessono gli Eroici Furori proviene da un frutto maturo della filosofia nolana, ben esposto nel De la causa, principio et uno dove si legge: "chi vuol sapere massimi segreti della natura, riguardi e contemple circa gli massimi e minimi de li contrari e opposti. Profonda magia è saper trar il contrario, dopo aver trovato il punto de la unione".
Questo, in due parole, il programma filosofico che si trova complicato ed esplicato negli Eroici Furori .
Qui, l'Amante Furioso, alter ego di Bruno, vive, in tutti i suoi aspetti, quella tensione che scaturisce dagli opposti, tensione che è essenza di ogni essere, sperimentando su di sé una pratica trasformativa che lo porterà ad appropriarsi di quei saperi con i quali poter agire con e sulla natura.
Un processo trasformativo, il suo, che lo condurrà, su sentieri impervi e faticosi, alla ricerca della verità, ben sapendo che la sua sarà una cerca disperata.
Nella realtà naturale, infatti, unico e solo luogo in cui sia possibile cercare se non la verità, almeno la sua immagine riflessa, nulla rimane stabile essendo la natura stessa composta da enti in perenne movimento vicissitudinale, la cui essenza profonda, infinita e proteiforme, sfugge ad ogni tentativo di apprensione definitivo.
Come comprendere, allora, quella verità che necessariamente deve sottendere al movimento metamorfico della realtà?
Bruno sa per esperienza che le usuali facoltà raziocinanti dell'anima, non servono a gran ché, e questo per l'evidente motivo che questa unità si presenta nel mondo dotata di una essenza diversa dalla ragione umana: in altre parole, non è razionale.
È, in realtà, molto simile ad un un Vincolo d'Amore, che può essere inteso solamente innescando in sé stessi un complicato processo di ripurgazione e affinamento delle potenze interne all'anima, mettendo in relazione ossimorica cognizione e volontà, affetto ed intelletto, desiderio e ragione.
Sulla scorta di questa intuizione si sciorina la dottrina erotica di Giordano Bruno, nella quale certo ritroviamo i motivi classici desunti dalla filosofia ficiniana, come la spossessione del soggetto da parte dell'amata, la perdita ed il trasferimento della sua soggettività nell'oggetto amato, ma diametralmente opposta è la prassi con cui l'amante bruniano persegue il suo scopo.
Ficino, abbiamo visto, ci consegna l'immagine di un amante virtuoso, temperato, tutto teso alla ricerca della bellezza divina, del bene supremo; un uomo che, rinunciando volontariamente e in modo definitivo all'esperienza dell'amor carnale, si eleva verso Dio, l'unico Bello-Buono, nella speranza di una unione estatica. L'amante propostoci da Bruno, il Furioso, è, di contro, un uomo tutt'altro che virtuoso, anzi è travagliato da un doppio "vizio", e non solo non può, ma non vuole e non deve abbandonare il proprio corpo durante la ricerca della verità. Lo deve, invece, usare mettendolo "in tensione" con lo spirito; deve forzare al massimo sui due contrari di cui è fatto cioè lo spirito e la materia, perché:

"il vizio è la dove è la contrarietate; la contrarietate è massima la dove è lo estremo; la contrarietate maggiore è la più vicina all'estremo: la minima o nulla è nel mezzo, dove gli contrari convergono e sono uno e indifferente…Ecco dunque…come questo furor eroico…è differente dagli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio, ma come un vizio ch'è in un soggetto più divino o divinamente…di maniera che la differenza è secondo gli soggetti e modi differenti, e non secondo la forma de l'essere vizio…perché non è nella temperanza della mediocrità, ma nell'eccesso della contrarietate…e tanto gli manca de essere virtute, che è doppio vizio: il quale consiste in questo, che la cosa recede dalla sua natura, la perfezion della quale consiste nell'unità; e la dove convengono li contrari, consta la composizione e consiste la virtù".

Il Furioso vive un'esperienza diametralmente opposta a quella dell'amante virtuoso prospettato dal Ficino. La sua prassi amorosa è segnata dal "vizio" che, producendogli una terribile tensione, lo dilania e lo fa essere un morto vivente, o vivo moriente.
Quella che racconta Bruno in questo libro non è un'esperienza mistica ma un'esperienza "abissale", narrata attraverso liriche, immagini e ossimori, uniche forme nelle quali questa esperienza può essere oggettivata, quasi fosse una sorta di "lingua originaria", intessuta di prosa e di poesia, di poesia e di pittura, nel tentativo di far intravedere quello che la lingua ordinaria solitamente non sa esprimere. Leggere i Furori è un esercizio di Filosofia Trasformativa perché costringe il lettore a mettere in campo tutte le sue facoltà: ragione, passione e fantasia devono lavorare, come nell'amante furioso, in sincronia, ognuna cogliendo una parte significativa del testo, a conferma del detto bruniano che la filosofia sia una forma di poesia e una specie pittura.
"In viva morte, morte viva vivo", così il Furioso esprime il suo stato d'animo attraverso uno dei tanti ossimori presenti nel testo, ma la "morte" qui prospettata, seppur ripresa da quella sindrome del mal d'amore di cui abbiamo trattato nei capitoli precedenti, ci svela l'originalità del pensiero di Bruno. Come ci spiega Tansillo, uno dei personaggi dei dialoghi della prima parte del testo, il Furioso "non è morto perché vive nell'oggetto amato; non è vivo perché è morto a sé stesso". La morte apparente che caratterizza l'amante bruniano, non è causata solamente dal trasferimento della sua anima nell'oggetto del desiderio, come voleva la tradizione medica, quanto piuttosto dal fatto che egli, travagliato dal "vizio", si trova nella condizione particolare di essere "altissimo per l'appetito intellettuale, che non ha modo di giongere numero a numero; è bassissimo per la violenza fattagli dal contrario sessuale che verso lo inferno impiomba".
È su questo punto che si consuma lo strappo tra l'amante virtuoso di ficiniana memoria e l'eroico amante immaginato da Bruno.
Nettamente distinti l'uno dall'alto, essi non solo rappresentano due diverse filosofie dell'amore, ma incarnano due esperienze di vita vissuta radicalmente diverse.
Per il Ficino, di natura non incline ad alcuna sensualità, come di lui dice l'amico e biografo Giovanni Corsi, il vero sapiente nelle cose d'amore è colui il quale, seppur avvinto dai vincoli di Eros, si estranea volontariamente da tutte quelle passioni insite nell'innamoramento, le quali, perturbandogli l'anima, lo costringerebbero a volgersi verso l'esperienza dell'amor carnale. Sta nella casa della temperanza, nella indifferenza verso i bassi istinti considerati come fossero una malattia dalla quale guarire al più presto.
Che Bruno, invece, fosse piacevol compagnetto, epicuro per la vita era cosa da tutti risaputa, come lo stesso Mocenigo, il grande suo accusatore, ribadì al processo con queste parole: Mi disse che gli piacevano assai le donne, et che non havea arivato ancora al numero di quelle de Salomone…", e come lui stesso di sé riferisce nel prologo dei Furori: "Non credo d'esser freddo, se a refrigerar il mio caldo non penso che basterebbero le nevi del monte Caucaso o Rifeo". Vincolato a doppio filo da Cupido, Bruno visse la sua breve vita ignorando la "santa castità", facendo del vizio, della passione e del vincolo carnale gli strumenti gnoseologici della sua ars amandi poi trasferita e fatta sistema filosofico nelle liriche dei Furori.
Solo dall'esperienza del disquarto si sé operata dall'amore, solo dall'aver provato in sé l'esplosione di tutte le passioni, all'uomo deriva la possibilità di intraprendere il lungo cammino verso il primo Vero-Bene, verso quella doppia felicitade, l'una della ritrovata già persa luce, l'altra della nuovamente riscoperta, che sola possea mostragli l'immagine del Sommo Bene in terra.
Certo questo non deve trarci in inganno pensando che Bruno la intenda come un'esperienza a tutti concessa. Quella di Bruno, è bene dirlo, rimane una filosofia aristocratica: tutti possono vivere un'esperienza ma pochissimi sanno fare dell'esperienza una filosofia. Solo gli Eroi, i Mercuri ne hanno facoltà. Ma questa specialissima condizione umana non è intesa da Bruno come frutto della semplice complessione o di particolari influssi astrali. Si tratta di una conquista perseguita con studio e somma fatica e soprattutto con la pratica costante di un modus cogidandi che deve trasformarsi senza mezzi termini in modus operandi:

"…pochissimi son quelli che s'abbattono al fonte di Diana. Molti rimangono contenti de caccia de fiere selvatiche meno illustri, ma la massima parte non trova da comprendere avendo tese le reti al vento, e trovandosi le mani piene di mosche"

Rimane comunque valido per tutti il nocciolo della questione: senza corpo non c'è passione, e se non c'è passione non c'è vincolo d'amore, non c'è eroico furore.
Spirito e materia, Anima e corpo devono procedere alla pari lungo il cammino della conoscenza e questo perché sono ontologicamente uguali e per tanto, diversamente dal sapiente asinino o dal malinconico contemplativo quai Saturno ha pisciato il giudizio in testa, nel Furioso il corpo in carne ed ossa, come soggetto e come oggetto, è coinvolto fino in fondo nell'esperienza amorosa.
Composto di anima e corpo, anche se intesi come entrambi divini, l'uomo bruniano rimane inesorabilmente un'entità finita, mentre l'oggetto della sua ricerca è e rimane essenzialmente infinito. Il finito, insomma, in un qualche modo si mette sulle tracce dell'unità infinita, e prova a rincorrerla, con l'unico mezzo che ha a disposizione per sanare questa sproporzione ontologica: l'Eros, in quanto unica unità di senso e unica unità del reale.
Ma l' Eros è anche il fondamento di tutte le passioni che travolgono l'anima umana: dal timore alla speranza, dalla superbia al disprezzo, dal turbamento alla competizione, dall'umiliazione alla furia, passioni che devono essere vissute e no respinta da colui il quale cerca ciò che mai potrà essere raggiunto, cioè l'infinito.
Questa è la fondamentale differenza esistente tra "conoscenza del sapiente" ed "esperienza" del Furioso.
Immerso fino al collo dentro il processo della vita in perpetua metamorfosi, il "cercatore d'infinito" non può rifugiarsi nella "casa della Temperanza" come fa l'eremita che si masturba nel sogno di una bellezza lontana contemplando ab extra il ritmo della vita. Egli deve accettare e cercare di volgere al meglio il proprio "vizio", anzi, il proprio "doppio vizio".
Sono i contrari, non dimentichiamolo, che secondo Bruno fondano la realtà, la quale è "da contrari, per contrari, ne' contrari, a contrari, e qualora si annullasse o si depotenziasse uno dei due poli, verrebbe a mancare immediatamente quella tensione originaria da cui egli stesso è mosso e sospinto nel suo viaggio verso l'unità.
Insomma, per dirla in chiaro, quelli del filosofo di Nola non sono pensieri puri ed illibati: sono "eroici furori" e non scialbo ascetismo, temperata saggezza o mero dispiegamento di sindrome melanconica, ma un attento ed estremo sforzo atto a perfezionare la propria lussuria mutandola da "bestiale" in "eroica".
Così facendo, il Furiso sperimenta una nuova libertà "nella schiavitù", passando da vincolo a vincolo nella speranza di poter allargare l'orizzonte della propria visione esperienziale, ricercando, di volta in volta, nuovi orizzonti, sempre più larghi, più sublimi, come quando si scala un'alta montagna o, con la potenza immaginativa, si ascende alla luna e oltre, nella consapevolezza che questo allargamento di confini non potrà mai avere fine.
Nell'universo senza margini concepito da Bruno, arrestare questo processo significherebbe aver raggiunto la comprensione del tutto, e questo Bruno sapeva essere cosa impossibile per l'uomo, strutturalmente umbratile e finito.
La scoperta e la tematizzazione dell'infinito, porta come conseguenza il rifrangersi in mille direzioni dell'immagine divina, dell'unità nel mondo, la quale non si offre più all'apprensione attraverso un processo conoscitivo di tipo scalare. La dimensione naturale subisce una sorta di "esplosione", da Bruno presentata attraverso la metafora dello specchio:

Il Spirito poi…quanto al suo essere particolare et individuale, intendono et intendo che si produce di nuovo come da uno specchio grande generale, il quale è vita, e rappresenta una immagine et una forma per divisione e moltiplicazione di supposti parti resulta il numero delle forme, di sorte che quanti sono frammenti di specchio, tante sono forme intiere"

Come a dire che in questa nuova dimensione della natura, l'unità sottesa al reale non è più coglibile per semplice deduzione logica: solo il vincolo d'amore, con tutto il carico della sua passione, è in grado di ricostruire le trame infinite dalla realtà, perché esso stesso immagine esplicata dell'unità .
Allora, le forze appetitive e cogitative con le quali il Furioso si mette sulle sue tracce, necessiteranno di una riconversione, di un nuovo modo di rapportarsi sia tra loro, sia con l'oggetto bramato.
Ed è a questo punto che al Furioso si apre una nuova possibilità di operare, facendosi strumento vivente della magia insita nella potenza di Eros.
Innanzitutto il suo cuore dovrà farsi "esca" nella quale appiccare il fuoco d'amore così che possa diventare il luogo d'attrazione di quelle lacrime che sgorgano dagli occhi e dei sospiri che si innalzano dall'anima. Qui si concilieranno secondo equilibri sempre instabili ed opereranno in sincronia, non più separati e tra loro distanti come accade nella vita ordinaria. Occhi e cuore, lacrime e vampe si rapporteranno secondo un modello il quale, se da una parte garantirà la collaborazione tra intelletto e desiderio piuttosto che la loro contrapposizione, dall'altra, servendosi dell'elemento magico dell'esca, potrà garantire che questa collaborazione abbia effetti fecondi.
L'esca della mente è la verità, scrive Bruno nel secondo dialogo della prima parte, unico vero e vero oggetto del desiderio, bramato e cercato dal Furioso, ed agisce allo stesso modo dell'esca edace prodotta della saetta d'amore, che lo ferisce e lo rende cieco, ma allo stesso tempo lo fa amante e servo di quella verità, creando tra i due un legame indissolubile. Il cuore dell'amante furioso è, a tutti gli effetti, un "centro emittente" che crea legami magici attraverso l'adescamento messo in atto dall'amore e dal desiderio.
La magia, allora, diviene la risorsa fondamentale nelle mani del Furioso, tesa a sanare quella frattura fra occhi e cuore, fra potenza cogitativa e potenza appetitiva che, di fatto, metteva in scacco il suo percorso verso la verità. Una magia erotica intesa come potente strumento di mediazione, la quale, fondandosi su di un principio unitario e connettendo tra loro elementi divenuti omogenei, riconfigura il mondo in una struttura complessa ma ordinata in cui vale il nodo ontologico del principio assoluto attivo/passivo della vita-materia-infinita: omnia fieri-omnia facere.

Immagini mnemoniche al servizio di Eros
"Nihil potest intelligere sine phantasmata" è un assunto aristotelico che Bruno fece proprio, a tal punto che divenne maestro, divulgatore e grande innovatore dell'ars reminiscendi, un'arte che ebbe immensa fortuna nel rinascimento e che da tale principio traeva la sua ragion d'essere. Bruno si dedicò tutta la vita a questa particolare disciplina, scrivendo su di essa una quantità impressionante di testi, ed utilizzandola come un metodo filosofico d'indagine gnoseologica.
L'arte della memoria in generale può essere considerata come una pratica attraverso la quale manipolare i fantasmi, fondata sulla credenza, sempre di origine aristotelica, dell'assoluta preminenza dell'evento fantasmatico sulla parola detta e scritta.
Potremmo considerare il suo fine come la costruzione interna al soggetto di un "mondo fantasmatico" costituito da immagini pneumatiche tenute ad esprimere in modo figurato le realtà del mondo intellegibile di cui il mondo manifesto altro non è che una sua immagine imperfetta, dando così "corpo" a quelle "ombre delle idee" che la mente forma in essa percependole nella realtà.
Si tratta, insomma, di una particolare forma di pittura interiore che crea immagini all'interno dell'anima, operando in modo simmetrico rispetto al processo di conoscenza pneumatica della quale abbiamo parlato a lungo nei primi capitoli di questo lavoro, la quale prevedeva la traduzione in "fantasmi" del mondo circostante, e ciò affinché l'anima stessa potesse riprodurli e tradurli in un linguaggio a lei consono.
L'ars memorae, di contro, cerca di utilizzare le conoscenze intellegibili traducendole in linguaggio fantastico affinché la ragione discorsiva, incapace a leggerle nella loro essenza, possa in un qualche modo appropriarsene.
Il testo di cui stiamo trattando rientra a pieno titolo in questo orizzonte, trattandosi, oltre che di uno scritto filosofico sull'amore, anche di un'opera di mnemotecnica, espressa attraverso l'utilizzo di "imprese", "sigilli", "liriche" e soprattutto di "scene" e "statue" mnemoniche.
Come ci ricorda, infatti, lo stesso Bruno, i Furori non son oblio, ma una memoria e l'utilizzo dei principi dell'arte nei quali il Nolano eccelleva, si palesa in modo evidente nei nodi filosofici più ostici da rendere in linguaggio discorsivo, risolti attraverso quelle immagini magizzate che, per tanto, non vanno lette come semplici metafore, ma come vere e proprie immagini di memoria.
Uno dei punti nevralgici dell'intera opera è il momento in cui il Furioso perviene alla perdita della propria soggettività, causata dalla vista di Diana, nuda emergente dalle acque. Per tradurre il profondo significato filosofico dell'evento, Bruno si serve, come ovvio, di una scena costruita attorno a quelle che nell'arte della memoria si chiamavano immagines agentes.
La figura principale è quella di Atteone, il giovane cacciatore che, sorpresa Diana nuda mentre si bagna in una fonte, viene dalla stessa dea trasformato in cervo e a seguito divorato dai cani con i quali si accompagnava nella sua caccia. La scena compare in due parti distinte dell'opera: nel IV dialogo della prima parte e nel II della seconda parte.
Nella prima, incentrata sull'amore eroico che tende al sommo bene e sull'eroico intelletto che cerca la verità assoluta, la lirica che disegna l'immagine è la seguente:


Alle selve i mastini e i veltri slancia
Il giovan Atteon, quand'il destino
Gli drizz'il dubio ed incauto cammino
Di boscareccie fiere appo la traccia.
Ecco tra l'acqui il più bel busto e faccia,
che veder poss'il mortal e divino,
In ostro ed alabastro ed oro fino
Vedde; e 'l gran cacciator dovenne caccia.
Il cervio ch'a' più folti
Luoghi druzzarv'i passi più leggeri
Ratto vorâro i suoi gran cani e molti.
I' allargo i miei pensieri
Ad alta preda, ed essi a me rivolti
Morte mi dàn con morsi crudi e fieri.

Il carme si riferisce consapevolmente alle Metamorfosi di Ovidio, la cui lettura è certamente influenzata dall'allegorismo venatorio presente nella letteratura duecentesca e trecentesca ma soprattutto riletto attraverso l'interpretazione di questo mito data dal Petrarca che già, nella sua rima Nel dolce tempo della prima etade, cioè la cosiddetta "canzone della metamorfosi" aveva visto nella metamorfosi di Atteone non già una condanna inflittagli dalla Dea, come voleva la tradizione dantesca, quanto piuttosto il culmine di un'ascesa spirituale.
L'intera scena andrebbe letta, come vogliono i dettami dell'arte della memoria, come il soggetto di una reale incisione a stampa, nella fattispecie come una di quelle che abbellivano le migliori edizioni cinquecentesche delle Metamorfosi di Ovidio, da immaginarsi disegnata all'interno della nostra anima. In essa allora vedremmo una Dea con carnagione alabastrina, labbra purpuree, capelli d'oro fino che esce nuda dall'acqua di una fonte ed un giovane con la testa di cervo sul quale infieriscono levrieri e mastini.
Il fatto che la Dea emerga solo con il busto dalle limpide acque della fonte, sta a significare che essa è dotata di una duplice natura: una visibile ed una occulta. Le acque da cui emerge simboleggiano il mondo sensibile, immagine di quello intelligibile figurato attraverso le acque superiori. Il corpo visibile della Dea vuol significare la potenza e le operazioni che vedersi possa per abito et atto di contemplazione. La sua carnagione alabastrina è simbolo della bellezza divina, la porpora delle sue labbra della sua vigorosa potenza; l'oro dei suoi capelli dello splendore della sapienza divina. I cani che vorano Atteone, mastini e levrieri, stanno a rappresentare la volontà e l'intelletto del cacciatore ed il cervo, in quanto preda della caccia, le specie intellegibili de' concetti ideali.
Ma la figura di gran lunga più importante rimane quella di Atteone, il quale figura aver la testa di cervo, ad indicare la trasformazione subita a causa dell'ira della Dea che lo ha mutato da cacciatore in preda.
Come e perché ciò sia potuto avvenire, è il nodo da sciogliere in questa immagine-enigma di arte della memoria.
Ad una superficiale lettura, anche tenendo presenti le osservazioni fatte da Cigala e Tansillo che sono i due personaggi-commentatori usati da Bruno per spiegare le liriche presenti nella prima parte del testo, Atteone rappresenterebbe l'intelletto intento alla caccia suprema, alla visione della Dea, la bramata preda dei suoi stessi pensieri.
Se cosi fosse, però, si avrebbe che l'intelletto solo svolgerebbe nel dramma il ruolo del protagonista, ruolo che, secondo quanto finora detto, metterebbe in secondo piano l'azione della volontà, del desiderio, cioè di quel vincolo d'amore, solo vero protagonista della scena, in grado, lui si, di trasformare l'amante nella cosa amata.
Sarebbe come dire che Bruno, in ossequio alle teorie del Ficino, prospettasse all'uomo la possibilità di un'unione estatica con la divinità, unione ritenuta impossibile dal Nolano per palese sproporzione tra finito ed infinito.
Bruno su di una cosa rimase sempre inflessibile: l'impossibilità dell'incarnazione divina, tesi che lo porterà ad un aspro scontro con la religione cristiana e, di conseguenza, sull' "indiarsi" dell'uomo.
Allora, ad Atteone, esattamente che cosa accade?
Per rispondere alla domanda è necessario prima soffermarsi sulla parola "eroe" che compare nel titolo stesso dell'opera: i Furori provenienti dall'influsso di Venere, sono "eroici" proprio perché trasformano l'uomo che se ne lascia avvincere, in "eroe".
Questo termine aveva nel Rinascimento un significato preciso: gli eroi erano esseri pneumatici che vivevano nella sfera delle stelle fisse. Composti di fuoco, essi erano i ministri di Dio, nominati nella Kabala come Cherubini e Serafini. Le anime degli uomini eccellenti, dopo la morte, potevano elevarsi fino a queste altezze diventando eroiche, potendo cosi contemplare direttamente le "luci" divine, o, citando Agrippa quando parla della quarta specie di furore, cioè quello proveniente da Venere, potevano ricevere da Dio tanta perfezione da giungere alla conoscenza d'ogni cosa mercé un certo contatto essenziale della divinità, che le eleva sopra ogni intelletto"
In secondo luogo, è opportuno considerare il gioco di sguardi presenti nella scena sopra descritta.
Bruno conosceva bene le teorie dei raggi visivi di origine platonica, e ben sapeva che attraverso i canali ottici penetrava nell'anima il fantasma dell'amata e li viveva occupando tutto lo spazio disponibile.
Il furioso-Atteone, in verità la Dea l'aveva già vista, e l'aveva vista nascosta nella bellezza del mondo, ed il suo fantasma era da tempo penetrato nel suo cuore "vampirizzandolo" e causandone, appunto, il suo divenir amante furioso.
L'aveva vista precisamente a Nola, su l'aura Campana che, come spiega Mariconda, protagonista del dialogo secondo della seconda parte del testo, quando, spiegando la lirica: Chi fèmmi ad altro amor la mente desta, afferma:

l'ha ferito prima e se l'ha legato poi; e tienlo sotto il suo imperio più contento che mai altrimenti avesse possuto essere. Questa, dice tra belle ninfe, cioè tra la moltitudine d'altre spece, forme ed idee; e su l'aura Campana, cioè quello ingenio e spirito che si mostrò a Nola, che giace al piano dell'orizzonte Campano.

Allora, ciò che cerca disperatamente il Furioso non è di poterla vedere ma ri-vedere, e questa volta senza quella mediazione fantastica che, in un qualche modo, offusca le riflessioni pneumatiche. Ma forse, il vero scopo della sua ricerca non è tanto quella di vedere o ri-vedere la sua amata, quanto quella di "essere visto" de Lei, così da poter lui stesso penetrare nel suo cuore e li poter ri-vivere. Il problema, però, è che il soggetto del suo amore non è una donna mortale, una qualsiasi Laura o una qualsiasi Beatrice, ma è una Dea e in qualunque modo lui tenti di relazionarvisi, rimane reale la loro sproporzione, perché di natura ontologica. Per questa ragione, lo scambio di fantasmi tra i due possibili amanti può avvenire solamente attraverso una mediazione, cioè solo se il Furioso Amante si fa sufficientemente divino da poter "infettare" la Dea mutandosi in quel cervo amato e cacciato che secondo la mitologia da cui Bruno attinge, è sempre e per sempre compagno di Diana, anzi ne è il paredro.
In fin dei conti, ciò che persegue il Furioso, alter ego di Bruno, è semplicemente il suo stesso destino, quel destino a cui si era già votato quando vide per la prima volta, con l'occhio interiore, la "Diana cacciatrice" in quel di Nola, evento nel quale era già prefigurato il destino di diventare un Eroe in vita.
Al pari dell'amante colpito da mal d'amore, Bruno sentiva dentro di sé di aver perso la propria soggettività e, in quanto morto a se stesso, si era impegnato in una cerca disperata perché a differenza degli altri amanti che si ostinano nell'esplicar gli affetti d'un ostinato amor volgare, animale e bestiale, lui si era messo sulle tracce di un amore infinito, e poteva recuperare la sua esistenza solo se fosse riuscito a trovare un ricovero per la sua anima ormai raminga nel cuore della sua Dea. Esser visto da lei era l'unico evento possibile affinché ciò avvenisse.
Quando Atteone viene visto e vede Diana, questa volta "nuda", cioè svestita dai panni delle apparenti bellezze del mondo, l'evento che determina la sua trasformazione è l'estasi provocata dall'incontro degli sguardi che molto rassomiglia ad un coito. La Dea, finalmente si dà, si lascia possedere, ma nell'unica maniera possibile cioè trasformando Atteone in un essere semi-divino, un eroe, ovvero in quel cervio, a lei famigliare, suo compagno e nuovo amante il quale, abbandonato il livello della sua precedente esistenza, può accedere al suo grembo divino in una forma nuova che risolve tout court la sproporzione che li separa, concedendo agli amanti il giusto premio di un infinito godimento.
La scena della metamorfosi di Atteone prevede anche un'altra immagine, per un certo verso drammatica, che consta nel pasto che i suoi cani (mastini e levrieri cioè a dire il suo stesso intelletto e la sua volontà) si procurano divorando il suo corpo:
…Vedde; e 'l gran cacciator dovenne caccia
Il cervio ch'a' più folti
Luoghi drizzav'i passi più leggeri
Ratto vorâron i suoi gran cani e molti…

Dopo questo "cannibalico" pasto, Tansillo, spiegando a Cigala il senso dei versi, dice: "qua finisce la sua vita secondo mondo pazzo, sensuale, cieco e fantastico…(ora) vive vita da Dei, pascesi d'ambrosia e inebriasi di nettare".
La morte di Atteone sbranato dai suoi cani-pensieri è dunque il culmine dell'esperienza trasformativa del Furioso, ma oscuro ne rimane il significato.
Torna qui utile, per sciogliere questo nodo filosofico, il riferimento ad un autore poco conosciuto, Leone Ebreo cui Bruno, pur non citandolo esplicitamente, appare vicino nel trattare del desiderio.
Nel primo dei Dialoghi d'Amore, composti da Maestro Leone medico Ebreo, stampati a Roma nel 1535, ovvero da Yehidah Abrahamel, medico di Lisbona e raffinato cabalista, leggiamo che il desiderio che muove l'affamato verso il cibo è da intendersi come un vero e proprio processo conoscitivo: " E mediante questo amore e desiderio veniamo alla vera cognizione nutritiva del pane, la quale è quando in atto si mangia: ché la vera cognizione del pane è gustarlo".
Se diamo per buono che l'atto del cibarsi sia null'altro che un atto di conoscenza veicolato dal desiderio, allora dovremo allo stesso modo interpretare l'orrendo pasto dei cani di Atteone.
I suoi pensieri, le sue passioni, la sua volontà, cibandosi del suo stesso corpo, lo conoscono o riconoscono costituendo l'unità perfetta della conoscenza, in altre parole quella tra conoscente e conosciuto.
Il segreto della metafora di Bruno dei cani che divorano Atteone si risolve nell'assoluta unità raggiunta dal soggetto desiderante, nel quale intelletto e volontà (desiderio) cibandosi del corpo divengono un tutt'uno.
Dopo di ciò, il Furioso non sarà più lo stesso; non sarà più come gli altri uomini, dove l'intelletto apprende le cose intelligibilmente, ides secondo il suo modo; e la volontà persegue cose naturalmente, cioè secondo la raggione con la quale sono in sé ma intelletto e volontà, uniti nell'apprensione dell'uno-tutto, saranno una sola cosa, come l'uno in tutto e tutto in uno.
Solamente così, trasformato in unità, Atteone può sperare di congiungersi con la Dea, perché anch'essa è "uno", e l'amore vuol sempre congiungere il simile al simile.
Come dirà nel più tardo De Vinculis, affinché sia dato vincolo d'amore è necessario che nel destinatario del vincolo sia presente qualcosa del vincolante e viceversa: senza questa essenza comune non si dà ne sapere ne potere.
Ricordando che l'amata del Furioso è una Dea e non una donna in carne ed ossa, l'unica possibilità che gli si da per poter essere amato da lei è quella di trasformarsi in un qualcosa che lei possa vedere. In quanto moltitudine nella moltitudine egli rimane invisibile agli occhi dall'amata. Solo diventando lui stesso simile all'essenza di lei, cioè di quell'"uno" di cui lei stessa è immagine, può sperare di vincolarla attraverso quel Dio che dal cieco volgo è stimato insano e cieco, cioè Amore.
Quando Diana avrà "visto" la sua "unità", allora e solo allora potrà avvenire la copula tra i due nuovi amanti, cioè la perfetta unità che è il vero fior d'amore e desiderio, come afferma Leone Ebreo:

" Così accade che l'uomo con la donna: che conoscendola esemplarmente s'ama e desidera, e da l'amore si viene al conoscimento unitivo che è il fiore del desiderio. E così è in ogni altra cosa amata e desiderata: ché in tutte l'Amore e desiderio è mezzo che ci leva da imperfetto conoscimento a la perfetta unità che è il vero fior d'Amore e Desiderio".

Nell'orizzonte radicalmente nuovo in cui si viene a trovare il Furioso dopo la sua trasformazione, la realtà a lui circostante muta di significato acquisendone uno diametralmente opposto a quello riservato agli uomini comuni. Il ché significa, per lui, esser morto al volgo, alla moltitudine, slacciato dalli nodi de perturbazioni, libero dal carnal carcere dalla materia.
Divenuto ormai un essere "simile" alla monade è tutto occhio a l'aspette de tutto l'orizzonte" finalmente "vede" ed è "visto" dall'Anfitrite, il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte raggioni". La vede in se stesso quale immagine della propria unità, come un riflesso della verità essenziale in sé, perché, come spiega Tansillo, già avendola contratta in sé non era necessario di ricercarla fuori de sé la divinità.
Il furioso-Atteone raggiunge così il suo obiettivo dopo aver compiuto un percorso estremamente difficile che da essere multiforme e limitato lo ha catapultato nella dimensione eroica, risucchiato dall'oggetto della sua passione, ma pensare che questa sia le fine della ricerca è cosa da folli! Il compito che il furioso si è dato, è destinato inesorabilmente al fallimento: gli equilibri, nel mondo esplicato, sono sempre precari, mai definitivi. Così vuole la legge ineluttabile della vicissitudine, unica verità cui Bruno rimase sempre fedele.
Ed è per questa legge che il Furioso è stato, è, e sarà sempre un soggetto in preda a tanti martirii, in preda a pena e sofferenza: infelice e felice per un destino che lo ha fatto un morto vivente come ben esplicato nel motto: "viva morte morta vita vivo".
Eppure, e su questo Bruno è categorico, questa terribile tensione che dilania colui che compie questa impossibile impresa, non è inutile, non è infeconda. Cogliere l'unità, seppur per un solo istante, seppur solo come simulacro del vero, significa godere di questa unità, e il godimento è la vera essenza del desiderio. Sta qui la felicità riservata al Furioso, il massimo che possa ottenere un uomo finito che ostinatamente cerca l'infinito. Questa abissale esperienza vissuta da Bruno, se è vero, come è vero, che i Furori sono una sorta di testo autobiografico, ha avuto il valore di renderlo sempre e per sempre diverso dagli altri uomini, soprattutto dai saggi conclamati, che solo hanno la facoltà di ascoltare, con lunghe orecchie asinine la voce lontana di Dio, mentre Lui, l'eroe, che ha saputo mettere in unità le molteplici facoltà della sua anima, diventando l'amante, il prediletto della Dea e con lei, accompagnarsi, uniti in amore, verso nuove ricerche, così come vuole il vicissitudinale destino umano.
Diana, la dea multiforme.
Leggendo gli Eroici Furori, ci si accorge che l'Amata di Bruno assomiglia in modo sorprendente a quella femminea epifania Divina che si rivela a Lucio, l'asino incantato di Apuleio dopo che ebbe pronunciato queste preghiere, aggiungendo disparati lamenti. La Dea appare, avvolta in un'aura di luce, al povero Lucio, mutato per incantesimo in asino, e a lui si rivolge con queste bellissime e dolci parole:

"Eccomi Lucio, commossa dalle tue preghiere, vengo a te, io, la madre della natura, la signora di tutti gli elementi,, l'origine prima dei tempi, la più grande tra gli dei, la regina dei morti, la signora dei celesti, l'immagine unificante di tutti gli dei e le dee; io che regolo secondo la mia volontà le luminose altezze dei cieli, le salubri brezze dei mari, i disperati silenzi degli inferi; e la divinità unica che io sono, il mondo intiero la venera, sotto diverse forme, con diversi riti e con i nomi più varii…"

Non troverei migliori parole per descrivere la Diana di Bruno, anch'essa dea dai molteplici aspetti e dagli innumerevoli nomi.
Allo stesso tempo dea della natura naturata, grande maga, epifania della luna, e grande regina.
Pur costituendo un tutt'uno, questi quattro aspetti della dea si manifestano separatamente nelle pagine di Bruno, e forse val la pena di vederli, uno ad uno.

Diana come Natura
In quanto epifania divina della natura-naturata, Diana è figlia, vale a dire immagine, di Anfitrite, fonte di ogni numero, di ogni specie, di ogni raggione. Bruno, come abbiamo visto, la descrive ornata di chioma aurea, labbra vermiglie, pelle d'alabastro, sorgete dall'acqua e definita come quello uno, che è l'istesso dell'ente, quell'ente che è l'istesso del vero, quello vero che è la natura comprensibile, in cui rifluisce il sole e il splendor della natura superiore, secondo che la unità è destinta nello generato e generante o producente prodotta.

Detto in parole più semplici, Diana è l'onnipotente materia, sostrato divino del cosmo, qui inteso come un essere animato e divino.
Per Bruno, lo sappiamo, il cosmo è costituito da materia animata e ciò che in esso perennemente muta è solo la forma accidentale delle cose, mentre la materia e la forma sostanziale risultano essere indistruttibili e indissolubili.
La materia conserva al suo interno l'infinito, in altre parole l'infinita potenzialità delle infinite modalità dell'esistenza che è la monade che, come la chorā di Platone, non è né visibile ne conoscibile se non accidentalmente attraverso le sue esplicazioni.
Diana, in quanto immagine di questa monade dentro la materia, non è l' "unità essenziale" bensì l' "unità riflessa". Questo perché le potenze attive e passive della materia, nella natura-naturata non coincidono: l'atto, essendo in essa unico e limitato, non può coincidere con la potenza infinita che concerne gli esseri determinati. Atto e potenza coincidono solamente nella monade intesa come principio primo ed assoluto, cioè "complicato", non manifesto e dunque per sempre sconosciuta all'uomo.
Diana, allora, essendo il "simulacro" di Anfitrite, cioè della "natura prima", è tutto ciò che può essere, perché essa è l'intera materia, ma non è tutto ciò che potrebbe essere. Questa sorta di enigma è, di fatto, l'ultima verità cui può giungere la ricerca umana, giacché l'uomo appartiene inesorabilmente all'universo esplicato dove atto e potenza non coincidono e dove l'unità, essendo solo potenziale, non può che manifestarsi come "diade", cioè come tensione tra contrari.
Ed è proprio grazie a questa tensione presente nel simulacro dell' uno primo-vero che gli enti presenti nel mondo sono portati ad essere più cose alla volta, forzando il proprio essere secondo la potenza infinita della materia di cui son composti, la quale, però, eccedendo l'atto produce enti il cui "essere" è solo parzialmente realizzato. Da qui la metamorfosi perenne, la morte, il "vizio" che caratterizza la vita incarnata nella natura.
Contemplare Diana nuda, la dea che è l'ombra di quell'unità, anima del mondo che vivifica la natura, significa non solo percepire, seppur per un solo attimo, l'unità indistinta sottesa alla natura, ma diventare quell'ombra; significa trovare Diana dentro la propria anima, in quel punto in cui intelletto e passione, occhi e cuore si uniscono, forzando così i limiti stessi della propria esistenza umana.
Atteone, l'eroe furioso che era convinto di esistere di per sé, attraverso il vincolo d'amore che lo rende libero-schiavo della sua "Padrona", si rende conto di essere solamente l'amante di un ombra, anzi di essere lui stesso ombra di un'ombra, ma di essere, al contempo, "uno in tutto".

Diana-Circe: la grande maga
In quanto immagine riflessa dell'unità essenziale inesplicata, Diana rappresenta l'unità esplicata ed in quanto tale essa si manifesta nel mondo non più come unità indistinta ma come "diade", avendo già contratto in sé i due contrari, originali e originanti, che sono a fondamento di tutto ciò che esiste in qualità di ente reale.
A differenza di quanto potrebbe sembrare ad una prima lettura, gli Eroici Furori non sono un inno rivolto all'uno sovra sostanziale, quella monade che è, di fatto, oltre l'orizzonte della conoscenza umana, quanto piuttosto un vero trionfo tributato alla "diade", proprio perché, a differenza di quella del teologo, la ricerca del filosofo furioso e mago, rimanendo ancorata alla natura, non può che procedere attraverso una dialettica dei contrari. Nel testo, infatti, il riferimento al "due" come simbolo di ciò che sta a fondamento, compare innumerevoli volte: due soli, due lumi, due stelle, due sorte d'acque, due fonti, doppio varco, due vasi e ancora due specie intellegibili o apprensibili della bellezza divina, due contrari, due metamorfosi ecc.
Il riferimento costante alla dualità chiama in causa proprio la materia in quanto fons et origo del tutto e questo sul rinvio alla tradizione pitagorica di cui Bruno si considerava il continuatore.
Da essa il Nolano riprese l'idea dell'infinità del due supportata dalla teoria, sempre di matrice pitagorica, della migrazione della monade nella diade. La natura naturata, cioè la materia esplicata deve contenere in sé, per far si che tutta la potenza si tramuti in atto, la potenza della diade, cioè quella tensione tra due contrari di cui Diana rappresenta il lato luminoso e Circe quello oscuro, secondo l'allegoria bruniana. Se Diana rappresenta il polo di unificazione della forza metamorfica della natura, Circe rappresenterà il polo dell'esplicazione e della dispersione di tale forza, sarà il lato oscuro e terribile di Diana.
Circe è la "grande maga", la qual significa la onnipotente materia. Ed è detta figlia del sole, perché da quel padre de le forme ha l'eredità e possesso di tutte quante, le quali, con l'aspersion de le acqui, cioè con l'atto della generazione, per forza d'incanto, cioè d'occolta armonica raggione, cangia il tutto, facendo dovenir ciechi quelli che vedono".
Se Diana è colei che illumina, Circe, di contro, sarà colei che rende ciechi; se Diana "slega", Circe "lega".
Poiché Signora della metamorfosi, Circe è depositaria di tutti i segreti della natura: è una grande maga perché le leggi che governano il mondo vicissitudinale sono leggi magiche nelle quali e attraverso le quali opera il grande demone dell'Eros, che riunisce gli enti manifesti mettendoli in mutua relazione.
Ma c'è di più: se veder Diana procura al Furioso una irresistibile tensione verso l'ente metafisico, a rivelargli la vanità della ricerca di un centro assoluto, di un Dio sconosciuto che non avrebbe, almeno direttamente, alcun contatto con l'uomo, è proprio lei, Circe, l'altra figlia del sole. È lei che, svelando a Bruno l'arte della metamorfosi, lo istruisce sull'alta sua maestria che è quella di saper vedere oltre le apparenze, svelandone l'inganno, come ben vediamo nell'inno a lei dedicato: il Cantus Circeus, dove la maga, attraverso un potente incantesimo, mostra, sotto le apparenti sembianze, la vera natura ferina delle diverse tipologie umane. Un insegnamento sostanzialmente antiteologico e anti metafisico, impartito secondo una prassi magica che, togliendo il velo della superficiale apparenza, rivela come ogni essere mantenga una relazione simbolica con le qualità essenziali del tutto.
Sull'impervio sentiero della conoscenza Diana e Circe corrono alla pari, legate con vincolo d'amore non al saggio che nel suo elevarsi verso le sfere celesti prende commiato dal mondo materiale, bensì all'eroe, se per eroe intendiamo quell'uomo che si è fatto demone, simile a quella entità pneumatica che dimora nel cielo delle stelle fisse e si pone come intermediario tra gli dei e gli uomini, come si legge in un passo del De Magia: " quelli…che abitano il fuoco stellare, a volte son detti dei o eroi". Questi, mercé Circe, esperisce integralmente la sua dimensione passionale ed istintiva e tramite la visione di Diana ne fa "pensiero" collocandola su di un piano superiore rispetto alla sfera affettiva dell'uomo comune.
L'amante furioso fa della tensione insita nella dualità manifesta, ombra della monade, la sua forza conoscitiva: vede Diana guardando Circe e vede Circe guardando Diana. E se Diana lo indirizza alla speculazione metafisica, Circe lo istruisce sulla conoscenza pratica, ed è questo il segreto della sua conoscenza; questo il nodo di fondo della filosofia del Nolano che si costruisce attorno ad un sapere dove teoria e prassi si armonizzano formulando l'idea di un filosofo militante che non contemple senza azzione e non opra senza contemplazione.
Circe, dunque, indica a Bruno la valenza gnoseologica di una prassi che è il segreto stesso della natura: "Profonda magia è saper trar contrario, dopo aver trovato il punto de l'unione"
È l'arte di Circe, maga della mutazione, che svela lo stratagemma, l'incanto, la magia messa in opera dalla natura come principio di conservazione di ogni cosa nel tutto.
Ora luce ora tenebra, ora triste ora lieta, Circe appare a Bruno così come apparve Diana ad un antico visitatore in un tempio sull'isola di Clio, come Bruno stesso attesta nei versi d'esordio del De Umbris Idearum, quasi fosse lei e non la "sorella luminosa" la vera eroina degli Eroici Furori: non è forse lei ad offrire ai nove giovani amanti, dopo averli accecati, il vase fatale aprendo il quale potranno ritrovare la luce?
Ma, come si sa, le metafore bruniane non si risolvono mai in modo univoco: rimbalzano e si dispiegano a più livelli.
Così, oltre a quanto finora detto, Circe si manifesta anche sotto un altro aspetto, quello della Lussuria, tema che serpeggia tra le righe dei "Furori" e traspare proprio in quella tensione tra spirito e materia che travaglia l'eroe.
Bruno sapeva giocare con le contraddizioni; sapeva mostrare la luce rivelandone l'ombra, sapeva mostrare un'evidenza negandola, per farla poi rientrare dalla finestra come risulta evidente nell' Argomento preposto alle liriche dei Furori.
Qui, Bruno, pare prendere distanza dall'Amore volgare, animale e bestiale, degno d'essere celebrato solo da personaggi discutibili come quel Tosco poeta, che si mostrò tanto spasimare alle rive del Sorgo per una di Vallechiusa.
Eppure, per quanto lui stesso si sforzasse di presentarsi, di fronte ai dotti puritani di Oxford, paludato di vesti caste ed ascetiche, mai riuscì a scrollarsi di dosso la sua poco onorevole fama, come confermò il patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, suo grande accusatore che di fronte all'inquisizione, il 29 maggio 1592, a proposito di quel Giordano Bruno da Nola che aveva ospitato fornendolo di robbe e denari in quantità dichiarò:

"Oltre di questo, mi disse che gli piacevano assai le donne, et non havea arivato ancora al numero di quelle di Salomone: et che la chiesa facea un gran peccato nel far peccato quello che si serve così bene la natura, et che lui lo havea per grandissimo merito".

Bruno, infatti, non fu mai né asceta né moralista e, infatti, tornando all'Argomento, poco dopo essersi pronunciato così crudamente contro l'amor carnale, con un vero e proprio coupé de theatre, tipico del suo procedere, ribalta la sua versione:

"Ma che fò io? Che penso? Son forse nemico della generazione? Ho forse in odio il sole? Rincrescemi forse il mio e l'altrui esser messo al mondo? Voglio forse ridur gli uomini a non raccorre quel più dolce pomo che può produr l'orto del nostro terrestre paradiso? Debbo tendre di sottrarmi io o altro dal dolce amaro gioco che m'ha messo al collo la divina provvidenza? Non voglia, Non voglia Dio…Mai fui tanto savio o buono che mai mi potesse venir voglia de castrarmi o dovenir eunuco."

Dopo queste parole del Nolano sarà meno ostico immaginare che Circe, la "Divina Signora" che presiede all'eterna generazione delle forme nell'altrettanto divina materia, oltre ad essere l'alter ego della casta Diano, non sia anche l'ipostasi dell'essenza femminile, perennemente generatrice, ed in quanto tale maestra di lussuria.
Non a caso, dunque, il Filosofo di Nola parla di Circeo incantesimo ordinato al servaggio della natura riferendosi all'atto carnale, usando, tra l'altro, l'espressione matrigna natura, nonostante che, poco prima, la natura l'avesse chiamata "Santa".
Ora, come può essere allo stesso tempo matrigna e santa Circe?
Nel testo non troviamo una risposta diretta a questo enigma, ma nel rimando di Bruno a Salomone, qui inteso come l'autore del Cantico dei Cantici, quella sacra lirica che certamente teneva ben in vista sulla sua scrivania, forse scorgiamo una velata soluzione:

O principessa come i tuoi piedi
Sono belli nei loro sandali
Le giunture delle tue cosce
Una mano d'artista le torniva
La tua vulva è un curvo alambicco
Di odoroso liquore non è mai secca
Una manata di grano in un roseto
Ti giace in mezzo agli inguini
Cerbiattini le tue mammelle
Gemelli di gazzella…

…Un sigillo nella tua mente
E un braccialetto sul tuo braccio io sia
Perché l'Amore è duro
Come la morte
Il desiderio è spietato
Come un sepolcro
Carbono roventi sono i tuoi fuochi
Una scheggia di Dio infuocata
Le grandi Acque non spengono l'Amore
I fiumi non lo travolgono
Chi lo compra coi suoi tesori
Ne a disonore..

Mi sono sempre chiesto se il rimando a Salomone, Bruno lo intendesse in omaggio alla proverbiale saggezza di quello oppure alla sua altrettanto proverbiale lussuria: "Questi ebbe settecento donne principesse e trecento concubine" (I, Re, 11,3), che dava l'immagine d'un uomo dotato di una straordinaria virilità, uomo al quale Bruno ebbe in più occasioni l'ardire di paragonarsi.
I Furori, guarda caso, avrebbero dovuto chiamarsi Cantica per il fatto che sotto la scorza d'amori ed affetti ordinari, contiene similmente divini furori, scelta poi abbandonata proprio per non dar adito, in terra puritana, alle male lingue di utilizzare sulla sua cattiva fama per screditarlo.
La tradizione Ebraica leggeva nel Cantico l'allegoria del "Popolo d'Israele" (la sposa) innamorata ed in attesa del suo Dio, mentre ai Cristiani non era stato troppo difficile sostituire ad Israele la Chiesa e qualificare il suo sposo come il Cristo.
Ma a Bruno, spregiatore della natura divina di Cristo e lontanissimo dalla religione ebraica che, tra l'altro, giudicava come la principale causa della decadenza della civiltà, queste interpretazioni andavano senz'altro strette, ed a esse sostituiva un'ermeneutica che, da un lato, poggiava sulla nascosta unità divina nella natura, e dall'altra sul suo esplicarsi nella materia infinita, resa evidente nel momento del suo contrarsi in un bel corpo femminile. La lussuria provocata dalla vista di tale bellezza nell'amante eroico, lungi dall'essere moralisticamente riprovevole, forniva, di contro, la chiave per penetrare il più intimo dei segreti della natura: chiave "Circea" che apre alla conoscenza e che non può non considerare quel più dolce pomo che può produrre l'orto del nostro terrestre paradiso.

Diana-Circe: ambedue immagini della natura naturata, entrambi indiscusse sovrane della conoscenza ma inesorabilmente distanti l'una dall'altra, anzi, una il contrario dell'altra.
Esse regnano sul e nel mondo unite e separate, formando nel loro abbraccio quella Diade, ombra dell'immanifesta monade essenziale, che è l'ossimoro posto a fondamento dell'intero universo. In quanto personificanti la Lussuria, esse rappresentano la "passione del conoscere", in tutte le sue forme e maniere, e se l'una è la lussuria che spinge l'uomo verso le altissime vette della metafisica, l'altra è la sua ricaduta su di un piano più propriamente materiale.
La magia erotica proposta nella nolana filosofia è, come si sarà capito, tramata sull'ordito dei contrari a comporre nodi ossimorici che non possono mai essere sciolti se non accettando l'irrompere del "disordine" in quello che era il mondo "ordinato ma cieco" del soggetto prima che si vincolasse alla passione amorosa.
Insomma, senza Circe, Diana sarebbe semplicemente inimmaginabile, perché senza il suo veleno il pharmakon dell'alabastrina Dea risulterebbe del tutto inutile.

Diana-luna
Che la luna sia nocturna forma Dianae è credenza antica, riportata in tutta la tradizione classica ed attestata dal poeta Ovidio in Metamorfosi XV,196.
Così, anche nei Furori, sebbene Diana sia immaginata come "figlia di Anfitrite", intesa come un sole, si conferma la tradizione e proprio a causa di tale filiazione, la Diva cacciatrice acquista le luminose sembianze di Selene, perché dalla monade che è la divinitade procede quella monade che è la natura…che si contempla e si specchia come il sole nella luna".
La valorizzazione simbolica dell'astro notturno si ritrova nel quinto dialogo della prima parte dove l'ottava "impresa" è appunto dedicata al mistero della luna piena, dipinta su di un cimiero ed accompagnata dal motto: Talis mihi semper et astro a cui si accompagna questa splendida lirica:

Luna incostante, luna varia, quale
Con corna or vote e talor piene svalli
Or l'orbe tuo bianco, or fosco risale,
Or Bora e de' Rifei monti le valli
Fai lustre, or torni per tutte trite scale
A chiarir l'Austro e la Libia le spalli.
La luna mia, per mia continua pena
Mai sempre è ferma, ed è mai sempre piena.
È tale la mia stella
Che sempre mi si toglie e mai si rende
Che sempre tanto bruggia e tanto splende,
Sempre tanto crudele e tanto bella;
Questa mia nobil face
Sempre sì mi martora, e sì mi piace.

Come spiega Tansillo subito dopo la lirica, la luna è da intendersi come rappresentazione simbolica dell'intelligenza particolare del Furioso, la quale sempre è rivolta al suo primo amore, come Diana sempre è rivolta a ricever la luce da quella intelligenza universale che è il suo Apollo-sole.
A volte capita, come recitano i primi versi, che essa appaia nel cielo incostante e varia, Circea diremmo noi, e ciò a significare come le potenze inferiori possano renderla oscura e possano appannare la sua superficie lucida, impedendo la riflessione della divina luce nel mondo, la quale, invece, si presenta sempre ferma e splendente nel medesimo splendor di bellezza.
Ad una prima e superficiale lettura, questa metafora pare indicarci una sorta di difetto insito nell'essenza lunare, come fosse un'incostante superficie riflettente, ma rileggendo attentamente la trama della lirica non possiamo non notare una sfumatura diversa, forse più attinente alle intenzioni del Nolano.
Il Furioso, costretto dal vincolo di Eros a volgersi sempre e comunque verso il volto dell'amata per ricevere i sospirati raggi della sua bellezza non fa altro che emulare la sua stessa amata la quale, seppur partecipi solo come debole ombra dell'infinita luce del Sole, sempre e comunque ne devia i raggi verso il suo spasimante come fisicamente questa Luna che veggiamo con gli occhi, quantunque verso la terra appaia or tenebrosa or lucente. Or più or meno illustrata e illustrante, sempre però dal sole vien lei ugualmente illuminata.
Se vale la catena simbolica Luna-Diana-Circe-Donna, la metafora bruniana si pone in netto contrasto con quella tradizione che vedeva nell'astro notturno, da sempre inteso come simbolo dell'essenza femminile, la rappresentazione di tutto ciò che è effimero, mutevole ed incostante. Bruno, nella Luna ritrova invece un qualcosa di costante e di affidabile ovvero quella salda conversione dell'intelletto e della passione dell'innamorato eroe e furioso verso l'oggetto inoggettivabile del suo desiderio.
Allora, Diana-Luna non è affetta da alcuna mancanza, da nessun difetto; non marca un'assenza bensì una costante e perpetua presenza che si traduce in luce nella tenebra, in feconda penombra volta a rischiarare il travagliato sentiero sul quale l'amante s'incammina al fine di conoscere se stesso e il mondo che lo circonda.
Talis mihi semper cioè, per la mia continua applicazione secondo l'intelletto, memoria e volontade (perché non voglio altro rammentare, intendere, né desiderare) sempre mi è tale e, per quanto posso capirla, al tutto presente, e non m'è divisa per distrazion di pensiero, né me si fa più oscura per difetto d'attenzione, perché no è pensiero che mi divertisca da quella luce, e non è necessità di natura qual m'obblighi perché meno attenda.

Diana: una regina in "carne ed ossa"
Gli Eroici Furori si chiudono in modo singolare offrendoci una scena sospesa tra passato e futuro. L'eroica tensione che ci ha avvinto per tutta l'opera, di colpo si placa, mutando tonalità, ed il tema da filosofico diviene profetico. La messa in scena di questo finale è al contempo mitologica, cosmologica, demonologica, magica e quant'altro.
In un'antica e nuova terra che si disegna all'orizzonte, al cospetto di belle e graziose ninfe del padre Tamesi, nove giovani amanti, resi ciechi da un incantesimo di Circe, ballano in rota, suonando e cantando in lode di un' unica che risplende quasi fosse un novello Sole-Donna, una Magna Mater, un'altra Diana.
Il dialogo quinto della seconda parte che sigilla l'intera opera del Nolano è a tutti gli effetti una profezia, e a pronunciarla sono, a differenza di tutti gli altri dialoghi presenti nei Furori, due donne: Laodomia e Giulia, in omaggio a due graziose sorelle: Giulia e Laodomia Savolino che, con molta probabilità, il giovane Bruno amò in quel di Nola.
Due donne, dicevo, pronunciano l'ultima profezia e la ragione di questa scelta è espressamente dichiarata nell'Argomento et Allegorie del quinto dialogo posto da Bruno all'inizio del testo a mo' di introduzione-spiegazione:

"…perché vi son introdotte due donne, alle quali (secondo la consuetudine del mio paese) non sta bene di commentare, argomentare, desciferare, saper molto ed esser dottoresse, per usurparsi ufficio di insegnare e donar istituzione, regola e dottrina a gli uomini, ma ben de divinar e profetar qualche volta che si trovano il spirito in corpo"

La bellezza che traspare alla vista delle due fanciulle è il veicolo dello spirito divino che, agendo dall'interno della loro anima, le mette in comunicazione con la sua sapienza, traducendosi in parole profetiche che, in questo caso, hanno una valenza prettamente politica.
L'enigmatica figura, Ninfa, Sovrana, Dea-regina, che riempie la scena di questo ultimo dialogo non è una figura mitologica bensì una donna in carne ed ossa: la regina Elisabetta I d'Inghilterra, colei che, secondo le parole di Bruno, ha fatto trionfar la pace e la quiete tra i popoli.
Bruno non fece mai mistero di una sua illimitata ammirazione per la regina-vergine, come attestano i numerosi passi a lei dedicati presenti nelle sue opere, dalla Cena delle Ceneri al De la Causa, dove leggiamo parole che solo un innamorato o un vile adulatore poteva pronunciare (lascio a voli l'interpretazione della vera indole del Nolano):

"(Dove potersi trovare) un maschio megliore o simile a questa
Diva Elizabetta, che regna in Inghilterra: la quale, per esser tanto dotata, esaltata, faurita, difesa e mantenuta da' cieli, in vano si sforzeranno di dismetterla l'altrui paroli o forze?
A questa Dama, dico, di cui non è chi sia più degno in tutto il regno, non è chi sia più eroico tra i nobili, non è chi sia più dotto tra 'togati, non è chi sia più saggio tra consulari?

E non meno lusinghiere sono le parole e lei indirizzate nella Cena delle Ceneri dove, alla Regina, Bruno augura addirittura un impero universale tanto vasto e mistico da sconfinare nell'indefinito:

" Elizabetta, dico, che per titolo e dignità regia non è inferiore a qualsivoglia ré che sii nel mondo; per il giodicio, saggezza, consiglio e governo, non è facilmente seconda ad altro che porti scetro in terra. Certo, se l'imperio de la fortuna corrispondesse e fusse agguagliato a l'imperio del generosissimo spirto e ingenio, bisognerebbe che questa grande Anfitrite aprisse le sue fimbre, ed allargasse tanto la sua circonferenza, che sii come comprender una Britannia e Iberia, gli desse altro globo intero"

Così, non dimeno, anche gli Eroici Furori adombrano quel culto elisabettiano che vedeva risorgere, nella persona della regina Elisabetta, tutti gli ideali della monarchia universale, mito già fiorito in Inghilterra prima dell'arrivo, in quelle terre, dell'esule Nolano; mito che Bruno salutò con entusiasmo e che seppe svolgere in modo singolare.
Fin dalla dedica al molto illustre Signor Filippo Sidneo (Sidney), uno dei principali iniziati al culto di Diana-Elisabetta, la regina è esaltata come quell'unica Diana che regna su quel paese penitus toto divisum ab orbe.
Nel finale, quando i nove ciechi amanti, dopo esser statti raminghi per dieci lunghi anni, giungono sotto il temperato cielo dell'isola Britannica e scorgono le graziose ninfe generate dal fiume Tamigi, s'accorgono che tra esse "una" è di loro la principale. Ad essa porgono quel vase fatale che Circe aveva donato loro, il quale, come d'incanto, s'apre ridonando loro la perduta vista.
Il vaso si apre senza l'intervento diretto di questa, ma per semplice "simpatia" dovuta alla sola forza emanante dalla presenza in loco di questa eminente figura che in realtà è la divina Elisabetta, e la verità in esso contenuta si palesa in tutto il suo splendore, risanando dall'incantesimo Circeo gli occhi dei nove amanti i quali, grati, intonano in suo onore lodi all'Anfitrite.
Elisabetta diviene così, nell'immaginario di Bruno, la Sovrana, la Regina grazie alla cui mediazione il suo nuovo e straordinario ordine universale, da lui "visto" e "vissuto" mercé il vincolo d'amore, potrà finalmente introdursi nel mondo.
La nuova Cinzia che aveva accolto l'esule italiano confortandolo con la sua divina benevolenza, sarà colei che renderà possibile, secondo la presto smentita speranza di Bruno, alla generosa e divina prole della nolana filosofia di non morir entro le fascie, diventando l'ipostasi vivente di quella Diana-Circe-Luna così ardentemente bramata negli Eroici Furori.: potente magia di Eros!

Eros, che muove le cose e gli uomini facendoli schiavi-liberi, tristi-lieti; Eros che si scatena come indomabile fuoco alla sola vista della bellezza muliebre donando verità; Eros che trascina l'anima verso le più alte sfere per poi farla ridiscendere trasfigurata nell'umana carne, suggerisce queste ultime parole all'orecchio di Giulia e Laodomia:

Giulia- " Or io, se per grazia del cielo ottenni d'esser bella, maggiore grazia e favor crado che mi sia gionto; perché qualunque fusse la mia beltade, è stata in qualche maniera principio per far discuoprir quell'unica e divina. Ringrazio gli dei, perché in quel tempo che io fui si verde, che le amorose fiamme non si posseano accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia quanto semplice ed innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere incomparabilmente grazie maggiori a' miei amanti, che altrimenti avessero possute ottenere per quantunque grande mia benignitate"
Laodomia- "Quando a gli animi di quelli amanti, io ti assicuro ancora che, come non sono ingrati alla sua maga Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri ed aspri travagli per mezzo de li quali son gionti a tanto bene; cossì non potranno di te esser poco ben riconoscenti"
Giulia- "Cossì desidero e spero"

…e cossì terminano, o forse iniziano, gli Eroici Furori.



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