GRISELDA TRA PETRARCA E BOCCACCIO

May 26, 2017 | Autor: Eric Haywood | Categoria: Petrarch, Short story (Literature), Boccaccio, Decameron, Boccaccio Griselda
Share Embed


Descrição do Produto

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:02 Pagina I

I libri del Cavaliere Errante Collana di culture, filologie e letterature romanze medievali diretta da Marco Piccat e Laura Ramello

3

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:02 Pagina II

I volumi pubblicati nella Collana sono sottoposti a un processo di peer review che ne attesta la validità scientifica.

Direttori Marco PICCAT Laura RAMELLO Comitato scientifico Roberto ANTONELLI (Università ‘La Sapienza’, Roma) Hélène BELLON-MÉGUELLE (Université de Genève) Ángel GÓMEZ MORENO (Universidad Complutense, Madrid) Marie-Dominique LECLERC (Université de Reims – Champagne Ardenne) Santiago LÓPEZ MARTÍNEZ-MORÁS (Universidade de Santiago de Compostela) Francesc MASSIP (Universitat Rovira i Virgili, Catalunya) Nicolas REVEYRON (Université Luis Lumière, Lyon II) Adeline RUCQUOI (CNRS, Paris) Wolfgang SCHWEICKARD (Universität des Saarlandes, Saarbrücken)

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:02 Pagina III

“Par estude ou par acoustumance” Saggi offerti a Marco Piccat per il suo 65° compleanno A cura di Laura Ramello, Alex Borio e Elisabetta Nicola

Edizioni dell’Orso Alessandria

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici (StudiUm) dell’Università degli Studi di Torino

© 2016 Copyright by Edizioni dell’Orso s.r.l. via Rattazzi, 47 15121 Alessandria tel. 0131.252349 fax 0131.257567 e-mail: [email protected] http://www.ediorso.it Redazione informatica a cura di ARUN MALTESE ([email protected]) È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno e didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22.04.41 ISBN 978-88-6274-698-4

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 351

De insigni obedientia et fide amiculi? Griselda tra Petrarca e Boccaccio Eric Haywood University College Dublin Il Decameron comincia male e finisce male… per l’Italia e gli italiani. Comincia con la descrizione di una città italiana, anzi della città italiana per antonomasia, dove gli “uomini” sono ridotti “quasi come bestie” e le “bestie”, in particolare i “porci”, sono diventati “quasi come razionali”, e finisce con un racconto in cui un principe italiano è affetto da “matta bestialità” e si dimostra “più degno di guardar porci che d’avere sopra uomini signoria”. Certo anche di italiani “magnifici” tratta l’ultima giornata del capolavoro boccacciano (giornata dedicata per l’appunto alla magnificenza), ma la magnificenza che ivi incontriamo non è una virtù esclusivamente italiana, bensì una virtù universale. Oltre agli italiani vi si trovano dei magnifici spagnoli, francesi, greci, cinesi e friulani, dei magnifici moderni e dei magnifici antichi, e accanto ai magnifici cristiani dei magnifici pagani e dei magnifici musulmani. E poi c’è Gualtieri di Saluzzo, il quale “in niuna altra cosa il suo tempo spendeva che in uccellare e in cacciare” e che invece di generare figli voleva solo “a sé partorire perpetua quiete”1. Di questo il Petrarca, poco prima di morire, si rammaricò assai e decise perciò di correre ai ripari, per emendare col senno della “senilità” gli errori giovanili dell’amico (non sempre amicissimo) Giovanni Boccaccio, di cui aveva sì letto quel libro “che giovane hai pubblicato nella nostra lingua materna [quem nostro materno eloquio olim iuvenis edidisti]” ma senza essere riuscito a completarne la lettura, trovandosi troppo indaffarato e impensierito per le sorti del paese, “fluctuante republica”, e dato che il libro era stato scritto non per un pari suo ma “per il popolo e in prosa [ad vulgus et soluta oratione]”2. Solo sull’inizio

G. BOCCACCIO, Il Decameron, v. 1, ed. C. SALINARI, Bari, Laterza, 1971, p. 16 (Introduzione), v. 2 [d’ora in poi: Dec.], pp. 758, 767, 768 (10.10). 2 F. PETRARCA, Le senili, eds. U. DOTTI – F. AUDISIO, testo critico E. NOTA, Racconigi, Aragno, 2004, vol. 3 [d’ora in poi: Sen.], pp. 2216-2217 (Senilis 17.3) (traduzione U. DOTTI). Ringrazio di cuore l’amico K. Clarke dell’università di York per avermi permesso di consultare la sua copia dell’opera, non facilmente rinvenibile ne “la divisa dal mondo ultima Irlanda”. Le traduzioni dal latino sono quelle di U. Dotti, ma ogni tanto ritoccate da me, quando non mi parevano abbastanza fedeli all’originale. Per agevolare la lettura 1

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 352

352

Eric Haywood

quindi si era potuto o voluto soffermare, così come sulla chiusa, “dove le norme della retorica ordinano di porre le cose migliori [ubi rethorum disciplina validiora quelibet collocari iubet]”, e in realtà l’ultima novella dell’opera egli l’aveva trovata a tal punto “dulcis” da averla imparata a memoria, “sia per ripeterla a me stesso, non senza piacere, ogni volta che l’avessi voluto, sia per poterla raccontare, come accade, parlando con gli amici [ut et ipse eam animo, quotiens vellem, non sine voluptate repeterem, et amicis, ut fit, confabulantibus renarrarem]”, e di conseguenza aveva deciso ora di farne partecipi anche “coloro che non comprendono il nostro volgare [nostri sermonis ignaros]”3. Ai non italofoni però, cioè agli stranieri, si poteva davvero ostentare lo “turpe spectaculum” di italiani che, “per quanto si dicano italiani e siano nati in Italia, fanno di tutto per sembrare dei barbari [qui cum Itali dicantur et in Italia nati sint, omnia faciunt ut barbari videantur]”, vale a dire di “matte bestie”, per l’appunto “più degne di guarder porci che d’avere sopra uomini signoria”4? Forse no. Né, a pensarci bene, era lecito lasciar loro intuire la “levitas” di un autore (italiano) che, tutto sommato, continuava a far mostra di immaturità5. Si poteva cioè non rispondere alla lettera che costui poco prima avesse mandato al Petrarca e in cui, oltre a lamentarsi di essere povero, rinfacciava all’amico la troppo lunga consuetudine coi principi e premeva addirittura su di lui perché smettesse di scrivere, visto che era già abbastanza famoso e non più giovane e che aveva, con tutte le sue opere, già sufficentemente privato i suoi seguaci di cose da dire? Ma non sapeva, il Boccaccio, che “l’uomo ricco di virtù non può lamentarsi della scarsezza dei beni temporali [non posse iuste virtuosum virum de inopia temporalium rerum queri]”, che “in apparenza sono stato io a vivere con i principi ma in realtà sono stati i principi a vivere con me [nomine ego cum principibus fui, re autem principes mecum fuerunt]”, che la fama altro non procurava che “invidie infinitum”, che “la vecchiaia è malattia del corpo ma salute dell’anima [esse senectutem morbum corporis, animi sanitatem]”, e soprattutto che “non c’è cosa che pesi meno della penna, non c’è cosa più lieta [nulla calamo agilior est sarcina, nulla iocundior]” e che “la fatica del giogo e la continua applicazione sono il cibo del mio spirito [labor iugis et intentio pabulum

del presente saggio cito prima la traduzione e quindi, tra parentesi quadre, l’originale, tranne che nelle citazioni più lunghe, e, tranne che nelle citazioni più lunghe, non indico (con parentesi o punti sospensivi) i tagli o i cambiamenti (di numero, genere, ecc.) da me effettuati. Ogni corsivo è aggiunto. 3 F. PETRARCA, Sen., cit., pp. 2218-2221 (17.3). 4 Ivi, pp. 2210-2211 (17.2). 5 Ivi, p. 2218 (17.3).

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 353

De insigni obedientia et fide amiculi?

353

animi mei sunt]”6? Deporre il calamo era impossibile. E non era mai vero poi – per citare, anacronisticamente, la famosa massima di La Bruyère – che “tout est dit, et l’on vient trop tard”7. Prova ne fosse questa sua riscrittura “stilo alio” della “historia” di Griselda e Gualtieri8! Per fortuna quella storia il Boccaccio l’aveva ambientata a Saluzzo, cioè – anche se non lo dice personalmente – a piè di una delle cime più imponenti delle Alpi, famosa per essere la fonte di quel “re degli altri, superbo, altero fiume, / ch’encontri ’l sol quando e’ ne mena ’l giorno”, vale a dire del Po, ma riguardevole anzitutto perché parte di quello “schermo” che “Natura pose fra noi e la tedesca rabbia”9. Perché le Alpi, secondo il Petrarca, non erano delle montagne qualsiasi o un semplice elemento del paesaggio, e non erano neanche montagne da scalare, come il Monte Ventoso10. Erano invece un segno e monito “posto” agli italiani “dalla volontà di Dio [Maioris arbitrio]”, perché il Suo disegno fosse loro chiaro e perché essi si potessero opportunamente adeguare al Suo volere11. Detto altrimenti, le Alpi erano state poste là dove sono per permettere all’Italia di essere Italia; e chi dell’Italia reggeva le sorti ne doveva perciò trarre la dovuta avvertenza. Non potevano, i principi d’Italia, permettere alle “fiere selvagge”, al “popol senza legge” di “annidarsi” nelle “belle contrade”! Al “Latin sangue gentile” era doveroso riscuotersi e “sgombrare da sé queste dannose some”12! Ed è appunto quello lo scopo della descrizione del Monviso e del Saluzzese “posta” dal Petrarca in apertura della propria versione del racconto di Griselda, descrizione che in Boccaccio non si trova e che di lì a non molto Chaucer, altro grande ed autorevole riscrittore dell’ultima novella del Decameron, avrebbe chiamata “impertinente”13. Ma “impertinente” non lo è pur minimamente. Difatti, facendo iniziare il racconto con un risonante “est”, che rendeva il Monviso irremovibile, per modo di dire, nonché partecipe dell’eternità e dell’intento divini, il Petrarca vi infondeva, quale parte integrante della trama e causa prima delle sue vicende, quella “gratia celestis” alla quale in Boccaccio

Ivi, pp. 2190-2191, 2202-2203, 2208, 2192-2193, 2212-2213 (17.2). J. DE LA BRUYÈRE, Les Caractères, ed. R. GARAPON, Paris, Garnier, 1962, p. 67. 8 F. PETRARCA, Sen., cit., p. 2248 (17.3). 9 F. PETRARCA, RVF 180 (“Po, ben puo’ tu”), 128 (“Italia mia”). 10 Cfr. Familiaris 4.1. 11 F. PETRARCA, Sen., cit., pp. 2186-2187 (17.2). 12 RVF 128. 13 “…first with heigh stile he enditeth / […] a prohemye, in the which discryveth he / Pemond, and of Saluces the contree, / And speketh of […] / Mount Vesulus in special […] / Me thynketh it a thing impertinent” (G. CHAUCER, The Clerk’s Prologue, in ID., “Canterbury Tales”, ed. A.C. CAWLEY, London, Dent, 1966, p. 222, vv. 41-54). 6 7

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 354

354

Eric Haywood

Dioneo aveva solo accennato post eventum come ad un’improbabile spiegazione dell’incomprensibile comportamento dei due protagonisti14. Ne conseguiva non solo che il racconto si configurava così ad historia esplicitamente italiana − a West side story all’italiana, come ebbi modo di chiamarla in altra occasione15 − ma che l’ambiente in cui si svolgeva, descritto né positivamente né negativamente da Boccaccio, diventava una specie di paradiso terrestre, “gratis”, “apricus” e “iocundus”, retto da un principe che non poteva che essere “insignis” (e non sarà certo un caso che questi viene descritto in termini che echeggiano la descrizione del Monviso e del Saluzzese) e dove perfino nella “borgata di pochi e poveri abitanti [villula paucorum atque inopum incolarum]” in cui abitavano Griselda e suo padre rifulgeva la “bellezza dell’animo e dei costumi [pulcritudo morum atque animi]” (in Boccaccio, si badi, la “pulcritudo” di Griselda si rivela solo dopo che costei ha lasciato la “villa” del “poverissimo” Giannucolo)16: Est ad Italie latus occiduum Vesulus ex Apennini iugis mons unus altissimus, qui, vertice nubila superans, liquido sese ingerit etheri; mons suapte nobilis natura, Padi ortu nobilissimus qui, eius e latere fonte lapsus exiguo, orientem contra solem fertur, mirisque mox tumidus incrementis brevi spatio decurso, non tantum maximorum unus amnium sed ‘fluviorum’ a Virgilio ‘rex’ dictus, Liguriam gurgite violentus intersecat… Ceterum pars illa terrarum de qua primum dixi, que et grata planitie et interiectis collibus ac montibus circumflexis, aprica pariter ac iocunda est, atque ab eorum quibus subiacet pede montium nomen tenet, et civitates aliquot et oppida habet egregia. Inter cetera, ad radicem Vesuli, terra Salutiarum vicis et castellis satis frequens, marchionum arbitrio nobilium quorundam regitur virorum, quorum unus primusque omnium et maximus fuisse traditur Valterius quidam, ad quem familie ac terrarum omnium regimen pertineret; et hic quidem forma virens atque etate, nec minus moribus quam sanguine nobilis et, ad summam, omni ex parte vir insignis… [Vi è, nella parte occidentale dell’Italia, tra i gioghi degli Appennini, un solo altissimo monte, il Monviso, il quale, superando con la sua vetta le nubi, si immerge nel cielo purissimo; un monte che, già nobile di per sé, è nobilissmo per essere la fonte del Po il quale, sgorgato minuscolo dal suo fianco, procede incontro al sole e quindi, divenuto presto rigoglioso per un eccezionale apporto d’acqua, e divenuto altresì non solo uno dei massimi fiumi ma, secondo Virgilio, il re dei fiumi, taglia a mezzo, con la sua corrente impetuosa,

F. PETRARCA, Sen., cit., p. 2226 (17.3). G. BOCCACCIO, Dec., cit., p. 768 (“Che si potrà dir qui, se non che anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti …?”). 15 E. HAYWOOD, La storia di Griselda anglofona: una West side story all’italiana, in AA. VV., “Griselda, metamorfosi di un mito nella società europea”, eds. R. COMBA – M. PICCAT, Cuneo, Società per gli studi storici della provincia di Cuneo, 2011, pp. 93-115. 16 F. PETRARCA, Sen., cit., pp. 2222, 2226-2227 (17.3). G. BOCCACCIO, Dec., cit., p. 759. 14

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 355

De insigni obedientia et fide amiculi?

355

la Liguria… Quanto a quella prima regione di cui ho detto e che, sia per la sua bella pianura, sia per i colli che l’inframezzano, sia infine per le montagne che la circondano è ugualmente soleggiata e gradevole, e che prende appunto nome da quei monti a cui soggiace, essa è ricca tanto di città quanto di notevoli borghi. Fra le altre, ai piedi del Monviso, c’è la terra di Saluzzo la quale, tutt’altro che priva di villaggi e castelli, è retta da alcuni nobili marchesi, di cui uno, che si dice fosse il primo e il massimo, fu un certo Gualtieri, nelle cui mani era il governo sia della famiglia che di tutte le terre; e costui, bello e giovane oltre che nobile per costumi e rango, era un personaggio davvero ragguardevole]17.

Con ciò la “bestialità” si vedeva bandita dal racconto e inoltre veniva attuata la dovuta saparazione della “vertù” dal “furore”, degli italiani dai barbari18. Inevitabilmente, a livello della trama, questo creava problemi per la personalità e il comportamento di Gualtieri. In Boccaccio Gualtieri è un sadico egoista, che pensa solo a rifarsi ad ogni costo − anche al costo di torturare l’innocente sua moglie per dodici anni e passa − dell’onta di essere stato obbligato dai suoi “uomini” a fare “quello che del tutto aveva disposto di non far mai”19. Per dirla con le parole di avvio della Griselda di Apostolo Zeno, sagace lettore della Griselda originale, il Gualtieri del Boccaccio è un principe che si è visto costretto a “prendere le leggi” dai suoi “popoli”, cioè un principe dimezzato, per così dire20. Ed è questa la ragione perché decide di comportarsi da tiranno assoluto (assolutamente bestiale) e di continuare a farlo fino a quando la sua autorità non sarà stata del tutto ristabilita, il che avverrà solo quando i suoi “popoli” saranno stati addestrati a riconoscere che in tutto quello che fa, anche se è l’opposto di quanto aveva fatto poco prima, egli è “il più savio ed il più avveduto uomo che al mondo sia”21. E di questa sua autorità lui solo è l’artefice. Non ci sono né Dio né valori trascendentali nella chiusa del Decameron. Eticamente parlando, la Saluzzo del Boccaccio è una zona franca.

F. PETRARCA, Sen., cit., pp. 2222-2223 (17.3). Perché per “Appennini” sia da intendere “Alpi” e per “Liguria” “Piemonte”, cfr. G. ALBANESE, Griselda in Piemonte: Petrarca e la novella dotta, “Levia Gravia”, VI (2004), pp. 263-295. 18 RVF 128. 19 G. BOCCACCIO, Dec., cit., pp. 758-759. 20 A. ZENO, Griselda, Milano, Marc’ Antonio Pandolfo Malatesta, 1718, atto I, scena I (“Questo, o popoli, è ’l giorno, in cui le leggi / da voi prende il re vostro”: cfr. www.librettidopera.it). 21 G. BOCCACCIO, Dec., cit., p. 761. A proposito del carattere del Gualtieri boccacciano, così diverso da quello petrarchesco, condivido pienamente le vedute di T. BAROLINI, The Marquis of Saluzzo, or the Griselda Story Before It Was Highjacked, “Mediaevalia”, 34 (2013), pp. 23-55. 17

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 356

356

Eric Haywood

Il Petrarca, per conto suo, avendo ricaricato di virtù e di trascendenza il Saluzzese e l’Italia, trasforma Gualtieri in essere umano, soggetto, come tutti gli esseri umani, a slanci di meschinità e slanci di benevolenza, ma soggetto soprattutto al volere divino. La sua decisione di maltrattare Griselda non è più frutto di risentito amour-propre, bensì comune patologia: Cepit, ut fit, interim Valterium, cum iam ablactata esset infantula, mirabilis quedam – quam laudabilis doctiores iudicent – cupiditas sat expertam care fidem coniugis experiendi altius et iterum atque iterum retentandi. [Frattanto, come succede, Gualtieri, quando la bimba era ormai svezzata, venne preso da un curioso capriccio – quanto degno di lode lo giudichino i più savi – e cioè di mettere più profondamemte alla prova la pur già sperimentata fedeltà della moglie e di insistere in siffatti esperimenti]22.

Ut fit. Come succede a tutti. Dopodiché, come succede a tutti, Gualtieri sarà sballotato tra dubbi e risolutezze, fino al momento dello scioglimento previsto dall’esordio, quando apprenderemo che il suo sadismo altro non è che una prova statuita da Dio per ammaestrare non tanto Griselda quanto tutti i “legentes”, “ond’essi abbiano la forza di dare al nostro Dio ciò che ella diede a suo marito [ut quod hec viro suo prestitit, hoc prestare Deo nostro audeant]”23. Il che, si badi, affievolisce notevolmente la suspense del racconto. Quale ne sarebbe stato l’esito ce l’aveva suggerito il Monviso fin dall’inizio. Dell’umanità del Gualtieri petrarchesco è ulteriore conferma il suo ammettere che le “preces” dei suoi “populi” − cioè la loro richiesta che prenda moglie − siano “pie”24. Riconosce subito che hanno ragione, anche se gli dispiace doverlo fare. Il Gualtieri del Boccaccio invece non lo vuole ammettere per niente e risponde d’acchito alla richiesta con una minaccia: “voi proverete con gran vostro danno quanto grave mi sia l’aver contra mia voglia presa mogliere a’ vostri prieghi”. Ma l’umanità del Gualtieri petrarchesco si manifesta soprattutto nella prontezza con cui accetta di sottomettersi ad un “giogo”. Per il suo precursore, il matrimonio era stato un “annodarsi” in “catene”, che ispirava soggezione25. Egli invece vedeva in esso l’affinamento della libertà cui aspiriamo tutti, nonché l’adempimento dell’ordine impostoci dalla Natura (da quella Natura che, creando le Alpi, “ben provvide al nostro stato”) per mezzo del “Vesulus ex Apennini iugis mons”: “è toccata a voi l’avermi assoggettato − io l’uomo più libero che io

F. PETRARCA, Sen., cit., pp. 2232-2235 (17.3). Ivi, pp. 2250-2251 (17.3). 24 Ivi, pp. 2222-2224 (17.3). 25 G. BOCCACCIO, Dec., cit., p. 759. 22 23

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 357

De insigni obedientia et fide amiculi?

357

conosca − al giogo del coniugio; tocchi a me però la scelta di tale giogo [vestrum fuerit me, omnium quos novissem liberrimum, iugo subiecisse coniugii; mea sit iugi ipsius electio]”26. Del resto lo diceva anche il Petrarca nella Senilis precedente. Non ci si può sottrarre al giogo. “Labor iugis et intentio pabulum animi mei sunt”. Ma il giogo al quale più di ogni altro è sottomesso il Gualtieri del Petrarca è quello, precisamente, della propria umanità. Il Gualtieri del Decameron, ricordiamolo, considerandosi sciolto da qualsiasi freno, sia religioso, sia etico, sia politico, sia sociale, sia affettivo, si era adoperato per tramutare se stesso in superuomo, cui fosse lecito plasmare altri esseri umani a sua immagine e che non dovesse rispondere a nessun altro principio di condotta fuori della propria “consolazione”. E il tentativo, a dispetto del rimpianto di Dioneo (“gran peccato fu che a costui ben n’avvenisse”), gli era riuscito perfettamente, tant’è vero che, “maritata altamente la sua figliola, con Griselda, onorandola sempre quanto più si potea, lungamente e consolato vise”27. Fu questo in particolare, secondo me, questa spregiudicata efficacia dell’amoralità, a spingere il Petrarca, per il quale italiano e virtuoso erano sempre stati sinonimi, a voler “porre” su Gualtieri un volto nuovo e al contempo una nuova chiusa sul “giovanile” Decameron. Di questo nuovo volto la spia più probante è il modo con cui i sudditi si rivolgono al principe. In Boccaccio, quasi irati, lo devono pregare “più volte” prima che accetti la loro “preghiera” e quando accetta, lo fa a malincuore. In Petrarca per contro basta un’unica supplica, ma elaborata così sapientemente da rendere impensabile un rifiuto, perché basata su una verità incontrovertibile, l’essere uomo di Gualtieri, per l’appunto, e perciò la sua imprescindibile umanità (messi retoricamente in evidenza sia nell’esordio che nella chiusa della supplica): Tua humanitas, optime marchio, hanc nobis prestat audaciam… Cum merito igitur tua nobis omnia placeant, semperque placuerint, ut felices nos tali domino iudicemus… libera tuos omnes molesta solicitudine, quesumus, ne, siquid humanitus tibi forsan accideret, tu sine tuo successore abeas, ipsi sine votivo rectore remanerent [La tua umanità, egregio marchese, ci presta il coraggio di parlarti… Dato che, giustamente, ci piace tutto quello che fai, e sempre ci è piaciuto, sicché ci consideriamo fortunati di avere un signore come te… libera tutti i tuoi sudditi, te ne supplichiamo, da questa fastidiosa apprensione di mode che, se dovesse accaderti ciò che agli umani accade, tu non debba andartene senza un tuo successore ed essi non rimangano senza un signore a loro gradito]28.

Ivi, p. 759. RVF 128. F. PETRARCA, Sen., cit., pp. 2226-2227 (17.3). Il “giogo” è una delle metafore portanti della versione petrarchesca. 27 G. BOCCACCIO, Dec., cit., pp. 758, 768. 28 Ivi, pp. 758-759. F. PETRARCA, Sen., cit., pp. 2224-2225 (17.3). 26

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 358

358

Eric Haywood

Si tratta quasi di un ricatto, che mette Gualtieri nell’impossibilità di dissentire. Se tu sei uomo (e sappiamo che lo sei) − gli fa capire il portavoce − non puoi non darci retta! A convincere Gualtieri, però, non fu solo la supplica, ma anche e soprattutto la maniera in cui gli fu indirizzata. Nel Decameron, gli “uomini” di Gualtieri, interpellandolo tutti insieme, gli dicono in sostanza: ué principe, bisogna che ti sposi, e presto… ma non preoccuparti, perché la moglie te la troviamo noi! In Petrarca invece gli si rivolge solo “unus”, il quale, sia per “auctoritas”, sia per “facundia”, sia per “familiaritas” col principe, è “maior” degli altri e che, come abbiamo visto, sa parlargli in maniera pia e commovente e perciò convincente. E anche in questo il Petrarca sembra essersi ispirato alla canzone Italia mia, di cui il congedo dice: Canzone, io t’ammonisco che tua ragion cortesemente dica perché tra gente altera ir ti convene, e le voglie son piene già de l’usanza pessima et antica, del ver sempre nemica29.

In altre parole, bisogna stare attenti quando si dice la verità al principe. Non si può interloquire con codeste “bestie” in maniera qualunque. Occorre soppesare bene le parole, altrimenti si rischia di mandarle su tutte le furie. Siffatto monito doveva anche valere, forse, per lo stesso Boccaccio, nei suoi rapporti non tanto con i principi quanto invece con gli amici. Dalla Senilis 17.2 che, insieme alle altre epistole del libro XVII della raccolta, funge da cornice alla riscrittura del racconto di Griselda (di cui perciò non si potrà fare astrazione, volendo capire il senso esatto della “ritessitura” petrarchesca)30 e dove il Petrarca, come abbiamo notato, risponde, spesso in modo concitato, a delle critiche mossegli dal Boccaccio in una lettera ormai persa, si capisce che in quest’ultima il Boccaccio non aveva lesinato sui rimproveri e che il Petrarca ne era stato profondamente urtato. Ma come ti permetti? sembra voler dire al rimbambito (espressione mia, non sua) amico/avversario. Stai attento a quello che dici! Vaglia

Ivi, p. 2224. RVF 128. A questo proposito cfr. K.P. CLARKE, On Copying and Not Copying Griselda: Petrarch and Boccaccio, in AA. VV., “Boccaccio and the European Literary Tradition”, eds. P. BOITANI – E. DI ROCCO, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014, pp. 57-71, cui rimando anche per una più ampia bibliografia in proposito, anche se sono stati pochi finora gli studi che prendono in considerazione la cornice della Griselda petrarchesca. 29 30

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 359

De insigni obedientia et fide amiculi?

359

bene le parole prima di usarle! “Non è questo un costume da consiglieri leali [Non est mos hic fidelium consultorum]”31. Scopo della riscrittura del racconto di Griselda, quindi, era anzitutto quello di permettere al Petrarca di rimproverare l’amico per interposta persona, cioè nel modo più amichevole possibile, facendogli tornare in mente alcune verità assiomatiche, che la sua “inopia” sembravano avergli fatto scordare. La povertà non è un male, specialmente quando si hanno altre “dotes” (Griselda si lamentò mai di essere povera? e non seppe forse valersi con maestria della sua unica “dota”?)32. La “senilità” non è un’infermità (non è vero che a Griselda “si nascondeva nel petto verginale un’anima virile e ricca di matura saggezza [virilis senilisque animus virgineo latebat in pectore]” e che Gualtieri se ne potè rendere conto grazie alla propria “senilis gravitas”?)33. Le decorazioni, quali la “romana laurea” conferitagli dal senato romano, recano non fama ma invidia (Griselda, ripudiata, non rinunciò con serenità a “gli anelli, i vestiti e gli ornamenti che mi hai donato e per i quali ero divenuta oggetto d’invidia [anuli et vestes et ornamenta quibus te donante ad invidiam aucta eram]”?)34. Non si deve mai deturpare l’“habitum patrium” (non ce lo ricorda per sempre il Monviso?)35. Siamo tutti astretti a sopportare il giogo “postoci” dalla Natura (non lo fece anche Gualtieri? e Griselda non ottemperò sempre alla “dura necessità del dover ubbidire [dura parendi necessitas]”?)36. È impossibile preferire il “pingue otium” agli studi (Griselda non si diede sempre da fare per adempiere al proprio “officium”?)37. Non è il caso che tutto sia già stato detto (perché il già detto lo si può sempre “stilo alio retexere”)38. Ma, soprattutto, il Boccaccio non avrebbe dovuto rinfacciare all’amico “di aver perso buona parte del suo tempo ad ossequiare prìncipi [bonas partes temporum sub obsequio principum perdidisse]”39. Solo con l’aiuto dei principi in effetti − se consigliati bene, se memori del monito rivolto loro dalla Natura “quando de l’Alpi schermo / pose fra noi e la

F. PETRARCA, Sen., cit., pp. 2196-2197 (17.2). Ivi, p. 2190. Cfr. la risposta di Griselda quando Gualtieri le ordina di tornarsene “a casa di Giannucolo con la dota che tu mi recasti” (Dec., p. 764). 33 F. PETRARCA, Sen., cit., pp. 2228-2229 (17.3). 34 Ivi, pp. 2208 (17.2), 2244-2445 (17.3). 35 Ivi, p. 2212 (17.2). 36 Ivi, pp. 2234-2235 (17.3). 37 Ivi, pp. 2212 (17.2), 2228 (17.3). 38 Ivi, p. 2248 (17.3). 39 Ivi, pp. 2202-2203 (17.2). 31 32

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 360

360

Eric Haywood

tedesca rabbia” e se intenti unicamente al benessere dei loro sudditi − potrà avvenire la sbarbarizzazione e la salvezza dell’Italia. Fare loro da consigliere, quindi, non è perdita di tempo, bensì opera “pia”, e il loro “imperium” va perciò accettato con la stessa equanimità dimostrata dai “populi” saluzzesi, e in particolare da Giannucolo e Griselda, nei confronti di Gualtieri40. Del resto servire un principe non equivale a esserne succubo. Si può essere coi principi senza essere dei principi, e a questo in particolare mira l’esemplarità della Griselda petrarchesca, la quale, sebbene si metamorfosò immantinente e perfettamente da pastora in marchesa, nondimeno rimase sempre l’umile “virguncula” che era stata prima di sposare Gualtieri: “pure in mezzo alle ricchezze, infatti, nello spirito ella era sempre vissuta povera e modesta [quippe cum in mediis opibus inops semper spiritu vixisset atque humilis]”41. Per cui, quando le verrà imposto di tornare da suo padre, essa si dirà addirittura “felix” di doverlo fare, quasi fosse l’alter ego di quel Petrarca che, avido di “libertas”, “mentre tutti correvano a palazzo, o ricercava i boschi o si riposava nella sua stanza [cum palatium omnes, vel nemus petebat vel in thalamo quiescebat]”42. Bisogna riconoscere però che il Petrarca, se con la riscrittura della fabula di Griselda, o meglio forse, con la “traduzione” di Griselda in “tanta ricchezza” − l’espressione, specie di mise en abîme tesa a legittimare il ridire del già detto e mirante a celebrare l’irriconoscibilità dell’indigente pastorella quando per la prima volta viene vestita da nobildonna, per non dire da “belle infidèle”, è di Chaucer)43 − intendeva da un lato biasimare l’amico del cuore per aver disubbidito alla fede sulla quale si fondava la loro amicizia, dall’altro voleva sicuramente anche manifestargli, per l’ultima volta, tutto l’affetto e la stima che nutriva e aveva sempre nutrito per lui. Ma glieli comunica non tanto per il tramite della “ritessitura” in sé − opera di traditore anziché di “fidus interpres”, come lo riconosce egli stesso44 − quanto invece per mezzo della cornice in cui è inserita, e in particolare dell’ultima delle Seniles, la quarta del libro XVII, nella quale, facendo il verso al boccacciano Dioneo, sembra addirittura aver cercato di mettere in evidenza una qualità che mai ci saremmo aspettati di trovare in lui, vale a dire lo humour, o perlomeno l’auto-ironia.

RVF 128. F. PETRARCA, Sen., cit., p. 2224 (17.3). Ivi, pp. 2228, 2244-2245 (17.3). 42 Ivi, pp. 2242 (17.3), 2202-2203 (17.2). 43 “Unnethe the peple hir knew for hire fairnesse, / Whan she translated was in swich richesse” (G. CHAUCER, The Clerk’s Tale, in ID., “Canterbury Tales”, cit., p. 232, vv. 384385). 44 Cfr. infra. 40 41

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 361

De insigni obedientia et fide amiculi?

361

Del dissacrante humour di Dioneo, che spinge costui a sostituire la “matta bestialità” alla magnificenza quale molla dell’agire principesco, è testimone precipuo nell’ultima giornata del Decameron la conclusione osé del racconto, che ci invita a non prendere troppo sul serio quanto abbiamo appena sentito e ad immaginare una Griselda ben diversa da quella voluta da Gualtieri, “al quale non sarebbe forse stato male investito d’essersi abbattuto ad una che, quando fuor di casa l’avesse in camiscia cacciata, s’avesse sì ad uno altro fatto scuotere il pilliccione, che riuscito ne fosse una bella roba”45. Diversamente, cioè, dal racconto petrarchesco, che l’autore, con l’aiuto del suo Fattore e del Monviso, munisce di senso concreto e univoco, la “roba” confezionata da Dioneo non è che uno schizzo, troppo imperfetto per essere convincente e troppo inverosimile per essere preso alla lettera, fatto del quale, in fondo, ci eravamo potuti rendere conto fin dall’attacco. “La quale”, ci aveva in effetti ammonito Dioneo, riferendosi alla “matta bestialità”, “io non consiglio alcun che segua, per ciò che gran peccato fu cha a Gualtieri ben n’avvenisse”46. In altre parole, l’ultima novella del Decameron nasceva come racconto volutamente aberrante e perciò come scritto che andava per forza riscritto. Era come una sfida lanciata ai lettori e agli scrittori da venire. Chiunque avesse voluto “seguire” Boccaccio (ed era impensabile che non lo si volesse fare, che non si cercasse di cancellare il “turpe spectaculum” di un principe che si comporta da “matta bestia” anziché “magnificamente” e di una moglie vittima accondiscendente e complice di siffatta inumanità) avrebbe dovuto ideare una happy end più verosimile, o almeno differente. Perché non era mai vero, come lo avrebbe poi ribadito lo stesso Petrarca, che si arrivava troppo tardi. Anche se tutto è già stato detto, tutto rimane sempre da ridire. Su questo punto, eccezionalmente (nel quadro dello scambio di lettere in questione), il Petrarca si trovava interamente d’accordo col Boccaccio e decise perciò di condividerne il parere nel modo preciso in cui l’aveva reso noto quest’ultimo, invitando il lettore, sia all’inizio che alla fine del racconto, a non lasciarsi suggestionare dalle pretese di chi racconta47. La scrittura, rammentava all’inizio, è sempre retorica, perché sempre condizionata dallo scopo prefissosi dallo scrittore, così come dalle esigenze linguistiche e stilistiche del genere o della lingua in cui si esibisce, nonché dalla capacità e dalla disponibilità dei suoi seguaci a tenergli dietro. Alla scrittura pertanto doveva sempre precedere la messa a fuoco del pubblico (in questo caso un pubblico “doctior” di non-italofoni), del giusto

G. BOCCACCIO, Dec., cit., pp. 768-769. Ivi, p. 758. 47 Unico altro punto su cui i due concordano, quello riguardante il ruolo svolto da Petrarca nella rinascita di “hec nostra studia”: F. PETRARCA, Sen., cit., p. 2198 (17.2). 45 46

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 362

362

Eric Haywood

registro (dovendosi, in questo caso, scansare la “levitas” della materia trattata) e inoltre dell’imprescindibile soggettività dell’io narrante: ne horatianum illud Poetice Artis obliviscerer: ‘Nec verbum verbo curabis reddere fidus / Interpres’, historiam tuam meis verbis explicui, imo alicubi aut paucis in ipsa narratione mutatis verbis aut additis, quod te non ferente modo sed favente fieri credidi. Que licet a multis et laudata et expetita fuerit, ego rem tuam tibi, non alteri, dedicandam censui. Quam quidem an mutata veste deformaverim an fortassis ornaverim, tu iudica [per non dimenticare il precetto oraziano che si legge nell’Arte poetica e che non vuole che ‘ci si curi di rendere il testo parola per parola come un traduttore scrupoloso’, l’ho rielaborata a mio modo; non solo, ma in qualche luogo dello stesso racconto (non molti) sono intervenuto con tagli ed aggiunte, certo com’ero che mi avresti non solo perdonato ma approvato. Questa mia traduzione comunque, che mi è stata parecchio lodata e richiesta, ho pensato di doverla dedicare soltanto a te, essendo infine cosa tua. Se poi, nella nuova veste che le ho dato, l’abbia imbruttita o abbellita, guidicalo tu]48.

La pura verità, insomma, non esiste. Le parole sono o mie o tue, il racconto o roba tua o roba mia, e solo dalla complicità tra scrittore e lettore può scaturire la verosimiglianza49. Ma se così stavano le cose, con chi o con che ci si doveva accordare nella disputa tra i due amici? Con la lectio facilior di Dioneo, o con quella difficilior del Petrarca? Quest’ultimo, a quanto pare, non aveva dubbi in proposito. Pur riconoscendo che i diritti d’autore spettavano al Boccaccio (‘è cosa tua’), si affrettava nondimeno a ricattarlo, per costringerlo, come avrebbe poi fatto con Gualtieri quell’“unus” dotato di “auctoritas”, “facundia” e “familiaritas”, ad ammettere che vi è difetto d’autorità quando manca il consiglio e che alla “levitas” giovanile non supplisce l’assennatezza senile. La tua benevolenza − dirà il consigliere al Gualtieri petrarchesco − non ti consente di non darci retta. La nostra amicizia − dice il Petrarca al Boccaccio − ti obbliga ad “approvarmi”: alla bestialità del tuo marchese di Saluzzo non si può non preferire l’umanità del mio. Eppure, non appena avrà finito di riscuotere il debito dell’amicizia, provvedendo il Decameron di chiusa più decorosa, per dimostrare che l’anelito della scrittura e la spinta al meglio non vengono mai meno, l’aedo della senilità si premurerà, nell’ultima delle Seniles, di prendere le distanze da quanto aveva detto poco prima.

Ivi, pp. 2220-2221 (17.3). Anche la verosimiglianza di cui parla G. ALBANESE (Griselda, cit.), a ben guardare, è più letteraria che “reale” e nasce solo dalla (dotta) complicità tra scrittore e lettore.

48 49

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 363

De insigni obedientia et fide amiculi?

363

Racconterà, in quella Senilis 17.4, di aver dato la novella da leggere (non è chiaro se nella versione sua o in quella del Boccaccio) a due loro amici, l’uno padovano, l’altro veronese, e che ciascuno vi reagì in modo diverso. Il padovano, persona dallo “animus mitissimus” e non si può più “humana”, ne fu commosso fino alle lacrime, che gli impedirono di completarne la lettura e lo costrinsero perciò a chiedere a un suo compagno, “doctus satis vir”, di continuare in sua vece. Per conto suo il veronese, amico “ingegnosus”, la lesse d’un tratto, senza scomporsi o commuoversi, perché la giudicò non storia “vera” ma “ficta”, parendogli impossibile che potessero realmente esistere “tanto amore coniugale, tanta fedeltà, tanta sopportazione e costanza [tantus amor coniugalis, par fides, tam insignis patientia atque constantia]”. Lì per lì il Petrarca, che aveva interpretato la reazione dell’amico umano e sensibile “nel suo senso migliore [in optimam partem]”, non rispose a quello “ingegnoso”, “per non far finire una conversazione giocosa e amichevole nell’acrimonia di una disputa [ne rem a iocis amicique colloquii festa dulcedine ad acrimoniam disceptationis adducerem]” − ‘come hai avuto l’imprudenza di fare tu, Giovanni’, verrebbe da aggiungere − ma ora, per il tramite di quest’ultima epistola, vale a dire, ancora una volta, per interposta persona, egli gli fa sapere quello che avrebbe voluto dirgli subito50. A ricordarsi del fatto che la riscrittura della fabula di Griselda era stata una netta presa di posizione a favore dell’umanità, a qualcuno potrebbe sembrare che, ciò facendo, il Petrarca volesse prendere le distanze dall’ingegnosità e schierarsi senza equivoci a favore di una lettura alla padovana del racconto, perché più consona con la verità che veicolava. Ma a leggere bene l’epistola si noterà che il Nostro non cerca di far credere ai lettori che Griselda e Gualtieri siano personaggi che sono davvero esistiti. Invece dice semplicemente che non è da escludere lo siano stati purché si misuri la realtà e la storia con il metro non della pusillanimità ma della magnanimità. Se qualcosa risulta difficile per te, non vuol dire che sia impossibile per tutti: esse nonnullos qui, quecunque difficilia eis sint, impossibilia omnibus arbitrentur, sic mensura sua omnia metientes, ut se omnium primos locent, cum tamen multi fuerint forte et sint, quibus essent facilia que vulgo impossibilia viderentur. Quis est enim, exempli gratia, qui non Curium, ex nostris, et Mutium et Decios, ex externis autem, Codrum et Philenos fratres, vel, quoniam de feminis sermo erat, quis vel Portiam vel Hipsicratheam vel Alcestim et harum similes non fabulas fictas putet? Atqui historie vere sunt [esistono persone le quali ritengono che tutto ciò che è arduo per loro, è impossibile per gli altri. Esse, quasi fossero i modelli

50

F. PETRARCA, Sen., cit., pp. 2252-2255 (17.4).

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 364

364

Eric Haywood

supremi, fanno giudizio di tutto secondo la loro stregua, mentre invece, sia in passato e probabilmente anche nell’oggi, ce ne sono che sanno fare ciò che comunemente si ritiene impossibile. Chi infatti, per fare qualche esempio, non riterrebbe favoloso ciò che si narra, fra i nostri, di Curio, di Muzio o dei Deci; oppure, fra gli stranieri, di Codro e dei fratelli Fileni; o ancora, passando a esempi femminili, di Porzia, di Issicratea, di Alcesti o di altre consimili eroine? Eppure, le loro, sono storie vere]51.

Perché ciò che si è verificato in passato, o meglio, perché ciò che riteniamo si sia verificato in passato possa avvenire di nuovo, bisogna, cioè, volere che avvenga. La realtà la creiamo noi, ciascuno a seconda del proprio punto di vista, a seconda di ciò che giudica opportuno considerare accaduto o da accadere. O è roba mia, come si è detto, o è roba tua; e anche il Monviso, in fin dei conti, nonostante il suo innegabile Dasein, è solo un traslato retorico, una forzatura singolare del linguaggio. Sarebbe assurdo perciò pretendere che gli altri non dicano ciò che vogliono o che gli si possa far dire ciò che non vogliono. Ciascuno è padrone di dire quello che vuole. È questa la vera conclusione di quest’ultimo (e scherzoso?) scambio di lettere tra Petrarca e Boccaccio; e lo dimostra enfaticamente la chiusa dello scambio. Chiusa − “dove le norme della retorica ordinano di porre le cose migliori” − che è anche palinodia, ossia provvocatorio sovvertimento di ciò che ne aveva costituito la premessa. Avendo appena appreso, scrive difatti il Petrarca nella parte finale della lettera, che né la Senilis 17.3 né quella precedente erano giunte all’amico, colpa i doganieri [“custodes passuum”], che si dilettano a sequestrare lettere dai contenuti oltraggiosi alle loro “orecchie asinine [aures asininas]” e apparentemente lesivi della “angosciata e superba esistenza [trepida ac superba vita]” dei signori che servono (signori superbi, si badi, e non più umani), egli decide di congedarsi dai lettori, e in particolare dal suo lettore privilegiato, con una risentita invettiva contro quei “ladri di lettere [predones literarum]” che ti fanno passare la voglia di scrivere, invettiva che prende di mira non soltanto un’effettivo fatto storico (questa sì che è realtà!) ma più in generale, direi, la pratica, ufficiale o ufficiosa, della censura, cioè, ancora una volta, dei diritti d’autore e della versione autorizzata di un testo. Se la cosa è mia − ci invita a domandarci − chi ti permette di farla tua? Se il senso è quello che le ho dato io, perché dargliene un altro? Se sono io l’autore, come mai ti senti autorizzato a intaccare la mia autorità? Più sentiva la morte vicina e più il Petrarca, sembrerebbe, si considerava vulnerabile. Tutto sommato, si diceva forse, aveva

51

Ivi, pp. 2254-2257 (17.4).

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 365

De insigni obedientia et fide amiculi?

365

ragione Dioneo. Il modo migliore per chiudere era di lasciare la questione aperta. “Che si potrà dir qui?”. Prima di tacersi per sempre, però, era necessaria un’ultima prova de insigni obedientia et fide amiculi. Bisognava dare atto al Boccaccio della sua senile avvedutezza, perché anche lui, tutto sommato, aveva ragione, ed era stato un errore (o magari un futile gioco?) risentirsi con lui. Sì, sono vecchio, ammette ora il Petrarca. Sì, sono stanco. Sì, mi è passato il gusto di quel “pabulum animi mei”: huic tedio accedit etas et lassitudo rerum pene omnium, scribendique non satietas modo sed fastidium; quibus iunctis inducor ut tibi, amice, et omnibus quibus scribere soleo, quod ad hunc epystolarum stilum attinet, ultimum vale dicam [a ciò aggiungi il peso della mia età, la stanchezza che provo ormai per quasi tutto, e non soltanto la sazietà ma il fastidio che sento dello scrivere e capirai quindi, messe insieme tutte queste ragioni, perché mi senta incline a dare il mio ultimo addio – per ciò che concerne questo mio espitolario – sia a te, amico mio, sia a tutti coloro che erano i miei consueti corrispondenti].

Ho detto tutto, non avendo detto niente, visto che è tutto da ridire. Lascio il posto ad altri dunque, come me l’avevi chiesto. “Valete amici” quindi, “valete epystole”52.

52

Ivi, pp. 2256-2258 (17.4).

Ramello.3a_Layout 1 05/10/16 22:03 Pagina 366

Lihat lebih banyak...

Comentários

Copyright © 2017 DADOSPDF Inc.