Iacopo Vagnucci: vescovo e committente d\'arte nel secondo Quattrocento

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RAFFAELE CARACCIOLO

IACOPO VAGNUCCI vescovo e committente d’arte nel secondo Quattrocento Provincia di Perugia

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IACOPO VAGNUCCI vescovo e committente d’arte nel secondo Quattrocento

Prefazione di Francesco Federico Mancini

Provincia di Perugia

Impaginazione Ufficio Relazioni Esterne e Editoria Provincia di Perugia Stampa Tipografia Agraf - Perugia Dicembre 2008 ISBN 978-88-86255-17-2

INDICE 7 9 11 15

Presentazione di Giulio Cozzari Presentazione di mons. Giuseppe Chiaretti Prefazione di Francesco Federico Mancini Introduzione

21 23 28 32 40 43 50 54

Capitolo I La vita 1. La carriera ecclesiastica (1416-1450) 2. Al servizio della Curia romana (1450-1458) 3. Il vescovato sotto Pio II e Paolo II (1458-1471) 4. Il vescovato sotto Sisto IV (1471-1482) 5. Il ritiro alla pieve di Corciano (1482-1487) 6. Dionisio Vagnucci vescovo di Perugia (1482-1491) Note

71 73 79 91 98 106 116 144

Capitolo II La cappella di Sant’Onofrio nel duomo di Perugia 1. L’addizione del transetto (1480 ca) 2. La cappella Vagnucci (1481-1484) 3. La Pala di Sant’Onofrio (1483-1484) 4. L’iscrizione perduta 5. Il ritratto del vescovo e la devozione al santo eremita 6. Le vetrate (1484 ca) Note

163 166 173 178 187 195

Capitolo III Perugia, cattedrale di San Lorenzo 1. Il Monumento Baglioni (1451) 2. Gli altari di Agostino di Duccio (1473-1475) 3. Il messale della Biblioteca Capitolare (1474-1478) 4. Il tabernacolo di Niccolò del Priore (1491-1492) Note

6

201 204 221 228 232 237

Capitolo IV Il culto delle sacre reliquie 1. Il Reliquiario Vagnucci di Cortona (1457-1458) 2. La donazione del reliquiario alla città (1458) 3. Il Reliquiario dei Serviti di Cortona (1483) 4. Il Sant’Anello di Perugia (1473-1488) Note

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Appendice A Documenti

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Appendice B (di Daila Radeglia) I restauri della Pala di Sant’Onofrio

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Appendice C La Pala di San Martino di Petrignano del Lago

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Appendice D Il duomo di San Lorenzo nella seconda metà del ’500

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Bibliografia

PRESENTAZIONE Questo libro dimostra che, proprio partendo dai momenti meno illuminati dalla storiografia, si può far riemergere un tessuto di documentazione adeguato a ricomporre il quadro storico desiderato. Le conoscenze sulla cattedrale di Perugia, ad esempio, sono tante e di notevole spessore. Eppure, di decenni cruciali per la sua storia come quelli della seconda metà del Quattrocento, mancano interi filoni documentali, bisogna avere il coraggio di rimettere insieme i pochi tasselli disponibili e di riunirli fino a farli scintillare con la forza intelligente generata prevalentemente dall’amore per gli indizi. In questi termini, infatti, ha lavorato Raffaele Caracciolo, concedendosi, se così si può dire, il lusso di orientare la sua ricerca intorno alla figura di Iacopo Vagnucci, vescovo di Perugia fra il 1449 e il 1482. Il “lusso” e il “rischio”: il primo perché troppo importante è stato il personaggio, il secondo perché la catena storiografica legata al capo del suo nome si è spezzata e persa nei secoli nonostante la fama e i meriti del protorinascimentale pastore perugino. L’esito di una ricerca avviata fra molti limiti e tante incertezze è, comunque, esaltante e sorprendente. Volentieri, perciò, il nostro ente fa uscire come propria edizione un volume che risente di molteplici ispirazioni e si avvale, ben riunite nella persona del suo autore, di competenze scientifiche diverse. Centrale, nel libro stampato così come per la ricerca che l’ha sostenuto, è la personalità del vescovo Vagnucci. Più o meno intorno alla metà dell’opera si troverà quel potente atto d’affetto dell’autore per il protagonista del suo libro che è la conferma dell’identificazione della figura del Vagnucci nella signorelliana Pala di Sant’Onofrio. È, dunque, in questa parte del libro che si capisce, come meglio non si potrebbe altrove, che dal ricominciare a dare un’identità fisica ai lineamenti del personaggio si compie un grande passo per sostenere il ritrovamento di tutti gli altri tasselli della sua personalità morale e della sua caratura spirituale. Giulio Cozzari Presidente Provincia di Perugia

PRESENTAZIONE Sono lieto e onorato di presentare al pubblico questo studio magistrale del dottor Raffaele Caracciolo riguardante un frammento di storia ecclesiastica (che è anche storia artistica, culturale, sociale, religiosa…) della diocesi di Perugia, una storia che travalica i confini d’una singola opera per aprire scenari e connessioni di più ampio respiro. La scoperta documentata di committenze, protagonisti, opere e dei loro intrecci e influenze è sempre largamente meritoria, soprattutto quando tali scoperte interessano artisti come Luca Signorelli e capolavori come la Pala di Sant’Onofrio nella cappella omonima del duomo di Perugia. È un culto, un’opera, una cappella d’età umanistica legata ai nomi dei due colti vescovi cortonesi Vagnucci, Iacopo e suo nipote Dionisio, che coprirono la seconda metà del XV secolo; un tempo che fu contrassegnato da molti eventi artistici ed anche devozionali, ben ricordati nella storia cittadina: dalla fondazione a Perugia del primo Monte di Pietà per contrastare l’usura (1462) e dei coevi singolari Monti Frumentari, sino all’incredibile sacro furto a Chiusi, ad opera di frate Vinterio, d’un antico e venerato cimelio, l’anello nuziale di Maria, riposto dapprima nella cappella priorale e poi in sito irraggiungibile della cattedrale. La fatica di addentrarsi tra le carte, e soprattutto, quando le carte non ci sono più, tra gli indizi, i confronti, le ipotesi è ben nota a chi svolge questo tipo di ricerche, che hanno la stessa forza emotiva di scoperte più reclamizzate. Sento il dovere di ringraziare l’Autore e coloro che lo hanno guidato e aiutato in questa sua ricerca, che ha consentito di far luce su una pagina importante della storia della cattedrale e della pietà del popolo perugino. Altre pagine verranno a breve illustrate dagli scavi che si stanno facendo al disotto della cattedrale e che documenteranno ulteriormente la vita religiosa della Chiesa perugina. + Giuseppe Chiaretti Arcivescovo di Perugia-Città della Pieve

PREFAZIONE

Gli studi sull’Umanesimo perugino si arricchiscono, grazie a questo volume, di un contributo fondamentale. Il lavoro di Raffaele Caracciolo, condotto con impegno, serietà e rigore filologico, colma un vuoto storiografico, fa progredire le nostre conoscenze, stimola ulteriori approfondimenti non solo in chi si occupa di storia ecclesiastica, ma anche in chi pratica e coltiva la storia dell’arte, la storia delle istituzioni, la storia della cultura. L’approccio seguito dall’autore nel restituire una concreta fisionomia al cortonese Iacopo Vagnucci, dotto e intraprendente prelato, che guidò la diocesi di Perugia dal 1449 al 1482, è esemplare per più di un motivo: innanzitutto perché si fonda su un’attenta rivisitazione dei pochi studi esistenti, il più delle volte originati da spunti occasionali; in secondo luogo perché è supportato da una solida indagine archivistica; da ultimo perché si configura come uno studio a tutto campo, che cala il protagonista nella realtà storica del suo tempo. Se fine prioritario del volume è, come spiega l’autore, indagare sul mecenatismo artistico del Vagnucci, l’analisi storica del contesto ne rappresenta la necessaria premessa. Le aspirazioni culturali del vescovo cortonese vengono valutate in rapporto al suo denso, movimentato percorso biografico, alla sua forte e volitiva personalità, alla sua dimensione di uomo di potere, saldamente ancorato al carro della politica. Nato intorno al 1416, il Vagnucci entra, giovanissimo, a contatto con figure di primo piano. Conosce a Firenze Gabriele Condulmer, papa dal 1431 con il nome di Eugenio IV; entra in consuetudine con Niccolò Albergati, vescovo di Bologna e cardinale di Santa Croce in Gerusalemme; frequenta Tommaso Parentucelli, anche lui papa dal 1447, con il nome di Niccolò V. Grazie ai buoni uffici dello zio, priore della Certosa di Firenze, legatissimo all’Albergati e al Parentucelli, Iacopo scala rapidamente i vertici della gerarchia ecclesiastica. Addottoratosi in utroque a Bologna, diviene prima segretario del Parentucelli, quando costui, morto l’Albergati, assume il vescovato di Bologna; quindi cubicolario e chierico di

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camera, quando lo stesso Parentucelli ascende al soglio di Pietro. Ha inizio da questo momento la fulminante carriera del Vagnucci che nel 1448 diviene vescovo di Rimini e, nel 1449, vescovo di Perugia: una carica, questa, che riuscirà a onorare solo dieci anni più tardi, dopo aver rivestito, sempre per volontà papale, prima la carica di governatore a latere di Bologna, quindi l’ufficio di tesoriere e vicecamerlengo pontificio. I suoi meriti politico-diplomatici gli frutteranno l’elevazione al rango nobiliare. Nel 1450, ricevuto dal papa il feudo di Petrignano del Lago, otterrà dall’imperatore l’autorizzazione a fregiarsi dello stemma gentilizio, un orso con vello dorato, incoronato e recante nella zampa destra tre rose. La morte di papa Parentucelli (1455) e l’ascesa al soglio pontificio di Callisto III Borgia non interrompe la fortuna di Iacopo, che diviene referendario papale. Le cose cambiano con Enea Silvio Piccolomini, subentrato a papa Borgia nel 1458. “Unico fra tutti i pontefici sotto i quali si snoda la carriera ecclesiastica del Vagnucci - scrive Caracciolo - pare che il Piccolomini non si sia avvalso delle doti diplomatiche maturate dal cortonese in seno alla curia romana, benché abbia mantenuto con lui un rapporto assai cordiale sul piano della stima personale”. È a questo punto che il Vagnucci, sollevato da incarichi di curia, trova il tempo per dedicarsi alla diocesi perugina. Se ragioni di ordine politico lo costringono nel 1459 a prendere l’impopolare e antidemocratico provvedimento di sopprimere le libertà universitarie di Perugia, la sua immagine si riscatta decisamente quando, per arginare l’odioso e dilagante fenomeno dell’usura, promuove, nel 1462, l’istituzione del Monte dei Poveri. Nel 1464, morto Pio II, torna a occuparsi di “questioni romane”. Paolo II, che non tarda ad accorgersi delle sue doti politico-diplomatiche, lo fa prima governatore di Fano e della Romagna, quindi di Spoleto, Narni ed Amelia. Con Sisto IV Della Rovere Iacopo riconquista l’ambita carica di vicecamerlengo; carica che esercita nel luglio del 1478, quando il pontefice è costretto ad allontanarsi da Roma. La parabola più alta del suo prestigioso curriculum è rappresentata dalla nomina, nel 1482, ad arcivescovo di Nicea. La conseguente rinuncia alla diocesi di Perugia apre la strada al nipote Dionisio, che gli subentra il 29 maggio di

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quell’anno. Ritiratosi a vita privata, il Vagnucci passa lunghi periodi nella residenza fortificata di Pieve del Vescovo, nei pressi di Corciano. Qui dopo aver impiantato “un’azienda agricola in grado di fornirgli una fonte ulteriore di guadagno” e aver trasformato l’antico maniero in una “dimora signorile lontana dal caos e dai torbidi cittadini”, conduce un’agiata vita neo-feudale. E qui, fra gli otia di campagna e la caccia, sua grande passione, si spegne il 28 gennaio 1487, all’età di 71 anni. Infaticabile promotore delle arti, il Vagnucci è protagonista, negli anni del suo lungo episcopato, del rinnovamento della cattedrale di Perugia. È per sua volontà che vengono realizzati il cenotafio pensile del vescovo Giovanni Andrea Baglioni, la statua bronzea del pontefice Paolo II, gli altari marmorei di San Bernardino e della Pietà, il monumentale coro ligneo; e che, soprattutto, viene dipinta la famosa pala di Sant’Onofrio, indiscusso capolavoro della pittura rinascimentale italiana, opera che mostra l’autore, il cortonese Luca Signorelli, alla ricerca di un eroico gigantismo, di una forma solida e compatta, di stupefacenti effetti-verità. Non è un caso che lo studio di Caracciolo dedichi quasi quaranta pagine all’esame di questo dipinto, analizzato in ogni minino dettaglio. Riflessioni sulla datazione dell’opera, che un’iscrizione, oggi scomparsa, dice eseguita nel 1484, sulla fortuna critica della stessa, sulla cappella che originariamente l’accoglieva, sull’iconografia e sullo stile dei santi, sulla storia dei restauri, sulla figura di sant’Ercolano, da molti interpretata come ritratto dell’ormai vecchio committente, conferiscono grande pregio a questa parte del libro; dove non manca un capitolo dedicato alla vetrata che in antico si trovava al di sopra della tavola. Lavorando su più fronti (documenti, disegni antichi, frammenti superstiti, oggi visibili nel Museo del Sacro Convento di Assisi), l’autore propone una “ricostruzione virtuale” della vetrata, dimostrando che esiste un nesso logico, una concatenazione tematico-concettuale tra i santi realizzati da Nerio di Monte, forse su disegno di Bartolomeo Caporali, e quelli dipinti dal Signorelli. Il volume si chiude con una riflessione su un aspetto caratteristico della personalità del Vagnucci: il culto per le reliquie; culto che se da un lato si spiega “con il desiderio di

accumulare meriti per l’aldilà, attraverso la commissione di opere essenzialmente destinate alla devozione popolare”, dall’altro può essere letto come un consapevole tentativo di arginare “la ventata di laicismo portata dall’Umanesimo”. Molto altro si potrebbe aggiungere per dar conto dell’ampiezza e della profondità dello studio di Caracciolo. Ci fermiamo tuttavia qui, lasciando al lettore il piacere di entrare nel libro e di scoprire, passo dopo passo, la fisionomia di un personaggio che non è esagerato collocare tra i grandi protagonisti dell’Umanesimo italiano. Francesco Federico Mancini Direttore del Dipartimento di Scienze Umane e della Formazione Università degli Studi di Perugia

INTRODUZIONE L’obiettivo che il presente lavoro si prefigge è quello di colmare una vistosa lacuna nel panorama degli studi storici e storico-artistici relativi alla diocesi perugina, gettando luce sulla vita e sul mecenatismo di un personaggio fino ad oggi stranamente trascurato, ma del quale diversi studiosi hanno “intuito” il coinvolgimento, quasi sempre diretto, in alcune delle più importanti iniziative sociali, religiose, culturali ed artistiche dell’Umanesimo soprattutto perugino. Iacopo Vagnucci (Cortona, 1416-Corciano, 1487) fu vescovo di Perugia dal 1449 al 1482, anno in cui affidò la “successione” nella cattedra vescovile al nipote Dionisio, che morì a Perugia nel 1491: come si può constatare, l’episcopato dei Vagnucci copre quasi tutta la seconda metà del Quattrocento, periodo denso di rivolgimenti politico-istituzionali (le lotte civili, la “dialettica” comune-Papato, la riforma delle istituzioni universitarie), caratterizzato da avvenimenti importanti sul piano sociale e religioso (la fondazione del Monte dei Poveri, l’arrivo e l’incameramento del Santo Anello) e ricco di imprese artistiche che proiettano Perugia tra i massimi centri del Rinascimento italiano (la ricostruzione e decorazione del duomo, l’oratorio di San Bernardino, ecc.). Ciononostante, gli scritti di prosopografia vescovile perugina giungono sino alla metà del ’400, per poi riprendere con il nuovo secolo, saltando proprio il lungo periodo degli episcopati “forestieri” (compreso tra i vescovati di due Baglioni, Giovanni Andrea, morto nel 1449, e Troilo, eletto nel 1501), tra i quali è assolutamente rilevante, per durata e incidenza nel tessuto cittadino, quello dei due Vagnucci. D’altra parte, la cattedrale di Perugia, il monumento che ha maggiormente beneficiato delle loro attenzioni, attende ancora, dopo il convegno del 1988, di vedere svelati e risolti tutti i misteri e i problemi che essa cela nelle maglie della sua complessa e travagliata storia. Il compito si è presentato subito arduo, poiché lo studio di un vescovo perugino anteriore alla metà del Cinquecento soffre di un grave deficit documentario: nel 1534, infatti, un devastante incendio appiccato da un gruppo di fuoriusciti ribelli al palazzo del governatore (il “palazzo abrugiato”), con l’intento di bruciare le carte della “cancelleria criminale”, por-

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tò alla distruzione anche del contiguo palazzo vescovile; ne consegue che i documenti conservati nell’attuale Archivio Diocesano sono posteriori a quella data, con qualche eccezione relativa al XV secolo, ma di scarsa rilevanza1. A Cortona, patria dei Vagnucci, è stato possibile colmare parzialmente questa lacuna, attraverso le notizie reperite tra le carte della locale Accademia Etrusca, al cui storico bibliotecario, Girolamo Mancini (1832-1924), si deve l’unica breve trattazione sul nostro personaggio (appena tre pagine scritte nel 1897): oltre alle pergamene del Fondo Vagnucci, molto importante si è rivelata una miscellanea della metà del Settecento, contenente una Vita di Iacopo iniziata nel 1469 dal fratello Pietro (padre di Dionisio) e terminata nel 1594, probabilmente dall’erudito Francesco Vagnucci. Oltre alle cronache annalistiche e ai repertori generali, si sono rivelate di qualche utilità anche le numerose cronotassi manoscritte relative ai vescovi perugini, compilazioni sei-settecentesche che, essenzialmente, si basano su uno spoglio meticoloso della Historia del Pellini e della Perugia Augusta del Crispolti, ma che, talvolta, offrono notizie e spunti assolutamente inediti2: tra queste spiccano il ben noto “BelfortiMariotti” e, per quanto concerne il solo Vagnucci, le Vite fiorentine di Salvino Salvini, opera sconosciuta agli studiosi locali. Ricomponendo le tessere di un mosaico, è stato possibile delineare il profilo di una personalità estremamente complessa ed interessante: un vescovo che, vuoi per la sua provenienza esterna, vuoi perché erede della medesima dirittura morale del suo predecessore (Giovanni Andrea Baglioni), si dedica attivamente al proprio ufficio pastorale, interessandosi della realtà politica circostante solo nel momento in cui è chiamato a comporre i dissidi cittadini; un ecclesiastico la cui principale virtù è la diplomazia, ampiamente sfruttata in situazioni difficili da ben quattro pontefici e particolarmente adatta a città tempestose quali Perugia, Bologna o Norcia; un dignitario che, specie nel primo periodo, stabilisce la propria residenza a Roma, dove lo costringono gravosi incarichi papali, ma che non dimentica la sua città natale, Cortona, e la sua patria d’elezione, Perugia; un dotto esperto in utroque iure (diritto civile e canonico), intollerante verso la “vivacità” studentesca, ma che, “amante degli esercizi del corpo”, non disdegna il suo sport preferito, la caccia; un insigne prelato della Curia romana, intimo dei più grandi potenti del secolo (come Niccolò V,

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Sisto IV o l’imperatore Federico III), eppure molto vicino alla devozione e alla religiosità popolari, impegnato in prima persona nel sostegno ai bisognosi e nella lotta all’usura; un uomo di grande religiosità e profonda devozione che, coerentemente con la mentalità del tempo, si avvale della propria posizione per favorire il nipote prediletto ed accrescere il prestigio della famiglia; un vescovo che, alla vigilia del cardinalato, termina la propria esistenza come un qualsiasi prete di campagna. Ma soprattutto un vescovo del primo Rinascimento, amico dei più illustri mecenati e letterati dell’epoca, interessato alla cultura, amante dei libri manoscritti e miniati, appassionato alle arti: in lui si riflette un aspetto caratteristico del mecenatismo del Quattrocento, il desiderio di accumulare meriti per l’aldilà, attraverso la commissione di opere essenzialmente destinate alla pietà devozionale. In questo contesto, si colloca un impegno del tutto particolare nel sostenere la venerazione delle sacre reliquie, proprio nel momento in cui la ventata di laicismo portata dall’Umanesimo aveva messo profondamente in crisi un culto assai radicato nel corso del Medioevo: un tratto dominante della personalità del cortonese che permette di cogliere affascinanti connessioni tra l’intricata vicenda perugina del Santo Anello (1473) e la commissione, da parte del presule, di alcuni reliquiari cortonesi. Il fine prioritario del presente volume, di cui l’indagine prettamente storica costituisce, per così dire, la premessa, è dunque quello di ricondurre al denominatore comune rappresentato dal mecenatismo del Vagnucci numerose e diversificate imprese artistiche (che spaziano dall’architettura alla scultura, dalla pittura alla miniatura, dall’oreficeria all’arte vetraria), molte delle quali necessitavano ancora di studi approfonditi, chiarimenti e precisazioni. Delle cure e attenzioni del Vagnucci beneficiarono, in primo luogo, tre illustri monumenti: la cattedrale di Perugia, come già detto, il castello di Pieve del Vescovo presso Corciano e il futuro duomo di Cortona. Nella cattedrale di Perugia, alla cui ricostruzione e decorazione diede un contributo essenziale, imprimendovi un indirizzo di marca esplicitamente toscano-fiorentina, il Vagnucci chiamò lo scultore Agostino di Duccio e fece edificare la cappella di famiglia dedicata a sant’Onofrio (proprio nume tutelare), commissionando al conterraneo Luca Signorelli il suo primo capolavoro, la splendida Pala d’altare di Sant’Onofrio (1484), e al perugino Bartolomeo Caporali i cartoni per la vetrata sovrastante: pala

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e vetrata, ridotte a “frammenti” dispersi in vari musei e depositi, sono state ricostruite nella loro strettissima unità iconografica, a formare uno dei progetti decorativi più vasti, organici e coerenti di tutto il Rinascimento non solo perugino. A Corciano fece opportunamente ampliare e restaurare il castello di Pieve del Vescovo, dove trascorse in ritiro gli ultimi cinque anni della propria vita. A Cortona fece realizzare, per la cappella di famiglia nella pieve di Santa Maria (attuale duomo), lo splendido Reliquiario Vagnucci (1457-1458), il cui piano iconografico ruota tutto intorno alla figura del committente, alle sue devozioni, al suo debito verso l’amatissimo Niccolò V, il pontefice che, presa sotto la propria protezione il Vagnucci, lo avviò ad una straordinaria carriera ecclesiastica durata quasi 50 anni. Un sentito ringraziamento al prof. Francesco Federico Mancini, per la fiducia e la stima che ha manifestato nell’affidarmi questo impegnativo argomento di tesi, per avermi incoraggiato nelle inevitabili difficoltà e, soprattutto, per aver sostenuto i risultati del mio lavoro, trasmettendomi metodo e passione per una storia dell’arte seria e sorretta da adeguata ricerca documentaria. La mia sincera gratitudine anche a mons. Giuseppe Chiaretti, arcivescovo di Perugia e Città della Pieve, al dott. Amilcare Conti, segretario episcopale, e a Pasquale Caracciolo, mio padre, i quali hanno voluto fortemente la stampa di questo volume. Un ringraziamento particolare alla Provincia di Perugia, nella persona del Presidente Giulio Cozzari che ha reso possibile la pubblicazione; alla dott.ssa Marinella Ambrogi, al grafico Simone Caligiana e al fotografo Enrico Mezzasoma dell’Ufficio Relazioni Esterne e Editoria per aver voluto accogliere e valorizzare questo lavoro, per la professionalità con cui hanno saputo tradurlo in un volume a stampa e, specialmente, per la cortesia e la disponibilità sempre mostrate verso il suo autore. Un grazie alla dott.ssa Loredana Mondellini, mia madre, che ha pazientemente condiviso la revisione del testo, offrendomi consigli per la sua fruizione anche da parte di un pubblico non specialistico, e alla dott.ssa Annamaria Lucrezia Russi, compagna di vita e “collega” negli studi storico-artistici, che mi ha accompagnato e sostenuto nel lungo lavoro di preparazione, condividendo dubbi, insuccessi e scoperte.

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Si ringraziano poi tutti coloro che, a vario titolo e in diversa misura, hanno contribuito, con indicazioni ed osservazioni, alla realizzazione del presente studio: il personale della Biblioteca Augusta di Perugia; Maria Grazia Bistoni Colangeli (Archivio di Stato di Perugia); Leopoldo Boscherini (studioso, Petrignano del Lago); Maria Luisa Cianini Pierotti (Università di Perugia); Jane Donnini (Soprintendenza BAPPSAE di Arezzo); Isabella Farinelli (Archivio Diocesano di Perugia); Bruno Gialluca (Archivio Storico del Comune di Cortona); Elvio Lunghi (Università per Stranieri di Perugia); padre Pasquale Magro (Sacro Convento di Assisi); Bruno Masci (restauratore, Passignano sul Trasimeno); Paola Passalacqua (Soprintendenza BAPPSAE di Perugia); Daila Radeglia (Istituto Centrale per il Restauro di Roma); Giovanni Riganelli (studioso, Magione); Patrizia Rocchini (Museo Diocesano di Cortona); Alberto Maria Sartore (Archivio di Stato di Perugia); Laura Teza (Università di Perugia); Fernando Tibidò (cattedrale di Perugia).

1

Si tratta per lo più di vertenze di natura civile ed ecclesiastica, le cui sentenze venivano date dal vescovo (o più frequentemente dal suo vicario generale) nell’udienza della cancelleria vescovile. L’unico documento di un certo interesse è un manoscritto cartaceo che, in tre fascicoli, contiene alcuni atti relativi ad una causa tra il vescovato e il comune di Corciano, riguardante lo sfruttamento dei boschi di monte Malbe (cf. par. I, 5). 2 Per una rassegna delle cronotassi vescovili, per lo più conservate nella Biblioteca Augusta di Perugia, cf. CIANINI PIEROTTI 1995, pp. 36-37 e 51-52, note 4-9.

Capitolo I La vita 1. La carriera ecclesiastica (1416-1450) 2. Al servizio della Curia romana (1450-1458) 3. Il vescovato sotto Pio II e Paolo II (1458-1471) 4. Il vescovato sotto Sisto IV (1471-1482) 5. Il ritiro alla pieve di Corciano (1482-1487) 6. Dionisio Vagnucci vescovo di Perugia (1482-1491)

u.j.d., erudito

Matteo

Federico

Angelo u.j.d.

vescovo

Dionisio

vescovo

Tommaso

Cosmo

Candido

Onofrio

Francesco

Candido

cav. S. Stefano

Onofrio

Francesco

camerario

Onofrio

Girolamo

cav. Gerosolimitano

Rodolfo

Cassandra

Onofrio

Niccolò

frate certosino

Margherita

cav. S. Stefano, castellano

Pietro

Candido

u.j.d., podestà

lanaiolo

Francesco

Pierlorenzo

cav. S. Stefano

canonico

Orazio

Francesco

Giovanni

Pietro

u.j.d., governatore

Ristoro

Iacopo

Iacopo

Candido

Desiderio

Uguccione

Federico

Francesco

Cornelio

Desiderio

canonico

cav. Gerosolimitano

Angelo

Francesco

Egidio

 Committenti della Pala di Sant'Onofrio (cf. par. II, 3)  Committente della Pala dell'Immacolata Concezione (cf. par. II, 4)  Committente della Pala di San Martino (cf. appendice C)  Estensori della Vita di Iacopo Vagnucci (cf. cap. I, nota 5)

u.j.d.

Giovambattista

Filippo

lanaiolo

Angelo

Giovanni

detto Vagnuccio

Pietro

Ristoro

Maffeo

Grafico 1 - Albero genealogico della famiglia Vagnucci.

u.j.d.

Ottavio

Fabrizio

Iacopo

Sebastiano

Tommaso

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1. La carriera ecclesiastica (1416-1450) Da Cortona a Firenze Iacopo, secondogenito di Francesco di Giovanni Vagnucci, facoltoso mercante di lana, nacque a Cortona intorno al 1416 (figg. 1-3): è possibile risalire a questa data grazie ad una denuncia catastale del 1428, nella quale Francesco dichiara che il figlio Iacopo ha l’età di 12 anni1. Il giovane trascorse diversi anni di studio a Perugia, ospite in casa di un certo Giovanni di Petruccio dei Veli, amico di famiglia; quindi, trasferitosi a Città di Castello, passò nove mesi nel monastero dei frati Gesuati, vivendo in assoluta solitudine2. Sotto il pontificato di Eugenio IV (1431-1447), il veneziano Gabriele Condulmer, probabilmente intorno alla metà degli anni trenta, Iacopo si portò a Firenze, dove il papa, costretto a lasciare Roma in seguito ai disordini verificatisi nello Stato della Chiesa, aveva spostato la sua residenza sin dal giugno del 14343. Nella “città dell’Arno” si trovava lo zio di Iacopo, fra Niccolò Vagnucci, priore della Certosa fiorentina4. Questo personaggio fu determinante ai fini della carriera ecclesiastica del giovane nipote, favorendone l’inserimento nell’ambiente della Curia papale, dove Iacopo avrebbe presto guadagnato credito ed onori5. Infatti lo zio era intimo del confratello Niccolò Albergati, vescovo di Bologna e cardinale di Santa Croce in Gerusalemme6, e di Tommaso Parentucelli da

Fig. 1 T. Braccioli, genealogia della famiglia Vagnucci, 1565.

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Fig. 2 Cortona, palazzo Coppi-Vagnucci.

Sarzana, l’umanista in seguito divenuto papa con il nome di Niccolò V, che amministrò ininterrottamente la casa dell’Albergati fino alla morte del proprio benefattore7. Dopo il trasferimento della corte, i tre religiosi si erano ritrovati a Firenze, guidando poi insieme la legazione pontificia che, nel 1434-1435, fu impegnata in Francia e in Inghilterra, nel vano tentativo di porre fine alla guerra dei Cent’anni. Il legame affettivo che coinvolgeva questi personaggi è testimoniato in modo emblematico dal fatto che tanto l’Albergati quanto il Parentucelli chiamarono l’amico Certosino al letto di morte, rispettivamente nel 1443 e nel 14558. Approdato dunque a Firenze e distintosi subito per la sua dottrina, grazie alla mediazione dello zio, Iacopo entrò nella casa del cardinale Albergati, stringendo col Parentucelli un legame che si sarebbe rivelato denso di conseguenze. Sicuramente fu per tramite loro che, a un certo punto, lo troviamo a completare gli studi nella rinomata Università di Bologna: infatti il vescovato della città era retto sempre dall’Albergati (di cui il Vagnucci divenne l’auditore), mentre il futuro papa vi aveva svolto a più riprese tutta la propria formazione culturale9.

Il chiericato presso la Curia papale Addottoratosi in utroque iure, cioè in diritto sia civile che canonico, e dopo un periodo trascorso a Cortona, Iacopo fece ritorno alla corte pontificia, probabilmente a Firenze prima del 1443, quando, grazie alle sue referenze, ebbe un

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canonicato presso il duomo di Santa Maria del Fiore10. Nel marzo di quell’anno, però, potendo Eugenio IV rientrare a Roma dopo nove anni di “esilio”, è possibile che anche il Vagnucci abbia seguito il trasferimento della famiglia papale, durante il quale mandarono a chiamare suo zio Niccolò, la cui presenza era richiesta dal morente Albergati. A Roma (dove la corte giunse in settembre) giovarono al Vagnucci anche i rapporti di familiarità stretti con la famiglia del pontefice e, in modo particolare, col nipote di questi, il cardinale camerlengo e vicecancelliere Francesco Condulmer che, da quel momento, prese sotto la sua protezione il Parentucelli 11. Nel 1444, poi, quest’ultimo venne promosso al vescovato di Bologna, “ereditando” la carica del defunto Albergati12 e, come lui, avvalendosi di Iacopo in qualità di segretario (precisamente maestro del registro ed auditore), anche se Tommaso non risiedette quasi mai nella città emiliana. Infine, a partire dal marzo del 1447, essendo il medesimo Parentucelli, da pochi mesi nominato cardinale, asceso improvvisamente al soglio pontificio col nome di Niccolò V (1447-1455), il Vagnucci continuò a servirlo nella “città dei papi”, questa volta come cubiculario e chierico di Camera13.

La nomina a vescovo di Rimini La fulminante carriera ecclesiastica del Vagnucci ottenne il suo primo coronamento nel 1448, allorché Iacopo, benché

Fig. 3 Cortona, hotel Sabrina (già palazzo Vagnucci).

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insignito dei soli ordini minori e grazie alle solite spinte dello zio14, venne nominato da Niccolò V vescovo di Rimini in luogo del defunto Bartolomeo Malatesta: la bolla risulta inviata da Roma in data 14 giugno15. L’esperienza riminese del Vagnucci fu piuttosto breve, durando praticamente meno di un anno: infatti, dall’aprile del 1449 alla partenza per Bologna di cui si dirà (novembre successivo), Iacopo si trovava sicuramente a Roma, dove ricoprì l’incarico di luogotenente della Camera Apostolica, supplendo all’assenza del tesoriere designato, il vescovo di Traù Angelo Cavaccia16. Ciononostante, è assai probabile che, durante la permanenza nella città romagnola, Iacopo sia venuto in contatto con Agostino di Duccio, impegnato dal 1448 circa nella decorazione plastica delle cappelle del Tempio Malatestiano: un incontro che, come vedremo, sarà ricco di conseguenze per la futura vicenda professionale dello scultore fiorentino (cf. par. III, 2).

La nomina a vescovo di Perugia Secondo il Graziani, Iacopo fu a Perugia il 19 febbraio 1449, allorché vi giunse per “provedere le stanzie per papa e per li cardinali e per tutta la corte”, in vista dell’imminente soggiorno di Niccolò V nella cittadina umbra: infatti il pontefice, ritenendo opportuno abbandonare Roma nella calda stagione, a causa delle pestilenze che puntualmente opprimevano la città, aveva deciso di trasferirsi per un breve periodo a Perugia. Ricevuto nel palazzo del governatore con quegli onori che si convenivano alla stima di cui già godeva, Iacopo venne presentato alla comunità dai magistrati del comune e da altri illustri cittadini; quindi si provvide alla nomina di due incaricati per ciascuno dei cinque rioni della città, affinché concordassero col Vagnucci tutto l’occorrente (gli alloggi per la corte, le stalle per i cavalli, le vettovaglie); infine, si decise di inviare due ambasciatori al papa, per rivolgergli ufficialmente l’invito della comunità17. Niccolò V lasciò Roma nel mese di aprile, dando inizio ad una vera e propria peregrinazione della corte pontificia, costretta più volte a spostarsi a causa della diffusione delle epidemie (“et continuo la peste lo’ va derieto”, recita il Graziani): in luglio il papa, raggiunto a Spoleto dalla notizia che il morbo aveva ripreso a mietere vittime anche a Perugia, si trasferì definitivamente a Fabriano, dopo una brevissima sosta a Foligno18. Nel frattempo il vescovo di Perugia, Giovanni

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Andrea Baglioni, si ammalò gravemente (probabilmente non di peste), profilandosi subito una accesa lotta tra le varie consorterie cittadine, al fine di accaparrarsi un titolo che rappresentava un nodo strategico nel controllo del potere. Tuttavia Iacopo, tempestivamente informato della malattia del Baglioni, bruciò sul tempo i pretendenti perugini alla carica vescovile e, raggiunto il pontefice a Fabriano, ne ottenne l’investitura: era il 27 ottobre 1449; il Baglioni era morto solo tre giorni prima, il 24, di ritorno da Passignano19. La rapidità dell’avvenimento, preceduto dal soggiorno perugino del Vagnucci, sembra indicare il coronamento di un proposito che il cortonese forse coltivava già da tempo: dopotutto, non fu difficile per lui ottenere la nomina del pontefice, presso il quale godeva di una posizione privilegiata. I motivi della preferenza per la sede vescovile di Perugia, a parte il suo maggiore prestigio, possono essere facilmente immaginati: la città si trova tra Cortona, patria del presule, e Roma, città nella quale il Vagnucci risiedeva abitualmente e dove numerosi incarichi per conto della Curia papale lo avrebbero spesso trattenuto. Comunque, l’investitura del cortonese non può essere inquadrata in un’ottica semplicemente “nepotistica”, ma rispose anche ad una precisa esigenza di equilibrio politico: la scelta, dopo quasi mezzo secolo, di un illustre “forestiero”20, in quanto tale indifferente alle lotte tra le varie fazioni cittadine, risultò funzionale alla necessità di svincolare il seggio vescovile dai contenziosi locali e di rafforzare sulla città il dominio assai traballante della Curia romana. Tale nomina va considerata anche in una sorta di ideale continuità col precedente episcopato: il Baglioni, infatti, per quanto appartenente alla famiglia dei “signori occulti” di Perugia (precisamente al ramo secondario dei Fortera), si contraddistinse per le sue altissime virtù morali e per l’impegno esclusivo di riformatore religioso, rimanendo completamente estraneo alle vicende politiche contemporanee21. Le fonti non mancano di rilevare le stesse qualità anche nel Vagnucci, che poté anzi tradurre la sua provenienza esterna in una sorta di arbitrato super partes: di qui l’impegno fattivo del cortonese (e del nipote Dionisio Vagnucci, successore di Iacopo alla cattedra vescovile) nel comporre i dissidi locali22.

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2. Al servizio della Curia romana (1450-1458) Governatore a Bologna Se l’investitura del Vagnucci fu repentina, non si può dire altrettanto del suo ingresso nella diocesi di Perugia, rimasta di fatto vacante per sei anni e mezzo, fino al marzo del 1456. Infatti nel settembre del 1449 scoppiarono sanguinosi disordini a Bologna, città tra le più turbolente e instabili dello Stato Pontificio23: il papa, avendo scelto di temporeggiare, per poter trovare una soluzione definitiva all’annoso problema, decise di mandarvi a gestire l’emergenza il fidato Vagnucci, dapprima in qualità di semplice ambasciatore, quindi di governatore a latere. Senza dubbio, Iacopo risultava il funzionario più adatto al delicato incarico, avendo una conoscenza adeguata della difficile realtà emiliana, maturata nel corso degli studi universitari e al tempo del vescovato felsineo del Parentucelli. Egli giunse a Bologna il 16 novembre 1449: riportata la calma, rientrò a Roma già alla fine del gennaio successivo, consegnando il “testimone” nelle mani del cardinale niceno Bessarione24. L’acquisizione del titolo gentilizio Il 1450 fu un anno memorabile per la famiglia Vagnucci che, nello spazio di pochi mesi, si vide riconoscere il rango

Fig. 4 Diploma imperiale del 10 settembre 1450 indirizzato a Francesco Vagnucci, part. con lo stemma della famiglia.

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nobiliare dalle due massime espressioni dell’universalismo medievale, la Chiesa e l’Impero: dapprima, in febbraio, papa Niccolò V concesse il titolo gentilizio alla famiglia del vescovo, investendola, per un periodo di 20 anni, del feudo nobile di Petrignano del Lago (nel Chiugi perugino)25; quindi, in settembre, l’imperatore Federico III d’Asburgo accordò a Francesco Vagnucci (padre di Iacopo), ai figli del defunto fratello Angelo e ai loro legittimi discendenti la conferma del titolo nobiliare, con la conseguente facoltà di fregiarsi di uno stemma gentilizio (fig. 4)26. Certamente, non è casuale che Niccolò V intrattenesse stretti e buoni rapporti coi vertici dell’Impero Asburgico, come testimoniato in quegli anni da diversi avvenimenti che, naturalmente, coinvolsero anche il Vagnucci27, il quale, molto tempo dopo (1469), memore del privilegio imperiale, avrebbe accolto e addirittura ospitato Federico, mentre questi si trovava in viaggio in Italia. A partire dal 1450, l’orgoglio del vescovo perugino risalterà in tutte le sue commissioni artistiche, dove una “fetta” di protagonismo è sempre riservata al blasone di famiglia, spesso replicato: un orso coronato dal vello aureo, rampante verso sinistra, recante nella zampa anteriore destra un mazzo di tre rose (figg. 4-6)28.

Fig. 5 Cortona, hotel Sabrina (già palazzo Vagnucci), part. del portale con lo stemma della famiglia.

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Fig. 6 Cortona, casa Vagnucci, part. della finestra con lo stemma della famiglia.

Fig. 7 Cortona, casa Vagnucci, part. del portale con il monogramma della famiglia.

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Il vescovato sotto Niccolò V Negli anni a venire, una serie di incarichi di assoluta importanza, tra cui quelli di tesoriere e vicecamerlengo, obbligò Iacopo a trattenersi costantemente nella “città dei papi”, sempre al servizio di Niccolò V29: pertanto errano le cronotassi vescovili, quando affermano concordemente che la lontananza del Vagnucci da Perugia fu determinata, in quegli anni, da mansioni di governo che lo tennero occupato in varie città dello Stato Pontificio, in modo particolare nel territorio di Fano30. In verità, questi incarichi si collocano all’inizio del pontificato di Paolo II (1464), dopo che sotto il suo predecessore Pio II erano iniziate le ostilità tra il Papato e Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore della Romagna. Comunque, nonostante la lunga permanenza romana, Iacopo mantenne rapporti molto stretti con la città di Perugia: il fatto è testimoniato da una riformanza del 6 novembre 1452, nella quale veniamo a sapere che il vescovo Vagnucci aveva presentato una lettera al papa, per chiedere la revoca di un breve pontificio relativo ad un esule perugino31. Il vescovato sotto Callisto III La morte di Niccolò V e l’elezione al soglio apostolico del valenzano Alfonso Borgia comportarono inevitabilmente una ridefinizione dei compiti del cortonese: infatti con Callisto III (1455-1458) ebbe inizio quello scandaloso nepotismo dei Borgia che avrebbe raggiunto il culmine sotto il pontificato di Alessandro VI. La matrice “straniera” del nuovo governo pontificio portò, in breve tempo, ad una vera e propria invasione di catalani nella corte romana e determinò l’allontanamento dei “familiari” e collaboratori di Niccolò V32. Ciononostante, Iacopo riuscì bene accetto persino al nuovo papa, anche se non poté evitare di perdere la carica di tesoriere, assegnata a Pietro Daltello, canonico di Barcellona33. Temporaneamente libero da impegni romani, finalmente il 25 marzo 1456 il Vagnucci prese possesso della sede vescovile assegnatagli da Niccolò V, “ricevuto da perugini con que’ preparativi di gioia che meritava la sua dignità e il suo arrivo da tanto tempo desiderato”34. Racconta infatti il Pellini che, una volta giunto a Perugia, “con molto fausto e pompa vi entrò, e fu da magistrati, da tutto il clero, e da tutto il popolo honora-

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tissimamente raccolto, e accompagnato con grande allegrezza” ad insediarsi nel palazzo vescovile35. La festa dei perugini, però, era destinata a trasformarsi ben presto in delusione: passò poco più di un mese, quando un breve di papa Callisto III, datato 8 maggio 1456, ordinò al Vagnucci di restituirsi immediatamente alla Curia romana, dove l’attendeva l’ufficio di referendario36. Fino alla morte del pontefice (6 agosto 1458), Iacopo rimase stabilmente a Roma37: per questo motivo non era presente a Cortona il 2 luglio 1458, quando, sulla piazza del futuro duomo, Michelangelo Pecci, procuratore del vescovo perugino, consegnò ai canonici della pieve di Santa Maria il Reliquiario Vagnucci, oggi conservato nel Museo Diocesano di Cortona (fig. 83)38. Proprio la commissione del manufatto ad un orefice di Firenze può essere messa in relazione con gli ottimi rapporti che, in quegli anni, Iacopo intratteneva con la città toscana, documentati, tra il 1456 e il 1458, dalle ripetute richieste, inoltrate al papa dal governo fiorentino, di concedere il cardinalato al Vagnucci39.

3. Il vescovato sotto Pio II e Paolo II (1458-1471) Il soggiorno di Pio II a Perugia Alla morte di Callisto III, Iacopo rientrò definitivamente a Perugia40, dove si trovava sicuramente nel febbraio del 1459, quando ricevette la visita del nuovo papa Pio II Piccolomini (1458-1464): costui, in viaggio alla volta di Mantova, per aprire i lavori della dieta che vi aveva convocato, sostò qualche settimana nella città umbra (1-19 febbraio), desideroso di verificare la sottomissione della regione alla Sede Apostolica. Il pontefice venne accolto con tutti gli onori del caso, al punto che il comune, nella vana speranza di ottenere un buon capitolato, investì l’ingente cifra di 4000 fiorini41. Durante la sua permanenza a Perugia, il papa fu omaggiato da alcune ambasciate, tra le quali spicca certamente quella di Federico da Montefeltro, signore di Urbino (10-15 febbraio)42. Il giorno 11 assistette alla consacrazione della chiesa di San Domenico Nuovo, assiso “nelo altare grande dal canto del verso el coro, e voltava le spalle ala fenestra grande invetriata”: le funzioni furono officiate dal Vagnucci, insieme ad un prela-

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to designato dallo stesso Pio II, mentre la messa venne cantata da Ranieri Della Corgna, arciprete della cattedrale; infine il papa, tornato nella piazza Maggiore ed affacciatosi dalla terrazza della Loggia di Braccio, concesse l’indulgenza plenaria alla chiesa dei domenicani. Unico tra tutti i pontefici sotto i quali si snoda la carriera ecclesiastica del Vagnucci, pare che il Piccolomini non si sia avvalso delle competenze e delle doti diplomatiche maturate dal cortonese in seno alla Curia romana, benché abbia mantenuto con lui un rapporto assai cordiale sul piano della stima personale. Il papa, tra l’altro, sopravanzò il suo predecessore nel concedere cariche e benefici a parenti e conterranei: ancora una volta ne fece le spese proprio Iacopo, rimasto deluso nel desiderio di ottenere nuovamente il tesorierato della Camera Apostolica43. Viceversa, il 30 settembre 1460 si colloca un episodio che conferma ulteriormente quanto il Vagnucci fosse legato alla cara memoria del suo protettore e benefattore, il pontefice Niccolò V: recatosi fino a Sarzana, patria dei Parentucelli, egli prese parte, nella cattedrale cittadina, alla consacrazione di una cappella fatta erigere dal vescovo di Bologna Filippo Calandrini - uno dei cinque cardinali che l’anno precedente avevano accompagnato Pio II a Perugia - ed intitolata a san Tommaso Apostolo, proprio in ricordo del nome di battesimo di papa Niccolò, al quale il Calandrini era legato da vincolo materno44. Sempre nel 1460 (4 giugno), Iacopo suggellò il proprio legame con la diocesi concessagli dal Parentucelli undici anni prima, ottenendo la cittadinanza perugina a seguito di relativa istanza45.

Governatore a Fano e Spoleto Rientrato a Roma nell’autunno del 1460, Pio II si accinse a perseguire con ogni mezzo Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, Fano e Senigallia (mentre il fratello Domenico signoreggiava su Cervia e Cesena); terminate le ostilità nel 1463, il papa, coerentemente con le sue inclinazioni nepotistiche, investì dei vicariati sottratti al Malatesta due propri nipoti, Giacomo e Antonio Piccolomini: a quest’ultimo toccarono Mondavio e Senigallia46. Alla morte di Pio II (agosto del 1464), Senigallia, desiderando affrancarsi dalla soggezione al Piccolomini, si diede spontaneamente al nuovo pontefice Paolo II (1464-1471), a patto che questi, nel relativo capitolato, confermasse i privilegi

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già accordati alla città dal Malatesta, in modo particolare quello relativo all’annuale fiera della Maddalena: a ciò provvide il Vagnucci, nominato, sin dal settembre di quell’anno, governatore di Fano e della Romagna, funzione che esercitò esattamente per due anni47. Durante questo periodo, Iacopo venne coadiuvato dal fratello minore Pierlorenzo che, addottoratosi in diritto civile a Perugia nel 1462 (ricevendo il diploma di laurea dalle mani del vicario generale del Vagnucci), ebbe i suoi primi incarichi, al seguito del fratello vescovo, proprio nella cittadina di Fano, dapprima ricoprendovi l’ufficio podestarile, quindi esercitando le mansioni di castellano della rocca Malatestiana. Forse è proprio a dimostrazione di una rinnovata collaborazione con l’autorità papale che il Vagnucci, con gli emolumenti percepiti durante il governatorato nelle Marche, acquistò a Roma, in piazza Navona, una casa del valore di circa mille scudi48. Nel settembre del 1466 Paolo II, con bolla inviata da Roma, delegò al Vagnucci il governo di Spoleto, Narni, Amelia e loro distretti, con lo stipendio di 60 fiorini d’oro al mese, incarico che, documentato fino al 1470, il cortonese ricoprì verosimilmente sino alla morte del pontefice (luglio del 1471)49. In questo lustro, Iacopo domò la ribelle Norcia (inverno del 1466)50, sovrintese ad alcuni lavori di restauro51 ed accolse a Spoleto l’imperatore Federico III d’Asburgo che, dopo l’incoronazione del 1452, intraprese un secondo viaggio a Roma alla fine del 1468. Federico, percorrendo la via Flaminia - l’antica strada romana che va da Rimini a Roma, passando per Fano, Fabriano, Nocera, Foligno, Spoleto e Narni -, transitò per la giurisdizione del Vagnucci con più di trecento cavalli: avvertito da un breve papale, Iacopo ospitò magnificamente l’imperatore, con l’impegno di accompagnarlo, sia all’andata che al ritorno, nel tratto compreso tra Spoleto e la capitale pontificia. Al rientro da Roma, però, Federico volle passare per Città della Pieve, raggiungendo quindi Perugia il 14 gennaio 1469: il giorno successivo visitò l’erigenda cattedrale di San Lorenzo ed assistette ai riti religiosi; il 16 ripartì per Venezia52. Probabilmente è in questa circostanza che, a Perugia, il Vagnucci rinnovò all’imperatore la propria ospitalità, di cui beneficiò anche il neo-cardinale Francesco Della Rovere, futuro papa Sisto IV53: la notizia è riferita dal Crispolti al 1471, ma erroneamente, non essendo documentato dalle fonti un terzo viaggio di Federico54.

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La soppressione delle libertà universitarie Come si è visto, nel primo ventennio del suo episcopato Iacopo fu in prevalenza trattenuto fuori dalla diocesi perugina (nella quale sopperivano alla sua assenza i vari vicari generali)55, con la sola eccezione degli anni del pontificato di Pio II (14581464), durante i quali il cortonese si distinse principalmente per due vicende: la soppressione delle libertà universitarie (1459-1467) e la fondazione del Monte dei Poveri (1462). Il vescovo perugino non solo era il cancelliere imperiale dello Studio56, incarico simboleggiato dalla prerogativa del conferimento delle lauree (nella sala del Dottorato, presso la canonica del duomo), ma era anche il superiore del più antico collegio studentesco, la casa degli scolari di San Gregorio Confessore o Sapienza Vecchia, responsabilità quest’ultima condivisa con il priore del monastero olivetano di Montemorcino Vecchio57. Negli anni della sua residenza romana (1450-1458), anche i rapporti con la Sapienza furono gestiti dal Vagnucci con l’ausilio dei primi vicari generali, a cominciare da monsignor Giovambattista Manzoli58. Rientrato quindi nella diocesi perugina, Iacopo venne direttamente coinvolto in un episodio che rappresentò per le immunità studentesche un colpo durissimo. Nel gennaio del 1459, a causa di una lite sorta tra gli uomini di Sforza degli Oddi e quelli del conte di Bagno (conestabile della Chiesa), circa l’assegnazione della vittoria in una giostra indetta dal rettore dello Studio, avendo questi deciso che il premio dovesse dividersi tra due contendenti appartenenti alle rispettive famiglie, gli uomini dello Sforza avevano aggredito e gravemente ferito il rettore stesso. In seguito a questa vicenda, gli studenti delle due Sapienze (Vecchia e Nuova) erano entrati in uno stato di forte agitazione, dando “aperta manifestazione a quello spirito di rivolta contro le autorità locali di governo che già da tempo andava probabilmente serpeggiando tra gli scolari”, irritati dalla passività del comune nei confronti della politica signorile pontificia59. Attesa la partenza da Perugia di Pio II (febbraio), il governatore Bartolomeo Vitelleschi, uomo notoriamente autoritario, e il vescovo Vagnucci risposero a tale insostenibile situazione con un atto clamoroso: dopo essersi consultati con i priori e con il consiglio dei dottori, il 13 aprile ordinarono un’irruzione militare nei locali della Sapienza, la fecero occu-

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pare dalle truppe papaline di stanza a Perugia e ne cacciarono fuori tutti gli studenti, senza dar loro il tempo di prendere le proprie cose60. Il fatto, come si legge nel Diario di Antonio dei Veghi, suscitò un ampio sconcerto nell’opinione pubblica, a causa del grave danno, d’immagine ed economico ad un tempo, che ne derivò alla città di Perugia: infatti gli studenti, che “danno l’anno d’entrata al comune 1000 fiorini”, abbandonarono in massa lo Studio perugino61. L’episodio, attestando l’incapacità delle vecchie istituzioni universitarie di mantenere la disciplina scolastica, ebbe anche la conseguenza di accelerare la fine dell’autonomia dello Studio, definitivamente sancita dalla riforma papale del 146762. L’anno stesso della repressione dei moti studenteschi, il governatore, in ulteriore spregio alle immunità degli scolari, dettò le nuove costituzioni della Sapienza, includendovi una serie di norme di carattere manifestamente oppressivo. Presero parte alle decisioni anche il priore di Montemorcino fra Leonardo Cavalieri da Bologna e il Vagnucci, quest’ultimo rappresentato dal nuovo vicario generale Fabiano Benci da Montepulciano. Le cancellerie ecclesiastiche trascrissero il testo del nuovo statuto in due registri, uno tenuto dal monastero di Montemorcino e l’altro dal vescovo: in entrambi la delibera risulta datata 23 maggio 1454 (anziché 1459), una data volutamente erronea, allo scopo di far risultare l’entrata in vigore delle misure restrittive anteriore all’irruzione nei locali della Sapienza63. Nel 1461, poi, il Vagnucci trovò il modo di farsi detestare, ancora una volta, dagli studenti del collegio: il 17 aprile vietò il gioco della palla nell’angusto chiostro dell’istituto, a causa degli schiamazzi che ne derivavano; il 7 luglio fece trasferire la campana della Sapienza dalla finestra del reparto camere ad un piccolo campanile costruito sul tetto della cappella, con un provvedimento che ha sapore di chiara provocazione64. Nel 1462, infine, Iacopo non ebbe scrupoli nello smentire i Savi del comune, uno dei principali organi del governo universitario, circa la compilazione del ruolo dei lettori che dovevano essere stipendiati per l’anno accademico appena terminato, includendovi un paio di nomi già esclusi dai magistrati comunali: segno evidente di una delegittimazione della funzione dei Savi che sarà poi sanzionata dalla citata riforma di Paolo II65.

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La fondazione e la difesa del Monte dei Poveri Nonostante il Vagnucci, dottore in utroque iure, vantasse ottime competenze nel settore giuridico, esercitando anche l’ufficio di referendario sotto Callisto III, nelle fonti consultate il cortonese non risulta quale lettore di diritto nell’Università perugina, notizia quest’ultima riportata, forse erroneamente, da alcuni studiosi66. Sono ben noti, invece, i suoi interessi in campo letterario e il suo amore per lo studio, attestati dalla fitta rete di relazioni che egli intratteneva con alcuni tra i più insigni umanisti del tempo, conosciuti tra Firenze e Roma presso la corte papale, grazie soprattutto al mecenatismo dell’Albergati e del Parentucelli: tra questi Maffeo Vegio, Flavio Biondo, Lorenzo Valla ed Enea Silvio Piccolomini. Durante le feste natalizie del 1453, i quattro dotti lo accolsero amichevolmente presso la badia di Montecassino, dove Iacopo, “allegro ed amante degli esercizi del corpo”, si era unito ad una brigata di cacciatori67. Inoltre, per quanto il Vagnucci non fosse un letterato di professione, rimane testimonianza di un suo trattato in latino, intitolato De usuris e composto sotto il pontificato di Paolo II, cui l’opera era dedicata. Nella seconda metà del ’500 Francesco Vagnucci, noto erudito cortonese, volle dare alle stampe l’opera dell’antenato, consegnando al tipografo Lorenzo Torrentino il manoscritto in questione68: purtroppo il testo, andato smarrito in tale circostanza, non ci è noto né attraverso copie, né attraverso stampe. Il titolo di questo trattato si connette chiaramente al ruolo determinante svolto dal prelato cortonese nella fondazione del Monte di Pietà di Perugia69, un istituto di credito che, allo scopo di combattere la pratica ebraica dell’usura, concedeva prestiti dietro pegno di beni mobili, con una lieve maggiorazione destinata a coprire le spese di gestione. L’ampio dibattito che, in materia legislativa e dottrinale, andava contemporaneamente svolgendosi sul tema dell’usura, si arricchì così di ulteriori polemiche e vivaci controversie, connesse alla necessità di allontanare da questa e consimili organizzazioni il sospetto di praticare una nuova “raffinata” forma di strozzinaggio. Senza dubbio, l’autorità ecclesiastica fu la principale responsabile della stesura dei capitoli del Monte, nei quali, non a caso, le vennero riservati ampi margini di competenza: uno statuto di fatto già pronto quando, il 20 aprile 1462, fu nominata una commissione comunale di dieci camerlenghi incaricata di redi-

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gerne il testo. Significativa più che mai l’adunanza che, il giorno precedente l’approvazione dei capitoli (27 aprile), si svolse nel palazzo del governatore Ermolao Barbaro, alla presenza dello stesso, del “reverendissimo in Christo Padre e Signiore mesere Iacomo per Dio gratia episcopo perusino” e di “molti reverendi patri e maestri e doctori in sacra teologia et eximii e famosissimi doctori perusini”, tra i quali erano sicuramente diversi francescani dello Studio conventuale70. Reperiti i fondi di cui il Monte necessitava, grazie alla mediazione del nuovo legato Berardo Eroli71, subentrò la delicata questione del tasso d’interesse, infine risolta dal Vagnucci con un decreto del 22 febbraio 1463, nel quale legittimava ma rettificava il tasso mensile già fissato da una commissione comunale; successivamente, con decreto del 13 febbraio 1464, confermò le norme per lo stipendiamento degli officiali (i soprastanti e il depositario) e per l’affitto del fondaco “in piazza” che ospitava la primissima sede del Monte (fig. 8)72. Nell’ambito delle polemiche che ne seguirono, abbiamo notizia di ben quindici consilia a sostegno dell’istituzione perugina, scritti o sottoscritti da teologi e giuristi in momenti diversi della controversia: tra questi anche un consilium composto dal Vagnucci, da identificarsi col già menzionato trattato intitolato De usuris. Secondo la testimonianza di Bernardino De Bustis (discepolo di fra Michele Carcano da Milano, che nella quaresima del 1462 aveva predicato a Perugia contro l’usura), questo scritto (che iniziava con le parole “Sit rector”) era come tanti altri incentrato sul tema cruciale del tasso d’interesse, giustificato dal Vagnucci come un “contractus locati”, vale a dire un contratto di lavoro col quale gli officiali del Monte venivano semplicemente retribuiti per l’opera da essi prestata; le conclusioni del vescovo (“non est vitium usure in hoc contractu”) in pratica discendevano dal suo decreto del 22 febbraio 146373. Una seconda testimonianza viene riportata dal Ballarini, secondo il quale il Vagnucci, nel suo consilium, attribuiva essenzialmente al governatore Ermolao Barbaro la preoccupazione per il problema dell’usura, con la conseguente chiamata a Perugia del Carcano; inoltre lodava l’esempio del cardinale Albergati, già suo protettore, che a Bologna aveva ridotto al 20% annuo il tasso d’interesse che gli ebrei potevano praticare74. Allo scritto del Vagnucci si riferisce esplicitamente anche fra Fortunato Coppoli da Perugia nel consilium da lui composto, uno dei tre sopravissuti tra quelli di cui abbiamo notizia75.

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Fig. 8 Perugia, portale di accesso al secondo Monte di Pietà (oggi Tribunale).

La corresponsabilità di Iacopo nella nascita del Monte perugino è avvalorata da una evidente constatazione: nel 1469-1470 vennero istituiti i Monti di Spoleto e Amelia, località della cui amministrazione era incaricato in quegli anni proprio il Vagnucci. Il primo venne fondato il 14 marzo 1469 nel palazzo vescovile di Spoleto, alla presenza, tra gli altri, del “reverendissimi domini Iacobi episcopi perusini civitatis Spoleti gubernatoris auditor et locumtenens”76; il secondo fu istituito il 12 dicembre 147077. In entrambi i casi il Coppoli, personaggio chiave del fenomeno dei Monti, era presente alla stesura dei capitoli, chiaramente esemplati sullo statuto peru-

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gino del 1462, che il frate stesso contribuiva a diffondere. Questi promuoverà anche l’istituzione del Monte di Cortona (14 febbraio 1472), del quale venne nominato officiale per il terziere di San Vincenzo, e soprastante deputato alla riscossione dei debiti, un Pierlorenzo di Francesco Vagnucci, da identificarsi proprio con il fratello minore del vescovo Iacopo78. Dopo la riforma dei capitoli perugini voluta da Paolo II (1468), tra il 1471 e il 1473 si procedette alla costituzione di un secondo e terzo Monte, sempre con la partecipazione attiva del Vagnucci che, dopo la morte del pontefice, aveva lasciato il governatorato spoletino per rientrare nella propria diocesi79.

4. Il vescovato sotto Sisto IV (1471-1482) Francesco Della Rovere e il Bessarione Dopo Niccolò V, un altro pontefice originario della Liguria sembra intrattenere col Vagnucci un rapporto di amicizia e fiducia, probabilmente maturato già negli anni precedenti l’elevazione al soglio apostolico: Sisto IV, al secolo Francesco Della Rovere, proveniente da una modesta famiglia di Savona, eletto nell’agosto del 1471. Francescano dell’ordine minoritico a soli 15 anni (1429), il giovane frate, dopo un triennio di studi e un triennio di baccellierato tra Chieri (Torino) e Pavia, nel 1435 si recava a Bologna, conseguendo il dottorato in teologia ed avviandosi successivamente alla carriera accademica; nel 1439 si trasferiva nuovamente a Pavia, dove veniva ordinato sacerdote80. Come si è visto, il Vagnucci, quasi coetaneo del frate (era nato due anni dopo, intorno al 1416), in quel periodo studiava diritto nella stessa Università di Bologna, dove da Firenze lo aveva indirizzato il vescovo felsineo Niccolò Albergati: niente di più probabile, dunque, che i due si siano conosciuti per la prima volta in questa circostanza. Sempre a Bologna, Iacopo e Francesco ebbero l’occasione di incontrarsi anche in seguito: nel biennio 1449-1451 il Della Rovere vi esercitava il doppio incarico di reggente dello Studio conventuale e professore pubblico di teologia e filosofia nella locale Università; mentre già sappiamo che, alla fine del 1449, il Vagnucci venne inviato da Niccolò V a Bologna, dove ricoprì provvisoriamente la carica di governatore.

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Dopo aver insegnato per qualche mese a Firenze, dal 1451 al 1455 Francesco soggiornò a Perugia: prima dimorò a lungo nel convento di San Francesco al Prato, quindi entrò nello Studio cittadino come docente di filosofia, raccogliendo ampi consensi81; sono questi i primi anni dell’episcopato perugino del Vagnucci, anche se il cortonese, trattenuto a Roma da molteplici incarichi papali, fu costantemente assente dalla città. Professore di teologia alla Sapienza (1460) e ministro della provincia francescana di Roma (1462), nel 1464 il Della Rovere, in occasione del Capitolo generale dei francescani tenutosi a Perugia, venne eletto ministro generale dell’ordine, ottenendo subito dopo la cittadinanza onoraria perugina: per questo motivo, quando nel 1467 fu promosso cardinale col titolo di San Pietro in Vincoli, i magistrati comunali non poterono esimersi dall’inviargli dei doni82. Agli inizi del 1469, forse Francesco accompagnò a Perugia l’imperatore Federico III d’Asburgo, venendo entrambi ospitati magnificamente dal Vagnucci. Sappiamo infine che, dal 1460 sino all’ascesa al trono papale (9 agosto 1471), il frate mantenne ininterrottamente l’arcipriorato della chiesa perugina di San Luca Evangelista, in fondo a via dei Priori83. Il Vagnucci e papa Sisto IV sono legati anche da un celebre personaggio, il cardinale niceno Bessarione (1403-1472), protettore dei francescani a partire dal 1458: l’anno successivo, infatti, questi aveva scelto Francesco quale suo confessore personale, da quel momento sempre riservandogli grande considerazione e sottoponendogli i propri scritti prima della pubblicazione; una stima che il Della Rovere, una volta nominato papa, avrebbe ampiamente ricambiato. Numerosi sono gli episodi della vita del Bessarione che portano nella direzione di Iacopo e della città di Perugia84: si ripete, in definitiva, quanto già era accaduto nella prima fase della carriera ecclesiastica del Vagnucci, caratterizzata da un “triangolo” di relazioni molto simile (allora il cardinale era l’Albergati e il futuro papa il Parentucelli).

I funerali di Battista Sforza Nel 1472 si colloca un avvenimento significativo per quanto concerne i rapporti tra il Vagnucci e il signore di Urbino Federico da Montefeltro, legame certamente nato all’epoca della collaborazione svolta in Romagna ai danni dei Malatesta

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(1464-1466): essendo venuta a mancare la contessa Battista, figlia di Alessandro Sforza (signore di Pesaro e fratello del duca di Milano) e moglie di Federico, il 14 agosto Iacopo, insieme a Giacomo Filippo Della Penna (abate di Santa Maria in Val di Ponte, ossia Montelabate), si recò a Gubbio, dove, alla presenza di numerosi signori e ambasciatori di principi e libere città, si svolsero le solenni esequie funebri85. In quell’anno Iacopo, fra gli altri benefici ecclesiastici, godeva in commenda a titolo perpetuo l’abbazia di Farneta, situata a pochi chilometri dalla nativa Cortona86. Poco prima, invece, la famiglia del vescovo si era vista rinnovare l’investitura del feudo di Petrignano del Lago da parte di papa Sisto IV, che aveva prorogato di un altro ventennio la concessione di Niccolò V risalente al 1450: pertanto i Vagnucci resteranno signori di Petrignano fino al 1490, quando papa Innocenzo VIII assegnerà il feudo, per un periodo di venticinque anni, alla famiglia cortonese dei marchesi Bourbon di Petrella87.

La congiura dei Pazzi L’ambizione e la fame di terre di Girolamo Riario, nipote di Sisto IV e signore di Imola, coinvolsero il pontefice nella fallita congiura ordita nel 1478 dalla famiglia fiorentina dei Pazzi contro Lorenzo il Magnifico e Giuliano de’ Medici88. Nel clima di reciproca rappresaglia che ne seguì, a Firenze fu imprigionato Raffaele Sansoni Riario, cardinale di San Giorgio e pronipote del papa (nonché legato apostolico di Perugia), a Roma venne “fermato” Donato di Neri Acciaiuoli, ambasciatore filomediceo del governo fiorentino nella “città dei papi”. Nel vano tentativo di rimediare all’intricata situazione, il pontefice decise di inviare a Firenze il fido Vagnucci, il quale, dopo diversi giorni di permanenza, ne ripartì senza aver ottenuto nulla89. Ad ogni modo, la scelta di affidare a Iacopo un incarico così delicato è estremamente significativa, perché conferma come egli fosse, ad un tempo, devoto al papa e, già dagli anni cinquanta del ’400, legato alla città di Firenze ed ai Medici. Nel biennio 1478-1479 il Vagnucci fu vicecamerlengo della Chiesa romana, ricoprendo l’incarico già svolto sotto Niccolò V: nel luglio del 1478, essendo Sisto IV costretto ad assentarsi temporaneamente da Roma, Iacopo venne lasciato quale “supremo reggitore della Città Eterna”, con tutte le facoltà concesse ai vicecamerlenghi nei casi di vacanza della sede pontificia90.

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Il riordinamento della vita monastica Durante il vescovato del Vagnucci, proseguì l’opera di riforma e riordinamento della vita monastica perugina, già intrapresa dal suo predecessore Giovanni Andrea Baglioni: l’episodio più rilevante, il 28 ottobre 1468, fu la cessione da parte delle clarisse di Monteluce del monastero e della chiesa annessa di Santa Maria degli Angeli o dei Fossi (attuale ex-collegio di Sant’Anna, in via Roma), che vennero assegnati ad una comunità di canonici regolari91. Nel 1469 il vescovo e i priori inviarono il giurisperito Mansueto Dei Mansueti al Capitolo generale degli Osservanti a Bolsena, affinché i padri di Monteripido non abbandonassero la custodia delle terziarie del monastero di Sant’Antonio da Padova (in corso Garibaldi): il problema si sarebbe riproposto nel 1482-1483, poiché il detto monastero e quello di Sant’Agnese (sempre in corso Garibaldi) continuavano a rigettare l’obbligo della clausura imposto dai frati dell’Osservanza. Nel 1472 le tre fraternite disciplinate di San Domenico, San Francesco e Sant’Agostino (già riunite nella confraternita di Nostro Signore Gesù Cristo) stabilirono le proprie costituzioni, con una serie di norme relative al numero dei fratelli e all’amministrazione dei beni posseduti92. Sotto Dionisio Vagnucci (nipote e successore di Iacopo), si sarebbero fusi gli insediamenti camaldolesi della SS. Trinità e di San Severo (1484); quindi, nel 1487, il vescovo avrebbe appoggiato i monasteri benedettini di Santa Caterina Vecchia e di Santa Maria Maddalena all’abbazia di San Pietro, dove, sin dal 1436, Giovanni Andrea Baglioni aveva insediato i monaci riformati della congregazione di Santa Giustina di Padova93.

5. Il ritiro alla pieve di Corciano (1482-1487) La nomina ad arcivescovo niceno Nel 1482 il Vagnucci, come giusto riconoscimento per i tanti servigi resi negli anni alla Santa Sede, ottenne da Sisto IV la promozione all’arcivescovato di Nicea, in partibus infidelium94: conseguentemente, rinunziò alla diocesi perugina in favore del nipote Dionisio, che gli subentrò il 29 maggio di quell’anno.

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Fig. 9 Bolla papale del 29 maggio 1482 indirizzata a Iacopo Vagnucci.

Fig. 10 Corciano (dintorni), veduta aerea del castello di Pieve del Vescovo e del borgo di Migiana di monte Malbe.

Iacopo si garantì comunque una pensione annua pari ad un terzo delle rendite provenienti dal vescovato perugino, mantenendo inoltre il diritto di regresso nella sede rinunziata, che avrebbe potuto riacquistare liberamente in caso di decesso del nipote o cessione ad altri del seggio vescovile (fig. 9)95. Ritiratosi a vita privata, il Vagnucci andò ad alloggiare in un complesso che, negli anni, aveva provveduto a restaurare ed ampliare, la pieve di San Giovanni presso Corciano, detta comunemente la Pieve del Vescovo (figg. 10-11), in quanto dimora alternativa dei vescovi perugini, soprattutto durante la calda e malsana stagione estiva.

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La pieve di San Giovanni Nella recente monografia che un eminente gruppo di studiosi ha dedicato alla poderosa “residenza fortificata”, Giovanni Riganelli, attraverso la lettura dei documenti fin’ora reperiti, ha potuto tracciare, lungo tutto l’arco del Medioevo (V-XV secolo), un percorso storico-evolutivo della “plebs inter montes”, individuando principalmente quattro fasi: plebs, villa, castrum, palatium96. Benché dipendente dalla Curia vescovile sin dall’epoca della propria fondazione, la pieve fu adibita a dimora dei presuli perugini solo dal XIV secolo, quando fungeva anche da presidio militare del comune cittadino in questa porzione del contado; nella prima metà del ’400 il castello si convertì definitivamente in residenza vescovile, attenuando i suoi connotati militari e divenendo il fulcro di un’azienda agricola di proprietà dell’episcopato. È in quest’ultima fase che s’innesta l’attività del Vagnucci, il quale intese portare a compimento un processo dunque già in atto da mezzo secolo. Come ha evidenziato Riganelli, la trasformazione dell’antico nucleo plebano precorre un fenomeno ampio e di lunga durata, quale l’evasione dagli spazi cittadini del ceto magnatizio che, vuoi per un discorso di status symbol, vuoi per le grandi trasformazioni intervenute nel panorama agrario (l’incedere della mezzadria), andava ricavandosi tutta una serie di residenze signorili di campagna: processo che raggiungerà il suo apice nel XVI-

Fig. 11 Corciano (dintorni), castello di Pieve del Vescovo.

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XVII secolo e di cui la pieve costituisce, per l’area perugina, un caso piuttosto precoce, anche se non unico97. L’affermazione secondo cui la “Plebs Episcopi” avrebbe assunto questa denominazione (attestata sin dalla fine del ’300) proprio dai ritiri abituali del Vagnucci è errata98, in quanto già Andrea Bontempi, vescovo di Perugia dal 1354 al 1390, vi soggiornava durante la bella stagione99; il fatto poi che Giovanni Andrea Baglioni, predecessore del cortonese, abbia lasciato alla pieve un segno tangibile della propria presenza fa supporre che, anche in questo caso (come per la cattedrale di San Lorenzo), Iacopo abbia “ereditato” dal Baglioni un’attenzione “materiale” per i luoghi dell’autorità vescovile100. Ciò non toglie che il legame pieve-vescovato si sia rafforzato sensibilmente quando il Vagnucci, già negli anni del suo insediamento, concepì l’ambizioso progetto di ritagliarsi nel territorio di Corciano un piccolo “feudo”, che potesse ospitare non solo una dimora signorile lontana dal caos e dai torbidi cittadini, ma anche un’azienda agricola in grado di fornirgli una fonte ulteriore di guadagno. Dal punto di vista logistico, poi, bisogna constatare come la pieve, collocata in posizione strategica all’incrocio di importanti assi viari, si trovi non lontana da Perugia e sulla via che conduce a Cortona, patria d’origine con la quale il presule mantenne sempre legami molto stretti, anche dopo il suo ritiro.

I restauri della pieve e la vertenza col comune di Corciano Sostanzialmente il disegno del Vagnucci risulta articolato in due fasi, cui corrispondono altrettanti documenti: una pergamena del 1459, già appartenuta ad Annibale Mariotti ed oggi introvabile, e la causa del 1469 sul “bosco conteso” dal vescovato al comune di Corciano, conservata nell’Archivio Storico della cittadina e, in parte, presso l’Archivio Diocesano di Perugia. Dalla pergamena, citata in numerosi manoscritti come “cartapecora presso Mariotti segnata n. 7”, veniamo a sapere, attraverso il vicario generale Fabiano Benci da Montepulciano, che nel 1457 Iacopo aveva provveduto a risarcire il complesso, fornendolo di quattro nuove case coloniche, allo scopo di migliorare l’agricoltura del piviere e di accrescerne le rese101. Se consideriamo che il Vagnucci prese ufficialmente possesso della propria diocesi solo nel 1456, stabilendovisi a partire dal 1458, risulta con chiarezza l’esistenza di un progetto immediatamente conseguente alla sua definitiva partenza da Roma.

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La vertenza del 1469102 ha la sua lontana premessa in un atto del 1242, con il quale il presule perugino Salvo concedeva alla comunità di Corciano la “custodiam et guardiam” di tutta la selva che l’episcopato possedeva nel distretto di monte Malbe, dietro un corrispettivo annuo pari alla metà dei frutti. Nel 1469 la comunità venne accusata dal Vagnucci di non aver corrisposto quanto dovuto, anche se, in realtà, l’ammanco era destinato a coprire le spese sostenute dai corcianesi per la bonifica di parte dell’incolto, ora destinato ad arativo e vigneti. L’azione del Vagnucci, “tesa alla riappropriazione del dominio utile dei terreni concessi”, si fece più risoluta nella seconda metà del 1471, quando il presule, terminata l’esperienza del governatorato spoletino, rientrò nella propria diocesi: essa venne demandata a due suoi concittadini, i cortonesi Pietro di Nicola Barnabey e don Forese Vagnucci, rispettivamente procuratore e vicario generale del vescovo perugino. La vertenza si concluse finalmente il 1° giugno 1472, con la stipula di una convenzione che, in sostanza, lasciava invariati i diritti goduti dai corcianesi, i quali s’impegnavano, ogni anno, a versare una cifra di 30 fiorini per le terre messe a coltura e, quale “riconoscimento del dominio del vescovo”, a consegnare cento tordi nel giorno di Natale103; entro un anno, poi, avrebbero dovuto realizzare un calcinaio per la produzione di calce destinata ad ulteriori lavori di restauro della Pieve del Vescovo. L’ultima parola spettò al pontefice Sisto IV, che incaricò gli abati perugini di San Pietro e Montemorcino Vecchio di ratificare la convenzione. La seconda fase del progetto del Vagnucci ebbe dunque un esito fallimentare: se i corcianesi continuarono a godere dei diritti a loro concessi più di due secoli prima, Iacopo rimase deluso nel suo desiderio di accrescere la dotazione di terre del piviere di San Giovanni. Considerando che il distretto di monte Malbe era caratterizzato da un’economia agricolo-pastorale, tant’è che una nota fiera del bestiame risulta attestata presso la pieve a partire dal ’500 (ma non è escluso che le sue origini risalgano al secolo precedente), la sensazione è che Iacopo, discendente da un ceppo benestante di lanaioli cortonesi, abbia riversato nel suo proposito una mentalità mercantile e imprenditoriale tipica della famiglia, anche “comprendendo appieno quale doveva essere la funzione della struttura in rapporto al mondo mezzadrile in via di affermazione”104.

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Fig. 12 Corciano (dintorni), castello di Pieve del Vescovo, part. del secondo cortile con lo stemma del vescovo Vagnucci.

Da questo punto di vista, è significativo che l’unico stemma lapideo del Vagnucci presente alla pieve sia collocato sul lato lungo del corpo di fabbrica che immette nel secondo cortile (quello delle botteghe), a dominare dall’alto della parete il cortile medesimo, anche se non è da escludere la possibilità di un riposizionamento successivo (fig. 12). Lo stemma, di grandi dimensioni, inscritto in una formella rettangolare di pietra, potrebbe risalire proprio agli anni cinquanta, all’epoca dei primi lavori di restauro, poiché presenta caratteri nettamente arcaici (tra cui lo scudo a forma di mandorla o “a goccia rovesciata”, caratteristico del XIV-XV secolo)105, pur se una certa grossolanità può essere ricondotta all’esigenza di renderlo visibile da lontano.

Da arcivescovo a “prete di campagna” La “villa plebis infra muntes”, attestata come comunità autonoma ancora nella seconda metà del ’200, tra la fine del

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secolo e la metà di quello successivo andò perdendo del tutto le antiche prerogative parrocchiali, assorbite dalle chiese di Santa Maria a Corciano e di San Bartolomeo a Migiana di monte Malbe, entrando così a far parte del territorio prima dell’uno, poi dell’altro paese. Ciononostante, è possibile che la cappella di San Giovanni continuasse a rappresentare un punto di riferimento religioso (esclusivamente liturgico) almeno per coloro che lavoravano nei terreni del piviere, soprattutto negli anni in cui il Vagnucci vi fece residenza fissa: in questo contesto si colloca la notizia, riportata da un manoscritto di Cortona, secondo la quale Iacopo concluse la propria esistenza alla pieve “facendo vita esemplare, esercitando l’offizio di parroco o pievano di quella parrocchia”106. Anche nel periodo del ritiro corcianese, Iacopo mantenne intensi rapporti con la città natale e con la sede episcopale che aveva ceduto al nipote Dionisio. Nel settembre del 1483 entrambi i Vagnucci si trovavano a Cortona, dove, alla presenza del vescovo cittadino, donarono alla chiesa di Santa Maria dei Servi (oggi distrutta) un secondo reliquiario purtroppo scomparso (cf. par. IV, 3). Quindi, nel 1484, Iacopo non poté mancare alla consacrazione della cappella di Sant’Onofrio nel duomo di Perugia, il sacello di famiglia in cui aveva prescritto di essere sepolto e per l’altare del quale aveva commissionato al conterraneo Luca Signorelli la tavola oggi conservata nel vicino Museo Capitolare (cf. parr. II, 1-3).

La morte di Iacopo Vagnucci Il nostro arcivescovo niceno si spense all’età di 71 anni circa, il 28 gennaio 1487. Dalla pieve di Corciano le spoglie del cortonese furono trasferite momentaneamente nell’oratorio di San Bernardino a Perugia, giusto il tempo di allestire la solenne cerimonia funebre che si sarebbe svolta due giorni dopo. Il 30 gennaio, infatti, il corpo del prelato venne portato in processione dalla chiesa di San Francesco al Prato sino alla cattedrale, dove fu tumulato nella cappella di Sant’Onofrio: alle esequie furono presenti, oltre ad un numero eccezionale di nobili e popolani, tutti i rappresentanti della Chiesa locale, del comune e dello Studio; l’orazione funebre venne tenuta da un certo Carlo di Antonio di Matteo107. Secondo Paolo Uccelli, la morte colse il Vagnucci poco prima che questi ricevesse il cappello cardinalizio, titolo che avreb-

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be coronato una straordinaria carriera ecclesiastica durata quasi 50 anni108. È invece certo che la morte privò Iacopo di un’altra grande soddisfazione, quella di assistere alla solenne inaugurazione della nuova cattedrale perugina, che il nipote avrebbe celebrato, a distanza di pochi giorni, il 10 febbraio.

6. Dionisio Vagnucci vescovo di Perugia (1482-1491) La carriera ecclesiastica Dionisio, figlio di Pietro di Francesco Vagnucci, fratello di Iacopo, nacque a Cortona in data ignota. Avviato alla carriera ecclesiastica, svolse il proprio iter sotto la rassicurante protezione dello zio, forte della posizione di prestigio di cui questi godeva nella nativa Cortona, a Perugia e soprattutto a Roma. Nella corte papale, infatti, il giovane chierico ottenne di ricoprire alcuni importanti uffici, prima quello di accolito e familiare di Paolo II (e successivamente di Sisto IV), quindi quello di scrittore apostolico, per il quale, grazie al contributo finanziario dello zio, versò una somma di 1400 fiorini d’oro, compiendone il pagamento nel settembre del 1471109. Naturalmente, in precedenza aveva completato gli studi universitari di diritto, per cui nei documenti lo troviamo chiamato con l’appellativo di “legum doctor”110. In aggiunta a tale sicuro “investimento” (dove il salario percepito rappresentava una sorta di “interesse” sul capitale speso), non mancarono a Dionisio, sempre sotto il pontificato di Sisto IV, le solite dotazioni di benefici e commende, tra cui il priorato dell’abbazia di Sant’Egidio al monte di Fieri (1472) e il priorato della chiesa di San Pietro di Marzano a Cortona (1476), con una rendita annuale rispettivamente di 40 e 24 fiorini d’oro111. Come sappiamo, il 29 maggio 1482 Iacopo Vagnucci, venendo elevato all’arcivescovato di Nicea, ottenne da Sisto IV che la diocesi perugina fosse affidata, a mo’ di “successione”, al proprio nipote, per quanto questi avesse ricevuto soltanto il diaconato (il secondo degli ordini maggiori): pertanto il papa, con apposita bolla, gli conferì ad un tempo il presbiterato e l’episcopato (fig. 13)112. La continuità nel vescovato fu garantita anche dal fatto che, sotto Dionisio, proseguì nell’ufficio di vicario generale Antonio Pagani da Fermo113.

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Fig. 13 Bolla papale del 29 maggio 1482 indirizzata a Dionisio Vagnucci.

L’inaugurazione di San Severo e del duomo di San Lorenzo Il 20 marzo 1484 il nuovo vescovo consacrò i tre altari o cappelle di San Severo, chiesa appartenente ai monaci Camaldolesi che, attestati nel rione di Porta Sole sin dal secolo XI, in quell’anno vennero definitivamente uniti al priorato camaldolese della SS. Trinità (fuori porta San Girolamo), con il trasferimento di quest’ultimo a San Severo114. Secondo il Crispolti, la chiesa quattrocentesca era stata ricostruita con i finanziamenti del comune, come indicato dal grifone che compariva sopra la porta dell’edificio. L’episodio della consacrazione era invece celebrato, secondo una “moda” tipica della Roma sistina115, da una lapide murata “in una facciata della chiesa incontro all’organo”116. Della ristrutturazione del XV secolo rimane solo la cappella di sinistra, quella orientata a settentrione e consacrata alla Madonna, come si rileva dalla statua in terracotta della Vergine collocata entro la nicchia (fine del ’400). Tra il 1505 e il 1521 la parete di fondo della cappella venne affrescata prima da Raffaello (Trinità e sei santi benedettini), poi dal Perugino (Sei santi), come attestano le iscrizioni leggibili in loco117. Qualche anno dopo, il 10 febbraio 1487, terminata finalmente la ricostruzione del duomo perugino, si svolse la cerimonia di traslazione del corpo di sant’Ercolano sotto la mensa del nuovo altare maggiore: alla presenza di una gran folla di cittadini, intervennero alla funzione, celebrata solennemente

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dal vescovo Dionisio, il vicelegato, i signori priori e il Capitolo della cattedrale. Secondo le antiche cronache, all’aprirsi della cassa furono manifesti i segni della santità del vescovo martire: il corpo era ancora integro, recava alcune gocce di sangue nella barba ed emanava un soave odore per tutta la chiesa118.

Sulla scia dello zio L’episcopato di Dionisio Vagnucci si svolse in anni particolarmente difficili, a causa delle turbolenze che caratterizzarono la scena politica e, di riflesso, la vita universitaria: in particolare, il penultimo decennio del secolo vide degenerare in un vero e proprio conflitto civile i contrasti esistenti tra le famiglie rivali dei Baglioni e degli Oddi, quest’ultimi definitivamente espulsi dalla città nell’ottobre del 1488. Ciononostante, Dionisio “non fu punto dissimile dal suo zio nella candidezza de’ costumi e nell’integrità della vita e, come quello, [...] non restò di affatigarsi con ogni suo potere per sedare così gran tempeste”119: in questo contesto si colloca la notizia, riportata dalle cronotassi vescovili, secondo la quale Dionisio, con l’autorità di Sisto IV, poté assolvere il popolo perugino dalle censure ecclesiastiche nelle quali era incorso. Per quanto riguarda invece i rapporti con la Sapienza Vecchia, i cui studenti si dimostravano troppo avvezzi alle rivolte e alle armi, il secondo dei Vagnucci portò avanti una linea certamente più conciliante di quella dello zio, benché ancora risoluta, soprattutto quando, sempre sotto Sisto IV, gli scolari furono costretti a giurare solennemente dinanzi al vescovo120. Secondo alcune testimonianze, anche Dionisio avrebbe composto in latino un trattato intitolato Contra Judaeos, di cui sarebbe esistita una stampa a Fermo: tuttavia esso non è citato dai bibliografi, né è stato rinvenuto manoscritto da Girolamo Mancini121. Ad ogni modo, l’ipotetico testo richiama nel titolo il problema dell’usura ebraica e la conseguente fondazione dei tre Monti di Pietà di Perugia (1462, 1471, 1473), il primo dei quali era stato difeso da Iacopo Vagnucci con un consilium scritto intorno alla metà degli anni sessanta. La morte di Dionisio Vagnucci Dionisio, “el quale era tenuto bona persona”, morì il 9 aprile 1491, “e molto recrevve la morte sua al populo de questa cità”122: il corpo del vescovo, trasportato in cattedrale, fu

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tumulato nella cappella di Sant’Onofrio, il sacello di famiglia dove già riposavano le spoglie dello zio Iacopo123. Il Graziani afferma che, dopo la morte di Dionisio, “la tenuta del vescovato e delli suoi beneficii la pigliaro li Baglioni”; in effetti, stando al Pellini, nacque subito un contenzioso tra i fratelli Guido e Rodolfo Baglioni: il primo voleva che l’episcopato fosse assegnato al figlio Gentile, chierico di Camera, il secondo al figlio Troilo, arciprete della cattedrale e già possessore di numerosi benefici124. Troilo avrebbe ottenuto l’ambito vescovato solo dopo un decennio, nel 1501, poiché papa Innocenzo VIII (1484-1492), adottando la stessa politica di cui si avvalse Niccolò V nel 1449, decise di affidare la diocesi perugina ad un altro forestiero di origini toscane, il lucchese Girolamo Balbano (1491-1492), già suo segretario.

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NOTE 1 ASF, Catasto (1427-1491), Catasto di Cortona del 1427, II, c. 405 (n. 215). Francesco conduceva l’attività di lanaiolo in società col fratello Angelo e con un certo Giovanni di Berto di Pietro; Iacopo aveva quattro fratelli: Pietro, Onofrio, Tommaso e Pierlorenzo. La genealogia dei Vagnucci è stata tratta da BAEC, Braccioli, Stemmi e brevi notizie..., cc. 5v-6r (fig. 1): per quanto non vi compaia, in alcuni documenti si ha testimonianza anche di un quinto fratello, tale fra Bernardino. Notizie sulla famiglia si possono trovare, oltre che nel manoscritto citato (cc. 7r-8v), in BAEC, ms. 473, cc. 36r-37v; l’unico studioso che ha saputo invece documentare un profilo biografico di Iacopo Vagnucci è Girolamo MANCINI (1897, pp. 336-338), storico bibliotecario dell’Accademia Etrusca. A Cortona, tra gli edifici appartenuti alla famiglia, spiccano il duecentesco palazzo Coppi-Vagnucci (fig. 2), all’angolo tra via Coppi e il vicolo Vagnucci, e l’elegante palazzotto costruito sul finire del ’500 in via Roma (fig. 3), attuale hotel Sabrina (cf. TAFI 1989, pp. 86 e 211-213). 2 La famiglia dei Veli risiedeva nella parrocchia di Santa Maria dell’Oliveto di Porta Eburnea (GROHMANN 1981, pp. 578-579). L’ordine dei frati Gesuati, istituito a Siena alla metà del ’300, era dedito alla carità ospitaliera, soprattutto durante le epidemie. 3 Con questa “fuga” il pontefice scontò le imprudenze della propria politica nei confronti del Concilio di Basilea (1431-1449), del Ducato di Milano e della famiglia romana dei Colonna, alla quale era appartenuto il suo predecessore Martino V (PASTOR 1910, pp. 266-268 e 273). 4 Nominato nell’aprile del 1434, mantenne questo incarico fino alla morte, avvenuta nel luglio del 1459 (BAEC, ms. 545, cc. 59r-60r). Per un profilo del frate, “venerabile, santo e dotto”, amico degli studi e degli umanisti, cf. DE TOTH 1934, vol. I, pp. 404-405, vol. II, pp. 479-482. 5 BAEC, Vita del vescovo..., p. 66. Nel corso del presente volume, si farà spesso riferimento a questo documento inedito (per la trascrizione completa, cf. appendice A, n. 4), che Girolamo Mancini certamente conosceva (se non altro per averlo menzionato negli inventari a stampa [MANCINI 1884; IDEM 19111913] dei manoscritti posseduti dalla BAEC), anche se non risulta segnalato nei suoi contributi. Tra i manoscritti dell’Accademia Etrusca di Cortona si conserva una serie di miscellanee intitolata Notti Coritane (12 voll. [1744-1755], mss. 433-445; il titolo discende dall’antico nome latino della città), che riunisce numerosi saggi d’erudizione, prodotti o esibiti dai vari membri dell’Accademia durante convegni serali che si tenevano nei salotti di alcune famiglie cortonesi. Tra quelli contenuti nella Notte XXII (8 giugno) del vol. VIII (1751) dell’opera, compare la trascrizione di una Vita del vescovo della Casa di Vagnucci di Cortona, composta dal fratello Pietro di Francesco nel 1469, copiata da Francesco di Cornelio Vagnucci nel 1577, di nuovo trascritta nel 1582 da Ottavio di Fabrizio Vagnucci (un discendente di quarta generazione di Tommaso, uno dei fratelli di Iacopo). Francesco di Cornelio (1519-1595), grande erudito cortonese appartenente all’altro ramo principale della famiglia, ci informa che il testo originale di Pietro Vagnucci si trovava nelle mani del nipote di costui (Pietro di Candido di Pietro), i cui figli (Candido e Francesco) gli fornirono una copia che egli si incaricò poi di completare ed aggiornare. La Vita, infatti, si fermava originariamente al 1469, mentre l’integrazione che compare sotto la sigla “FVC” spetta appunto a “Francesco Vagnucci Cortonese” e risale all’ottobre del 1577. Probabilmente anche l’ultima aggiun-

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ta, datata 23 marzo 1594, va ricondotta alle memorie raccolte dal noto erudito: infatti Francesco di Cornelio si spense l’anno seguente, mentre il tale “Angelo di Cornelio Vagnucci nostro” citato nel testo è sicuramente suo fratello. Proprio la formazione e la trasmissione nel tempo di questo scritto ne hanno determinato la natura frammentaria, unitamente a qualche dato impreciso e a numerose scorrettezze sintattiche. Ciononostante, si tratta di un documento molto importante, sia per la ricostruzione della vita di Iacopo, sia per lo studio della più importante iniziativa da lui intrapresa in campo artistico: l’erezione della cappella di Sant’Onofrio nel duomo di Perugia, che venne distrutta nel 1608, poco dopo l’ultima integrazione del testo in questione (cf. cap. II). 6 Già priore della Certosa di Bologna (sua città natale), vescovo felsineo dal 1417, l’Albergati venne nominato cardinale nel 1426, trasferendosi successivamente presso la Curia romana. Fu legato pontificio ai Concili di Basilea (1433) e Ferrara (1438). Durante il ritorno a Roma della corte papale, s’ammalò gravemente, morendo a Siena nel maggio del 1443. Sulla figura del beato Albergati, oltre alla monografia di DE TOTH (1934), cf. PASZTOR 1960, pp. 619-621. 7 Sin dal 1420 circa, il Parentucelli era stato accolto a Bologna nella famiglia del vescovo Albergati, seguendolo poi a Roma dopo la nomina cardinalizia, accompagnandolo in molti dei suoi viaggi diplomatici ed assistendolo nei suoi gravosi impegni conciliari. Già a Bologna, ma soprattutto a Firenze, Tommaso ebbe modo di stringere legami con i più insigni dotti del tempo: tra il 1441 e il 1443 fu anche incaricato da Cosimo de’ Medici di insediare la futura Biblioteca Niccoli nel convento domenicano di San Marco, le cui pareti venivano affrescate proprio allora dal Beato Angelico. Sulla carriera ecclesiastica del Parentucelli e i suoi rapporti col cardinale di Santa Croce, cf. MIGLIO 2000, pp. 644-646; anche PASTOR 1910, pp. 330-338. 8 DA BISTICCI \ GRECO 1970-1976, vol. I, pp. 75-81 e 132-135. Il cardinale volle essere sepolto alla Certosa fiorentina di monte Acuto, e fu lo stesso fra Niccolò a dettarne l’epigrafe tombale. Il monumento sepolcrale di papa Niccolò V, invece, si trova nelle cosiddette Grotte Vaticane. 9 BAEC, Vita del vescovo..., pp. 66-67. Si aggiunga poi che “administrator episcopatus” di Bologna era Ludovico Scarampi, arcivescovo di Firenze dal 1437 al 1439. 10 Ibidem. Nominato canonico della chiesa metropolitana “coll’espettativa”, ottenne la prebenda solo nel 1445 (in qualità di “quinto di libera collazione”), ma dovette rinunciare l’anno seguente, essendo sorta una lite con Antonio di Francesco Tornabuoni. Cf. ACDF, Salvini, Vite e memorie... (le cc. non sono numerate): da questo materiale manoscritto sarà tratto, a mo’ di sunto, un Catalogo a stampa (SALVINI 1782), dove la Vita di Iacopo è la n. 354, alle pp. 42-43; il testo della Vita manoscritta è riportato per esteso in appendice A, n. 3. 11 Mentre Tommaso veniva nominato vicecamerlengo, nel 1443 il Vagnucci esercitava il suo primo incarico nella Curia papale, in qualità di registratore della segnatura delle suppliche; successivamente, nel 1446, avrebbe ricoperto l’ufficio di collettore dei proventi della Camera Apostolica nel Ducato di Milano; infine, nel 1447, avrebbe ricevuto un canonicato nella Primaziale di Pisa. Cf. ACDF, Salvini, Vite e memorie...; BAEC, Cartapecore Vagnucci, 8 febbraio 1446 (in questo documento Astorgio Agnesi, luogotenente di Ludovico Scarampi, cardinale camerlengo, ordina al Vagnucci di procedere contro il suo antecessore, reo di appropriazione indebita di denaro). 12 Il vescovato bolognese fu retto per un anno da Nicola Zanolini, morto nel maggio del 1444.

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13 ACDF, Salvini, Vite e memorie...; BAEC, Vita del vescovo..., pp. 66-67. Cf. anche MANCINI 1897, p. 336. Secondo la consuetudine umanistica, la scelta del nome da parte del Parentucelli avvenne in onore del proprio benefattore, il cardinale Niccolò Albergati (PASTOR 1910, p. 331). Niccolò V fu il primo pontefice ad avvalersi di un cubiculario, ossia segretario domestico e cameriere segreto (MIGLIO 2000, p. 653). 14 Secondo Vespasiano da Bisticci, papa Niccolò voleva fregiare della porpora cardinalizia lo zio di Iacopo, fra Niccolò Vagnucci, in segno della profonda riverenza e dell’intima amicizia che nutriva per lui; tuttavia costui, per rigida fedeltà alla propria scelta cenobitica, avrebbe sempre cortesemente rifiutato. Allora, stando a Francesco Castiglioni, il Certosino avrebbe fatto in modo che il desiderio del papa fosse convogliato sul proprio nipote, che venne appunto insignito della dignità episcopale (DA BISTICCI \ GRECO 1970-1976, vol. I, p. 78; BANDINI 1778, pp. 412-413). 15 BAEC, Cartapecore Vagnucci, 14 giugno 1448. Cf. anche UGHELLI [1644], tomo II, col. 434; GAMS 1873, p. 722. Secondo EUBEL (1913, p. 95) la data di nomina sarebbe invece il 10 giugno. 16 MORONI 1840-1861, vol. LXXIV, p. 281. La presenza a Roma del Vagnucci trova conferma in una lettera di Poggio Bracciolini a Pietro di Noceto del 26 agosto 1449: “Ariminensi [episcopo] me commenda, cum est in mensa” (BRACCIOLINI \ HARTH 1987, pp. 100-101). Niccolò V ebbe un’attenzione particolare per la Camera Apostolica, la quale venne completamente rinnovata nel personale, con la riduzione dei chierici al numero di sette (MIGLIO 2000, pp. 652-653). 17 GRAZIANI \ FABRETTI 1850, p. 614. Cf. anche PELLINI 1664, parte II, p. 574. 18 GRAZIANI \ FABRETTI 1850, p. 618. Cf. anche PELLINI 1664, parte II, p. 577. 19 Tra gli aspiranti perugini all’ambito titolo ci sarebbero stati il figlio di Guido degli Oddi e l’arciprete della cattedrale Baldassarre di Fabrizio Signorelli, per tanti anni collaboratore del Baglioni (GRAZIANI \ FABRETTI 1850, p. 620; cf. anche PELLINI 1664, parte II, p. 579). Secondo il GAMS (1873, p. 714) la data di nomina non sarebbe il 27, ma il 31 ottobre (cf. UGHELLI [1644], tomo I, col. 1164: “postrema die expirantis octobris”). Tra le Cartapecore Vagnucci (BAEC), in data 1 novembre 1449, si conservano due bolle di Niccolò V, inviate al neo-vescovo Vagnucci da Fabriano. 20 Il vescovato del Baglioni (1435-1449) fu preceduto da quello di Edoardo (1404-1411) e Antonio Michelotti (1412-1434), altra influente famiglia perugina. 21 MONACCHIA 1995, pp. 60-62. Sul Baglioni e la relativa bibliografia, cf. par. II, 1 e nota 4. 22 CRISPOLTI iunior 1648, pp. 270-271. 23 GRAZIANI \ FABRETTI 1850, p. 619. Cf. anche PELLINI 1664, parte II, p. 579. 24 Bologna, “la città che da secoli era pei papi, dopo Roma, la più bella perla della loro corona temporale”, viveva una situazione istituzionale per certi versi simile a quella di Perugia, divisa com’era tra le magistrature comunali, un signore di fatto, Sante Bentivoglio, e il legato papale, quest’ultimo costretto periodicamente a fronteggiare la mai repressa aspirazione popolare alla completa indipendenza della città dal governo pontificio. Subito agli inizi del suo pontificato, Niccolò V, “che aveva una speciale propensione per la città in cui aveva passato gran parte della propria vita”, fece di Bologna un punto fondamentale della sua celebre politica irenica, riconoscendole, con la pace conclusa nell’agosto del 1447, un’ampia autonomia politica. Segni di particolare

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attenzione alla città furono anche, nello stesso 1447, la nomina a governatore di Roma del bolognese Giovanni del Poggio (già vescovo della città) e, nel 1448, il conferimento del cappello cardinalizio al nuovo vescovo Filippo Calandrini (fratello uterino di Niccolò V) e al governatore di Bologna Astorgio Agnesi (PASTOR 1910, pp. 375-376). Ciononostante, nel 1449 nuove turbolenze tornarono ad agitare la città: violenze, omicidi, esecuzioni capitali; nell’agosto fu anche sventata una congiura contro Sante Bentivoglio, la cui fazione governava col tacito assenso dell’autorità papale. Il fallimento del complotto causò la fuoriuscita di numerose famiglie bolognesi, le quali occuparono i castelli che nel contado fungevano da presidi del dominio pontificio, tenendo così la città in uno stato di continua pressione. Il Vagnucci giunse a Bologna il 16 novembre 1449, andando ad alloggiare nel palazzo vescovile. In un primo momento l’accoglienza dei governanti non fu certo delle migliori, finché il 23 novembre il senato, in segno di distensione, “non mancò di presentarli biada, confetti, cera, capponi, fasani et altre cose assai necessarie al vivere”. Ricevuta il 16 dicembre un’ambasceria del papa, il quale lo invitava a non lasciare la città a propria insaputa, il 21 dicembre Iacopo, che nel frattempo si era trasferito nel convento dei Serviti, venne raggiunto dai magistrati, dal clero e dai rappresentanti delle arti, e fu accompagnato “al palazo con festa et trihumpho et sono de campane”, insediandosi nella metà dell’edificio assegnata al governatore (CRONACHE \ RIS 1924, p. 170; cf. anche GHIRARDACCI [1596], pp. 132-133). Il 26 dicembre, infine, il pontefice, con bolla da Roma, lo nominò governatore della città e di tutto il territorio di Bologna, conferendogli i poteri di legato a latere (BAEC, Cartapecore Vagnucci, 26 dicembre 1449). Il governatorato del Vagnucci fu molto breve: difatti il suo provvedimento più importante fu a salvaguardia della sicurezza di quei pellegrini che, diretti a Roma per il giubileo indetto dal papa, dovessero attraversare il territorio bolognese (GHIRARDACCI [1596], p. 134). Dopo il rientro di un’ambasceria diretta a Niccolò V (4 gennaio), Iacopo venne informato che il pontefice desiderava conferire personalmente con lui sulla situazione della città: pertanto il 26 gennaio, lasciato in sua vece il tesoriere Giovanni Venturelli da Terni, si recò a Roma con tre oratori, scelti tra i rappresentanti della fazione del Bentivoglio. Mantenendo le promesse fatte al senato, Iacopo raccomandò al papa il governo della città e ne sostenne le ragioni contro le pretese dei fuoriusciti. Niccolò V, dopo aver riflettuto a lungo sul da farsi, designò quale legato non solo di Bologna, ma di tutta la Romagna e della Marca Anconetana, il cardinale niceno Bessarione (26 febbraio): questi, partito da Roma insieme ai tre ambasciatori, fece il suo ingresso in città il 16 marzo, accolto con le consuete manifestazioni di giubilo. Quanto al Vagnucci, che aveva esaurito il proprio compito, non vi fece più ritorno, restando quindi nella capitale pontificia (CRONACHE \ RIS 1924, pp. 171-173; cf. anche GHIRARDACCI [1596], pp. 134-135). Sulla figura del cardinale Bessarione, cf. LOENERTZ 1949, coll. 1492-1498; LABOWSKY 1967, pp. 686-696; sul suo governatorato bolognese, cf. PASTOR 1910, pp. 377-380. 25 BAEC, ms. 423, c. 33rv. La copia del documento è datata “anno 1453, tertio decimo [die ante] kalendas martii, pontificatus nostri anno tertio”, ma il terzo anno del pontificato di Niccolò V inizia il 19 marzo 1449 (quindi siamo nel febbraio 1450, precisamente il giorno 17): che la data sia dunque errata è confermato dal fatto che nel diploma del settembre 1450, con il quale l’imperatore conferiva le insegne gentilizie alla famiglia cortonese, Francesco Vagnucci viene qualificato già come “nobilis” (cf. nota 26). Il Chiugi (o Chiusi) perugino è la zona agricola a sud-ovest del lago Trasimeno, tradizio-

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nale granaio del comune di Perugia, i cui introiti erano contesi alla Camera Apostolica: a quest’ultima la famiglia Vagnucci doveva pagare un censo annuo (una libbra di cera lavorata) nel giorno della festa dei Santi Pietro e Paolo. 26 BAEC, Cartapecore Vagnucci, 10 settembre 1450 (cf. appendice A, n. 9). Il diploma venne ordinato in Neustadt (Nova Civitas) ad Enea Silvio Piccolomini, vescovo di Siena e futuro papa Pio II, segretario personale ed ambasciatore di Federico, già artefice di un’importante mediazione nelle relazioni tra l’Impero e papa Eugenio IV: mediazione sfociata nell’accordo dei primi mesi del 1447, con il quale l’imperatore aveva abbandonato la neutralità rispetto al conflitto tra il Concilio e il Papato (MIGLIO 2000, p. 647). 27 Nel 1448 Federico III, riconoscendo l’autorità del pontefice neo-eletto, aveva cacciato da Basilea il Concilio, costretto a riparare a Losanna; lo stesso anno era stato stipulato il “Concordato di Vienna” (febbraio-marzo), che avrebbe regolato i futuri rapporti tra Impero e Papato; nel marzo del 1452, infine, nella basilica di San Pietro, Niccolò V benedisse le nozze di Federico III con Eleonora di Portogallo e, tre giorni dopo, lo incoronò solennemente “Imperatore dei Romani” (GRESCHAT-GUERRIERO 1994, pp. 412-416). 28 Sulla rappresentazione dello stemma la bibliografia non è unanime (cf. UGHELLI [1644], tomo II, col. 434; ASSP, Belforti-Mariotti, Serie de’ vescovi..., pp. 266 e 272; DI CROLLALANZA 1887-1890, vol. III, p. 60), ma i numerosi esemplari esistenti (lapidei e dipinti) confermano quanto dichiarato ufficialmente nel diploma imperiale del 1450 (fig. 4; cf. appendice A, n. 9). Lo scudo appare in diverse forme (gli esempi più antichi sono del tipo “gotico” o “a mandorla”) e presenta il campo smaltato di blu scuro; nel caso del vescovo perugino, poi, esso risulta sormontato dalla mitra ingemmata, dotata di due appendici svolazzanti (infule). Sulla testa dell’orso svetta una corona, simbolo dell’investitura imperiale: quella della nobiltà semplice è costituita da un cerchio d’oro che sorregge otto perle (o punte), di cui solo cinque visibili (BASCAPÈ-DEL PIAZZO 1983, pp. 486 e 604). Le tre rose sono ciascuna di un colore diverso: rossa quella all’interno (verso il muso dell’animale), verde la centrale, bianca quella all’esterno. Di esse apparentemente sfugge il significato, ma il numero tre potrebbe indicare i figli (Angelo, Francesco e Niccolò) di Giovanni detto Vagnuccio, che diede il cognome e la discendenza alla famiglia cortonese; inoltre si noti che “R-O-S-A” è l’anagramma di “O-R-S-A”. È possibile che la scelta dell’orso sia da mettere in relazione con il toponimo “Orsaia, villa di Cortona apresso al Trasimeno” (BAEC, Braccioli, Stemmi e brevi notizie..., c. 7r), vale a dire Ossaia, cittadina a sud di Cortona nella quale pare che i Vagnucci abbiano vissuto in esilio al tempo della signoria dei Casali (terminata nel 1409) e dove, in effetti, erigeranno una villa (tutt’ora esistente) nella prima metà del ’600. L’etimologia di Ossaia è molto controversa: il riferimento alla strage di Romani nella battaglia del Trasimeno è infondato, mentre il toponimo potrebbe derivare, secondo quanto mi riferisce uno studioso locale, da un personaggio di nome Ursus (da cui “Ursaia” o “Ursaria”), che in latino significa appunto “orso”. Oltre al blasone gentilizio, i discendenti di Angelo e Francesco Vagnucci, i fratelli lanaioli che diedero vita ai due rami principali della famiglia, utilizzarono un monogramma simile ad una “&”, derivante dalle iniziali dei nomi dei due avi (ivi, c. 7v). Stemma e sigla compaiono, in diverse realizzazioni lapidee dei secoli XVI-XVIII (figg. 5-7), lungo le vie di Cortona (hotel Sabrina, Monte dei Paschi di Siena, vicolo Vagnucci, piazza del Pozzo Cavriglia, casa parrocchiale di San Cristoforo, vicolo della Luna, portico del santuario di Santa Margherita) e presso le due ville che i Vagnucci possedevano a nord di Petrignano del Lago, in località

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Palazzi, e a sud di Cortona, nei pressi di Ossaia (attuale villa Laura); altri esemplari sono testimoniati dal DELLA CELLA (1900, p. 265). 29 Già dal febbraio del 1450 ricopriva nuovamente la carica di luogotenente della Camera Apostolica, che mantenne fino al mese di agosto, quando venne nominato, con amplissimi poteri, commissario del Patrimonio Ecclesiastico (MORONI 1840-1861, vol. LXXIV, p. 281; BAEC, Cartapecore Vagnucci, 4 agosto 1450). Nel 1451 comandava le truppe pontificie, venendo impegnato soprattutto nel territorio di Viterbo (ivi, 6 maggio 1451; BAEC, Vita del vescovo..., p. 67). Nei primi sei mesi del 1452 esercitò per la terza volta l’ufficio di luogotenente, finché il 30 giugno, scomparso il vescovo di Traù Cavaccia, Niccolò V lo nominò definitivamente tesoriere della Camera Apostolica, incarico che il Vagnucci ricoprì fino al marzo del 1456, quando prese possesso della diocesi perugina (MORONI 1840-1861, vol. LXXIV, pp. 281-282; BAEC, Cartapecore Vagnucci, 30 giugno 1452). Nel giugno del 1453 è citato in una lettera di Poggio Bracciolini a Pietro di Noceto (“Saluta commatrem verbis meis, dominum episcopum perusinum omnesque cubicularios”), mentre altre due lettere di Poggio gli sono indirizzate nell’autunno del 1454 e nella primavera del 1456 (BRACCIOLINI \ HARTH 1987, pp. 150-151, 297-298 e 399). Durante le feste natalizie del 1453 si trovava nei pressi della badia di Montecassino, dove si era unito ad una brigata di cacciatori (cf. par. 3 e nota 67). Nei primi mesi del 1455 fu incaricato dal pontefice, ammalatosi mortalmente, di intrattenere a corte Ludovico Bentivoglio che, nominato “Cavaliere Aurato” e “Conte Lateranense”, ricevette gli sproni d’oro dal vescovo perugino e da Pietro di Noceto (GHIRARDACCI [1596], pp. 156-157). Comunque, nonostante il silenzio di buona parte delle fonti, l’ufficio più importante che Iacopo ricoprì sotto Niccolò V fu quello di vicecamerlengo (BAEC, Dignità e uffizi..., p. 146; Vita del vescovo..., p. 67; ACDF, Salvini, Vite e memorie...), documentato dal 9 giugno 1449 al 3 marzo 1452: in questa veste il Vagnucci manifestò un’attenzione tutta nuova per gli immobili e i relativi arredi della Camera Apostolica (Archivio di Stato di Roma, Camerale I, Mandati, reg. 831, cc. 117r-266v; cf. CHERUBINI 1988, pp. 38-39 e 78). 30 UGHELLI [1644], tomo I, col. 1164; BAP, Belforti-Mariotti, Serie de’ vescovi..., p. 124 (la trascrizione delle Vite di Iacopo e Dionisio è in appendice A, nn. 2 e 5). 31 ASP, ASCP, Riformanze, n. 88 (1452), c. 147r. Il Bottonio (BAP, Annali del convento..., p. 106) accenna al vescovato del cortonese in relazione al 1454, ma senza riferirsi ad un episodio particolare (“Iacopo Vannucci da Cortona era vescovo”). 32 BAEC, Vita del vescovo..., p. 67. Sulla politica romana del papa, cf. MALLET 2000, pp. 661-662. 33 MORONI 1840-1861, vol. LXXIV, p. 282. 34 BAP, Belforti-Mariotti, Serie de’ vescovi..., p. 124. Cf. anche UGHELLI [1644], tomo I, col. 1164 (“occepitque sibi creditam administrare Ecclesiam die 25 mensis martii”). 35 PELLINI 1664, parte II, p. 631. Una breve descrizione di questo solenne corteo si può leggere, oltre che negli Annali del Bottonio (secondo il quale l’ingresso in città sarebbe avvenuto Domenica 21 marzo), nella Cronaca di Pietro Angelo di Giovanni (BAP, Bottonio, Annali del convento..., p. 110; DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, pp. 89-90): dopo aver pernottato a San Martino in Campo, dove fu ricevuto dall’arciprete della cattedrale Ranieri, Iacopo venne incontrato dalla processione di tutti gli ordini religiosi presso la chiesa di San Costanzo, fuori la porta omonima; quindi fece il suo ingresso in città,

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montando un bellissimo cavallo ornato di tutto punto e cavalcando sotto un ricco baldacchino, che la comunità aveva fatto realizzare a proprie spese appositamente per l’occasione. Una volta smontato presso l’udienza del Cambio, i giovani presero d’assalto gli oggetti e i paramenti destinati al ricevimento, secondo un costume consolidato che si ripeterà con la visita di Pio II (1459), nonostante gli espressi divieti delle autorità. 36 BAEC, Cartapecore Vagnucci, 8 maggio 1456. Il referendario era il funzionario della cancelleria pontificia incaricato di esaminare e “sintetizzare” il contenuto delle suppliche, prima che queste venissero sottoposte al papa per l’eventuale approvazione. 37 BAEC, Vita del vescovo..., p. 67 (“Il detto monsignore vescovo stette in castello a tempo di papa Calisto e non si partì mai di Roma”). 38 Allo stesso modo, Iacopo era assente da Perugia quando, il 28 giugno precedente, era stato rogato nel palazzo vescovile l’atto di procura (fig. 109). Sul Reliquiario Vagnucci, cf. parr. IV, 1-2. 39 COLLARETA 1987a, p. 96, nota 65. Cf. anche MANCINI 1897, p. 337. 40 Mi astengo dal delineare il contesto politico-istituzionale della città nella seconda metà del XV secolo, sul quale si potrà consultare, tra gli altri, il saggio di CHIACCHELLA-NICO OTTAVIANI (1990, pp. 13-33). 41 Pio II era accompagnato da cinque cardinali: Prospero Colonna (nipote di Martino V), Pietro Barbo (nipote di Eugenio IV e futuro Paolo II), Rodrigo Borgia (nipote di Callisto III, vicecancelliere e futuro Alessandro VI), Filippo Calandrini (fratello uterino di Niccolò V e vescovo di Bologna) e Guglielmo De Estouteville. Narrano di questo soggiorno i cronisti dell’epoca (DEI VEGHI \ FABRETTI 1850, pp. 632-634; DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, pp. 139-148), il PELLINI (1664, parte II, p. 650) e lo stesso Pio II nel vol. II dei suoi Commentari. Cf. anche MARIOTTI 1806, pp. 528-545. 42 Federico da Montefeltro (1422-1482), conte di Urbino dal 1444, essendo giunto a Perugia con settanta cavalli, venne incontrato da alcuni vescovi (tra cui forse il Vagnucci) e da un nipote di Pio II (Francesco Piccolomini?) che lo accompagnarono al palazzo del governatore, dove il papa non tardò a dargli udienza. 43 Questo venne assegnato, nel novembre del 1459, al vicetesoriere Niccolò Forteguerri da Pistoia, vescovo di Teano (1458-1473) e familiare del papa (cf. EUBEL 1913, p. 249); vi aspirava anche Bartolomeo Regas, canonico di Vich e Barcellona (MARINI 1784, p. 157). 44 TARGIONI TOZZETTI 1779, p. 30. 45 ASP, ASCP, Riformanze, n. 96 (1460), c. 55. Cf. BAP, Belforti-Mariotti, Serie de’ vescovi..., p. 126. 46 Sigismondo, reo di non aver accettato le rinunce territoriali impostegli dal Concilio di Mantova e, soprattutto, convinto sostenitore della causa angioina in Italia, venne colpito da scomunica papale nel dicembre del 1460; la guerra, condotta dal suo nemico giurato Federico da Montefeltro, generale della Chiesa e signore di Urbino, si concluse nel settembre-ottobre del 1463, con la capitolazione di Fano (che passò in vicariato a Federico) e Senigallia: al Malatesta rimase appena il possesso di Rimini, a suo fratello Domenico (Malatesta Novello) quello di Cesena (PELLEGRINI 2000, pp. 677-678). Con l’istituzione della signoria-vicariato di Antonio Piccolomini, la Curia romana entrava direttamente nella gestione politica della Marca, mantenendo tuttavia una continuità col passato: un semplice funzionario papale, infatti, non avrebbe dato sufficienti garanzie contro l’oligarchia locale che, d’altra parte, non tardò a venire in contrasti con il Piccolomini (CARAVALE-CARACCIOLO 1978, pp. 83-84).

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47 MORONI 1840-1861, vol. LXVI, pp. 216-217 e 242. Diversamente dal suo predecessore, Paolo II optò per un funzionario nel quale riponeva grande fiducia, capace di affrontare l’oligarchia locale e di allontanare dalla Marca le mire dei Malatesta (CARAVALE-CARACCIOLO 1978, p. 93). In questo biennio i rapporti tra Iacopo e il pontefice furono molto intensi, come testimoniano ben 16 brevi, inviati da Roma e firmati Leonardo Dati (BAEC, Cartapecore Vagnucci, dal 28 settembre 1464 al 12 maggio 1466). 48 BAEC, Vita del vescovo..., pp. 67-68. Sulla laurea perugina di Pierlorenzo, cf. FROVA-GIUBBINI-PANZANELLI FRATONI 2003, pp. 47 e 139-141. 49 BAEC, Cartapecore Vagnucci, 26 settembre 1466. Anche durante questo secondo governatorato, le relazioni con Paolo II sono ampiamente documentate da altri 17 brevi firmati Leonardo Dati (ivi, dal 16 ottobre 1466 al 31 luglio 1470). Sappiamo che negli anni di questa ulteriore assenza dalla diocesi perugina, precisamente tra il 1465 e il 1473, molti beni del vescovato furono dal Vagnucci concessi in enfiteusi (BAP, Belforti-Mariotti, Serie de’ vescovi..., p. 126). 50 La cittadina, da sempre gelosa dei suoi privilegi e delle sue antiche libertà, nemica tradizionale di Spoleto e di Ascoli Piceno (che si era vista sottrarre il possesso di Arquata), aveva attirato su di sé le antipatie di Paolo II (ancor prima che questi divenisse papa), il quale ebbe a definire i nursini “i più cattivi homini del mondo”. Ribellatasi apertamente alla Santa Sede, Norcia prima fu sottoposta ad interdetto (gennaio del 1466), quindi venne scomunicata (dicembre successivo), dovendo infine cedere all’esercito pontificio guidato da Braccio Baglioni (signore di Perugia) ed accettare, per la prima volta, un governatore apostolico ed una rocca entro le proprie mura. Iacopo, giunto a Norcia ai primi del 1467, passò gli ultimi mesi invernali con il campo, sottomise tutta la regione all’autorità pontificia e scongiurò le mire territoriali dei Da Varano, signori di Camerino, che intendevano approfittare della situazione per impadronirsi di Norcia (BAEC, Cartapecore Vagnucci, 1 gennaio 1466, 23 dicembre 1466, dal 22 gennaio al 15 marzo 1467; Vita del vescovo..., p. 68; DE REGUARDATI 1989, p. 61; CORDELLA 1995, p. 12). 51 Con due brevi papali, il Vagnucci fu incaricato di avviare i lavori di consolidamento dei palazzi del Podestà di Narni e Spoleto e, nella seconda cittadina, di un ponte ausiliario della rocca Albornoziana (“pontem sussidiarium sive succursus arci”), quest’ultima presidio papale, nonché dimora abituale del governatore, e meta obbligata di qualsiasi viaggio dei pontefici nel nord dello Stato Ecclesiastico (BAEC, Cartapecore Vagnucci, 13 giugno 1469). 52 Ivi, 7 dicembre 1468; DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, pp. 219-221; PELLINI 1664, parte II, p. 699. I motivi di questo secondo viaggio dell’imperatore sono sempre rimasti oscuri (cf. MODIGLIANI 2000, pp. 694-695). 53 UGHELLI [1644], tomo I, col. 1164; CRISPOLTI iunior 1648, p. 270. Cf. anche BAP, Baglioni, Perugia sagra..., c. 115v; Belforti-Mariotti, Serie de’ vescovi..., p. 124. 54 Dagli Annali del comune risulta che Federico era accompagnato da quattro vescovi commissari del papa, tra i quali potrebbero riconoscersi il Vagnucci e il Della Rovere (ASP, ASCP, Riformanze, n. 105 [1469], c. 5). Nel marzo del 1471, invece, transitò per Perugia, con una magnificenza addirittura superiore, Borso d’Este, duca di Modena e marchese di Ferrara, che si recava a Roma per ricevere da Paolo II il titolo di duca (DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, p. 231; PELLINI 1664, parte II, p. 709).

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55 Questi, tutti canonisti (dottori in lettere decretali), furono nell’ordine: Giovambattista Manzoli di Bologna, Fabiano Benci di Montepulciano, Niccolò de’ Ferretti di Montefortino (Marche), Antonio Passamedi di Castro (Lazio), Antonio Pagani di Fermo e, infine, Forese Vagnucci di Cortona (si presume un parente di Iacopo, ma non compare nella genealogia). Durante il pontificato di Sisto IV, si succederanno, dopo Michelangelo Barbi di Cortona, ancora Forese Vagnucci e Antonio Pagani, l’ultimo dei quali proseguirà il proprio mandato sotto il nuovo vescovo Dionisio Vagnucci (vedi, tra le varie fonti, BAP, Belforti-Mariotti, Serie de’ vescovi..., p. 126). 56 L’Università perugina, fondata nel 1308, conosce nel corso del ’400 una radicale trasformazione dei suoi ordinamenti e dei suoi privilegi: nata infatti come “Studio della medievale monarchia universale” (donde l’epiteto di “generale”), essendo guidata e sostenuta dal comune col beneplacito dell’autorità imperiale e di quella pontificia, vivrà successivamente solo per diretta concessione signorile, con tutte le limitazioni e le ingerenze che ne conseguiranno. Emblematica, nel primo quarto del ’400, è la costante preoccupazione del comune di garantirne la sopravvivenza, ogni qual volta esso pattuisce la dedizione in signoria della città (ERMINI 1971, pp. 189-195). A partire dal 1424, ristabilita da Martino V (1417-1431) la diretta sovranità pontificia su Perugia, il signore con cui dialoga l’Università non è Malatesta Baglioni (in quell’anno succeduto al cognato Braccio Fortebracci da Montone), ma il papa, rappresentato dal governatore (o legato papale) e dal vescovo cittadino: mentre il primo rende esecutiva la volontà del signore-pontefice, il secondo svolge la funzione di supervisore dell’intera vita universitaria. 57 Ivi, pp. 406 e 470. Nel 1443 si era aggiunto il collegio di San Girolamo o Sapienza Nuova, aperta, sul modello della prima (divenuta “Vecchia”), per volontà testamentaria di monsignor Benedetto Guidalotti: ne erano superiori i consoli della Mercanzia e il priore della cattedrale; il primo rettore fu monsignor Angelo Geraldini da Amelia, vicario generale del vescovo perugino Giovanni Andrea Baglioni. 58 Questi, riunitosi nel febbraio del 1450 col priore di Montemorcino fra Paolo da Bologna, decretò di portare da sei ad otto gli anni di permanenza nel collegio (per una retta complessiva di 50-60 fiorini d’oro), venendo così incontro alle aspettative degli studenti, esasperati dai continui disagi causati dalla pestilenza del 1448-1450. Viceversa, gli scolari non furono affatto contenti quando, nel 1452, vennero privati del diritto, fino ad allora intangibile, di eleggere autonomamente il proprio rettore: il Vagnucci e il priore di Montemorcino fra Bartolomeo da Firenze, confermati i mandati già affidati per il 1452 a Niccolò da Cortona e per il 1453 a Cristoforo da Ragusa, sancirono che, a partire dal 1454, la nomina del rettore sarebbe stata disposta ad anni alterni dal vescovo e dal priore di Montemorcino, venendo comunque sottoscritta da entrambi. La medesima normativa rendeva poi vincolante l’usanza, invalsa fino ad allora, che il rettore neo-eletto corrispondesse un emolumento alle suddette autorità (ANGELETTI-BERTINI 1993, pp. 165-167 e 492). 59 Ne derivarono numerose intemperanze: gli studenti impedirono ai priori la visita annuale alla Sapienza Vecchia, anche rivolgendo loro parole ingiuriose; boicottarono e disturbarono in tutti i modi la celebrazione della festa di Sant’Ercolano; “congiuravano perché nessuno scolaro assumesse più i gradi accademici in Perugia, e minacciosi ostentavano perfino contro il governatore e il vescovo schioppi e altre armi”; progettavano di trasferirsi in massa nell’Università di Siena (ERMINI 1971, p. 199).

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60 Ivi, pp. 199-200. Cf. anche ANGELETTI-BERTINI 1993, pp. 171-172. 61 DEI VEGHI \ FABRETTI 1850, p. 635. Cf. anche PELLINI 1664, parte II, p.

651. Tutta la vicenda è narrata minuziosamente pure nel Diario di Angelo di Giovanni (DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, pp. 136-153). Dalle cronache veniamo a sapere che all’irruzione nei locali della Sapienza partecipò monsignor Francesco Piccolomini, nipote di papa Pio II, che si era trattenuto a Perugia. 62 Infatti i priori, allo scopo di giustificare il proprio discutibile operato, inviarono un’ambasceria a Pio II, rimettendo lo Studio nelle mani del pontefice e chiedendone addirittura una riforma costituzionale. Questa arriverà nei primi mesi del 1467 ad opera di Paolo II, decretando il tramonto definitivo dei tradizionali organi del governo universitario (soprattutto la magistratura comunale dei Savi e l’organismo della Università degli scolari) e demandando al legato papale tutte le questioni relative ai lettori, tra cui quelle spinose delle nomine e dei salari (ERMINI 1971, pp. 200-205). 63 ANGELETTI-BERTINI 1993, p. 173. 64 Ivi, pp. 173-174. Tutti i provvedimenti di cui si è detto sono registrati nelle Costituzioni della casa degli scolari di San Gregorio, leggibili in duplice copia presso l’Archivio di Stato (ms. del vescovo) e presso la Biblioteca Augusta (ms. del monastero di Montemorcino): nel secondo, segnato ms. 1239, le costituzioni dettate dal Vagnucci si trovano alle cc. 34r-47r (la trascrizione e la traduzione del testo sono in ANGELETTI-BERTINI 1993, pp. 410437). Si noti che l’ultimo estensore della Vita di Iacopo fa riferimenti molto precisi alle costituzioni di proprietà del vescovato (ASP, Collegio della Sapienza Vecchia, Miscellanea, misc. 1), delle quali evidentemente aveva preso visione in prima persona (BAEC, Vita del vescovo..., pp. 69-70). 65 ERMINI 1971, pp. 244-245. L’ordine degli stipendi è pubblicato in MAJARELLI-NICOLINI 1962, pp. 389-394. 66 MAGLIANI 1992, p. 299, nota 17; SCARPELLINI 1992, p. 580. 67 Nel 1448 Iacopo aveva ricevuto in prestito dal Valla le Eleganze della lingua latina; il Biondo, nella Italia illustrata, elogia il Vagnucci quale uno dei più illustri italiani viventi (“[Cortona] quam Iacobus perusinus episcopus civis suus nunc plurimum exornat”); il Piccolomini, in una sua Opera inedita, narra l’incontro dei dotti coi cacciatori e riserva a Iacopo parole di grande stima; Poggio Bracciolini gli diresse delle lettere (cf. nota 29); frate Ambrogio di Cora gli dedicò il trattato De sacerdotum vita (MANCINI 1891, p. 236; IDEM 1897, p. 337; IDEM 1898, p. 45). L’abate Girolamo Aliotti, scrittore benedettino, gli indirizzò una lettera nel 1473, in cui lo definisce “beatum et opulentum episcopum” (SCARMALLI 1769, pp. 10-11: lettera n. 6 del libro VIII, datata Arezzo 7 febbraio 1473). 68 BAEC, ms. 529, c. 76; ms. 708, c. 26 (cf. MANCINI 1898, pp. 44-45). 69 L’istituzione del Monte dei Poveri, che vide l’approvazione dei propri capitoli il 28 aprile 1462, ma che ufficialmente iniziò a funzionare solo il 25 febbraio 1463, ruota intorno a due quesiti, a lungo dibattuti dagli studiosi non senza un pizzico di campanilismo: trascurando il problema della priorità del progetto (contesa da altre città dell’Italia centrale, tra cui Ascoli Piceno ed Orvieto), è importante invece considerare la questione della sua attribuzione, distinguendo tra merito dell’idea e merito dell’attuazione. Quanto al primo punto, esiste una “tradizione municipale” perugina (sostenuta dai documenti comunali e dalle antiche cronache) che fa insistentemente il nome di fra Michele Carcano da Milano, il quale, chiamato a predicare durante la Quaresima del 1462, si scagliò contro la tolleranza del comune nei confronti dell’usura ebraica. Tuttavia,

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vari filoni di una “tradizione francescana” inducono a concludere che l’idea sia germinata e maturata nell’ambiente dell’Osservanza (che a Perugia aveva il suo centro nel convento di Monteripido), grazie soprattutto al ruolo attivo di fra Barnaba Manassei da Terni e fra Fortunato Coppoli da Perugia. Quanto al secondo punto, è indubitabile che l’effettiva realizzazione del Monte fu il risultato di un concorso di forze, dove però una parte fondamentale venne svolta dall’autorità ecclesiastica, primi fra tutti i legati papali Ermolao Barbaro e Berardo Eroli (rispettivamente vescovi di Verona e Spoleto) e il vescovo perugino Vagnucci, quest’ultimo sicuramente in rapporti molto stretti con l’ambiente francescano e, in particolare, col Coppoli (MAJARELLI-NICOLINI 1962, pp. 133142; CUTINI-GROHMANN 2000, pp. 45-58; sul fenomeno dei Monti in Umbria, cf. GHINATO 1969, pp. 475-517). 70 ASP, ASCP, Riformanze, n. 98 (1462), c. 28r. Se i funzionari del comune poterono occuparsi dell’organizzazione tecnico-finanziaria del nascente istituto, fu altresì necessaria la competenza giuridico-canonica di uomini quali il Vagnucci (MAJARELLI-NICOLINI 1962, pp. 109-116; il documento dell’adunanza, volgarizzato e anteposto al testo dei capitoli a mo’ di proemio, è pubblicato alle pp. 260-261). 71 Il ritardo nell’inizio delle attività di prestito fu causato dal mancato finanziamento di 3000 fiorini che il comune aveva deliberato per il Monte, problema infine risolto con un prestito ebraico di 2000 fiorini (ivi, pp. 142-150). 72 ASP, ASCP, Copiari di privilegi, bolle, brevi e lettere, reg. 2 (1439-1473), c. 89rv; Miscellanea, reg. 65 (Costituzioni e atti diversi riguardanti il Monte di Pietà), carta sciolta originale. Su questi due documenti e per la loro trascrizione, cf. MAJARELLI-NICOLINI 1962, pp. 36-37, 148-149 e 323-327. Non è chiaro se il fondaco in questione sia da identificarsi con quello attiguo alla sala d’udienza del Cambio, affittato dal collegio alla nuova istituzione almeno dal 1465. Ad ogni modo, mentre il primo Monte si stabiliva in posizione centrale, vicino alle sedi delle arti del Cambio e della Mercanzia, cui era affidata la gestione “tecnica” dell’istituto, il secondo e il terzo Monte (1471 e 1473) presero stanza non molto lontano, nel lato di palazzo Baldeschi che si affaccia sul Rimbocco della Salsa (odierna via Danzetta). Nel 1516 il secondo e il terzo Monte si portarono presso i locali appartenenti all’ospedale della Misericordia, con due ingressi distinti in via della Pesceria (attuale via Oberdan), finché nel 1572, in seguito all’accorpamento di tutte le sedi in una sola struttura, anche il primo Monte raggiunse i locali occupati dagli altri due. L’ingresso al secondo Monte, dove l’istituto ha continuato ad esistere fino al 1972, è tutt’oggi visibile sopra quattro scalini all’imbocco di via Oberdan (fig. 8): all’interno, sopra l’enfatica scritta “HIC MONS PIETATIS PRIMUS IN ORBE FUIT”, più volte riportata dalla letteratura perugina, si trovava un dipinto (ora presso l’exBanca dell’Umbria) raffigurante il Beato Giacomo della Marca (nativo di Monteprandone) nell’atto di sorreggere i simboli del Monte di Pietà (SIEPI 1822, p. 451; ROSSI 1887, pp. 34-36; MAJARELLI-NICOLINI 1962, pp. 149150; CUTINI-GROHMANN 2000, pp. 79-88). 73 Nel medesimo scritto, circa il quesito se la vertenza dovesse essere risolta dai teologi o dai canonisti, Iacopo prendeva una netta posizione in favore dei secondi: si ricorderà infatti che egli era dottore in utroque iure (DE BUSTIS 1497, cc. 24ra, 40vb, 53va-54rb; cf. MAJARELLI-NICOLINI 1962, pp. 198-199). 74 Il Ballarini lesse il testo del Vagnucci in una raccolta di consilia appartenuta al beato Bernardino da Feltre, già conservata nel convento francescano di quella città ed oggi dispersa (BALLARINI 1747, pp. 90-91; cf. MAJARELLINICOLINI 1962, pp. 101-104 e 196, nota 2).

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75 BAEC, Coppoli, Consilium..., c. 3v. Questo consilium, probabilmente già scritto nel 1469 (i sottoscrittori sono tutti di Spoleto, dove il frate predicò nella Quaresima di quell’anno), è conservato solo a Cortona (dove il frate predicò nell’Avvento del 1471), forse perché venne utilizzato in quella città per superare le solite polemiche relative al Monte locale (MAJARELLI-NICOLINI 1962, pp. 44-45). 76 ASP, Sezione di Spoleto, Archivio Storico del Comune di Spoleto, Riformanze, Serie I (1352-1541), n. 45 (1469), c. 44r. Il testo dell’atto di fondazione è in MAJARELLI-NICOLINI 1962, pp. 418-420. 77 Archivio Storico del Comune di Amelia, Riformanze, n. 42 (1470), c. 159r. A questo Monte è dedicata la monografia di GHINATO (1956). 78 BAEC, Originale dell’atto di fondazione..., cc. 5v e 9r (“Item, per insino se incominciarà a exercitare decto offitio, havemo ordinati et deputati soprastanti a exigere et fare exigere tucti debitori, et omne altra quantità di denare fusse al presente consignata et deputata al servizio del Monte a quella per l’avenire fusse consignata, messer Pierlorenzo di Francesco Vangiucci et Francesco de Nicolò Puntelli”). Emblematico è anche il capitolo 26 degli statuti cortonesi, che dichiara esplicitamente la discendenza da quelli perugini riformati del 1468 (ivi, c. 10r). Il testo dell’atto di fondazione è in MAJARELLINICOLINI 1962, pp. 424-425: i due studiosi, mentre hanno evidenziato il denominatore comune rappresentato dal Coppoli (ivi, pp. 211-212), non si sono accorti del nesso di parentela di cui si è detto, tant’è che nell’Indice i due fratelli Vagnucci risultano elencati sotto voci diverse. 79 Ivi, pp. 162-178. 80 Sulla vita di Francesco Della Rovere, prima che venisse nominato papa, cf. LOMBARDI 2000, pp. 701-704. 81 Qui risulta documentato, in qualità di lettore, nel 1453 (ASP, ASCP, Riformanze, n. 89 [1453], c. 114r; cf. ERMINI 1971, p. 579). Il Della Rovere, memore del prolungato soggiorno perugino, manifestò sempre grande considerazione per lo Studio francescano e per quello municipale: vi mandò ad apprendere le discipline sacre, umane e giuridiche il nipote prediletto Giuliano Della Rovere (futuro papa Giulio II), le cui fortune sarebbero iniziate con la nomina a pontefice dello zio paterno; nel 1483, a distanza esatta di trent’anni da quel suo lettorato, diede inizio alla costruzione del palazzo dell’Università Vecchia (sopra le botteghe dell’ospedale della Misericordia, in piazza Matteotti), che rimase la sede dello Studio cittadino fino al 1811 (PELLINI 1664, parte II, p. 813-814). 82 ASP, ASCP, Riformanze, n. 100 (1464), c. 50; n. 103 (1467), c. 53. 83 CRISPOLTI iunior 1648, p. 85; BAP, Baglioni, Perugia sagra..., c. 115v (nota a margine della carta). Dopo la caduta dell’ultimo baluardo latino in Terra Santa (1291), nella chiesa di San Luca a Perugia si era trasferita la casa-madre dell’ordine dei cavalieri del Santo Sepolcro (arcipriorato di Gerusalemme). Dal Crispolti veniamo a sapere che lo stemma marmoreo del pontefice compariva nella facciata dell’edificio adiacente alla chiesa, riedificato nel 1484 per iniziativa di “CATANEUS DE TRAVERSAGNIS” da Savona (iscrizione del portale), suo conterraneo e successore nell’arcipriorato. A partire dal 1489 tutto il complesso passò ai cavalieri di San Giovanni, all’epoca detti di Rodi, successivamente di Malta. 84 Dal 1437 alla nomina cardinalizia (1439), il Bessarione fu metropolita di Nicea, titolo che il Vagnucci avrebbe detenuto dal 1482 alla morte (1487); nel 1438-1439 fu il principale oratore dei greci al Concilio di Ferrara-Firenze, di cui pronunciò il discorso inaugurale. Dopo aver preso parte all’elezione del

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primo patriarca unitario di Costantinopoli (Metrofane II), si stabilì alla corte fiorentina di Eugenio IV (1440), entrando nella cerchia degli umanisti e, successivamente (1443), trasferendosi a Roma con la Curia. Sino al 1449 ebbe in commenda l’abbazia benedettina di San Giuliano a Rimini, città di cui il Vagnucci era vescovo (1448-1449); fu incaricato della ricognizione delle reliquie di san Lorenzo martire (1447) e della canonizzazione di san Bernardino da Siena (1449-1450); divenne il protettore dell’ordine di San Basilio, che a Perugia possedeva la chiesa di San Matteo degli Armeni. Nel 1450 subentrò al Vagnucci come governatore di Bologna, città che lasciò alla morte di Niccolò V (1455), transitando per Perugia durante il ritorno nella capitale pontificia. A Roma il cardinale riunì intorno a sé un circolo di umanisti (“Accademia di Bessarione”), e tra questi fu particolarmente amico di Lorenzo Valla e del Platina; ebbe rapporti molto cordiali con l’imperatore Federico III e con il signore di Urbino Federico da Montefeltro; il suo segretario prediletto, l’ecclesiastico Niccolò Perotti, era cittadino perugino e dal 1474 al 1477 fu governatore della città umbra. Si noti infine che le Tavolette di San Bernardino di Perugia (1473), provenienti da un contesto minoritico, potrebbero celare un omaggio al protettore dei francescani da poco scomparso (1472). Per la bibliografia sul Bessarione, cf. nota 24; sulle tavolette, si veda il par. III, 2. 85 I due intrapresero il viaggio in rappresentanza e a spese del comune, accompagnati da amici e familiari, tutti vestiti di bruno (DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, p. 239; PELLINI 1664, parte II, pp. 719-720; BAP, Baglioni, Perugia sagra..., c. 115v). Battista Sforza morì a Gubbio nel luglio del 1472, dopo aver dato alla luce Guidobaldo, il sospirato erede maschio. Due anni dopo, nel 1474, Federico da Montefeltro avrebbe suggellato la propria intesa con Sisto IV, venendo nominato capitano generale della Chiesa, ottenendo il titolo di duca di Urbino e concedendo in sposa la figlia Giovanna a Giovanni Della Rovere, nipote del papa e signore di Senigallia. 86 BAEC, Cartapecore Vagnucci, 13 ottobre 1472 (in questo documento il Vagnucci concede alcune terre in livello a vari concessionari). Nel 1479 il nipote Dionisio, succeduto allo zio nella commenda, avrebbe nominato procuratore generale alle liti un canonico cortonese (BAEC, ms. 616, c. 7). 87 Tutte le precedenti investiture sono testimoniate, a mo’ di riepilogo, dalla bolla con la quale, nel 1519, papa Leone X concede il tenimento di Petrignano alla famiglia cortonese dei Passerini, che ne resteranno signori fino al 1737 (per il testo della bolla, cf. GAMURRINI 1671, pp. 70-75). Si conservano otto ricevute della Camera Apostolica ai fratelli Pietro ed Onofrio Vagnucci, attestanti l’avvenuto pagamento di una libbra di cera lavorata (ovvero baiocchi 12) come censo annuo per la Posta di Petrignano; nel 1479 presentò la cera il Vagnucci, che si trovava a Roma come vicecamerlengo (BAEC, Cartapecore Vagnucci, dal 29 giugno 1478 al 29 giugno 1490). 88 Non è chiaro quanto il papa fosse realmente implicato in questa congiura: ad ogni modo, la sua posizione ne uscì gravemente indebolita, mentre i rapporti con Firenze si fecero estremamente tesi (LOMBARDI 2000, p. 708). 89 DA BISTICCI \ GRECO 1970-1976, vol. II, p. 42. Cf. anche D’ADDARIO 1960, p. 81. 90 BAEC, Cartapecore Vagnucci, 10 luglio, 27 luglio e 7 agosto 1478 (il primo documento è il breve di nomina, il secondo e il terzo sono brevi inviati da Bracciano, dove si trovava il pontefice). Cf. anche MORONI 1840-1861, vol. XXXII, p. 38; MANCINI 1897, p. 337. 91 Si tratta della congregazione bolognese di San Salvatore (militante sotto la regola di sant’Agostino), i cui canonici erano detti volgarmente “Scopetini” (dal

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convento di San Donato in Scopeto di loro pertinenza), la stessa che dal 1487 prenderà in custodia la chiesa di Santa Maria del Calcinaio a Cortona. Nella seconda metà del ’400, dagli Annali Decemvirali risultano numerose richieste, inoltrate da questi frati al comune perugino, per sovvenzioni ed elemosine destinate alla ristrutturazione e all’ampliamento del loro complesso monastico. 92 BAP, Baglioni, Perugia sagra..., cc. 115rv e 117v. Cf. anche PELLINI 1664, parte II, p. 807; BAP, Belforti-Mariotti, Serie de’ vescovi..., pp. 125-126. 93 PANTONI 1954, pp. 236-237 e 245-246. 94 Nicea, antica città della Bitinia famosa per il Concilio del 325, è l’odierna Iznik, piccolo villaggio situato sulle rive del lago omonimo. Dopo l’occupazione turca (1331), continuò a sussistere come sede metropolitana bizantina (anche se i vescovati suffraganei vennero soppressi), mentre l’arcivescovato latino divenne in partibus infidelium: si tratta di un semplice titolo onorifico assegnato ai vescovi (detti pertanto “titolari”) delle soppresse sedi latine, i quali, non potendovi fare residenza, si limitavano a coadiuvare nell’esercizio delle funzioni episcopali i vescovi delle grandi diocesi occidentali, anche sostituendoli durante eventuali periodi di assenza (vicarii in pontificalibus). Nel caso specifico, Iacopo Vagnucci, pur percependo la rendita relativa al suo titolo di metropolita latino, poté ritirarsi a vita privata non lontano da Perugia, dove avrebbe assistito nell’esercizio della carica vescovile il giovane e inesperto nipote Dionisio. 95 BAEC, Cartapecore Vagnucci, 29 maggio 1482. Si tratta di sei bolle, la prima delle quali indirizzata a Iacopo (fig. 9), le restanti al nipote Dionisio (fig. 13). Cf. anche UGHELLI [1644], tomo I, col. 1164. 96 RIGANELLI 2003, pp. 15-34. Si vedano in particolare le pp. 20-23 sulle prerogative (religiose, sociali, giuridiche, politiche) e sulle pertinenze territoriali dell’antica pieve di San Giovanni. 97 Ivi, pp. 28-34. 98 PICCOLPASSO \ CECCHINI 1963, p. 154, nota 8. 99 CIANINI PIEROTTI 1996, p. 236. 100 Sul contributo dato alla causa del duomo dai due prelati, si veda il par. II, 1. La cappella di San Giovanni, che si affaccia sul primo cortile del castello, recava, fino al principio del secolo scorso, i battenti lignei oggi conservati nel Museo della Pieve, opera pregevole dell’intagliatore Paolino da Ascoli: negli specchi quadrati del quarto livello dal basso e, in foggia ridotta, in quelli del primo e terzo ordine compaiono gli stemmi vescovili della famiglia Baglioni. 101 BAP, Belforti-Mariotti, Serie de’ vescovi..., p. 125; Fabretti, Memorie di Corciano..., pp. 112-113 e 115-116; ASSP, Belforti-Mariotti, Memorie istoriche..., pp. 654-655. Il Fabretti ci informa che nel documento del 1459 la pieve viene denominata “plebs Sancti Ioannis intra montes et prope villam Migiane, que vocatur la Pieve del Vescovo districtus dicte ville Migiane”: infatti a queste date il castello non fa più parte del territorio corcianese, ma dipende dalla comunità di Migiana di monte Malbe. 102 Sulle varie fasi della vicenda giudiziaria, cf. RIGANELLI 1999, pp. 288290; ANGELUCCI MEZZETTI 2000, pp. 3-28. 103 Questa clausola richiama alla mente il menzionato episodio del 1453, quando, durante le feste natalizie, il Vagnucci si trovava presso Montecassino, impegnato con una brigata di amici in una battuta di caccia, lo sport da lui prediletto (cf. par. 3 e nota 67). Sull’attività venatoria nella comunità di Corciano, cf. RIGANELLI 1999, pp. 269-271. 104 IDEM 2003, p. 34. Sulla fiera di Pieve del Vescovo (che si svolgeva il 2324 giugno, in occasione della festa di San Giovanni), cf. anche GROHMANN

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1981, pp. 784-786; RIGANELLI 1997, p. 216; IDEM 1999, pp. 364-366. Circa la possibilità che le origini di questa fiera vadano ricondotte all’attenzione dimostrata dai vescovi perugini verso la dimensione economica della pieve, si ricordi l’intervento del Vagnucci a favore della più rinomata fiera della Maddalena di Senigallia, quando nel 1464 venne nominato da Paolo II governatore di Fano. 105 Questa soluzione viene imitata dal più tardo stemma del vescovo Giovanni Lopez da Valenza (1492-1498), stemma che compare, tra le numerose repliche conservate alla pieve, sul lato corto del medesimo corpo di fabbrica. L’emblema, che rappresenta un lupo passante, è stato inizialmente riferito al vescovo perugino Salvo morto nel 1244 (GALLI 2001, p. 24), ma la testimonianza del Crispolti (che lo vedeva “nella facciata del vescovato, che risponde nella piazza, e ancora in una facciata del palazzo della pieve di Corciano”), confermata da un documento munito del sigillo del Lopez, rinvenuto di recente nell’Archivio Diocesano di Perugia, permette di ascrivere definitivamente questo stemma al valenzano, al quale di norma i blasonari assegnano un toro bianco su campo rosso-verde (BAP, Bigazzini, Vescovi..., c. 9v; CRISPOLTI iunior 1648, pp. 271-272): evidentemente è nata confusione con l’arme di papa Alessandro VI Borgia (1492-1503), del quale Giovanni era concittadino e “familiare”. Già datario del pontefice, il Lopez tenne il seggio vescovile di Perugia dal dicembre del 1492 all’ottobre del 1498, quando venne trasferito nella sede arcivescovile capuana; fu nominato cardinale prete col titolo di Santa Maria in Trastevere nel 1496, venendo quindi chiamato il “cardinale di Perugia”; dal 1499 sino alla morte (1501) tenne il vescovato di Perugia “in administratione” (UGHELLI [1644], tomo I, col. 1164; GAMS 1873, p. 714; EUBEL 1913, p. 214). 106 BAEC, Dignità e uffizi..., p. 147. 107 Una descrizione dettagliata del rito funerario, organizzato pomposamente e scenograficamente senza badare a spese, può essere letta nella cronaca di Pietro Angelo DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, p. 401. Cf. anche BAP, Bottonio, Annali del convento..., p. 168; CRISPOLTI iunior 1648, pp. 72 e 270; PELLINI 1664, parte II, pp. 833-834. La traslazione provvisoria nell’oratorio di San Bernardino non ebbe solo motivi logistici (probabilmente il feretro entrò da porta Santa Susanna), ma sta anche ad indicare i frequenti rapporti che il Vagnucci ebbe coi francescani nel corso della propria vita. 108 UCCELLI 1835, p. 112, nota 7. 109 ASF, Notarile Antecosimiano, C (1400-1561), reg. 682 (1471-1485), c. 2. Sotto il pontificato di Sisto IV si consolidò la pratica, destinata a svilupparsi alquanto con i suoi successori, della vendita degli uffici, molti dei quali vacabili, cioè trasferibili ad una terza persona una volta pagato il diritto (LOMBARDI 2000, p. 710): infatti l’ufficio di Dionisio venne acquistato, entro il 1469, da un certo Matteo di Castiglione Aretino (BAEC, Vita del vescovo..., p. 68). 110 Cf. EUBEL 1913, p. 214, in nota. 111 BAEC, Cartapecore Vagnucci, 9 aprile 1472 e 7 febbraio 1476. L’abbazia di Sant’Egidio (oggi distrutta), già situata sul monte omonimo (detto di Fieri dal nome di un’antica famiglia), apparteneva ai Camaldolesi, che ne erano tornati in possesso nel 1433; invece la chiesa di San Pietro (anch’essa distrutta) era detta di Marzanello, perché nel Medioevo dipendeva dall’abbazia di Marzano nella diocesi di Città di Castello (TAFI 1989, pp. 280 e 398). 112 BAEC, Cartapecore Vagnucci, 29 maggio 1482 (cinque bolle). 113 Ivi, 24 giugno 1482. In questo documento Dionisio cede il canonicato cortonese al chierico quindicenne Angelo di Francesco Vagnucci, suo congiunto (si tratta di un nipote del lanaiolo Angelo).

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114 PANTONI 1954, pp. 252 e 255. San Severo dipendeva dalla badia di San Salvatore di monte Acuto, tornata ai Camaldolesi nel 1435, come era avvenuto per l’abbazia di Sant’Egidio presso Cortona, di cui Dionisio era stato commendatario. 115 Come è noto, a partire dai lavori indetti per il giubileo del 1475, papa Sisto IV inaugurò un ampio programma di rinnovamento edilizio della città di Roma, dove fu tutto un proliferare di lapidi commemorative: se ne contavano ben centodiciotto, di cui ottantotto ancora conservate, le rimanenti note attraverso copie (LOMBARDI 2000, p. 711). 116 CRISPOLTI iunior 1648, pp. 95-97 e 270. La chiesa odierna venne edificata intorno alla metà del ’700, in posizione trasversale rispetto all’edificio primitivo che, invece, occupava il sito della piazzetta e dell’ex-monastero attuali. Non è stato possibile rinvenire la lapide celebrativa, che il Pantoni dichiara ancora esistente ai suoi tempi (1954). Questo il testo dell’iscrizione: “NOTUM SIT OMNIBUS INSPECTURIS QUALITER ALTARIA HUIUS ECCLESIAE SANCTI SEVERI FUERUNT CONSECRATA PER REVERENDISSIMUM DOMINUM DIONYSIUM, DEI GRATIA ET APOSTOLICAE SEDIS CIVITATIS PERUSIAE EPISCOPUM. NAM MAIUS AD HONOREM SANCTI SEVERI, SECUNDUM IN SEPTENTRIONE AD HONOREM MARIAE VIRGINIS, TERTIUM IN MERIDIE AD HONOREM SANCTI NICOLAI DEDICATUM [EST]. QUI EPISCOPUS OMNIBUS QUI DICTAE CONSECRATIONI INTERFUERUNT QUADRAGINTA DIES DE INDULGENTIA CONCESSIT, QUAM VOLUIT OMNIBUS DEVOTE VISITANTIBUS HANC ECCLESIAM SANCTI SEVERI DIE XX MARTII PERPETUO DURATURAM. ANNO DOMINI M.CCCC.LXXXIV”.

Questa la traduzione: “Sia noto a quanti leggono che gli altari di questa chiesa di San Severo furono consacrati dal reverendissimo messer Dionisio, per grazia di Dio e della Sede Apostolica vescovo della città di Perugia. Infatti il maggiore è dedicato a lode di san Severo, il secondo a settentrione a lode della Vergine Maria, il terzo a meridione a lode di san Nicola. Il quale vescovo concesse a quanti parteciparono alla detta consacrazione quaranta giorni di indulgenza, che volle prolungata in perpetuo per quanti avrebbero visitato devotamente questa chiesa di San Severo il giorno 20 marzo. Anno del Signore 1484”. 117 MANCINI-CASAGRANDE 1982, pp. 46-47. 118 DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, p. 404; CRISPOLTI iunior 1648, p. 69; PELLINI 1664, parte II, p. 834. 119 CRISPOLTI iunior 1648, pp. 270-271. Tra i vari episodi di questa politica irenica di Dionisio, si può citare quello del 1486, quando in San Lorenzo, alla presenza del vicelegato, il vescovo pacificò le famiglie nemiche degli Arcipreti (o Della Penna) e degli Ermanni (o Della Staffa), in seguito a screzi nati dopo la morte di Giacomo Filippo Della Penna (detto l'Abate degli Arcipreti), di cui lo stesso Dionisio aveva celebrato poco prima il funerale (DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, pp. 375-377). 120 Ivi, pp. 394 e 421-422; BAP, Belforti-Mariotti, Serie de' vescovi..., p. 127. 121 BAEC, Braccioli, Stemmi e brevi notizie..., c. 8v; MANCINI 1898, p. 45. 122 GRAZIANI \ FABRETTI 1850, p. 739. Sulla data di morte, cf. BAP, Belforti-Mariotti, Serie de' vescovi..., p. 127. 123 UGHELLI [1644], tomo I, col. 1164. 124 GRAZIANI \ FABRETTI 1850, p. 739; PELLINI 1664, parte III, p. 16.

Capitolo II La cappella di Sant’Onofrio nel duomo di Perugia 1. L’addizione del transetto (1480 ca) 2. La cappella Vagnucci (1481-1484) 3. La Pala di Sant’Onofrio (1483-1484) 4. L’iscrizione perduta 5. Il ritratto del vescovo e la devozione al santo eremita 6. Le vetrate (1484 ca)

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1. L’addizione del transetto (1480 ca) La riedificazione del duomo di San Lorenzo Il rinnovamento del massimo tempio perugino, edificato allo scadere del XII secolo e consacrato nel 1216 da papa Innocenzo III, fu deliberato già nel marzo del 1300, quando nel chiostro della chiesa di San Francesco al Prato il consiglio generale del popolo decise di donare alla piazza Maggiore, completamente trasformata nell’ultimo quarto del secolo appena trascorso, una degna cornice settentrionale1. Tuttavia, la costruzione del palazzo Nuovo del Popolo, ferma al primo nucleo dell’edificio (1293-1297) e verso cui il comune intendeva concentrare il proprio sforzo finanziario, posticipò di oltre 40 anni l’inizio dei lavori: solo il 20 agosto 1345, infatti, si svolse la cerimonia di posa della prima pietra2, anche se, da questa data, si proseguì con notevole lentezza per altri 90 anni, passando attraverso la sventurata dominazione del vicario papale Girardo De Puy, detto l’Abate di Monmaggiore (1372-1375)3. Chi seppe infondere una prima svolta al cantiere della cattedrale fu il nuovo vescovo di Perugia Giovanni Andrea Baglioni, eletto il 9 marzo 1435 a Firenze, dove si trovavano la corte pontificia e, probabilmente, anche il Vagnucci4. Il Baglioni, forte dell’autorità che gli derivava dall’appartenere alla famiglia dei “signori occulti” di Perugia e giovandosi degli ottimi rapporti che la stessa intratteneva col pontefice Eugenio IV (diversamente da quanto era avvenuto col suo predecessore Martino V), profuse, in massimo grado e in prima persona, un nuovo impegno a favore della fabbrica, risiedendo stabilmente nel palazzo vescovile (dal quale poteva seguirne la crescita) ed arrivando a prendere delle decisioni persino clamorose, puntualmente avvallate dall’autorità pontificia5. Ma il periodo veramente decisivo per le sorti del duomo fu il decennio successivo alla morte del presule (ottobre del 1449): solo nel gennaio del 1450, infatti, un ingente finanziamento congiunto della Curia romana, del comune e del Capitolo cattedrale rese possibile una intensificazione dei lavori, finalmente affrancati dalle incertezze e dalle lentezze del passato. Determinante fu l’interessamento di papa Niccolò V, certo favorito dagli introiti che la concessione del giubileo per quell’anno avrebbe garantito, nonché probabilmente sollecita-

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to dalla presenza a Roma del nuovo vescovo Vagnucci, che intese “ereditare” l’impegno personale a favore della fabbrica profuso dal suo predecessore6. Gli anni sessanta del ’400, a fronte dell’ennesima stasi dovuta a difficoltà finanziarie e a ricorrenti epidemie, furono sostanzialmente un periodo di demolizioni7. Solo nell’ottavo decennio, terminata la costruzione di tutte le pareti perimetrali, il San Lorenzo venne ad assumere l’aspetto attuale, a parte la sopraelevazione in laterizio effettuata nella prima metà del ’600, in concomitanza con il rifacimento del tetto8.

La testimonianza degli affreschi della cappella dei Priori Una testimonianza iconografica, preziosa per la storia di questa tormentata vicenda ricostruttiva, è rappresentata dalla penultima scena del ciclo di affreschi della cappella Nuova nel palazzo dei Priori, capolavoro del pittore perugino Benedetto Bonfigli (1418/20-1496): essa narra la Seconda traslazione del corpo di sant’Ercolano dall’abbazia di San Pietro alla cattedrale di San Lorenzo, evento avvenuto prima del 966, ma ambientato dal pittore nella Perugia a lui contemporanea9. L’affresco, per la sua centralità nel piano iconografico, si dispiega per tutta la lunghezza della parete sud della cappella, offrendo una panoramica di straordinaria precisione del centro politico-religioso della città: considerando che nel 1534, pochi anni prima della devastazione farnesiana (1540-1543)10, un incendio doloso avrebbe distrutto completamente il palazzo del Podestà, la vasta sala gotica di via Maestà delle Volte e la facciata della chiesa omonima (opera dello scultore fiorentino Agostino di Duccio), è superfluo sottolineare la grande importanza di questa scena per una ricostruzione, sia pure ideale, della platea Maior quattrocentesca11. Nell’affresco una lunga processione cittadina, che si snoda da sinistra verso destra, sfila davanti al palazzo dei Priori e si conclude lentamente ai piedi del sagrato di San Lorenzo: sullo sfondo vediamo il palazzo che fu di Braccio Fortebracci da Montone (già palazzo del Podestà), caratterizzato dall’imponente scalinata e sovrastante l’arcone che immetteva nella Maestà delle Volte. Tra la rampa dei gradini e il fianco sud della cattedrale si innalza la cosiddetta Loggia di Braccio, fatta costruire dal condottiero montonese nel 1423 ed addossata alla parete perimetrale del duomo romanico (fig. 14): sotto di

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Fig. 14 B. Bonfigli, Seconda traslazione di sant’Ercolano, ca 1470-1480, part. con la Loggia di Braccio. Perugia, palazzo dei Priori, cappella dei Decemviri.

essa si possono ancora vedere alcune preesistenze architettoniche (un portone sovrastato da un rosoncino), che sono state interpretate come l’antica facciata della cattedrale o come l’accesso esterno alla cripta di Sant’Ercolano12. In ogni caso, non si scorge alcuna traccia del braccio sinistro del transetto esposto, che tutt’oggi ingombra lo spazio della loggia fino all’altezza della terza arcata (fig. 15): questo, insieme al braccio corrispondente sul lato nord, venne aggiunto, rompendo le pareti perimetrali del presbiterio, in un periodo sicuramente successivo alla realizzazione della veduta del Bonfigli. Se l’anno in cui il pittore mise mano alla seconda metà della decorazione pittorica non trova concorde la critica, causa la diversa interpretazione di un documento del 146913, non sussistono dubbi, invece, sugli estremi cronologici delle ultime

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Fig. 15 Perugia, Loggia di Braccio e transetto sud della cattedrale di San Lorenzo.

due scene del ciclo (Seconda e Prima traslazione di sant’Ercolano dal luogo della sepoltura all’abbazia di San Pietro), dove tutta una serie di elementi iconografici, unitamente a testimonianze documentarie, permettono di fissare il termine ante quem al 1479-148014. Rispetto a questa data, appare forse significativo un particolare ulteriore dell’affresco che abbiamo preso in considerazione: la processione che accompagna il feretro di sant’Ercolano non si arresta sotto la loggia, all’entrata dell’antica cattedrale o della cappella dedicata al santo, ma si accinge a salire sul sagrato, per accedere dall’ingresso principale alla maestosa “sala” del nuovo San Lorenzo15. Il Bonfigli sembra cioè anticipare un fatto che avverrà soltanto nel 1487, ossia la terza e definitiva traslazione delle reliquie del santo sotto il nuovo altare maggiore: probabilmente questo evento era atteso a breve termine, se nel frattempo non fossero intercorsi nuovi e imprevisti lavori nella zona del presbiterio.

La questione del transetto La cappella di Sant’Onofrio, ricavata nella testata del transetto destro della cattedrale (cf. par. 2), fu voluta da Iacopo Vagnucci quando ancora amministrava la diocesi perugina, prima cioè che questi, nominato arcivescovo niceno nel 1482, ne affidasse la “successione” al nipote Dionisio, il “diretto”

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responsabile della decorazione del sacello di famiglia. Il fatto è testimoniato da una iscrizione purtroppo perduta, riportata nel ’600 dal Crispolti e già situata in un punto non bene identificato dell’altare16: IACOBUS VANNUTIUS NOBILIS CORTONENSIS || OLIM EPISCOPUS PERUSINUS || HOC DEO MAX[IMO] ET DIVO HONUPHRIO || SACELLUM DEDICAVIT || CUI IN ARCHIEPISCOPUM NICAENUM ASSUMPTO || NEPOS DIONISIUS SUCCESSIT || ET QUANTA VIDES IMPENSA [RITE] ORNAVIT || AEQUA PIETAS || M.CCCC.LXXXIV

[Consacrò questa cappella a Dio Onnipotente e a sant’Onofrio Iacopo Vagnucci, nobile cortonese, un tempo vescovo di Perugia: a questi, promosso arcivescovo niceno, succedette il nipote Dionisio, ed una pari devozione (la) decorò con l’ingente spesa che puoi constatare (oppure diede gli ornamenti dispendiosi che puoi ammirare). 1484.]

Dai dati in nostro possesso, è possibile concludere che il transetto sporgente venne aggiunto, rompendo le pareti perimetrali della cattedrale, in un periodo che si colloca approssimativamente tra il 1479 e il 1482, cioè tra il completamento degli affreschi della cappella dei Priori e la fine dell’episcopato del Vagnucci. Tuttavia le fonti ci permettono di restringere ulteriormente questo intervallo di tempo: sappiamo infatti che nel 1481 si cominciò a murare le volte dell’edificio che, evidentemente, doveva essere pressoché ultimato nell’alzato17; possiamo pertanto immaginare che, a quella data, i due nuovi corpi di fabbrica fossero già eretti. La tardiva decisione di costruire il transetto può essere variamente giustificata: innanzitutto, si è ipotizzato che il progetto del nuovo San Lorenzo, tradizionalmente assegnato a fra Bevignate, sia mutato in corso d’opera, non prevedendo inizialmente la copertura in muratura, tanto meno i bracci sporgenti del transetto18. Tra l’altro, l’aggiunta di questi ultimi avrebbe comportato non pochi problemi, come effettivamente avvenne sul fianco sud “ingombrato” dalla Loggia di Braccio, il tetto della quale andò a sovrapporsi alla trifora del primo ordine, tagliandola in due. Non mancarono difficoltà anche sul fianco nord, dove fu necessario intervenire, con adattamenti e demolizioni, sulle strutture preesistenti dei “casalini” di San Lorenzo, lungo via delle Cantine.

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In secondo luogo, bisogna considerare la gradualità con cui procedette l’opera di demolizione della vecchia cattedrale, sicuramente determinata, tra i vari fattori, dall’esigenza di rendere agibile l’antica struttura durante l’opera di ampliamento della stessa verso piazza della Paglia. Mentre infatti si lavorava al corpo longitudinale dell’edificio, è molto probabile che la zona del presbiterio (coincidente con il duomo romanico, a prescindere dalla questione del suo orientamento) continuasse ad essere regolarmente officiata19. Questo perché durante l’effettiva ricostruzione del tempio, durata ben 50 anni, la città non poteva perdere il suo punto di riferimento religioso più importante, specialmente in determinate ricorrenze (come l’annuale processione di San Bernardino) o in occasione di alcuni avvenimenti straordinari (si pensi, per esempio, all’ostensione del Sant’Anello nel novembre del 1473)20. D’altra parte, le fonti non mancano di sottolineare il grande attaccamento dei perugini alla vecchia cattedrale, che si volle ampliare, ma non abbattere del tutto21. Una terza spiegazione, forse la più plausibile, va individuata nella responsabilità diretta del vescovo perugino: è possibile, infatti, che il transetto esposto sia stato appositamente edificato per ricavarvi due cappelle speculari poco profonde, tra cui quella del Vagnucci sul lato nord. Essendo la cappella destinata ad accoglierne il sepolcro22, è facile immaginare che tale preoccupazione per il proprio sacello sia nata nel presule cortonese poco prima che questi si ritirasse dalla vita pubblica nel 1482, allorché si accinse a trascorrere gli ultimi anni di vita nella tranquillità della pieve di Corciano. L’improvvisa iniziativa del Vagnucci può essere ricondotta anche alla bolla Etsi de cunctarum civitatum (30 giugno 1480), emanata da Sisto IV nel contesto del rinnovamento edilizio della città di Roma, promosso a partire dal giubileo del 1475: essa concedeva la facoltà di acquisire e demolire il tessuto urbano, spesso fatiscente, che si trovava in prossimità dei grandi complessi civili e religiosi, onde ottenere lo spazio necessario per ulteriori e progressivi ampliamenti, secondo il “principio della fusione delle cellule edilizie contigue”23. Sicuramente, i lavori di costruzione e decorazione della cappella non erano terminati nel 1482: dal proprio ritiro corcianese, quindi, Iacopo poté seguirne l’andamento e la conclusione, affidandone la diretta supervisione al nipote Dionisio che, dopotutto, avrebbe trovato sepoltura nel medesimo sacello di famiglia. Il fatto, ancora una volta, è attestato dalla per-

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duta memoria recante la data del 1484, anno in cui probabilmente la cappella venne ultimata e consacrata, con la collocazione sull’altare della pala commissionata al Signorelli24. Del resto, il prolungarsi dei lavori nella zona del presbiterio è confermato dal fatto che soltanto il 10 febbraio 1487 il corpo di sant’Ercolano venne traslato sotto il nuovo altare maggiore, evento che può essere considerato il termine ante quem del compimento definitivo dell’edificio25. A distanza esatta di un secolo, nel 1587, la cattedrale sarebbe stata consacrata ufficialmente dal vescovo Anton Maria Gallo, a completamento di un progetto che durava dal lontano 1300.

2. La cappella Vagnucci (1481-1484) Il problema dell’ubicazione Nel tentativo di ricostruire, sia pure in maniera ipotetica, la fisionomia della cappella quattrocentesca, è indispensabile, innanzitutto, affrontare il problema della sua ubicazione: su questo punto l’imprecisione delle fonti (dal ’700 in poi) e la confusione dei contributi moderni rendono necessario un chiarimento definitivo. Probabilmente l’equivoco, che si è protratto fino ai giorni nostri, pur essendo nato con la Descrizione del duomo edita dal Galassi nel 1776, è stato “fissato” da Serafino Siepi che, nel 1822, vedeva nel transetto destro una situazione non dissimile da quella odierna26. Sulla base del Siepi, le vicende di questo angolo della cattedrale potrebbero essere ricostruite nel modo seguente: 1) alla fine del ’400 il Vagnucci fonda il transetto ed apre, dietro il braccio destro dello stesso, una cappella dedicata a sant’Onofrio; 2) ai primi del ’600 il transetto settentrionale viene occupato dall’attuale cappella di Santo Stefano e, di conseguenza, si rende necessario aprire due porticine ai lati dell’altare del Protomartire per entrare nella cappella del santo eremita (n. 30 [i numeri si riferiscono alla pianta del duomo in appendice D]; fig. 16); 3) nel corso del ’600 la cappella di Sant’Onofrio cade in rovina e, pertanto, la tavola del Signorelli viene spostata nella cappella adiacente;

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Fig. 16 Altare di Santo Stefano (già di Sant’Onofrio). Perugia, cattedrale di San Lorenzo.

Fig. 17 Oratorio di Sant’Onofrio. Perugia, cattedrale di San Lorenzo.

4) ai primi del ’700 la cappella di Sant’Onofrio viene restaurata e trasformata nell’attuale oratorio, assumendo una forma semicircolare e subendo il ribaltamento dell’altare (n. 32; fig. 17). Il problema nasce dal fatto che le fonti del XVI-XVII secolo, al di là di qualche spiegabile “stranezza”, contrastano apertamente con tale ricostruzione: quelle cinquecentesche, infatti, sono concordi nel descrivere non un sacello aperto dietro il braccio nord del transetto, bensì una cappella occupante il braccio medesimo, in quanto immediatamente attigua alla sacrestia; allo stesso modo, le fonti seicentesche non parlano di due sacelli distinti, ma di una sola cappella, prima consacrata a sant’Onofrio, successivamente a santo Stefano27: ne deriva che, nei primi anni del ’700, l’odierno oratorio di Sant’Onofrio non venne semplicemente restaura-

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Fig. 18 L. Eusebi, pianta della città di Perugia, 1602, part. con la cattedrale di San Lorenzo.

Fig. 19 Perugia, oratorio di Sant’Onofrio e transetto nord della cattedrale di San Lorenzo.

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to, ma edificato ex novo, anche se riutilizzando un preesistente corpo di fabbrica tutt’oggi comunicante con la canonica e forse fornito di accesso esterno28. Questa “fabbrichetta ad uso di cappella”, come la chiama il Rossi, esisteva già alla fine del ’500, poiché compare nelle più antiche piante topografiche di Perugia, ad esempio in quella di Livio Eusebi (fig. 18)29: essa, infatti, potrebbe essere il frutto “allargato” della ristrutturazione che, intorno al 1572, coinvolse la grande sacrestia quattrocentesca, dalla quale furono ricavati vari ambienti per le esigenze dei canonici30. Il nuovo corpo di fabbrica, pur addossandosi alla parete esterna del transetto destro (forse con l’effetto di nascondere alla vista la parte bassa della trifora del primo ordine, che non per questo venne privata della propria luce), non le si appoggiò fino ai primi del ’700, quando, con una sorta di prolungamento che pare indicato dal dislivello del tetto (meno alto in quel punto) e dallo sviluppo orizzontale della cappella, venne posto in duplice comunicazione con il transetto medesimo, col risultato, però, di accecare la metà inferiore della trifora, la cui vetrata, nel frattempo deterioratasi, era stata rimossa (fig. 19).

La fisionomia originaria In posizione simmetrica rispetto all’altare Vagnucci, nel braccio meridionale del transetto, si trovava un’altra cappella poco profonda intitolata a santa Barbara, anch’essa nel ’600 radicalmente trasformata per essere consacrata al Crocifisso (n. 5)31. Tre gradini marcavano il limite tra lo spazio del presbiterio e quello dei due larghi sacelli: oggi ne manca uno, in seguito al rialzamento del pavimento voluto nel 1849 dal vescovo Gioacchino Pecci, che fece eliminare le fastidiose e pericolose sporgenze dei numerosi sepolcri terragni disseminati nella chiesa32. Nel ’700, poi, la delimitazione delle cappelle venne accentuata dalla costruzione di due balaustre in marmo bianco, ma non è escluso che qualche forma di chiusura sia esistita anche prima di questo periodo33. Dell’altare di Sant’Onofrio non abbiamo descrizioni vere e proprie e non conserviamo alcun frammento: non sappiamo, pertanto, se e come la tavola del Signorelli fosse integrata con la mostra marmorea. Tuttavia, è assai probabile che il dipinto fosse collocato entro un prospetto ligneo dalle forme classicheggianti, semplicemente appoggiato sulla mensa di marmo

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(o dietro la stessa): questa pala poteva essere costituita da un basamento (contenente una predella e la nota iscrizione), due lesene laterali (forse a foggia di paraste corinzie, come spesso nel ’400) ed una trabeazione34. Ciò sembra confermato dal breve cenno all’altare contenuto nella prima visita pastorale del vescovo Napoleone Comitoli (1592)35: Inde visitavit cappellam et altare Sancti Honofrii, cum mensa lapidea petra sacra, candelabris ferreis et cruce lignea aurata tobaleisque munitum, cuius altaris icona habet figuras Virginis, sancti Honofrii et aliorum sanctorum. [Quindi visitò la cappella e l’altare di Sant’Onofrio, con una mensa lapidea munita di pietra sacra, provvisto di candelabri di ferro, di una croce di legno indorato e di tovaglie, la tavola del quale altare mostra le figure della Vergine, di sant’Onofrio e di altri santi.]

Anche dal Crispolti sappiamo che la tavola era appoggiata sull’altare e racchiusa da una grossa cornice, sotto la quale figurava l’iscrizione commemorativa (cf. par. 4). Davanti alla mensa si trovava la pietra tombale dei Vagnucci, col sottostante sepolcro contenente i corpi dei due prelati cortonesi. A differenza di quanto sostenuto dal Galassi e dal Siepi, che vogliono collocata sotto il pavimento del moderno oratorio di Sant’Onofrio la tomba dei due vescovi, questa non seguì le sorti della cappella Vagnucci, ma rimase sempre murata nel luogo originario, cioè davanti all’altare prima di Sant’Onofrio, poi di Santo Stefano: così attesta il Lancellotti36.

Le vicende successive Demandando ai prossimi paragrafi l’analisi del progetto decorativo, del relativo programma iconografico e di tutti i problemi connessi, ora è importante seguire le vicende successive all’erezione del sacello, passando in rassegna le fonti sino al configurarsi della situazione a noi familiare, onde poter anche verificare quanto affermato precedentemente. 1564. Il cardinale Fulvio Della Corgna, vescovo di Perugia dal 1550 al 1553 e di nuovo dal 1564 al 1574, inaugura la serie perugina delle visite pastorali prescritte dal Concilio di Trento appena conclusosi (1545-1563), iniziando natural-

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mente dalla chiesa cattedrale. Il cardinale visita l’altare di Sant’Onofrio, collocato nella cappella detta anche “del vescovo di Cortona”, situata “prope sacristiam”; al suo interno e in posizione laterale (probabilmente a sinistra), scorge anche un altare dedicato a san Nicola, destinato a scomparire nella visita successiva (1568)37. Molto importante è la precisazione circa la posizione della cappella, la cui denominazione derivava dal fatto che davanti alla mensa principale erano sepolti i due vescovi perugini, Iacopo e Dionisio Vagnucci da Cortona. 1571. Paolo Mario Della Rovere, visitatore apostolico, trova la cappella in pessime condizioni, priva di patronato e di manutenzione: ordina pertanto ai canonici di prendersene cura e di celebrarvi messa38. 1587. Il vescovo Anton Maria Gallo (1586-1591) ordina di murare nella mensa d’altare una “pietra sacra”39. Quest’ultima era una lastra quadrangolare consacrata dal vescovo e contenente reliquie di martiri, di solito adoperata come altare portatile per la celebrazione della messa. 1592. Il vescovo Napoleone Comitoli (1591-1624)40 trova “appoggiata” alla cappella una societas Sancti Honofrii del clero secolare diocesano, la quale, militando sotto il nome del santo, vi si riuniva una volta al mese; la cappella era sempre priva di patronato e, per questo motivo, affidata alle cure del Capitolo41. La congregazione era nota come “fraternita del Pilo”, perché aveva come scopo quello di suffragare le anime dei sacerdoti defunti: con il termine “pili”, infatti, si indicavano le pietre tombali che, col rispettivo vano sottostante, apparivano disseminate un po’ ovunque nella cattedrale, sporgendo pericolosamente dal pavimento; ovviamente nel caso specifico il pilo era quello dei vescovi Vagnucci. 1594. Nell’ultima integrazione della Vita cortonese di Iacopo, si legge un passo assai eloquente circa la questione dell’ubicazione del sacello: “a mano sinistra dell’altar maggiore e accanto alla sagrestia apparisce una cappella grande”42. 1597. Cesare Crispolti senior (morto nel 1608, omonimo zio di Cesare iunior) afferma che “è in detta cappella [di

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Sant’Onofrio] una sepoltura di monsignor Hippolito Della Corgna, già vescovo di Perugia, quale sepoltura è dello Scalzo”43. La tomba di Ippolito, vescovo di Perugia dal 1553 al 1562, fu commissionata dal congiunto Fulvio Della Corgna a Ludovico Scalza intorno al 156844. Sappiamo con certezza che questo monumento si trovava dove oggi è la Tomba dei papi, sulla parete destra del transetto settentrionale (n. 29), il quale, di conseguenza, coincideva con la nostra cappella. 1608. In tale anno l’altare di Sant’Onofrio cessa di esistere, iniziando per l’omonima pala un “travaglio” di cui essa porta ancora i segni: Salvuccio Salvucci, protonotario apostolico e vicario generale del vescovo Comitoli, grazie ai guadagni percepiti in tanti anni di onorato servizio, subentrò alla famiglia Vagnucci nel patronato della cappella, ne cambiò l’intitolazione e, pertanto, ne fece ricostruire l’altare, ora dedicato a santo Stefano (fig. 16)45. La data del 1608 è testimoniata dall’iscrizione che, tutt’oggi, si può leggere a fatica sulla trabeazione del monumento:

Al medesimo anno appartiene la realizzazione della tela d’altare raffigurante la Lapidazione di santo Stefano, firmata e datata dal romano Giovanni Baglione46; risalgono allo stesso momento, prima dell’apertura al culto della cappella (1609), anche le Storie di santo Stefano, affreschi perduti del perugino Giovanni Antonio Scaramuccia47. Forse già a partire dal 1608, la tavola del Signorelli, non potendo trovare posto sul nuovo altare, venne appesa alla parete sinistra del transetto. Il Comitoli approfittò del rinnovamento della cappella per trasferire sotto la mensa dell’altare una parte del corpo di san Bevignate, proveniente dalla decadente chiesa omonima sotto Monteluce (17 maggio 1609)48.

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1625. Il vescovo Cosimo De Torres (1624-1634), nella prima delle sue visite pastorali (1625 e 1629), “visitavit altare divo Stephano dicatum, quod olim divo Onofrio dicatum erat”49. Ante 1642. Emblematico anche un passo del Bigazzini, relativo al vescovo Dionisio50: Nelle Memorie della catredale di Perugia [...] si ha che fece l’altare di Sant’Honofrio in San Lorenzo domo di Perugia, ove oggi è [la] cappella ornata dal canonico Salvuccio Salvucci dedicata a santo Stefano.

1644. Il vescovo Orazio Monaldi (1643-1658) trova sulla parete destra del transetto la tomba del vescovo Ippolito Della Corgna, con sopra un’immagine del Salvatore; quindi ci fa sapere che la confraternita del Pilo officiava regolarmente presso l’altare del Crocifisso51: qui, infatti, la congregazione aveva dovuto trasferire i propri riti dopo la distruzione della cappella di Sant’Onofrio, sua sede primitiva. Contemporaneamente l’Ughelli, nella Vita del vescovo Dionisio, afferma che questi “Sanctorum Stephani ac Benignatis sacellum in cathedrali construxit, ubi beati Benignatis corpus conditum iacet”52: a parte l’imprecisione indicante la coincidenza degli altari di Sant’Onofrio e di Santo Stefano, è evidente il riferimento (presente anche nel Bigazzini) all’iscrizione perduta, all’epoca forse già scomparsa, dalla quale traspariva la corresponsabilità di Dionisio nella decorazione della cappella. 1648. Un ostacolo alla ricostruzione sin qui effettuata è rappresentato dalla Perugia Augusta, opera pubblicata da Cesare Crispolti iunior (1609-1652): egli, infatti, afferma che la pala del Signorelli era ancora collocata sull’altare della cappella di Sant’Onofrio, ma aggiunge poi che “in una facciata della detta cappella”, collocata “a lato alla sagrestia”, compariva il monumento dello Scalza; sorprende inoltre l’assenza di ogni minimo riferimento all’altare di Santo Stefano53. Il tutto fa pensare che il Crispolti, rielaborando, plagiando e pubblicando il materiale manoscritto raccolto dallo zio, non abbia registrato il mutamento intercorso nel transetto destro nel 1608, cioè lo stesso anno in cui lo zio venne a mancare54; allo stesso modo, non annota le trasformazioni avvenute sul lato opposto del duomo, nel transetto meridionale, con la

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costruzione della nuova cappella del Crocifisso (1613) e con il trasferimento nella stessa della Tomba dei papi, proveniente dalla sacrestia (1615)55. Il Crispolti è il primo a pubblicare l’iscrizione che si trovava sotto il monumento dello Scalza, descritto come “una sepoltura di stucco [...] con belli ornamenti”56: HIPPOLYTO CORNEO EPISCOPO PERUS[INO] || FULVIUS CORNEUS S[ANCTAE] R[OMANAE] E[CCLESIAE] P[RESBYTER] CARD[INALIS] B[ENE] M[ERENTI] F[ECIT] || V[IXIT] A[NNOS] LV RESEDIT A[NNOS] IX || VETERIS SANCTITATIS EXEMPLUM

[Fulvio Della Corgna, cardinale prete di Santa Romana Chiesa, innalzò (questo monumento) al benemerito Ippolito Della Corgna, vescovo perugino, (il quale) visse per anni 55 e risiedette (nel vescovato) per anni 9, come esempio di antica santità.]

Ante 1671. Il Lancellotti (morto nel 1671) ci informa che nel 1584, con licenza di papa Gregorio XIII (1572-1585), il privilegio per le anime dei defunti era stato trasferito dall’altare di Sant’Onofrio (al quale venne concesso nel 1577) a quello del Crocifisso, e che la confraternita del Pilo, di antica fondazione, aveva ottenuto l’approvazione dei propri ordini nel 1579, ad opera del vescovo Francesco Bossi (1574-1579)57. A partire dal 1608 (costruzione dell’altare di Santo Stefano), la compagnia officiava regolarmente presso il Crocifisso (come ricorda il vescovo Monaldi nel 1644); tuttavia, militando sotto il nome di sant’Onofrio, il 12 giugno, festa del santo, essa onorava la sua effigie “alla cappella di Sant’Onofrio oggi di Santo Stefano”, alla cui parete sinistra era appesa la pala del Signorelli. Ciò è attestato sempre dal Lancellotti, quando afferma che “della cappella antica non resta altro che la tavola ch’oggi si vede attaccata alla facciata del lato sinistro della cappella di Santo Stefano”58: questo passo, dal Siepi in poi, è stato interpretato come la testimonianza di una cappella di Sant’Onofrio distinta da quella di Santo Stefano e caduta in rovina nel corso del ’600; a ben guardare, però, il Lancellotti vuole semplicemente riferirsi alla demolizione dell’altare originario e alla perdita di chissà quali altri ornamenti. Probabilmente, l’impossibilità per la famiglia Vagnucci (residente a Cortona) di curare la manutenzione della cappel-

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la, il successivo trasferimento del privilegio (1584) e la conseguente mancanza di una stabile ufficiatura (fatta eccezione per le riunioni mensili della fraternita del Pilo) determinarono il passaggio del sacello nelle mani del Salvucci. A questo punto, niente è più significativo di quanto afferma il Lancellotti a proposito della nuova cappella di Santo Stefano: Con buona gratia de’ Vannucci nobili cortonesi, de’ quali era questo sito con la cappella di Sant’Onofrio, come a 12 di giugno, fondò questa di Santo Stefano il canonico Salvuccio Salvucci, che vi spese quanto acquistò per i molti anni che servì nella carica di vicario generale l’idea de’ vescovi Napolione Comitolo, per esser l’ultimo della sua famiglia, nel 1608.

Il Lancellotti, infine, è il primo a menzionare i due affreschi con Storie di santo Stefano, dipinti da Giovanni Antonio Scaramuccia ai lati dell’altare omonimo59. 1674. Luigi Scaramuccia conferma che la tavola del Signorelli era appesa ad una parete laterale, dalla parte della sacrestia60. 1683. Il Morelli, dopo aver elogiato i due “quadri a fresco” dello Scaramuccia (“sono stimate le più belle che habbi fatte”), vede appese alle pareti laterali due tavole, il dipinto del Signorelli e un quadro raffigurante il Martirio di san Sebastiano (1576), opera del perugino Orazio Alfani61. 1703. Il vescovo Antonio Felice Marsili (1701-1710) visita il nuovo oratorio di Sant’Onofrio (n. 32; fig. 17), appena ricavato dietro l’altare di Santo Stefano, riutilizzando un corpo di fabbrica già esistente. Il testo del registro è quanto mai eloquente: Novum chorum ingressus [est] post dictum altare Sancti Stephani nuper constructum, in quo erectum invenit altare divo Onufrio dicatum. [Entrò nel nuovo coro da poco costruito dietro il menzionato altare di Santo Stefano, nel quale trovò eretto un altare dedicato a sant’Onofrio.]

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Dalla visita risulta che la confraternita del Pilo aveva ristabilito la propria sede nella nuova cappella del santo sotto cui militava62; sappiamo pure che, sempre nel 1703 (novembre), gli ordini della compagnia vennero rinnovati ed approvati dallo stesso vescovo Marsili63. Per accedere al nuovo oratorio, si rese necessario aprire due piccole porte ai lati dell’altare del Protomartire, attraverso la parete di fondo del transetto. La cappella presenta un coretto semicircolare e, pertanto, l’altare risulta appoggiato alla parete d’ingresso. Sulla mensa venne ricollocata la tavola del Signorelli, racchiusa entro un “ornamento di legno intagliato e dorato che fregia il quadro e la superior finestra che serve di frontespizio all’altare”64: qui il dipinto rimase fino al 1923, anno della sua sistemazione nel Museo Capitolare di San Lorenzo, istituito nel IV centenario della morte di Pietro Vannucci detto il Perugino (1450 ca-1523). 1776. Il Galassi ci informa che gli affreschi dello Scaramuccia erano stati alquanto rovinati da una disgraziata ripulitura; nota inoltre la Tomba dei papi sulla parete sinistra (dove la vede anche il vescovo Odoardi nel 1781)65 e il monumento dello Scalza sempre sulla parete destra; infine riporta il testo della lapide che, sino a qualche tempo fa, si trovava ai piedi dell’altare del Salvucci66: SALVUTIUS

CAN[ONICUS]

AP[OSTOLICUS] STES

||

||

SALVUCCI

PR[OTHONOTARIUS]

NEAPOL[EONIS] COMITOLI OLIM PROANTI-

ANNORUM PLENUS AC MERITORUM

||

||

DIEM SUUM ET

|| || IN QUATUOR HUIUS BASILICAE || PRESBYTERIS BENEFICIARIIS || QUI EX ASSE HEREDES || AUCTORI OPT[IMO] MER[ITO] PP[= POSUERUNT] M.D.CC.XIX

FAMILIAM CLAUSIT

X KAL[ENDAS] APR[ILES] M.D.C.XXIII

NUNQUAM DESITURUS

[Salvuccio Salvucci, canonico, protonotario apostolico, un tempo primo prelato di Napoleone Comitoli, pieno di anni e di meriti, terminò la propria vita e la propria famiglia il giorno 23 marzo 1623, perpetuando (il patronato) nelle persone di quattro prelati beneficiari di questa cattedrale, i quali, (suoi) eredi universali, accrescitori (della cappella) con ottimo merito, posero (questa lapide) nel 1719.]

La lapide, posizionata nel 1719, andò a sostituire la pietra tombale dei Vagnucci, ma le ceneri dei due vescovi perugini

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non vennero spostate sotto il pavimento del moderno oratorio, dove le colloca il Galassi: il Salvucci, morto nel 1623, venne quindi sepolto in “condominio” con loro67. Già si è accennato come il Galassi, ritenendo l’oratorio fondato nel 1484 dal Vagnucci, sia all’origine della ricostruzione errata del Siepi. 1784. L’Orsini ipotizza che l’altare di Santo Stefano fosse stato eseguito su disegno di Valentino Martelli; inoltre ci informa che il vuoto del frontone, lasciato interrotto per non precludere la vista delle vetrate (poi rimosse e vendute nel 1765), era stato colmato con un attico eseguito su proprio disegno “in stucco colorito ad imitazione degli altri marmi” (fig. 16); descrive infine gli affreschi dello Scaramuccia, confermandone la grave alterazione68. Non si menziona più il monumento dello Scalza, forse già demolito. 1822. Il Siepi lamenta la demolizione sulla parete destra del deposito di Ippolito Della Corgna, dovuta ai lavori settecenteschi di abbellimento della crociera; descrive ancora gli affreschi dello Scaramuccia, per quanto faticosamente leggibili (in pratica cita l’Orsini)69. 1864. Il canonico Luigi Rotelli ci informa che, a partire dal 1835, l’oratorio del santo eremita veniva utilizzato per l’ufficiatura invernale, essendo perciò chiamato anche “coretto d’inverno” (questo uso continua tutt’oggi); non vede più gli affreschi dello Scaramuccia, definitivamente scomparsi, mentre descrive la Pala di San Nicola di Pompeo Cocchi (1480 ca-1582), recuperata dalle sale capitolari e sistemata nella cappella70. Poco dopo Adamo Rossi, in due passaggi della divertente polemica col Rotelli (reo, tra le altre cose, di aver perpetuato l’errore del Siepi), è l’unico erudito a prendere posizione, con grande chiarezza, sulla questione dell’ubicazione della cappella71: se gli studiosi avessero prestato attenzione a queste pagine, non sarebbe stato necessario dilungarsi sul problema! 1878. Giovan Battista Rossi Scotti vede nell’oratorio le Storie di sant’Onofrio, appena affrescate da Domenico Bruschi su commissione del vescovo Gioacchino Pecci (1846-1878), di cui compare il ritratto nell’affresco principale72. Al medesimo anno risalgono le finte tarsie del coretto ligneo, dipinte sempre dal Bruschi73.

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1892. Il vescovo Federico Foschi (1880-1895), già segretario di papa Leone XIII (1878-1903), sposta la Tomba dei papi sulla parete destra (n. 29)74 e colloca al suo posto il monumento marmoreo di Leone XIII (n. 31)75.

3. La Pala di Sant’Onofrio (1483-1484) Commissione e datazione La data del 1484, attestata sotto la cornice della Pala Vagnucci, s’inserisce agevolmente nel percorso umano e professionale di Luca Signorelli (Cortona, 1450 ca-1523)76, costituendo un punto fermo di grande importanza per la comprensione della vicenda artistica giovanile del cortonese, solo intuibile dal punto di vista documentario, ma pressoché sconosciuta da quello visivo: infatti, dopo l’affresco di Città di Castello (per altro di controversa attribuzione), si tratta della prima data certa per un’opera conservata di Signorelli, nella quale, per giunta, egli appare un pittore completamente indipendente dalle botteghe dei maestri con cui si era andato formando, a cominciare da Piero della Francesca (1416/20-1492)77. Divenuto il primo collaboratore del coetaneo Pietro Vannucci, forse frequentando a Firenze, nel corso degli anni settanta, la bottega di Andrea del Verrocchio (1435-1488), Signorelli, quasi certamente, dovette recarsi a Roma per ricongiungersi al Perugino ed assisterlo nell’impresa decorativa della cappella Sistina, per quanto nei documenti dell’ottobre 1481 e del gennaio 1482 non risulti menzionato tra i pittori reclutati dal pontefice Sisto IV78. Proprio il contatto rinnovato con l’ambiente della pittura umbra (rappresentata anche dal Pintoricchio, altro aiutante del Perugino) forse contribuì al successivo trasferimento del pittore a Perugia79. In questo senso, però, ancora più decisivi dovettero risultare i noti legami del vescovo Vagnucci con la Curia romana e, in modo particolare, con papa Sisto IV che, proprio nel 1482, promosse Iacopo all’arcivescovato di Nicea (cf. par. I, 4). Considerando poi come il mecenatismo dei Della Rovere avrebbe successivamente coinvolto il pittore cortonese in altre importanti realizzazioni (affreschi di Loreto, Orvieto e Roma)80, si può pensare ad un ruolo d’intermediazione svolto dalla famiglia

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del pontefice nel determinare la chiamata di Signorelli a Perugia. Superfluo infine sottolineare che la scelta del Vagnucci cadde sul nome di un affermato pittore conterraneo, anch’egli fortemente legato alla propria città natale, per la quale aveva realizzato diverse opere durante l’ottavo decennio del secolo e dove spesso aveva ricoperto incarichi di pubblica utilità81. La permanenza a Roma di Signorelli potrebbe collocarsi tra i primi mesi del 1482 e l’ottobre seguente, quando un lavoro di Luca è documentato nella chiesa di San Francesco a Lucignano (presso Arezzo), su commissione della confraternita di Santa Maria82. È verosimile, quindi, che egli abbia ricevuto l’incarico di dipingere la Pala di Sant’Onofrio nella primavera del 1483, allo scadere del primo anno di episcopato di Dionisio Vagnucci, committente “diretto” dell’opera, come indicato dalla “didascalia” perduta. Mentre il termine post quem va fissato al maggio di quell’anno83, la realizzazione della tavola può essere collocata entro la metà del 1484: nel mese di giugno, infatti, vediamo Signorelli recarsi in ambasceria a Gubbio, per invitare a Cortona, a nome del proprio comune, l’architetto senese Francesco di Giorgio Martini (1439-1501) che, nella cittadina toscana, avrebbe elaborato il progetto per la chiesa di Santa Maria delle Grazie al Calcinaio; nel novembre seguente Luca acquista un terreno proprio a Cortona, mentre nel gennaio dell’anno successivo lo troviamo a Spoleto, dove stipula con le monache del convento di Sant’Agata il contratto per una pala d’altare mai eseguita84. Niente di più probabile, dunque, che il dipinto sia stato sistemato sull’altare della cappella di Sant’Onofrio (la cui festa ricorre il 12 giugno) alla metà del 1484, quando venne apposta l’iscrizione commemorativa che, appunto, riportava quella data85.

Iconografia e personaggi L’importanza della Pala Vagnucci (fig. 20) va ben oltre il semplice “appiglio” cronologico, dal momento che essa rappresenta, prima della perduta Corte di Pan (1489-1490, già a Berlino) e, probabilmente, prima anche della Conversione di San Paolo (affreschi della sacrestia di San Giovanni nella basilica di Santa Maria a Loreto)86, l’opera più significativa del periodo “giovanile” di Signorelli (le virgolette sono d’obbligo, visto che all’epoca il pittore aveva già 35 anni, se non di più): una vera e propria “sintesi-antologia” delle sue prime esperienze artistiche e, nello stesso tempo, l’opera che ne inaugura lo stile più tipico e riconoscibile.

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Fig. 20 L. Signorelli, Pala di Sant’Onofrio, 1483-1484. Perugia, Museo Capitolare di San Lorenzo.

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Non ci sono documenti attestanti l’autografia del dipinto, comunque assegnato al Signorelli già dal Vasari, il quale così ne scrive nella Vita del cortonese87: In Perugia ancora fece molte opere, e fra l’altre, in duomo, per messer Iacopo Vannucci cortonese vescovo di quella città, una tavola; nella quale è la Nostra Donna, sant’Onofrio, sant’Ercolano, san Giovanni Battista e santo Stefano; et un angelo che tempera un liuto, bellissimo.

Dal 1550 (prima edizione delle Vite) ad oggi, l’attribuzione del biografo aretino non è stata mai messa in discussione, sì che la critica ha preferito piuttosto concentrarsi sul problema dello stile e delle possibili influenze ravvisabili nell’opera88. Prima di analizzare questo aspetto, però, è bene partire da una illustrazione del dipinto (Sacra Conversazione, precisamente Madonna in trono col Bambino, i santi Giovanni Battista, Onofrio e Lorenzo, un santo vescovo ed un angelo musicante), i cui personaggi sono disposti nel modo seguente:

Fig. 21 L. Signorelli, disegno per la testa del Battista. Stoccolma, Nationalmuseum.

Altezza: cm 226

Battista

Vergine

Lorenzo

Larghezza: cm 193,5

Onofrio

Angelo

Vescovo

Nel passo citato, che rappresenta la più antica descrizione della tavola, il Vasari crede di scorgere santo Stefano nella figura in alto a destra. Le ragioni di questa errata identificazione sono facilmente comprensibili: infatti, come ha spiegato Girolamo Mancini, la dalmatica, il libro dei Salmi e il ramo di palma sono simboli allusivi tanto al Protomartire quanto a san Lorenzo, anch’egli diacono e martire; ed essendo quest’ultimo il titolare della cattedrale perugina, nonché il patrono della città, è assai più probabile che il vescovo Vagnucci abbia preferito la sua immagine a quella di santo Stefano89. Una conferma, del resto, ci viene dall’originaria presenza di San Lorenzo nella vetrata della sovrastante trifora del transet-

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to, in una posizione corrispondente a quella del dipinto: qui l’identificazione non lascia spazio ad alcun dubbio, dal momento che il santo è connotato inequivocabilmente dalla griglia sulla quale venne martirizzato (cf. par. 6; fig. 44)90. Tradizionale è la figura del Battista (per la cui testa si conserva un cartone forato a Stoccolma, Nationalmuseum; fig. 21), sovente rappresentato alla destra della Vergine: una pelle di cammello per vestito, l’indice destro alzato ad indicare il Messia e, tra le dita della mano sinistra, una leggerissima croce astata, dalla

Fig. 22 Pala di Sant’Onofrio, part. con le figure della Vergine e del Bambino.

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quale sventola il solito cartiglio (“ECCE AGNIU[S DEI]”); l’aspetto del Precursore, però, non è quello di un uomo fiaccato dalla vita eremitica, bensì di un giovane attraente. Appare espressivo più che mai, invece, il sant’Onofrio, praticamente nudo, con barba e chiome fluenti, “disseccato” e piegato sul proprio bastone: una figura che tornerà altre volte nella pittura di Signorelli91. Seduto sul primo gradino del trono, un angelo volge le spalle alla Madonna, intento ad accordare il liuto92: sorprendono il ventre insolitamente gonfio e le gambe leggermente “rachitiche”. Infine la Vergine, assisa imponente su un trono altissimo e con lo sguardo fisso sul libro, al quale rivolge la propria attenzione anche il Bambino ricciuto (fig. 22): in mano a quest’ultimo è il giglio, simbolo di purezza e verginità93. Del presunto santo vescovo, assorto nella lettura in basso a destra, si dirà nel paragrafo 5 (fig. 30).

Stile e influenze Stupisce vedere una Sacra Conversazione completamente priva di ambientazione, senza elementi paesaggistici o architettonici: qui l’elemento unificante è il controluce del cielo, di un azzurro terso e luminoso, che “riesce a dar risonanza e perfino giustezza tonale ai colori”, esaltando la monumentalità delle figure; un timido accenno paesaggistico è visibile solo

Fig. 23 Pala di Sant’Onofrio, part. con il vaso di fiori in primo piano.

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nell’angolo in basso a sinistra, con un alberello e un edificio che è stato interpretato come la tribuna absidale del duomo di San Lorenzo (fig. 128)94. La spazialità, dunque, non è ottenuta con inquadrature prospettiche, ma è creata unicamente dal modellato energico delle figure, che Signorelli sembra sbalzare a tutto tondo con il fare di uno scultore: caratteri, questi, che resteranno distintivi dello stile maturo del pittore. Ciononostante, “l’enfasi è posta significativamente sul primato decorativo della superficie pittorica e della cornice che la contiene”95, con i sei personaggi disposti entro un quadrato che, parallelo ai bordi della tavola, inscrive il “rombo” formato dagli oggetti sostenuti dalle figure laterali (bastone, asta, palma, pastorale): proprio la straordinaria accuratezza dei particolari, poi, costituisce l’aspetto che catalizza maggiormente l’attenzione dello spettatore (fig. 23)96. Non è il caso di ripercorrere la nutrita letteratura critica sul dipinto, messo in relazione ora con l’ambiente fiorentino, ora con l’arte fiamminga, ora con la pittura dell’Italia settentrionale, con specifico riferimento all’area veneto-romagnola97. Ad ogni modo, tentare di etichettare lo stile della tavola, assegnandolo a questo o quell’ambiente, è un esercizio davvero vano: come ha osservato lo Scarpellini, Luca, attraverso un sapiente gioco di incastri e torsioni, “monta insieme pezzo a pezzo brani diversamente pensati e di disparata provenienza”: sant’Onofrio, le cui forzature espressionistiche rievocano Andrea del Castagno o il Pollaiolo; il Battista, decisamente peruginesco nell’atteggiamento patetico e nella tipica inclinazione del capo; l’angelo botticelliano; il san Lorenzo donatelliano; l’imponente Madonna, che richiama la monumentalità e la nitidezza geometrica di Piero della Francesca98; le forme architettoniche, che ricordano le sculture di Andrea del Verrocchio; per poi non parlare dell’ampio spazio concesso alle suggestioni fiamminghe99.

Fortuna e restauri Se l’impatto del dipinto fu limitato, in quanto destinato ad una “città di provincia”, l’ambiente pittorico umbro, dominato dallo stile facile e divulgativo del Perugino, venne sensibilmente “sconvolto” da un’opera che, dopo le prove dell’Angelico (Pala di San Domenico) e di Piero della Francesca (Pala di Sant’Antonio), segnava una tappa ulteriore del processo di aggiornamento sulle novità più importanti della pittura primo-

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rinascimentale: ricordi e imitazioni sono evidenti nello stesso Perugino (Crocifissione e santi degli Uffizi), in Raffaello (Pala Colonna di New York, Pala Ansidei di Londra), in Domenico Alfani (Pala della Sapienza Vecchia nella Galleria Nazionale dell’Umbria), in Pompeo Cocchi (Pala di San Nicola nel Museo Capitolare di Perugia) e in qualche pittore secondario100. La tavola è stata restaurata presso l’Istituto Centrale per il Restauro di Roma, una prima volta nel 1948-1951, di nuovo nel 1984-1994; in precedenza dovette subire almeno due interventi, uno ai primi del ’700 (in occasione della ricollocazione sull’attuale altare di Sant’Onofrio), l’altro documentato nel 1923, quando l’opera venne allogata nel nuovo Museo Capitolare di San Lorenzo (cf. appendice B).

4. L’iscrizione perduta Posizione e scomparsa della memoria A lungo eruditi e studiosi si sono interrogati sull’esatta ubicazione della già menzionata scritta, un tempo posta nella cappella di Sant’Onofrio a ricordo dell’impresa decorativa dei Vagnucci. Dopo la “pionieristica” citazione del cortonese Braccioli (1565)101, il primo tra gli scrittori locali a riportare il testo della memoria è il più anziano dei Crispolti che, nella prima stesura manoscritta della Perugia Augusta (1603 ca), poi pubblicata postuma dal nipote, afferma di vederla collocata “sotto il cornicione” della tavola, definita “bella e diligente”102. Lo stesso concetto viene ripreso nella pubblicazione del 1648, dove Cesare iunior, dopo aver genericamente affermato che l’iscrizione campeggiava “sotto la detta tavola”, specifica in un passo successivo come essa fosse posizionata “sotto la cui cornice”103. Possiamo dunque ipotizzare che la scritta fosse fisicamente separata dall’incorniciatura vera e propria del dipinto e si trovasse in una fascia sottostante (un gradino o una predella) della pala d’altare: così sembra suggerire anche la solita Vita di Iacopo, dalla quale ricaviamo che la memoria, scritta in caratteri capitali di colore oro, era sistemata “nella tavola dell’altare della cappella”, precisamente “nel fregio di detta tavola”104. Problematico è capire anche quando l’iscrizione sia scomparsa: ciò potrebbe essere accaduto già nel 1608, in seguito

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allo smantellamento dell’altare Vagnucci e al conseguente spostamento del dipinto sulla parete sinistra del transetto (dove risulta appeso, il che attesta la separazione dal resto della pala). Tant’è vero che, con la sola eccezione (che per altro abbiamo giustificato) del Crispolti iunior, tutti gli scrittori del ’600 dimostrano di non scorgere più la scritta, anche se paiono rievocarla nell’affermare la corresponsabilità di Dionisio Vagnucci per quanto riguarda la decorazione del sacello105. Sennonché, ancora nel 1700, lo storico cortonese Domenico Tartaglini accenna genericamente all’iscrizione, anche se appare abbastanza chiaro come questa menzione non sia il frutto di un’esperienza diretta106. Ad ogni modo, ai primi del ’700, in occasione della ricollocazione sul nuovo altare di Sant’Onofrio, la tavola, già liberata dagli elementi architettonici della pala (gradino, lesene e trabeazione), venne forse privata anche della propria cornice, e pure resecata per essere ancora incorniciata e riadattata al prospetto del moderno altare in muratura. Infatti la superiore delle cinque (o sei) assi orizzontali di cui è composto il quadro è stata accorciata di 4-5 cm circa (come risulta evidentemente dal coronamento mozzato del trono della Vergine), mentre l’assottigliamento dell’intero supporto ligneo (spesso circa 2 cm) va ricondotto al penultimo restauro107; inoltre l’abrasione della pellicola pittorica e dello strato preparatorio lungo i margini laterali del dipinto, laddove con l’ultimo restauro sono riemersi i contorni di due candelabre, potrebbe indicare l’esistenza di un duplice profilo ligneo, aderente alla superficie del quadro e successivamente asportato insieme ai corniciamenti originari108. Possiamo certamente escludere, invece, una seconda ipotesi, cioè che la scritta fosse dipinta sul bordo inferiore della tavola (che non risulta né abraso né tagliato): così evidentemente ipotizza il Galassi, ancora una volta all’origine di una tradizione errata che pare coinvolgere persino le visite pastorali109.

Predella figurata o semplice gradino? Il problema preso in esame è strettamente connesso ad un’altra questione, quella relativa alla possibilità che, secondo l’uso del tempo, la tavola fosse munita di una lunetta e di una predella, accessori di cui erano corredati, nella pittura di ambiente toscano, quasi tutti i dipinti di grande formato rettangolare (ad esempio, la più tarda Pala Colonna di Raffaello):

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Fig. 24 L. Signorelli, Nascita e imposizione del nome del Battista, 1484 ca. Parigi, Museo del Louvre.

difficile che la tavola, già di per sé moderna e innovativa per la sua forma quadrangolare all’antica, fosse semplicemente incorniciata. L’ipotesi, avanzata per primo da Girolamo Mancini, il quale attribuisce al rinnovamento settecentesco la perdita delle parti mancanti, è stata successivamente ripresa da altri studiosi (Van Marle, Keach, Bernardini)110: bisogna però constatare come nelle fonti non si faccia il minimo accenno né a una predella, né a un coronamento. Che il dipinto fosse collocato piuttosto in alto rispetto al piano della mensa, da questa separato attraverso un possibile gradino, sembra suggerito dal punto di vista della rappresentazione, così ribassato in funzione dell’effettivo spettatore che Signorelli, coerentemente con le proprie inclinazioni, non si pone il problema di far intravedere il paesaggio retrostante. Un’idea, poi, di come poteva essere un’eventuale predella figurata, ci viene fornita dallo scomparto con la Natività e imposizione del nome del Battista (Parigi, Louvre; fig. 24), prima “storietta” a noi nota di Signorelli, caratterizzata da uno stile assai prossimo al dipinto di Perugia e, pertanto, datata intorno alla metà del nono decennio del secolo (Salmi, Scarpellini, Paolucci)111. Il Mancini e la Keach, invece, hanno proposto un rapporto diretto con la tavola, poi dimostrato con validi argomenti da L. Kanter e T. Henry112. In effetti, gli elementi che farebbero propendere per l’appartenenza alla Pala Vagnucci sono numerosi (fig. 25): prima di tutto, si può ipotizzare che la tavoletta del Louvre, ridotta su tutti e quattro i lati (con perdite minime lungo i margini superiore ed inferiore), fosse posizionata sotto la figura di san Giovanni, in pendant con una Storia di san Lorenzo sotto la figura corrispondente e con la nota memoria collo-

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Fig. 25 Ricostruzione virtuale della Pala di Sant’Onofrio.

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cata in posizione mediana, in base ad uno schema (due o quattro riquadri figurati disposti simmetricamente intorno ad un elemento centrale) che ricorre in altre predelle di Signorelli (spesso formate, come forse nel nostro caso, da un’unica asse di legno)113; secondo, le candelabre che delimitano la piccola scena domestica sono assai simili a quelle, metalliche e lucenti, del trono della Vergine e a quelle riapparse, sotto forma di impronta, sui margini laterali della tavola principale114; terzo, in entrambe le opere le figure sono “colpite” da una luce astratta, mentale, forzatamente laterale da sinistra verso destra, come è giusto aspettarsi in una pala collocata alla destra dell’abside del duomo; quarto, anche nello scomparto di predella, Signorelli sembra dimostrare interessi assai vicini a quelli di uno scultore, costruendo l’immagine in superficie (come in un fregio del Verrocchio) e ricorrendo ad “effetti illusori di rilievo scultoreo”; infine, anche nel piccolo dipinto del Louvre, Luca utilizza la tecnica dello spolvero su cartone, già adottata nella tavola maggiore per i motivi decorativi dei gradini e, probabilmente, per la testa del Battista. Da scartare, invece, è l’ipotesi che la pala fosse conclusa da un timpano o da una lunetta. In assenza di qualsiasi dato, si può soltanto osservare che un coronamento, triangolare o curvilineo, non si sarebbe adattato al profilo rettilineo dello sguancio inferiore del finestrone che, nella testata del transetto destro, giungeva talmente in basso da non permettere sopra la tavola altro spessore che quello di una trabeazione: come si vedrà (cf. par. 6), la trifora era strettamente collegata, nell’iconografia delle proprie vetrate, al “trittico” di Signorelli, rappresentandone essa stessa la “lunetta” (fig. 26).

Ricostruzione virtuale della pala: alcune conferme La ricostruzione della Pala Vagnucci sin qui effettuata trova preziose conferme in due ancone tra loro quasi coeve, la prima delle quali è la Pala della Sapienza Vecchia di Domenico Alfani (1518, Galleria Nazionale dell’Umbria): l’opera potrebbe essersi ispirata alla Pala di Sant’Onofrio non solo nella rappresentazione della scena sacra115, ma persino nella cornice (originale, anche se sottoposta a ridipinture nel XVIII secolo), come si rileva dalla struttura architravata poggiante su un gradino, caratterizzato dalla finzione di due

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Fig. 26 Ricostruzione virtuale della testata della cappella Vagnucci.

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Fig. 27 D. Alfani, Pala della Sapienza Vecchia, 1518. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.

scomparti laterali di predella compresi tra gli stemmi e un’iscrizione centrale (fig. 27). A parte un fatto assai significativo risalente al 1512116, il rapporto tra Signorelli e la famiglia Vagnucci conobbe un secondo episodio nel luglio 1523, quando, poco prima di morire (ottobre), l’anziano pittore venne incaricato da Giovambattista Vagnucci (figlio di Filippo di Angelo di Vagnuccio) di realizzare l’Immacolata Concezione con sei profeti, oggi esposta nel secondo altare a sinistra della chiesa di Santa Maria del Calcinaio a Cortona (fig. 28). L’opera, che ritrae il committente con il figlio adottivo Mauro, fu probabilmente eseguita, su disegno dello zio, da Francesco Signorelli (1495 ca-1553), nipote e primo assistente di Luca. Il rispetto dei tempi previsti dal contratto (l’opera doveva essere consegnata entro la Pasqua dell’anno seguente) è attestato dal gradino della pala (fig. 29), oggi smembrata, recante

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Fig. 28 F. Signorelli, Pala dell’Immacolata Concezione, 1524. Cortona, chiesa di Santa Maria delle Grazie al Calcinaio.

Fig. 29 F. Signorelli, predella della Pala dell’Immacolata Concezione, 1524. Arezzo, Soprintendenza ai Beni Culturali (deposito).

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due scomparti laterali (Elevazione dell’ostia, Adorazione del Sacramento) intorno ad uno sportello centrale (Corpus Domini) e, nei plinti dei pilastri, un’iscrizione inneggiante al committente e lo stemma di famiglia seguito dalla data del 1524117: soluzioni straordinariamente simili a quelle ipotizzate per la ben più famosa Pala Vagnucci, con la quale le analogie sono strettissime (si vedano anche il formato della tavola, gli angeli musicanti nei vertici superiori, la Vergine assisa in alto, il punto di vista ribassato, lo sfondo luminoso del cielo, il ritratto del committente). Considerando poi che, nella chiesa del Calcinaio, l’opera era destinata ad una cappella ricavata nella testata del transetto sinistro, per la quale lo stesso Giovambattista nel 1517 aveva commissionato a Guillaume de Marcillat (1470 ca-1529) una vetrata rappresentante Sant’Onofrio (purtroppo perduta), è evidente come la cappella Vagnucci nel duomo di Perugia avesse rappresentato, a distanza di trenta-quarant’anni, un modello puntuale per il progetto decorativo della cappella della Concezione a Cortona118.

5. Il ritratto del vescovo e la devozione al santo eremita Il problema del ritratto Tornando alla rappresentazione della tavola, un altro tema di discussione è stato offerto agli studiosi dalla straordinaria figura collocata in basso a destra, quella di un vescovo completamente assorto nella lettura, di cui è conservato a Londra (British Museum) un disegno preparatorio realizzato a punta metallica (figg. 30-32)119. Il presule, molto anziano, è calvo e sbarbato, ed indossa un ricco piviale istoriato; con entrambe le mani tiene aperto un pesante volume, mentre con la sinistra regge anche il pastorale; la mitra vescovile è accanto a lui, appoggiata sul primo gradino del trono della Vergine. Il più antico riferimento a questo personaggio è del Vasari che, nel già citato passo delle Vite, vi individua sant’Ercolano120. L’identificazione del biografo aretino, forse condizionata dalla presenza del santo nella vetrata maggiore della cappella (fig. 43), risulta piuttosto problematica per motivi iconografici: innanzitutto, come ha notato Girolamo Mancini, il capo del vescovo è l’unico a non essere fregiato dall’aureola, dettaglio che risalta

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Fig. 30 Pala di Sant’Onofrio, part. con il vescovo Vagnucci.

quanto più si tenga conto della particolare cura impiegata dal pittore nel differenziare i nimbi; in secondo luogo, non compaiono simboli allusivi al santo e alla sua decapitazione (il vessillo col grifo perugino), simboli invece utilizzati per connotare gli

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Fig. 31 Pala di Sant’Onofrio, part. del vescovo Vagnucci.

Fig. 32 L. Signorelli, disegno per la figura del vescovo Vagnucci. Londra, British Museum.

altri tre santi che rendono omaggio alla Vergine (la croce astata del Battista, la palma del martire Lorenzo, la “cruccia rustica” di Onofrio)121; infine bisogna osservare come sant’Ercolano venga tradizionalmente rappresentato come un uomo di mezza età, dalla folta ma corta barba bianca122: il Bonfigli ce ne offre un esempio quasi contemporaneo nella cappella dei Priori. È lo stesso Mancini ad ipotizzare che in questa figura, tanto naturale e vera da sembrare proprio un ritratto, il Signorelli abbia effigiato il principale committente della tavola, vale a dire Iacopo Vagnucci123. In effetti, la collocazione del cortonese nell’impianto iconografico del dipinto e, in generale, di tutta la cappella è molto chiara, suggerendo alcuni significati che, a molti spettatori dell’epoca, non dovevano certo sfuggire: egli da una parte è affiancato a san Lorenzo, patrono di Perugia, a sottolineare un legame particolarmente forte con la cattedrale omonima, alla cui ricostruzione e decorazione il prelato aveva dato un contributo importante124; dall’altra si contrappone specularmente a sant’Onofrio, cui il Vagnucci era devotissimo, e al quale aveva consacrato la cappella fondata nel transetto destro

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del duomo; Onofrio, a sua volta, si trova in parallelo con un santo eremita ben più illustre, Giovanni il Battista125. La proposta del Mancini è stata respinta dalla maggior parte degli studiosi del ’900, per cui, anche recentemente, si è tornati a sostenere l’antica attribuzione del Vasari, ritenuta più ragionevole nel contesto del duomo perugino (nel quale sono conservate le ceneri del santo martire e compatrono della città)126. Tuttavia è probabile che il Mancini abbia derivato la sua idea dalla più volte citata Vita di Iacopo, nella quale, fatto non trascurabile, l’ultimo estensore (che scrive nel 1594, a distanza di poco più di un secolo dalla morte del Vagnucci) argomenta, in modo preciso e circostanziato, la convinzione di riconoscere in tale figura “il vero ritratto del vescovo Iacopo”127. Ciò però non esclude che nell’effigie del cortonese, collocata in posizione troppo preminente e, addirittura, allo stesso livello degli altri santi, sia adombrata proprio la figura di sant’Ercolano: questa, come si vedrà nel prossimo paragrafo (figg. 42-43), nella sovrastante vetrata della cappella ricorreva nella medesima posizione della tavola, istituendo un parallelo implicito con il ritratto fisionomico del vescovo Vagnucci che, pertanto, si presentava come l’ultimo degno successore del defensor civitatis, facendosi in sostanza passare per esso. È invece da escludere l’ipotesi della Keach che, partendo da una interpretazione più letterale dell’iscrizione perduta, individua nel personaggio in questione san Dionigi, eponimo di Dionisio (o Dionigi) Vagnucci, nipote e successore di Iacopo sulla cattedra episcopale: in effetti la memoria attribuisce allo zio solo la fondazione della cappella, mentre la decorazione della stessa (compresa la commissione della pala d’altare) spetterebbe al nipote128. Semmai, data l’assenza dell’aureola e di una tipizzazione pari a quella che caratterizza gli altri santi, la figura potrebbe rappresentare lo stesso Dionisio, ma è assai più plausibile che il vescovo perugino in carica avesse voluto onorare la memoria dello zio, cui doveva i successi della propria carriera ecclesiastica e al quale spettava il vero merito dell’impresa129. In conclusione, l’età avanzata del vescovo che ammiriamo nella tavola e il fatto stesso che Iacopo, committente “indiretto” dell’opera, fosse ancora in vita nel 1484 rendono molto probabile, come sostiene lo Scarpellini, che il ritratto sia proprio quello del più anziano dei Vagnucci130.

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Il filone “locale” del san Nicola di Bari È stato scritto che la “monumentalità della figura piramidale avvolta nel piviale” rievoca, ancora una volta, possibili precedenti di Piero della Francesca131. Si può ritenere, piuttosto, che l’effigie di Iacopo ricordi da vicino un bellissimo ritratto realizzato da un altro protagonista del primo Rinascimento, fra Giovanni da Fiesole detto il Beato Angelico (1395 ca1455): mi riferisco alla Pala Guidalotti, oggi nella Galleria Nazionale dell’Umbria, dove il san Nicola di Bari è davvero un “gemello” del vescovo signorelliano (fig. 33)132. Oltre a certe caratteristiche fisionomiche del nostro personaggio, diversi sono gli elementi in esso riconducibili al “modello” offerto dall’Angelico: la disposizione di tre quarti al fianco della Vergine, l’atteggiamento di totale assorbimento nella lettura, il pastorale sorretto dal braccio esterno (rispetto alla convergenza della figura verso il centro), il particolare della mitra vescovile appoggiata su un piano retrostante (una panca nella Pala Guidalotti, un gradino nella Pala Vagnucci). Il Signorelli, reduce dall’esperienza nei Palazzi Vaticani, dove aveva potuto ammirare gli affreschi angelicani della cappella Niccolina, potrebbe essersi ispirato al polittico già collocato nella chiesa perugina di San Domenico per caratterizzare e nobilitare la figura del Vagnucci133. Tra l’altro, è da notare come, nell’ambiente della pittura umbra, la pala del frate domenicano segni una precoce penetrazione del gusto fiammingo, che ha modo di esercitare tutta la sua suggestione proprio nella tavola del Signorelli e, in maniera particolare, nella rappresentazione del vescovo. Tuttavia, nonostante l’influenza delle Fiandre (improntata alla mimesi realistica di Jan Van Eyck), nel nostro Rinascimento il ritratto, soprattutto dalla seconda metà del ’400, tende a ripudiare la concretezza per una resa ideale e monumentale del soggetto, “con l’arrivare alla realtà del modello in un secondo tempo, dopo averne preideata l’immagine d’insieme” (magari ispirandosi ad un precedente illustre)134. Così il Signorelli sembra inserire la sua figura in un filone iconografico “locale” relativo al san Nicola di Bari, filone che fa capo all’Angelico e del quale, dopo la Pala Vagnucci, seguiranno numerosi esempi: addirittura è il giovane Raffaello che, nella Pala Ansidei del 1505-1507 (Londra, National Gallery), si ispira palesemente alla tavola del

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Fig. 33 Beato Angelico, Polittico Guidalotti, part. con la figura del san Nicola di Bari. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria.

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Signorelli per la figura di san Nicola, oltre che per la Vergine e il Battista peruginesco; medesimo discorso per Domenico Alfani (Pala della Sapienza Vecchia nella Galleria Nazionale dell’Umbria, 1518) e Pompeo Cocchi (Pala di San Nicola nel Museo Capitolare di Perugia, 1519-1529), i quali prendono chiaramente spunto dall’effigie del Vagnucci per il loro santo di Bari135; lo stesso Signorelli ne replicherà l’impostazione generale nel san Nicola della Pala di Montone (Londra, National Gallery, 1515), anch’esso caratterizzato dal vivace effetto illusionistico dello stolone riccamente decorato. Mentre quest’ultimo mostra alcune figure di santi, quello del piviale del nostro vescovo reca numerosi episodi della Vita della Vergine136; ricami analoghi abbelliscono la dalmatica di san Lorenzo, che mostra invece episodi della Vita di Gesù Cristo. Probabilmente il fatto non è casuale, poiché l’Ughelli ci informa che il Vagnucci ebbe sempre una spiccata devozione per la Madonna, come confermato dalle iniziative intraprese dal medesimo nel sostenere il culto delle reliquie della Vergine (cf. parr. IV, 3-4)137; allo stesso modo, non è fortuito che la veste di san Lorenzo, martire del III secolo, rechi alcune scenette della passione e resurrezione del Salvatore.

Il culto di sant’Onofrio La devozione alla Vergine non toglie che l’esistenza del Vagnucci e le imprese artistiche da lui promosse siano contraddistinte da una venerazione, se non più grande, certo più originale: quella per il santo eremita Onofrio, come riflette in modo emblematico la contrapposizione tra i due personaggi offerta dalla tavola signorelliana (fig. 34). La leggenda del santo, priva di alcuna consistenza storica, sì da apparire un semplice racconto edificante, ebbe grandissima fortuna in Oriente, essendo nota in diverse recensioni (in greco ed altre lingue orientali): la Vita più diffusa, conservata in varie redazioni, era opera greca di un certo Pafnuzio (in copto “Dio mio”), monaco egiziano del V secolo che narra di aver “convissuto” nel deserto della Tebaide con il singolare eremita, apprendendone la storia ed essendo testimone diretto dei suoi ultimi giorni di vita138. La conoscenza della leggenda ci permette non solo di decifrare meglio la Pala di Sant’Onofrio139, ma anche di riscontrare l’esempio del santo nella vicenda umana del Vagnucci, sia per quanto riguarda l’aspirazione di costui alla pace e alla solitudine,

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Fig. 34 Pala di Sant’Onofrio, part. con la figura di sant’Onofrio.

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Fig. 35 Policleto di Cola (?), Sant’Onofrio, prima metà del XV secolo. Perugia, chiesa di Santa Maria Nuova.

sia per quanto concerne il suo impegno costante sul versante sociale ed assistenziale140. Naturalmente in Occidente il culto di Onofrio era piuttosto scarso, anche se in Italia, tra il XII e il XV secolo, le sue immagini compaiono con relativa frequenza specie laddove, a partire dal VI secolo, si era manifestata con più forza l’influenza della cultura orientale (in virtù della conquista bizantina della penisola e della permanenza di alcuni territori sotto Bisanzio anche dopo l’occupazione longobarda), a maggior ragione in contesti monastici o eremitici141: è anche possibile che sulla devozione del Vagnucci abbia influito proprio la conoscenza di insigni prelati orientali, quali Gregorio III Mammas (patriarca di Costantinopoli, città che annoverava ben due oratori dedicati al santo) e il Bessarione (arcivescovo di Nicea). Anche se in area longobarda non mancano gli esempi (probabilmente perché la figura dell’anacoreta, “selvaggio” e consunto dagli stenti, risultava congeniale alla dimensione “espressionistica” della cultura barbarica), non è raro imbattersi nelle immagini del santo soprattutto nei territori rimasti più a lungo sotto la dominazione bizantina: l’Italia meridionale, l’area veneta, il Lazio e il cosiddetto Corridoio Bizantino (sull’asse Roma-Ravenna)142. In particolare a Perugia, già roccaforte del Corridoio, dal 1380 è attestata l’esistenza di una cappella di Sant’Onofrio presso le carceri del comune, nella zona del Campo di Battaglia sottostante alla piazza del Sopramuro, cappella la cui ufficiatura venne affidata, a partire dal 1396, ai Servi di Maria di colle Landone e, successivamente, di Santa Maria Nuova (fig. 35)143. Malgrado la mancanza nella regione di una radicata cultura bizantina, il culto del nostro santo risulta ben attestato pure in Toscana, dove una compagnia detta dello “spedale di Sant’Onofrio” operava a Siena sin dal 1348144: proprio la scuola pittorica senese, la più “orientale” tra quelle della regione, ha dato un contributo rilevante alla diffusione delle immagini del santo in Toscana145.

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Fig. 36 Jacopo di Mino del Pellicciaio (?), Crocifissione con i Dolenti e i santi Onofrio e Margherita di Cortona, XIV secolo. Cortona, chiesa di San Francesco.

Ma è soprattutto a Cortona che tale culto appare assai radicato, come testimoniano principalmente tre fatti: innanzitutto, il nome “Onofrio” veniva con notevole frequenza imposto ai rampolli delle famiglie cortonesi, e non ci stupisce constatare come uno dei quattro (o cinque) fratelli di Iacopo si chiamasse proprio Onofrio (nome che ricorre spesso nella discendenza della famiglia); in secondo luogo, nelle chiese cortonesi l’immagine del singolare eremita appare associata a quelle di altri santi molto venerati: così nella controfacciata sinistra della chiesa di San Francesco (Crocifissione con i dolenti e i santi Onofrio e Margherita di Cortona; fig. 36), così nella parete sinistra della chiesa della compagnia di San Niccolò (Madonna col Bambino tra i santi Rocco, Sebastiano, Cristoforo, Paolo, Caterina, Barbara, Nicola e Onofrio)146; ma il dato certamente più importante è costituito dal fatto che, sin dal XIII-XIV secolo, operava a Cortona un ospedale intitolato ai santi Antonio ed Onofrio, ospitato nei locali dell’attuale chiesa di Sant’Antonio (cf. par. IV, 3), mentre non lontano dalla città, in località Croce di Teverina, esisteva un eremo di Sant’Onofrio (oggi distrutto), fondato e dipendente dalla comunità agostiniana di Cortona147. Comunque, al di là delle attestazioni presenti sia nella natia Cortona che nel territorio della propria diocesi, la devozione del Vagnucci per il santo trova la sua spiegazione in una constatazione molto interessante: a Firenze, città dalla quale Cortona dipendeva politicamente e con la quale Iacopo mantenne rapporti costanti, sin dal suo “battesimo” nella vita della corte pontificia, Onofrio era non solo il titolare del convento omonimo in via

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Faenza (che dal 1430 obbediva al monastero di Sant’Anna a Foligno), ma soprattutto il protettore della corporazione dei tintori di lana, i quali concentravano i propri opifici lungo corso dei Tintori (che da essi trae il nome sin dal ’300) e l’attuale via Tripoli, dunque in prossimità delle acque dell’Arno, necessarie ai processi di lavorazione148. All’angolo tra via Tripoli e via de’ Malcontenti, l’arte si riuniva in una chiesa o cappella dedicata al santo, alla quale, probabilmente già dal 1280, era annesso un ospedale mantenuto a spese della corporazione e destinato alla cura ed accoglienza dei suoi membri149. Come sappiamo, Francesco ed Angelo Vagnucci, rispettivamente padre e zio di Iacopo, esercitavano una fiorente attività proprio nel settore della lana, il cui commercio si apriva inevitabilmente in direzione di Firenze, alla quale Cortona soggiaceva anche dal punto di vista dell’assetto corporativo150. Nel ’600 il culto di Onofrio da parte dei tintori è attestato anche in Umbria, specialmente a Perugia, dove, sin dalla prima metà del ’400, l’arte si riuniva nella chiesa di Santa Elisabetta alla Conca151. Sempre nel ’600 (e nel secolo successivo) la devozione dei Vagnucci per il santo anacoreta risulta ancora viva, poiché tra le pergamene della famiglia si conservano alcuni brevi papali che permettevano di lucrare indulgenze in una cappella di Sant’Onofrio ai Palazzi (nella diocesi di Montepulciano), in prossimità della villa che i Vagnucci possedevano a nord di Petrignano del Lago (cf. appendice C)152.

6. Le vetrate (1484 ca) Il programma decorativo della cappella Alla confusione degli studiosi, circa l’ubicazione della cappella di Sant’Onofrio nel XV-XVI secolo, è in parte connessa l’incertezza riguardante la disposizione delle vetrate della medesima153. Tuttavia, fatta eccezione per chi, sulla scia del Bombe (1912), ritiene che i pannelli figurati provengano dall’attuale oratorio, non sussistono dubbi sull’originaria collocazione degli stessi nella testata del transetto settentrionale154: qui si trovava la pala d’altare del Signorelli, con la quale le vetrate erano innegabilmente collegate sotto il profilo iconografico. Il problema da risolvere, semmai, è capire come i pannelli fossero distribuiti nella trifora del primo ordine e come la

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bifora del secondo ordine, sopra il cornicione a mensole, entrasse a far parte del progetto decorativo. Ebbene, la solita Vita di Iacopo ci offre, a questo proposito, l’indicazione in assoluto più importante: il passo che tratta della cappella di Sant’Onofrio si trova nell’ultima integrazione del testo, quella risalente al 1594, registrando dunque una situazione anteriore alla costruzione della cappella di Santo Stefano e alla conseguente demolizione dell’altare di Sant’Onofrio (1608). L’estensore afferma chiaramente che nella vetrata maggiore del sacello comparivano gli stessi santi della tavola signorelliana, con la sola eccezione dell’angelo sostituito dalla figura di San Girolamo; inoltre descrive minutamente la disposizione degli stemmi vescovili del Vagnucci, ripetuti ben cinque volte (compresi i due della bifora)155. Alla luce di questo passaggio ed ipotizzando una perfetta corrispondenza tra vetrata e dipinto, persino nelle posizioni dei singoli santi, è possibile ricostruire il progetto iconografico complessivo della cappella, esemplificato dal grafico 2. L ORSO

Bifora

Pala

Battista >

Madonna col Bambino

< Lorenzo

Onofrio >

Girolamo

< Ercolano

L

Trifora

L

>

L



< ORSO

< ORSO

Battista >

Madonna col Bambino

< Lorenzo

Onofrio >

Angelo musicante

< Vagnucci

Natività del Battista

Iscrizione 1484

Martirio di san Lorenzo?

ORSO

ORSO



< ORSO

>

>

L

< ORSO

Altare Pietra tombale

Iscrizione funeraria



< ORSO Mitra vescovile

L



Croce vescovile

Figura orientata a destra

>

<

Figura orientata a sinistra

Pannelli conservati ed esposti

Grafico 2 Schema ricostruttivo del programma iconografico della cappella di Sant’Onofrio nel duomo di Perugia.

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San Lorenzo e sant’Onofrio, titolari rispettivamente della cattedrale e della cappella omonime, compaiono due volte come il gruppo della Madonna col Bambino che, alla propria destra (dunque in posizione privilegiata), trova sempre il Battista. Ai lati della Vergine, le figure sembrano disposte secondo due temi definiti: a sinistra i santi Battista e Onofrio sono uniti dalla vita eremitica; a destra i due patroni di Perugia, il diacono Lorenzo e il vescovo Ercolano, quest’ultimo implicitamente replicato nel ritratto del vescovo Vagnucci, sono accomunati dalla dignità ecclesiastica. Nella vetrata, al posto dell’angelo musicante della tavola, compare San Girolamo raffigurato nella “versione umanistica” tipica del ’400, cioè in abito cardinalizio, nonché assorto nel medesimo esercizio di lettura del prelato cortonese: trovandosi anche in posizione intermedia, egli sembra rappresentare il punto di convergenza tra l’ideale anacoretico (simboleggiato dal leone) e l’esigenza dottrinale dell’uomo di Chiesa (indicata, come per san Lorenzo e il vescovo Vagnucci, dal libro), due istanze che sappiamo ben presenti nella personalità del fondatore della cappella. Prima di passare all’esame dei pannelli superstiti, onde confermare la validità dell’ipotesi sopra menzionata, è indispensabile ricostruire mentalmente l’altezza originaria delle trifore del transetto (entrambe mutile nella parte bassa), analizzare le scarne indicazioni contenute nella più remota letteratura periegetica ed accennare alla travagliata vicenda delle vetrate, infine approdate nel Museo del Tesoro di San Francesco ad Assisi.

L’altezza della vetrata principale Il limite inferiore del finestrone quattrocentesco si scorge chiaramente sul lato sud del duomo, dove, guardando sopra e sotto la volta della seconda campata della Loggia di Braccio, si vede come l’antica apertura sia stata murata in basso con piccoli mattoncini rettangolari; anche all’interno, lo sguancio nella parete è stato debitamente accorciato con un riempimento murario di grossolana fattura156. Invece sul lato nord, che è quello che ci interessa, non è possibile compiere una simile verifica, poiché al transetto è addossato l’edificio settecentesco del nuovo oratorio di Sant’Onofrio; tuttavia internamente si può ancora notare come lo sguancio nella parete, visibile in tutta la sua lunghezza primitiva, vada a scomparire dietro l’altare di Santo

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Stefano, il cui frontone curvilineo, in origine, venne lasciato interrotto proprio per non coprire la vista della vetrata (fig. 16)157. Comunque, sulla base del rilievo metrico del finestrone meridionale (fig. 37) ed ipotizzando uno spessore di 15 cm per la cornice mancante in basso, è possibile stabilire, per entrambe le trifore, un’altezza di 6,2 m circa per la luce centrale e di 5,7 m circa per le luci laterali158. Tenendo conto che la Madonna col Bambino (fig. 38), il più integro dei pannelli rimasti, misura ben 285 cm, l’altezza delle luci del finestrone settentrionale permette perfettamente la sovrapposizione su due livelli di sei santi, ai quali bisogna aggiungere lo spessore degli elementi decorativi (compresi gli stemmi in basso)159. Si tenga poi presente che, grazie ai ponteggi allestiti per la recente pulitura delle volte della cattedrale, è stato possibile verificare che le medesime luci sono più larghe (86 cm circa) di quelle della trifora corrispondente sul lato sud, a fronte di un assottigliamento dei due pilastrini divisori (17 cm circa): il che giustifica la larghezza (87 cm) del telaio della stessa Madonna col Bambino.

Fig. 37 Rilievo metrico del transetto sud della cattedrale di San Lorenzo a Perugia.

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Fig. 38 Vergine col Bambino e due putti. Assisi, Museo del Sacro Convento.

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Storia dei pannelli attraverso le fonti Nella letteratura perugina, la più antica menzione delle vetrate spetta a Cesare Crispolti iunior, il quale afferma che Dionisio Vagnucci “adornò detta cappella di una bella invetriata”160. Ma di gran lunga più illuminante è il seguente passo del Lancellotti161: Dall’istesso [Iacopo] Vannucci fu adornata la cappella, come chiaramente pruovano l’armi di quella Casa colorite, con le due invetriate che sopra vi si vedono, venendo particolarmente la maggiore lodata dagli intendenti e per l’artifitio e per la vivacità oggi affatto perduta dei colori. In quest’ornamento vogliono avesse ancora qualche parte il vescovo Dionigi Vannucci, nipote di Giacomo.

Questo brano ci offre alcune conferme preziosissime: primo, l’altare di Sant’Onofrio si trovava all’interno del transetto, proprio sotto la trifora; secondo, il programma decorativo della cappella coinvolgeva anche la bifora; terzo, l’arme della famiglia Vagnucci compariva più volte in entrambe le finestre; quarto, i pannelli della vetrata maggiore, oltre ad essere di più alta qualità artistica, alla fine del ’600 si trovavano in uno stato di conservazione migliore rispetto a quelli della bifora (che infatti non si sono conservati)162. Quest’ultimo particolare trova riscontro in una visita pastorale del 1660, nella quale il vescovo Marco Antonio Oddi (1659-1668) loda la vetrata che, “lapidibus intersecta et pluribus sanctis imaginibus insignita”, nobilitava con la sua esuberanza di luce e colore l’altare di Santo Stefano163. Prima ancora del Lancellotti, gli stemmi Vagnucci vengono menzionati dal Bigazzini a proposito di Iacopo: “l’arme di lui è nell’invetriata sopra l’altare di Santo Stefano [...], fatta fare da uno di questi vescovi di Casa Vannucci”164. Nei primi anni del ’700, in seguito ai lavori di restaurocostruzione del nuovo oratorio di Sant’Onofrio, la cui fabbrica andava a coprire la metà inferiore della trifora del transetto, i pannelli vennero asportati e nel 1765 acquistati dai francescani di Assisi, per esigenze connesse con la manutenzione e sostituzione delle vetrate nelle chiese superiore ed inferiore della basilica di San Francesco; analoga sorte toccò nel 1782 alle vetrate provenienti dalla trifora absidale del duomo di Foligno. Entrambi i documenti di vendita sono stati pubblicati dal

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Fig. 39 Sant’Onofrio. Assisi, Museo del Sacro Convento.

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Fig. 40 San Girolamo. Assisi, Museo del Sacro Convento.

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Fig. 41 J. A. Ramboux, disegno di alcuni pannelli di vetrata provenienti dalle cattedrali di Perugia e Foligno, 1836.

Giusto, ma da essi non si ricava granché165: nel primo caso si parla soltanto di un “finestrone di vetri colorati che stava sopra l’altare di Santo Stefano”, venduto per il prezzo di venti scudi. Dopo la rimozione, due sommari accenni alle vetrate non più in situ si trovano nell’Orsini e nel Siepi166: il primo menziona “un’invetriata al di sopra tutta dipinta, colla Madonna, san Lorenzo, ed un’altra santa, e diversi adornamenti” (nella nota: “i pezzi di questa invetriata furono dati ai padri Conventuali di Assisi”); il secondo, ancora più vagamente, ricorda una “finestra tutta formata a vetri colorati rappresentanti la Vergine ed alcuni santi, gli avanzi della quale invetriata, tolti nel 1765, furono poi impiegati per le finestre della basilica di San Francesco”. La genericità di questi accenni si giustifica col fatto che nessuno dei due scrittori aveva visto le vetrate nella loro collocazione originaria; dalle espressioni usate (“avanzi”, “pezzi”) si desume inoltre l’avanzato stato di deterioramento dei pannelli. La “santa” menzionata dall’Orsini potrebbe essere identificata con Sant’Onofrio (fig. 39), all’epoca di certo illeggibile nella zona del

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volto e quindi “facilmente” scambiabile per una Maddalena penitente o per una santa Maria Egiziaca, ad esempio; più significativo il riferimento ai “diversi adornamenti”, vale a dire gli stemmi vescovili ed altri motivi ornamentali (si notino i tondi decorativi sotto il San Girolamo; fig. 40). Acquistati dai francescani di Assisi, i pannelli andarono a colmare le luci di destra della terza e quarta bifora dall’ingresso della parete meridionale (o sinistra) della chiesa superiore: qui li vide nel 1836 il Ramboux che, incaricato di redigere una relazione sullo stato di conservazione delle vetrate, disegnò varie figure, tra cui la Madonna e il Sant’Onofrio (fig. 41)167. Dopo il drastico restauro del milanese Giovanni Bertini (1838-1843), che intervenne pesantemente sulle figure con rifacimenti e sostituzioni di frammenti, i pannelli vennero documentati dalle prime fotografie, pubblicate dal Giusto nel 1911168. Descrizioni della chiesa superiore ed ulteriori foto-

Grafico 3 Stato di conservazione dei pannelli di vetrata provenienti dal duomo di Perugia ed esposti nel Museo del Sacro Convento di Assisi (per la lettura del grafico, cf. nota 170).

Sant’Onofrio

San Girolamo

Vergine

San Lorenzo

cm 87 x 268

cm 86,5 x 290

cm 87 x 285

cm 85 x 174

5a, 5b, 5c

6a, 6b, 6c

4a, 4b

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grafie testimoniano che essi rimasero in quella posizione fino al secondo dopoguerra, quando, in seguito alla ricostruzione del ciclo di vetrate sugli Apostoli, i pannelli furono rimossi e destinati ad altre collocazioni169. Approdati infine nei depositi del Sacro Convento, in seguito solo la Madonna e il Sant’Onofrio sono stati sottoposti a pulitura e restauro (1989).

Ricostruzione virtuale della vetrata maggiore Veniamo ora alla lettura delle immagini170: le figure hanno le medesime proporzioni e si stagliano tutte su un campo di colore azzurro, intenso come quello che fa da sfondo alla Sacra Conversazione signorelliana171; la larghezza è la stessa per tutti i pannelli (87 cm circa, escluso il San Lorenzo che misura 85 cm), senza considerare il bordo bianco, di 4 cm circa, aggiunto in epoca successiva ed oggi rimasto solo ai lati del San Girolamo. Per quanto riguarda il registro inferiore della trifora, la disposizione e l’orientamento delle figure, l’uniformità e la continuità degli elementi architettonici in cui sono inserite, nonché la struttura stessa dei pannelli vetrari, confermano l’allineamento da sinistra verso destra di Sant’Onofrio, San Girolamo e Sant’Ercolano (fig. 42). Onofrio (fig. 39), con le mani giunte in atto di adorazione, converge a destra verso la Vergine (fig. 38), a sua volta lievemente girata con il busto verso sinistra. Girolamo (fig. 40), trovandosi sotto la Madonna ed essendo assorto nella lettura, mantiene una posizione quasi frontale, anche se di poco convergente verso il leone: infatti, nonostante la frontalità del volto (non autentico) e la scomparsa di un piede, è verosimile che in origine la figura fosse leggermente disposta di tre quarti verso destra172. I tabernacoli entro cui figurano i due santi sono identici in tutto: basamento, colonnine, coronamento, colorazioni del marmo, pavimento policromo sopra e sotto il gradino. Sotto il San Girolamo si trova un fregio a tondi che, molto probabilmente, completava in basso tutte e tre le luci della vetrata, separando i baldacchini dagli stemmi vescovili del Vagnucci: le stelle verdi inscritte nei tondi sono le stesse che decorano il fregio dei due tabernacoli. Il Sant’Onofrio è in buono stato di conservazione, se non fosse per il pessimo volto che, già scambiato dal Giusto per originale, è stato asportato dal restauro del 1989173: la figura è connotata secondo la tradizione, esattamente come nella tavo-

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Fig. 42 Ricostruzione virtuale della vetrata maggiore della cappella Vagnucci, opera di N. di Monte su cartoni di B. Caporali, 1484 ca.

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Fig. 43 Sant’Ercolano. Assisi, depositi del Sacro Convento.

la del Signorelli, della quale tuttavia non riprende l’esasperato realismo, proponendo una interpretazione più dolce e serena del santo anacoreta. Per quanto concerne il San Girolamo, il Bertini dovette ricostruire, oltre al volto (anch’esso ritenuto autentico dal Giusto), tutta la parte inferiore della figura, che risulta malamente rattoppata con pezzi di vetro rosso: il santo eremita, secondo un inveterato anacronismo e un’errata esegesi medievale della sua vita, è rappresentato in assisa cardinalizia, mentre l’esperienza anacoretica sarebbe simboleggiata, secondo alcune interpretazioni, dalla figura del leone (ma si noti che la presenza di quest’ultimo è una coperta allusione alle origini cortonesi del committente!); nell’iconografia cristiana non è insolito trovare Girolamo associato ad Onofrio174. Passando alla figura di Sant’Ercolano (fig. 43), bisogna sottolineare come il pannello, ignorato da tutti gli studiosi dopo la descrizione e le fotografie del Giusto, quindi dato per disperso, si trovi invece nei magazzini del Sacro Convento (Elenco, 1991, nn. 7b-d), per quanto rimaneggiato dal Bertini così drasticamente da essergli addirittura attribuito175: perduta la conclusione dell’edicola, rimangono a testimoniare l’originale i pannelli 7b-c. La figura è orientata a sinistra (convergendo verso il Bambino in braccio alla Vergine) e si trova sotto un tabernacolo identico a quelli dei due santi descritti in precedenza (come indicano le colonnine tortili, gli archetti dentellati, la volta verde). Diversamente dal vescovo della Pala Vagnucci, qui la figura risulta identificata in modo inequivocabile dal grifo perugino del vessillo che sventola dal pastorale: già si è detto che proprio la corrispondenza precisa tra vetrata e tavola istituisce un parallelo implicito tra la figura del santo e il probabile ritratto del vescovo Iacopo Vagnucci. Anche nel registro superiore della trifora, ragioni di simmetria con la pala signorelliana suggeriscono l’allineamento da sinistra verso destra di un San Giovanni Battista (mai ipotizzato dagli

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studiosi), della Madonna col Bambino e di San Lorenzo (fig. 42). La Vergine (fig. 38) è disposta esattamente come nel dipinto, ma questa volta il Bambino è adagiato sulla coscia destra della Madre, seduto su un piccolo cuscino rosso, mentre con la destra benedice e con la sinistra regge il globo dorato176. Il trono lapideo della Madonna è sormontato da un baldacchino concluso diversamente (con una cupoletta) rispetto ai pannelli del registro inferiore, mentre il gradino su cui poggia presenta una maggiore prominenza, anche se per il resto è identico (si vedano in particolare i riquadri decorativi nello spessore dello scalino). Nella parte superiore del pannello, quasi completamente integro, è evidente come il Bertini, dovendolo riadattare alle finestre della basilica francescana, abbia modificato l’originario profilo trilobato con l’aggiunta di due cherubini, frutto di reimpiego e forse provenienti da uno dei due quadrilobi della trifora perugina177: confrontando i volti con quello del Bambino, in particolare nel modo di disegnare le labbra e le ciocche dei cappelli, sembra di trovarsi di fronte alla stessa mano. Altri due putti di grossolana fattura vennero aggiunti in epoca successiva, ma sono stati rimossi col restauro del 1989178. Per quanto riguarda infine la figura del San Lorenzo (fig. 44), orientata a sinistra, non conosciamo il basamento e la conclusione del tabernacolo che, comunque, mostra caratteristiche diverse in confronto alle edicole del primo livello e tali da accostarlo, invece, al baldacchino che sovrasta il trono della Madonna179. Rispetto alla pala signorelliana, qui il santo è connotato anche dalla graticola del martirio, oltre ai consueti attributi (palma, libro, dalmatica, tonsura). Durante il restauro ottocentesco, alla figura venne aggiunto un gradino (oggi rimosso e conservato nei magazzini) su cui poggiavano dei piedi addirittura rivolti dalla parte sbagliata (a destra).

Fig. 44 San Lorenzo. Assisi, Museo del Sacro Convento.

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Fig. 45 Piedi del Battista. Assisi, depositi del Sacro Convento.

Osservando attentamente questo pannello (Elenco, 1991, n. 4c), ho scoperto di trovarmi di fronte proprio ai muscolosi piedi del Battista (fig. 45): non solo il gradino e il pavimento sono del tutto identici a quelli della Madonna, ma è soprattutto la presenza della porzione inferiore della croce astata a fugare qualsiasi dubbio sull’identificazione del santo. Come già anticipato, la Vita di Iacopo ci permette di conoscere con estrema precisione la disposizione degli stemmi vescovili (orsi rampanti coronati). Nella trifora si trovavano ripetuti in piccole dimensioni sotto i tabernacoli del registro inferiore, da questi separati attraverso il fregio a tondi tutt’oggi visibile sotto la figura di San Girolamo: gli orsi laterali, forse rampanti verso l’interno, erano accollati dalla mitra vescovile; diversamente quello centrale, di sicuro rampante a sinistra, era sormontato dalla croce, altro simbolo tradizionale della dignità vescovile180. Invece nella bifora soprastante, le cui luci misurano 3,2 m circa (fig. 37), gli orsi comparivano con la stessa scala delle altre figure, rispettivamente sormontati dalla mitra e dalla croce, di certo l’uno contrapposto all’altro181. Da notare che nell’arme dei Vagnucci l’orso si staglia contro un campo di colore azzurro, esattamente come avviene per i santi che decoravano la trifora e per quelli della Sacra Conversazione del Signorelli: l’unità del progetto decorativo della cappella è davvero indiscutibile; il programma è talmente coerente da poter essere ricondotto solo alla volontà dei committenti.

Commissione e artefici Terminata la ricostruzione virtuale della grande vetrata perugina, è il momento di esaminare la questione della sua progettazione e realizzazione, problema che inevitabilmente si scontra con le difficoltà in cui versa lo studio dell’arte vetraria del ’400, un’attività all’epoca molto prestigiosa e redditizia, ma

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della quale oggi rimane ben poco: proprio per questo, le vetrate del duomo di San Lorenzo rivestono una grande importanza, essendo le uniche ad essersi fortunosamente conservate delle molte che sappiamo realizzate a Perugia in quel secolo182. Una seconda difficoltà deriva dalla necessità di capire dove finisca il ruolo del pittore e dove cominci quello del maestro vetrario: sembra che dalla seconda metà del ’300 si vada verso una netta separazione dei ruoli, ma la documentata attività in questo settore di pittori quali Benedetto Bonfigli e Bartolomeo Caporali contribuisce a “sfumare”, per quanto riguarda il caso di Perugia, certe distinzioni troppo rigide. In particolare, dai documenti risulta l’esistenza di un rapporto di collaborazione tra Caporali e Bonfigli da una parte e i maestri vetrari Francesco Baroni e Nerio di Monte di ser Cola (nipote del precedente) dall’altra: una cooperazione che ha inizio quando, nel 1450, tutti e quattro gli artisti sono presenti a Roma nei cantieri vaticani di papa Niccolò V183. Nella seconda metà del ’400, Nerio di Monte è senza dubbio il vetratista più attivo in Umbria, ricevendo importanti commissioni a Foligno, Orvieto e soprattutto nella natia Perugia, dove pare assumere il monopolio dell’arte vetraria cittadina: il che rende molto probabile che il maestro perugino sia l’autore materiale anche delle vetrate di San Lorenzo, verosimilmente realizzate durante la messa in opera di quelle destinate al vicino palazzo dei Priori (14831484), per essere installate, insieme alla pala signorelliana (alla quale erano legate da unità progettuale), forse alla metà del 1484 (come documentato dalla nota iscrizione), comunque non oltre la primavera del 1485. Ciò è confermato dal fatto che il gruppo proveniente dal duomo di Perugia mostra fortissime analogie con la quasi coeva serie folignate (fig. 47): quest’ultima, infatti, venne realizzata tra il maggio del 1485, quando vediamo che il Capitolo del duomo di Foligno commissiona a Nerio la vetrata “cum sex figuris” del coro (per la quale era stato destinato un lascito testamentario), e il novembre del 1488, allorché Niccolò di Liberatore detto l’Alunno ne diede una perizia e “magister Nerius Montis de Perusio” rilasciò una quietanza di pagamento per una somma di 100 ducati d’oro184. L’omogeneità delle due serie, che difatti è stata responsabile del loro destino unitario con l’acquisto dei francescani di Assisi nella seconda metà del ’700, è più che evidente: a parte

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il San Lorenzo di Perugia (fig. 44), le inquadrature architettoniche dei santi sono tali e quali, così come identici sono i due troni marmorei della Vergine. Come si evince dal documento del 1485, queste analogie non sono dovute soltanto ad un’abitudine del maestro vetrario, ma rispondono anche a precise disposizioni dei committenti di Foligno che, esplicitamente, chiedono di prendere a modello la vetrata, appena compiuta dal medesimo artefice, della cappella di Sant’Onofrio a Perugia, nota come la “cappella del vescovo”. Forme e trattamento delle singole figure, invece, mostrano come il vetratista perugino si sia avvalso, per i cartoni della serie folignate, non del disegno di artisti locali, ma di modelli forniti da maestranze transalpine, probabilmente originarie dell’Alsazia185. Nei documenti il pittore più frequentemente associato a Nerio di Monte è Bartolomeo Caporali (Perugia, 1420 ca1503/5): tra i due sembra stabilirsi un vero e proprio sodalizio artistico. Questo fatto, unitamente al confronto con opere coeve del pittore, rende molto plausibile l’ipotesi che sia stato proprio il Caporali a disegnare i cartoni per le vetrate di Perugia. Anzi, la definizione chiaroscurale delle figure, dovuta ad una stesura molto accurata della grisaglia, farebbe pensare ad un intervento diretto del pittore nella bottega di Nerio di Monte186. Il primo a suggerire il nome del Caporali, sulla base di osservazioni di carattere stilistico, è il Marchini (1956) che, successivamente (1973), chiama in causa lo stendardo di Civitella d’Arna (1492)187; più recentemente (1996), invece, la Benazzi propone di confrontare il pannello della Vergine (fig. 38) con la Madonna del Davanzale del Museo di Capodimonte a Napoli (1484), con la Pietà di San Martino in Colle e con quella del Museo Capitolare di Perugia (1486; fig. 46)188. In ogni caso, il “quieto valore illustrativo” e la “riposata dolcezza” già individuati dal Marchini sarebbero quelli delle opere tarde di Caporali, quando il pittore, abbandonate le suggestioni giovanili della pittura fiorentina, si assestò, nella fase finale della propria carriera, su un linguaggio facile e provinciale, secondo lo stile dominante del Perugino189. Prima del Marchini e a partire dal Thode (1885)190, il nome più frequentemente ripetuto è quello di Fiorenzo di Lorenzo, con la sola eccezione del Bombe (1912) e del Kleinschmidt (1915), i quali preferiscono parlare di Signorelli quale autore sia della pala che dell’intera vetrata (evidente è la suggestione

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Fig. 46 B. Caporali, Pietà, 1486. Perugia, Museo Capitolare di San Lorenzo.

esercitata dal ricorrere in entrambe delle medesime figure, anche se con caratteri stilistici molto diversi)191. Diversi sono i canali attraverso i quali il Vagnucci potrebbe aver contattato il sodalizio Nerio-Caporali. Prima di tutto, abbiamo già visto che i due lavorarono nei Palazzi Vaticani per Niccolò V nel 1450-1453, proprio negli anni in cui Iacopo, già cubiculario del papa ed ora vescovo di Perugia, risiedeva con vari incarichi a Roma, dopo aver fatto ritorno, nel gennaio del 1450, dalla brevissima esperienza bolognese192. Da notare, poi, che Bartolomeo era fratel-

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lo del miniatore Giapeco Caporali, collaboratore di Pierantonio di Niccolò del Pocciolo, il quale realizzò per il Vagnucci il messale ms. 10 della Biblioteca Capitolare di Perugia (ottavo decennio del ’400): negli stessi anni, Bartolomeo era molto vicino all’ambiente della cattedrale (dominato dalla personalità del cortonese), sia per quanto riguarda la decorazione interna del “tempio” (arredi dipinti della cappella della Madonna del Verde, 1477-1479), sia per quanto concerne la propaganda religiosa connessa al nuovo culto perugino del Sant’Anello (Trittico della confraternita della Giustizia, 1473-1475), nella cui compagnia il pittore risulta iscritto sin dal 1487193.

Ricostruzione virtuale della vetrata del duomo di Foligno Effettuando la “ricostruzione” della vetrata perugina, è stato indispensabile compiere uno studio analogo su quella già collocata nella trifora absidale del duomo di San Feliciano a Foligno, allo scopo di ben delimitare le due serie, i cui pannelli sono stati spesso confusi e interscambiati. Quanto resta della grande finestra gotica è visibile solo esternamente percorrendo via dell’Oratorio, che costeggia la tribuna absidale edificata da Bartolomeo di Mattiolo a partire dal 1457194. Tra tutti gli studiosi, solo il Marchini ha tentato una “ricomposizione” della vetrata folignate, ma in modo quasi certamente erroneo. Attraverso un’attenta lettura iconografica, tenendo conto degli aspetti strutturali e considerando la testimonianza dello Jacobilli (“resta però vestigio della dedicatione di san Giovanni Battista ne i scritti, e nelle imagini antiche; e in particolare, nelle vetriate del coro, ove si vede dipinto san Giovanni Battista a mano destra, e san Feliciano a mano sinistra”), è possibile ipotizzare la seguente disposizione delle figure195: PIETRO >

Grafico 4 Schema ricostruttivo della vetrata absidale del duomo di San Feliciano a Foligno (per lettura del grafico, cf. nota 195).

MADONNA

1+1a 2a 2b 2c BATTISTA > 3a 3b 3c

< PAOLO 7a

GIROLAMO

< FELICIANO

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Fig. 47 Ricostruzione virtuale della vetrata absidale del duomo di San Feliciano a Foligno, opera di N. di Monte su cartoni di un maestro tedesco, 1485-1488.

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Fig. 48 Vergine col Bambino e stemma della donatrice (in origine collocato sotto la figura di San Girolamo). Assisi, Museo del Sacro Convento.

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1) Confrontando le figg. 42 e 47, risulta evidente come la vetrata folignate presenti la medesima struttura di quella perugina, articolata com’è in due registri: le figure in basso sono composte di tre pannelli ciascuna e si trovano sotto edicole prive di cupoletta (dovendosi queste adattare ad un bordo rettilineo); invece le figure in alto sono suddivise in quattro pannelli ciascuna e si trovano sotto tabernacoli le cui coperture seguono il profilo curvilineo del coronamento delle luci della trifora (che nel caso di Foligno sono tutte trilobate e di pari altezza). Il Sant’Onofrio di Perugia (fig. 39) è l’unica figura non “tagliata” secondo le giunture originali, ma ad un attento esame risulta evidente come dapprima le due separazioni passassero all’altezza del bacino della figura e subito sotto il fregio del tabernacolo. 2) Le edicole del livello inferiore sono identiche in tutto, compresi il gradino e la decorazione del pavimento su cui poggiano San Girolamo e San Feliciano (figg. 52-53); analogamente, nel registro superiore, la Madonna e il San Paolo (figg. 48 e 51) sono in perfetta continuità nel pavimento (sopra e sotto lo scalino), molto diverso da quello delle figure sottostanti. 3) Pietro e Paolo (figg. 5051), nell’iconografia tradizionale spesso affiancati o in pendant, convergono al centro verso la Vergine (fig. 48), sotto la quale si trova, come a Perugia, il San Girolamo in vesti cardinalizie (fig. 52); allo stesso modo, sono contrapposti nel livello inferiore il Battista e San Feliciano (figg. 49 e 53), come testimoniato dallo Jacobilli che, diversamente da quanto sostenuto dagli studiosi, intendeva riferirsi alla “mano destra” di un osservatore che desse le spalle all’abside. Il Battista, completamente alte-

Fig. 49 Il Battista. Assisi, Museo del Sacro Convento.

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Fig. 50 San Pietro. Assisi, depositi del Sacro Convento.

rato dal restauratore Bertini, in origine era sicuramente orientato verso la nostra destra, dove indicava col braccio alzato (oggi rifatto). È da notare come la sequenza “santo eremita-Girolamosanto vescovo”, nonché la contrapposizione tra il Battista e il santo titolare del duomo, siano le stesse della vetrata perugina (rispettivamente del registro inferiore e superiore della medesima), per quanto, in questo caso, San Feliciano risulti stranamente relegato in posizione marginale. Il fatto ha una duplice spiegazione. Innanzitutto, il contesto è assai diverso da quello del duomo di Perugia, perché la trifora di Foligno non si apre in una cappella privata del transetto, ma al centro della tribuna absidale, nella quale si trova la cattedra del vescovo, la cui nomina dipende direttamente dalla Santa Sede: naturale, dunque, la precedenza accordata ai due santi “romani” sul santo “locale” Feliciano. In secondo luogo, Pietro e Paolo sono santi molto venerati a Foligno, perché, in base alla tradizione popolare, vi avrebbero transitato e soggiornato: ciò è attestato da diverse testimonianze artistiche medievali, come nella cappella dell’Assunta all’inizio di Santa Maria Infraportas, o nella navata sinistra di Santa Maria in Campis (dove i due santi affiancano proprio la Madonna del Latte), o nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo a Cancelli sopra Foligno196. 4) I due coronamenti trilobati delle luci laterali (Elenco, 1991, nn. 1+1a e 7a; figg. 54-56), già dal Marchini riferiti alla serie perugina197, probabilmente spettano a quella folignate: mentre in quello di destra (del tutto rifatto) sono visibili il profilo originario del pannello trilobato e il disegno primitivo della

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Fig. 51 San Paolo. Assisi, Museo del Sacro Convento.

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Fig. 52 San Girolamo. Assisi, Museo del Sacro Convento.

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Fig. 53 San Feliciano. Assisi, Museo del Sacro Convento.

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Fig. 54 Copertura di tabernacolo (n. 1). Assisi, depositi del Sacro Convento.

Fig. 55 Frammenti di copertura di tabernacolo (n. 1a). Assisi, depositi del Sacro Convento.

Fig. 56 Copertura di tabernacolo (n. 7a). Assisi, depositi del Sacro Convento.

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Fig. 57 Coppia di angeli. Assisi, Museo del Sacro Convento.

Fig. 58 Stemma della donatrice. Assisi, Museo del Sacro Convento.

cupola emisferica (fig. 56), in quello di sinistra (frammentario e alterato) sono manifesti i colori originari, mentre si scorge ancora qualche traccia della primitiva copertura (figg. 54-55). La pertinenza alla serie folignate di questi coronamenti è dimostrata dal già citato disegno del Ramboux (fig. 41) che, prima del restauro del Bertini, ne schizza uno sopra la figura di San Paolo. Si noti poi che i due piccoli edifici che fungono da “lanterna” delle cupolette potrebbero riprodurre caratteristiche stilizzate della facciata romanica (o secondaria) del duomo di Foligno, prima della sopraelevazione quattrocentesca. 5) Probabilmente, i due tondi con cherubini conservati in una bacheca della sala Pio XI (Elenco, 1991, nn. 12a-b; fig. 57) appartengono, come già capito dal Marchini, ad uno dei due quadrilobi della vetrata folignate198: il disegno dei volti è diverso da quello dei cherubini oggi montati sopra la Madonna di Perugia (fig. 38) e, viceversa, molto simile a quello del Bambino in braccio alla Vergine di Foligno (fig. 48). 6) Infine, il piccolo scomparto rettangolare con lo stemma della donatrice (fig. 58), la ricca vedova di un banchiere deceduta nel 1482, ci fornisce un’idea di come poteva essere quello con l’arme dei Vagnucci, che sappiamo ripetuto tre volte nella parte bassa della trifora della cappella di Sant’Onofrio a Perugia.

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NOTE 1 CRISPOLTI iunior 1648, p. 58. Il documento è riportato integralmente in NICOLINI 1992, pp. 217-220. 2 PELLINI 1664, parte I, pp. 565-566. È dunque il comune a farsi carico del progetto, “come ultimo tassello di un mosaico di ben più ampie dimensioni già in gran parte realizzato”, il che non stupisce, considerando come esso avesse trasformato in un simbolo della propria autorità il campanile di San Lorenzo, nel quale si trovava murata la cosiddetta Petra Iustitiae (SILVESTRELLI 1992, pp. 176-177): con questa lapide il comune rendeva noto nel 1234 di avere estinto il debito pubblico; l’originale è oggi conservato nella sala del Consiglio Comunale del palazzo dei Priori, mentre un calco è visibile sotto la Loggia dei Mercanti. 3 I lavori non dovevano essere molto avanti nel 1375, quando l’abate, per fare un “corridore” che collegasse la fortezza di Porta Sole alla piazza Maggiore, ordinò di scaricare la torre campanaria e quanto già esisteva del nuovo edificio (GRAZIANI \ FABRETTI 1850, pp. 217-218; CIATTI 1638, p. 102; CRISPOLTI iunior 1648, pp. 15-16; PELLINI 1664, parte I, pp. 11111112). Dopo la rivolta popolare che portò alla cacciata del francese e all’abbattimento della fortezza, si procedette alla riparazione provvisoria dei danni, a dimostrazione di come non ci fosse molta chiarezza sul da farsi: anche il campanile, benché menomato nella sua altezza, venne ripristinato (CALDERONI 1980, p. 16). Sulle vicende della cattedrale negli anni 13751435, cf. LUNGHI 1994, pp. 29-31. 4 GRAZIANI \ FABRETTI 1850, pp. 393-394; PELLINI 1664, parte II, p. 377. Sulla figura del Baglioni, cf. la seguente bibliografia: UGHELLI [1644], tomo I, coll. 1163-1164; CRISPOLTI iunior 1648, pp. 269 e 318; BAP, Belforti-Mariotti, Serie de’ vescovi..., pp. 121-123; PRONIO 1963, pp. 192-193; BAGLIONI 1964, p. 52; MONACCHIA 1992, pp. 359-362; EADEM 1995, pp. 60-62. 5 Avendo fatto della riforma e moralizzazione della disordinata vita monastica perugina l’obiettivo principale del proprio episcopato, tra il 1437 e il 1439 il Baglioni soppresse il monastero femminile di Santa Maria della Colombata (nei sobborghi di Porta Santa Susanna), ottenendo che tutti i beni della famiglia religiosa venissero incamerati dal Capitolo di San Lorenzo ed impiegati per la nascente fabbrica del duomo. Non solo: diversamente da quanto avveniva in casi simili (il trasferimento nella sede soppressa di un altro ordine) e da quanto il pontefice aveva suggerito (cioè che la chiesa del monastero dovesse essere officiata dagli stessi canonici della cattedrale), nell’aprile del 1437 il Baglioni fece scaricare buona parte dell’edificio, affinché il materiale ricavatone fosse utilizzato nel cantiere di San Lorenzo. Analoga sorte, questa volta per iniziativa comunale, toccò alle sedi delle arti dei calzolari e dei fabbri e, l’anno successivo, a quelle dei tavernieri e dei sartori, quest’ultime ospitate sotto la Loggia dei Mercanti (GRAZIANI \ FABRETTI 1850, pp. 417418 e 436; PELLINI 1664, parte II, pp. 408-409). Tali iniziative furono poi accompagnate da un rilevante sforzo finanziario, prodotto sia dall’autorità laica che da quella ecclesiastica: lo stesso vescovo Baglioni donò mille fiorini d’oro a beneficio della fabbrica (ROSSI 1864a, p. 11). La ricostruzione del duomo poteva finalmente avere inizio: già nel 1436 si parla della riapertura del cantiere (ASP, ASCP, Riformanze, n. 72 [1436], c. 158r). Nel settembre del 1437 Bartolomeo di Mattiolo da Torgiano ottenne la commissione della facciata orientale verso piazza della Paglia e del relativo portale, in seguito sosti-

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tuito da quello settecentesco di Pietro Carattoli (su Bartolomeo, magister lapidum morto a Perugia nel 1472, cf. MAGLIANI 1992, pp. 295-296): una riformanza del 1439 attesta che la facciata principale venne in parte realizzata, ma essa sarebbe stata compiuta solo nel 1452 (ROSSI 1870, pp. 5-9). I maggiori progressi, infatti, si videro nella parete meridionale verso la fontana Maggiore: nel 1439 vennero realizzati il portale secondario (poi sostituito da quello manierista di Galeazzo Alessi), il cosiddetto pulpito di San Bernardino (dal quale il frate predicò nel 1440 o nel 1441) e l’edicoletta (recante un rilievo con la Resurrezione di Cristo) che Giancarlo Gentilini ha assegnato a Pagno di Lapo Portigiani, allievo di Donatello e capomastro della fabbrica (GRAZIANI \ FABRETTI 1850, p. 442); quindi, tra il marzo del 1445 e il luglio-agosto del 1449, venne murata la cortina di pietra assisana collocata a destra del portale (ivi, pp. 567 e 618; PELLINI 1664, parte II, p. 578), in continuazione del rivestimento già esistente a sinistra dello stesso e risalente alla signoria di Ladislao di Durazzo (1406-1414). 6 Dopo un primo stanziamento di 500 fiorini da parte dei magistrati comunali, i canonici ne decretarono altrettanti; quindi, avendo il pontefice promesso un contributo pari a quello stabilito dal comune, quest’ultimo stanziò una cifra ulteriore di 1000 fiorini (GRAZIANI \ FABRETTI 1850, p. 623; PELLINI 1664, parte II, pp. 573 e 578-579). Questa nuova fase è testimoniata dal Libro della fabbrica del duomo, che registra l’andamento dei lavori dal gennaio del 1451 sino al luglio del 1455, cioè fino all’ennesima interruzione cagionata dalla pestilenza del 1456: il Libro si trova in duplice copia presso l’Archivio Capitolare di San Lorenzo e presso l’Archivio di Stato perugino (ASP, ASCP, Fabbrica di San Lorenzo, reg. 1, di cc. 272). Nel 1451 il muro verso settentrione venne allogato al maestro lombardo Gasparino d’Antonio, incaricato anche di portare a termine la parete meridionale; inoltre si lavorava alle basi dei pilastri e alle pietre per le finestre grandi del primo ordine. Nel frattempo Bartolomeo di Mattiolo completò il muro della facciata orientale, per il quale venne pagato nel 1452: a partire da quest’anno, lo stesso Bartolomeo e Ludovico d’Antonibo presero a scolpire gli ornamenti e i capitelli delle finestre, mentre si conciavano le pietre del cornicione e si fondavano le colonne (ROSSI 1864a, p. 11; IDEM 1870, pp. 9-12; MAGLIANI 1992, pp. 295 e 304-305). Nel 1457 la ripresa dei lavori coincise con un provvedimento di autotassazione stabilito dai magistrati perugini e sottoposto con successo all’approvazione del pontefice Callisto III; altri 1000 fiorini vennero poi stanziati dal comune tra il 1459 e il 1461 (PELLINI 1664, parte II, pp. 639, 653 e 664). La legge prevedeva la trattenuta di due soldi per fiorino dagli stipendi di tutti gli officiali pubblici, compresi i priori e i camerlenghi: il decreto, già varato nel 1451, venne confermato periodicamente fino alla definitiva consacrazione dell’edificio (1587); nell’aprile del 1462 fu temporaneamente sospeso, a causa delle impellenze finanziare connesse all’istituzione del Monte dei Poveri (MAJARELLI-NICOLINI 1962, p. 109). 7 Nel luglio del 1462 ci si accinse alla demolizione, questa volta ordinata dai perugini, di ciò che rimaneva del campanile di San Lorenzo, asportando la copertura in piombo e il gallo d’argento dorato che, unito alla croce, si stagliava sulla sommità della stessa (DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, p. 197): il gonfalone di San Francesco al Prato, datato 1464 ma realizzato da Benedetto Bonfigli almeno dal 1462, mostra infatti il campanile ancora svettante con due ordini di finestre. È probabilmente in questa circostanza che la Petra Iustitiae, già inserita alla base del campanile, come documenta la miniatura del ms. 975

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della BAP (ante 1343), venne murata subito sopra la Loggia di Braccio, dove già la ricorda il Crispolti nel 1648 e dove ancora la documenta una fotografia del 1890 circa (CRISPOLTI iunior 1648, pp. 60-61; SILVESTRELLI 1992, pp. 175-176 e 186-191). Ancora nel 1466 si attendeva all’abbattimento di quanto, sopravvivendo del vecchio edificio romanico, non era destinato ad essere inglobato nelle nuove strutture perimetrali: sappiamo infatti che, in quell’anno, si procedette al distacco di una devota immagine del XIV secolo (la cosiddetta Madonna del Verde), affrescata su un pilastro del duomo duecentesco. Tuttavia nel 1466 anche la facciata secondaria doveva essere giunta a compimento, se nella nicchia sormontante l’edicoletta del Portigiani venne data collocazione alla statua di Paolo II di Vincenzo Bellano (cf. par. III, 1 e nota 19). 8 In questo decennio i lavori conobbero un’accelerazione decisiva, come testimoniato dal libro di spese del 1471 (ASP, ASCP, Fabbrica di San Lorenzo, reg. 5, di cc. 187). 9 Il ciclo pittorico è articolato in due parti: la prima metà presenta quattro Storie di san Ludovico da Tolosa e venne realizzata tra il dicembre del 1454 (documento di allogazione) e il settembre del 1461 (lodo di Filippo Lippi); la seconda metà presenta tre Storie di sant’Ercolano e venne compiuta entro il 1479-1480 (MANCINI 1992a, pp. 53-66 e 78-80). Per una lettura dettagliata della scena della Seconda traslazione, cf. MANCINI 1992a, pp. 95-97; anche LUNGHI 1996, pp. 100-105. 10 L’erezione della rocca Paolina ha impresso una ferita irrimediabile al volto rinascimentale di Perugia, che gli affreschi e i gonfaloni del Bonfigli permettono di ricostruire in tutta la sua vivacità. Per un panorama dell’Umanesimo perugino, il cui fervore artistico e culturale trasformò la “città dei Baglioni” in uno dei centri più vitali del ’400, cf. MANCINI 1990, pp. 61-74; IDEM 1992a, pp. 11-27. 11 Il palazzo del Podestà, costruito ed ampliato nel corso del ’200, parzialmente distrutto da un primo incendio nel 1329, venne successivamente inglobato da quello di Braccio da Montone, e tutt’oggi ne sono visibili i resti, incorporati nell’ala destra del palazzo Arcivescovile. Frammenti della facciata realizzata da Agostino di Duccio nel 1475 sono conservati nella Galleria Nazionale dell’Umbria, il cui allestimento ne propone un tentativo di ricomposizione. 12 La maggior parte degli studiosi sostiene che l’edificio duecentesco, “grande la mittà che al presente è” (MATURANZIO \ FABRETTI 1851, p. 7), fosse diversamente orientato, con la facciata rivolta a meridione verso la “platea Magna Sancti Laurenti” (la navata coincidendo grosso modo con il transetto del duomo attuale) e con la cappella di Sant’Ercolano addossata al fianco destro dell’edificio: questa teoria è stata fissata dal “classico” studio del Calderoni che, nella sua ricostruzione, si è basato essenzialmente sulla debole testimonianza iconografica di un dipinto conservato nella Galleria Nazionale dell’Umbria (CALDERONI 1980, pp. 14-19). Si tratta di un’opera uscita dalla bottega di Meo da Siena intorno al secondo decennio del ’300 ed attribuita al cosiddetto Maestro dei dossali di Montelabate: in essa sant’Ercolano, defensor civitatis, stringe tra le mani una veduta simbolica della città, dove l’unico monumento individualizzato con relativa fedeltà è il campanile poligonale a doppio ordine di finestre (SILVESTRELLI 1992, pp. 174-175 e 184-185). La tesi del Calderoni è stata radicalmente rovesciata da Elvio Lunghi nella sua Guida della cattedrale: l’edificio duecentesco sarebbe sorto secondo il modello tipico delle chiese romaniche umbre, cioè con una cripta sottostante il piano rialzato delle navate, sfruttando la forte pendenza

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del terreno ad occidente. Ciò giustificherebbe la frequente menzione, in documenti dei secoli XIII e XIV, di due chiese e di due altari distinti: l’uno dedicato al santo titolare Lorenzo, l’altro al santo patrono Ercolano. Proprio l’affresco del Bonfigli potrebbe rappresentare una conferma iconografica dell’esistenza di una cripta di Sant’Ercolano fornita di accesso diretto “ex parte platee Comunis”: del resto, l’eventuale facciata risulterebbe collocata sotto quota rispetto al piano della chiesa e in posizione eccessivamente disagiata (LUNGHI 1994, pp. 16-17; IDEM 1996, p. 105). Ne consegue che il rinnovamento quattrocentesco si sarebbe limitato ad aumentare la lunghezza delle navate, ingombrando l’antica piazza della Paglia e conservando una parte delle strutture murarie preesistenti, tra cui il rivestimento marmoreo a sinistra del portale meridionale, la base del campanile e la Loggia di Braccio. Proprio quest’ultima, eretta nel 1423 lungo il fianco del duomo romanico, secondo un modello visibile nel San Benedetto a Norcia, potrebbe indicarne la lunghezza originaria (ibidem): essa, comprensiva anche della quinta arcata abbattuta nel 1570, della quale sono ancora visibili i peducci a muro, arrivava fino all’altezza della terza coppia di pilastri delle navate odierne (IDEM 1994, pp. 18 e 68). Sulla costruzione della loggia, cf. CALDERONI 1980, pp. 38-42. 13 MANCINI 1992a, p. 78; MENCARELLI JORIO 1996, pp. 81-83. 14 Nell’ultima scena sorprende la mancata rappresentazione di porta San Pietro, compiuta da Agostino di Duccio nel 1481; ma già nel 1479 i priori avevano commissionato a Pietro di Galeotto la pala d’altare della cappella, la cui decorazione, evidentemente, doveva essere pressoché ultimata. Il termine post quem, invece, è rappresentato dal 1469-1470: sulla facciata orientale del palazzo dei Priori, dipinto nella penultima scena, sono rappresentati l’orologio pubblico, per il quale Angelo di Baldassarre Mattioli venne pagato nel 1468, e lo stemma dei Della Rovere, allusione al pontificato di Sisto IV (1471-1484); inoltre la nuova convenzione del dicembre 1469 prevedeva la ripresa dei lavori per il marzo dell’anno successivo (MANCINI 1992a, pp. 78 e 96). 15 LUNGHI 1996, p. 105. 16 CRISPOLTI iunior 1648, pp. 63 e 270. Nella Vita cortonese di Iacopo (BAEC, Vita del vescovo..., p. 70) la memoria viene trascritta con l’aggiunta della parola “rite” (“convenientemente”); l’avverbio compare già nel manoscritto del Braccioli (dove però è depennato con una riga), il quale afferma di essere stato personalmente nella cappella (BAEC, Braccioli, Stemmi e brevi notizie..., c. 8r). Questo il senso dell’iscrizione: “Dionisio, con una devozione pari a quella dello zio Iacopo, fondatore della cappella, la decorò senza badare a spese, come puoi vedere”. 17 BAP, Bottonio, Annali del convento..., p. 158 (1481: “fu incominciata a fabbricarsi la parte di sopra de’ la chiesa di San Lorenzo”); BAP, Lancellotti, Scorta sagra..., tomo II, c. 290rb (10 agosto: “nel 1481 cominciò ad alzarsi la parte superiore”). Cf. anche ROTELLI 1864a, p. 21, nota 9 (“nel 1481 si fabbricava la crociata e la parte superiore”); ROSSI 1864a, p. 11 (“finalmente del 1481 si cominciò a murare la crociata e la volta”). 18 Così, ad esempio, il San Francesco a Gubbio, attribuito ad un progetto dell’architetto perugino e trasformato in chiesa voltata solo nel ’700 (LUNGHI 1994, pp. 28, 32 e 72). Nel duomo di San Lorenzo, versione ridotta della tipologia germanica della “chiesa a sala” (San Domenico a Perugia), la larghezza dimezzata delle navate laterali, l’assenza di contrafforti esterni e l’aver ripiegato sulle catene di ferro inducono a pensare che, in un primo momento, i pilastri ottagonali siano stati concepiti per sostenere un tetto a capriate lignee

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o comunque navate non di pari altezza, onde evitare problemi statici come lo schiacciamento delle volte minori (ROCCHI 1992, pp. 227-234). 19 CALDERONI 1980, p. 35, nota 13; MACELLARI 1992, pp. 559-560. 20 GRAZIANI \ FABRETTI 1850, pp. 626-627; PELLINI 1664, parte II, p. 733. Comunque le cronache, soprattutto quella di Pietro Angelo di Giovanni, sono interamente costellate di episodi di utilizzazione interna ed esterna della cattedrale, anche in alcune circostanze pubbliche. 21 PELLINI 1664, parte I, pp. 565-566. Così anche nell’incipit del Libro della fabbrica del duomo del 1451-1455. 22 BAP, Belforti-Mariotti, Serie de’ vescovi..., pp. 124-125 (“edificò da fondamenti nel duomo la cappella di Sant’Onofrio, nella quale ordinò di essere sepolto; […] fu tumulato nel luogo che si era prescritto”). 23 GUIDONI 1981, pp. 223-226; LOMBARDI 2000, p. 712. 24 Sempre nel 1484 fu emanato l’ennesimo decreto comunale a sostegno della fabbrica del duomo, vennero sospesi gli uffici del podestà e del capitano del popolo (per incamerarne le relative entrate) e si rinnovò la domanda di approvazione della legge sulle trattenute (PELLINI 1664, parte II, p. 816; ROTELLI 1864a, p. 22; CALDERONI 1980, p. 25). Cf. anche BAP, Bottonio, Annali del convento..., p. 165 (1484: “il presbiterio de l’altar maggiore fu fatto in questo anno”). 25 DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, p. 404; CRISPOLTI iunior 1648, p. 69; PELLINI 1664, parte II, p. 834. 26 GALASSI 1776, pp. 82-91; SIEPI 1822, pp. 82-84. Tra i contributi più vicini, cf. BERNARDINI 1991, p. 22. 27 Del resto, i canoni architettonici del ’400 avrebbero mal tollerato una simile asimmetria: anzi, la costruzione problematica del transetto meridionale ebbe proprio lo scopo di simmetrizzare l’edificio rispetto alla cappella del lato nord. 28 Un’operazione analoga sarebbe avvenuta nel 1855, quando venne ricavata l’attuale cappella del Battistero (n. 23) nella “sacrestia” della cappella dello Spirito Santo (detta anche Oradina), fatta costruire nel 1557 dall’arciprete Leone Baglioni, il cui nome campeggia su tutti gli architravi delle porte che si aprono nel basamento esterno (oggi occupato da negozi). 29 ROSSI 1864a, p. 16. Oltre alla carta dell’Eusebi (Perusiae Augustae, vetustate originis gloriaque armorum ac litterarum, clarissimae imago a Livio Eusebio perusino diligenter expressa et in aere incisa, 1602), vanno ricordate le piante di Egnazio Danti (1580-1581), Matteo Florimi (fine ’500-inizio ’600), anonimo (forse Antonio Lafrery) e Pierre Mortier (inizio ’600): per una rassegna, cf. ROMANA CASSANO 1990, pp. 191-231; MIGLIORATI 1993, pp. 897-912. 30 Cf. MANCINI 1992b, pp. 497-498; LUNGHI 1994, pp. 54 e 109-114. I lavori, voluti dal vescovo Fulvio della Corgna, sono registrati dal medesimo già in occasione della sua visita pastorale del 1568 (ADP, Visitationes Della Corgna, ms. 1, cc. 435v-436r), dove si parla della costruzione di una cappella (“idem illustrissimus construi faciebat quandam capellam”) che è probabilmente da identificarsi con quella che ospitò le reliquie dei papi (n. 35). Per le visite pastorali, si fa riferimento alla cartulazione moderna eseguita a matita (quando presente); i passi più significativi, in relazione agli argomenti trattati nel presente volume, sono riportati in appendice A, n. 8. 31 L’antico altare del Crocifisso (giuspatronato della famiglia Brunelli) si trovava addossato alla parete destra della cappella (n. 4), forse sormontato dall’attuale crocifisso ligneo che, appoggiato al muro, doveva integrarsi con le figure di santi secondo il Vasari affrescate dal Perugino, ma già all’epoca del Crispolti malconce

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e bisognose di restauro. Nel 1613 il vescovo Napoleone Comitoli fece risarcire la cappella, consacrando al Crocifisso l’altare già di Santa Barbara (giuspatronato dei Caporali) e commissionando a Giovanni Baglione una tela raffigurante la santa, in memoria dell’antica titolare. Nel 1735 la famiglia dei marchesi Florenzi, che aveva acquisito il patronato della cappella, commissionò l’attuale mostra marmorea a Pietro Carattoli; infine, nel 1740, il crocifisso ligneo venne trasferito nel nuovo altare, affiancato dalle coeve statue in stucco della Vergine e di San Giovanni (VASARI [1568], p. 533; CRISPOLTI iunior 1648, pp. 62-63; SIEPI 1822, pp. 97-99; GABRIJELCIC 1992, pp. 529-530; LUNGHI 1994, pp. 59-60 e 100). 32 GABRIJELCIC 1992, pp. 529 e 532; LUNGHI 1994, p. 62. 33 La balaustra del transetto sinistro venne eretta contemporaneamente all’altare del Carattoli (1735), mentre quella del transetto destro fu voluta nel 1781 dal chierico perpetuo Salvucci (SIEPI 1822, pp. 80 e 99). 34 LUNGHI 1994, p. 50. 35 ADP, Visitationes Comitoli (1592), ms. 10, c. 39r. 36 BAP, Lancellotti, Scorta sagra..., tomo II, c. 504rb (26 dicembre: “nel pavimento di questa cappella [di Santo Stefano] riposano i corpi di due vescovi Vannucci, Giacomo e Dionigi, zio e nipote). Cf. anche ROSSI 1864a, p. 16. 37 ADP, Visitationes Della Corgna (1564), ms. 1, c. 20r. 38 ADP, Visitationes Della Rovere (1571), ms. 2, c. 1v. 39 ADP, Visitationes Gallo (1587), ms. 8, c. 20r. 40 Circa l’attività del Comitoli, che incise profondamente sull’aspetto materiale del duomo perugino, cf. GABRIJELCIC 1992, pp. 521-523; LUNGHI 1994, p. 59. 41 ADP, Visitationes Comitoli (1592), ms. 10, c. 39r. 42 BAEC, Vita del vescovo..., p. 70. 43 BAP, Crispolti senior, Raccolta..., c. 4r (cf. appendice A, n. 6). 44 ADP, Visitationes Della Corgna (1568), ms. 1, c. 435r (Fulvio “ibi constituit velle se suis sumptibus capellam honorificam construere”). L’orvietano Ludovico Scalza (1532-1617) fu chiamato ad eseguire anche altri lavori in cattedrale: progettò la mostra d’altare della nuova cappella di San Bernardino ed eseguì la decorazione in stucco delle pareti della cappella dello Spirito Santo (MANCINI 1992b, p. 497). 45 Cf. più avanti quanto dice il Lancellotti (al 26 dicembre). L’arme del Salvucci è scolpita due volte sulla faccia anteriore dell’altare, sormontata dal cappello dei protonotari apostolici (identico a quello dei vescovi, con sei fiocchi per parte su tre file). 46 FALCIDIA 1989, p. 112. Giovanni Baglione (1573-1644) fu chiamato in causa dal Comitoli anche nel rinnovamento seicentesco del transetto meridionale (cf. nota 31), per il quale eseguì tre tele, tra cui una Santa Barbara e una Santa Chiara ancora collocate sulle pareti laterali al tempo del SIEPI (1822, pp. 98-99). 47 MANCINI 1981, p. 375 e nota 23. Il pittore nacque intorno al 1570 e morì nel 1633. 48 PANZIERA 1609; GALASSI 1776, pp. 83-84; SIEPI 1822, p. 81; GABRIJELCIC 1992, p. 525. 49 ADP, Visitationes De Torres (1625), ms. 15, c. 29r. 50 BAP, Bigazzini, Vescovi..., c. 9v (le Vite di Iacopo e Dionisio sono riportate integralmente in appendice A, n. 1). 51 ADP, Visitationes Monaldi (1644), ms. 19, cc. 13v-14v e 17v-18r (“in quo altari [Sanctissimi Crucifixi] qualibet die sacrum misse sacrificium celebratur a reverendis presbiteris cleri perusini”).

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52 UGHELLI [1644], tomo I, col. 1164. Cf. anche BAP, Belforti-Mariotti, Serie de’ vescovi..., p. 127 (“fece parimenti inalzare a sue spese nella cattedrale l’altare di Santo Stefano, nella cavità del quale sono riposte alcune ossa di san Bevignate, monaco perugino”). 53 CRISPOLTI iunior 1648, pp. 63, 72, 270 e 275. 54 Parere positivo, in questo senso, mi è stato dato da Laura Teza, la quale ha minutamente studiato e collazionato i manoscritti dello zio e la pubblicazione del nipote: in particolare, il ms. 1662 della BAP (1605-1606) mostra un testo praticamente identico all’edizione del 1648. Non sorprende, dunque, che il Crispolti iunior, poco interessato ai fenomeni artistici in senso stretto, non abbia “aggiornato” i passaggi descrittivi dello zio (TEZA 2001, pp. 66-67 e 288-289). 55 CRISPOLTI iunior 1648, p. 66. I resti mortali dei tre papi deceduti a Perugia (Innocenzo III, Urbano IV, Martino IV) giacquero per lungo tempo in un sacello accessibile dalla sacrestia (n. 35), fino a quando, nel 1615, il solito Comitoli li fece trasferire in un’urna collocata dove oggi è il monumento al Morlacchi (parete sinistra della cappella del Crocifisso, n. 6). 56 La memoria viene già riportata dalla prima stesura manoscritta della Perugia Augusta (BAP, Crispolti senior, Perugia Augusta..., c. 56r; cf. appendice A, n. 6). 57 BAP, Lancellotti, Scorta sagra..., tomo I, cc. 142ra (3 maggio) e 195rbv (12 giugno): cf. appendice A, n. 7. Al trasferimento del privilegio presso il Crocifisso accenna brevemente anche il CRISPOLTI iunior (1648, p. 63). Non è chiaro se la nascita della “Vetustissima Societas Divi Onuphrii” (la cui insegna è rappresentata da un rosario con la croce greca, incorniciato da due palme intersecantesi) possa essere ricondotta ad una qualche iniziativa dei vescovi Vagnucci: certo è significativo che, nel 1579, i capitoli vennero confermati il giorno 28 gennaio, coincidente con l’anniversario della morte di Iacopo, il cui merito era quello di aver fatto erigere la “cappella nel sito a lato della sagrestia in detta chiesa”. Nel novembre del 1625 gli ordini della confraternita furono riformati ed approvati dal vescovo Cosimo De Torres (1624-1634), venendo pubblicati e poi ristampati nel 1665 (ORDINI 1665; cf. MARINELLI 1965, pp. 858-859): sono suddivisi in dodici capitoli e trattano dello scopo della compagnia (1), degli officiali (2-9), delle adunanze (10), dei novizi (11) e degli obblighi dei confratelli (12). 58 BAP, Lancellotti, Scorta sagra..., tomo I, c. 195rbva (12 giugno). 59 Ivi, tomo II, c. 503ra (26 dicembre): cf. appendice A, n. 7. 60 SCARAMUCCIA 1674, p. 83. 61 MORELLI 1683, pp. 40-41. La tavola di Orazio Alfani (1510-1583) proveniva dall’altare dei Cantagallina, già a destra dell’uscita principale (n. 16); sostò anche nella cappella del Crocifisso (SIEPI 1822, p. 99); oggi si trova appesa alla parete della navata destra, tra la cappella del Santissimo Sacramento e il transetto settentrionale (n. 28). 62 ADP, Visitationes Marsili (1703), ms. 24, c. 11r. 63 SIEPI 1822, p. 83. Gli ordini furono ripubblicati con l’aggiunta di due capitoli, uno relativo ai sagrestani e festaioli (8), l’altro al modo di abilitare i fratelli (13); nel 1737 vennero ristampati con l’inserzione di un capitolo 9, riguardante i provveditori dei suffragi (ORDINI 1703; ORDINI 1737; cf. MARINELLI 1965, p. 859). 64 SIEPI 1822, p. 83. 65 ADP, Visitationes Odoardi (1781), ms. 32 bis, c. 11v. 66 GALASSI 1776, pp. 82-91.

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67 In occasione degli scavi effettuati recentemente sotto il transetto destro, si è tentato di rimuovere la settecentesca pietra tombale, col risultato di mandarla in pezzi: comunque dal loculo interrato è emerso un piccolo sarcofago lapideo contenente uno scheletro ricomposto, probabilmente quello del Salvucci. Purtroppo il successivo scavo, condotto nella nicchia sepolcrale e sotto il pavimento dell’intera cappella, non ha rivelato alcuna traccia delle spoglie dei due vescovi Vagnucci, mentre sono emersi i resti di una strada e di una torre, “investiti” dalla costruzione tardiva del transetto sporgente. 68 ORSINI 1784, pp. 116-118. 69 SIEPI 1822, p. 81. 70 ROTELLI 1864a, pp. 31-33. La Pala di San Nicola (1519-1529) allo scadere del ’500 si trovava alla fine della navata sinistra (n. 7), dove la notano il vescovo Comitoli (ADP, Visitationes Comitoli [1592], ms. 10, c. 40v: “icona [...] que habet figuram Virginis”) e il Crispolti senior (BAP, Raccolta..., c. 3r); nel 1792, essendosi deciso di smantellare l’altare per simmetrizzare le navate dopo la rimozione dell’organo dalla parete opposta (n. 28), il quadro passò nella canonica, dove attese il restauro di metà ’800 (cf. BERNARDINI 1991, pp. 38-40). 71 ROSSI 1864a, p. 16; IDEM 1864b, p. 16. La polemica, tutta condensata nel 1864, si svolse in quattro atti: Il duomo di Perugia del Rotelli, il Saggio di svarioni del Rossi, la Risposta del Rotelli e la replica definitiva (Senza titolo) del Rossi. 72 ROSSI SCOTTI 1878, p. 34. 73 LUNGHI 1994, p. 91. 74 Qui rimase fino al 1896, quando venne dirottata di nuovo al Crocifisso, per lasciare spazio alla Sacra Famiglia del perugino Ludovico Caselli (18591922), tela donata da Leone XIII; riportato nel sito attuale (n. 29), il sarcofago è stato collocato entro un prospetto marmoreo disegnato da Renzo Pardi (1960). Oggi la tela del Caselli è appesa alla parete sinistra della cappella del Crocifisso (n. 6). 75 L’opera, realizzata da Giuseppe Luchetti (1823-1907), scultore marchigiano residente a Roma, è una di quattro statue donate al pontefice da un fervente ammiratore americano: quella del duomo doveva ricordare il lungo episcopato perugino di Gioacchino Pecci, prima dell’elezione al pontificato (CERNICCHI 1911, pp. 16-17). 76 Una bibliografia completa sul pittore è consultabile nell’ultima monografia di KANTER-HENRY-TESTA (2001, pp. 262-271). Aggiungi: BIGANTI 2005; HENRY 2006. 77 Prima del penultimo decennio del secolo, le uniche date di cui siamo a conoscenza sono quelle del 1470 (quando Luca dipinge per la confraternita dei Laudesi nell’oratorio di San Francesco a Cortona) e del 1475-1477 (quando lavora nella chiesa di San Domenico sempre a Cortona); il Vasari, inoltre, ricorda altre opere perdute eseguite intorno al 1472 ad Arezzo, sotto il patrocinio di Piero della Francesca (VASARI [1568], p. 547; SCARPELLINI 1964, pp. 11-12 e 105; KANTER-HENRY-TESTA 2001, p. 17). Per il problema dell’affresco già sulla Torre del Vescovo a Città di Castello (1474), oggi nella Pinacoteca Comunale di quella città, cf. KANTER-HENRY-TESTA 2001, pp. 13-14 e 254256; HENRY 2004, pp. 76-78. 78 L’assenza del suo nome, però, potrebbe giustificarsi semplicemente con il ruolo subalterno svolto alle dipendenze del Perugino: non è dunque necessario concludere che egli sia giunto a Roma in un periodo precedente o successivo a quelle date. Sul problema dell’attribuzione a Signorelli di alcune parti della decorazione della Sistina, in particolare nella scena della Consegna delle Chiavi

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(capolavoro del Vannucci) e in quella del Testamento e morte di Mosè (tradizionalmente assegnata dalla critica a Bartolomeo della Gatta, anch’egli assistente del Perugino), cf. KANTER-HENRY-TESTA 2001, pp. 16-17, 98-101 e 161. 79 Il Perugino, dopo un soggiorno a Firenze (dove si trovava nell’ottobre del 1482), è presente a Perugia solo nel novembre del 1483, quando gli venne allogata la pala d’altare (terminata nel 1495-1496) per la cappella dei Decemviri nel palazzo dei Priori: a quella data, probabilmente, Signorelli lavorava già da qualche mese alla Pala Vagnucci. 80 Al centro della volta della sacrestia di San Giovanni a Loreto (affrescata da Signorelli nel 1484-1487 circa) si trova lo stemma del cardinale Girolamo Basso Della Rovere, nipote di Sisto IV e vescovo di Recanati e Macerata dal 1476 fino alla morte (1507); tra i “venerabiles magistri” che definirono il programma iconografico della cappella di San Brizio nel duomo di Orvieto (affrescata da Luca nel 1499-1504) era sicuramente il vescovo della città Giorgio Della Rovere (1476-1505); intorno al 1507 Signorelli si trovava di nuovo a Roma, per decorare, insieme al Perugino e al Pintoricchio, le Stanze Vaticane di papa Giulio II (altro nipote di Sisto IV, 1503-1513), poi interamente affidate al pennello di Raffaello; infine, nel 1507-1508, Luca ottenne cinque commissioni per altrettante pale tra Jesi e Arcevia, nella diocesi di Senigallia, di cui era vescovo il cardinale Marco Vigerio Della Rovere (1476-1513), il cui stemma compare nel gradino della Pala di San Medardo (cf. GAMS 1873, pp. 703, 712 e 727). 81 Nel 1479, ad esempio, Luca venne sorteggiato come membro del consiglio dei Diciotto, ricoprendo in seguito un incarico comunale (SCARPELLINI 1964, pp. 105-106). 82 Ivi, p. 106. 83 Cf. sotto, alla nota 99. 84 MANCINI 1903, pp. 60-61. 85 Considerando le dimensioni e l’impegno dell’opera, possiamo concludere che questa venne realizzata in tempi relativamente brevi (massimo un anno), fatto che non stupisce in un pittore abitualmente “spiccio e risoluto nel condurre il lavoro” (SCARPELLINI 1964, p. 22): forse le stesse qualità che determinarono la chiamata di Luca a Roma e che, successivamente (1499), gli avrebbero permesso di ottenere l’ambitissima commissione degli affreschi della cappella di San Brizio nel duomo di Orvieto, rimasti incompiuti dalla fine degli anni quaranta. 86 Sul problema della datazione degli affreschi di Loreto, tradizionalmente collocati alla fine degli anni settanta, prima dell’impiego del pittore nel cantiere della Sistina, cf. KANTER-HENRY-TESTA 2001, pp. 20-21, 106-109 e 163-165. Anche la nota Flagellazione di Brera (Milano) sembrerebbe, ad un’attenta lettura stilistica, contemporanea e non anteriore alla Pala Vagnucci del 1483-1484 (ivi, pp. 19-20, 102-103 e 161-162; cf. anche MARTELLI 2005, pp. 11-24). 87 VASARI [1568], p. 548. 88 Sulla pala e per la sua ampia letteratura, cf. KANTER-HENRY-TESTA 2001, pp. 17-19, 104-105 e 162-163. Aggiungi: MARTELLI 2005, pp. 15-17; CARACCIOLO 2005a, pp. 33-48 (con ulteriore bibliografia alle pp. 46-47, note 18-19); IDEM 2005b, pp. 9-15; IDEM 2005c, pp. 65-66 e 80, nota 11; GRISANTI-GIANNINI 2007, pp. 39-41. 89 MANCINI 1899, p. 496, nota 2. 90 Sull’iconografia di san Lorenzo, cf. CARLETTI-CELLETTI 1967, coll. 121-129. 91 Il sant’Onofrio di Perugia, replicato tale e quale in un affresco eseguito sulla parete sinistra della chiesa di San Niccolò a Cortona (al punto da presup-

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porre l’utilizzo dello stesso disegno da parte della bottega di Signorelli), costituisce il modello per il vecchio pastore che si trova sulla destra nella perduta Corte di Pan; ad esso si ispira anche la ricorrente figura di san Girolamo penitente, ad esempio nella Deposizione della stessa chiesa di San Niccolò. 92 La presenza dell’angelo musicante va messa in rapporto con il forte incremento del mecenatismo musicale nella cattedrale di San Lorenzo (dove, nel corso dell’ultimo ventennio del ’400, operarono numerosi cantori ed organisti), mecenatismo riconducibile alla “signoria” dei fratelli Guido e Rodolfo Baglioni: il figlio di quest’ultimo, Troilo, divenne arciprete del duomo nell’aprile del 1483 (PELLINI 1664, parte II, p. 806; CILIBERTI 1998, pp. 121-122). 93 HEINZ MOHR 1984, p. 172. 94 SCARPELLINI 1964, p. 23. Il Kanter, però, osserva giustamente che la luce del Signorelli non contribuisce all’unificazione dello spazio, come nei dipinti della pittura umbra e fiorentina contemporanea, bensì accentua l’isolamento e il carattere astratto delle immagini (KANTER-HENRY-TESTA 2001, p. 19). 95 Ivi, p. 17. 96 Si notino i fiori nei vasi di vetro, i fregi del basamento (cornucopie e motivi vegetali), le venature rosate del marmo nel secondo gradino (con la funzione di “mediare” tra i toni freddi della base e quelli caldi del seggio), il trono di pietra finemente “intagliato” e con una base scolpita ad imitazione del bronzo, le candelabre di ottone del seggio (sormontate da un arco dal quale pende un ricco festone), la raffinatezza delle stoffe ricamate (la sciarpa dell’angelo, la stola del vescovo, la dalmatica del diacono), la mitra ingemmata appoggiata sul primo gradino. 97 BERNARDINI 1991, p. 24. Lo Scarpellini ha riferito lo schema compositivo verticalistico (con le figure disposte su due piani e la Madonna assisa in alto) e la stessa tipologia del trono alle pale d’altare veneto-padovane e ferraresi, in particolare a prototipi di Ercole de’ Roberti (Ferrara, 1450 ca-1496): forse Luca ebbe modo di ammirare opere perdute del pittore romagnolo, durante un soggiorno urbinate legato alla propria formazione pierfrancescana (SCARPELLINI 1964, p. 23). Esemplificative di tale slancio verticalistico sono due opere di Ercole de’ Roberti, la Pala di San Lazzaro (già a Berlino) e la Pala di Santa Maria in Porto a Ravenna del 1481 (Milano, Brera); alla pittura ferrarese sembra rimandare anche la qualità lucente e metallica del colore della Pala Vagnucci. Più recentemente, invece, il Kanter fa risalire lo schema compositivo del dipinto alla Sacra Conversazione fiorentina, chiamando in causa la pala del duomo di Pistoia (1475-1485), attribuita ad un disegno di Andrea del Verrocchio ma realizzata dall’allievo Lorenzo di Credi (KANTER-HENRY-TESTA 2001, p. 17). 98 SCARPELLINI 1964, p. 23-24. 99 Queste risultano evidenti nella precisione dei particolari (i ricami delle vesti, i preziosismi della mitra vescovile e del medaglione della Vergine), nello studio attento della luce (le trasparenze del vetro, i riflessi del bronzo e delle gemme), nei colori splendidi ed intensi, nell’annotazione quasi casuale di piccoli oggetti della realtà quotidiana (i vasi con fiori), nel verismo del ritratto del vescovo. I due bicchieri di vetro in primo piano (fig. 23) sembrano un omaggio esplicito ad Hugo Van der Goes, il cui Trittico Portinari (Uffizi) venne collocato sull’altare maggiore della chiesa di Sant’Egidio a Firenze nel maggio del 1483 (PAOLUCCI 1990, p. 15). Non bisogna però trascurare che, al di là della citazione, i vari tipi di viola qui presenti (violetta, “viola del pensiero” e violacciocca, le prime due richiamanti nelle tinte le rose tricolori dello stemma Vagnucci) celano in sé un significato simbolico, allusivo alla

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modestia e all’umiltà tanto della Vergine quanto del Cristo (IMPELLUSO 2003, pp. 128-129). 100 KANTER-HENRY-TESTA 2001, p. 104. È possibile, però, che la Crocifissione degli Uffizi sia un’opera di collaborazione tra Perugino e Signorelli anteriore alla Pala Vagnucci (cf. CARACCIOLO 2005a, pp. 36 e 46, nota 12). Tra le opere meno note, si vedano la Pala di San Francesco a Corciano (post 1487), attribuita al perugino Orlando Merlini (attivo dal 1472, morto nel 1510), o la Pala d’Ognissanti nella Pinacoteca Comunale di Città di Castello (1504 ca), opera di Francesco Tifernate (notizie dal 1490 al 1510). 101 BAEC, Braccioli, Stemmi e brevi notizie..., c. 8r: “e mentre io stava in Perugia, vi trovai nella capella de Sant’Honofrio in San Lorenzo l’infrascritti versi: [...]”. 102 BAP, Crispolti senior, Perugia Augusta..., c. 56r. 103 CRISPOLTI iunior 1648, pp. 63 e 270. 104 BAEC, Vita del vescovo..., pp. 69-70. 105 Il Bigazzini (BAP, Vescovi..., c. 9v), l’UGHELLI ([1644], col. 1164), il Lancellotti (BAP, Scorta sagra..., tomo I, c. 195v [12 giugno]), lo SCARAMUCCIA (1674, p. 83) e il MORELLI (1683, pp. 40-41) non fanno alcuna menzione della memoria e neppure citano precedenti trascrizioni. 106 TARTAGLINI 1700, p. 134: “[Iacopo] fu creato arcivescovo di Nicea d’Asia, come si legge in una iscrizione posta nella chiesa catedrale di San Lorenzo di Perugia in una cappella da esso fondata”. 107 Completando idealmente l’arco del trono, si raggiungerebbe il limite superiore della tavola, per cui si deve presupporre uno spessore ulteriore pari a quello presente sotto il bicchiere in primo piano. La KEACH (1978, pp. 341342), ripresa da KANTER-HENRY-TESTA (2001, p. 162), parla di una decurtazione di 22 cm circa, ipotizzando che la tavola fosse composta di sette assi orizzontali di pari larghezza. In effetti, il rilievo delle probabili linee di giunzione effettuato in occasione dell’ultimo restauro (quando si è proceduto alla revisione del sistema di parchettatura del supporto) ha evidenziato che le assi sono cinque e di larghezza differente, con la possibilità di un’ulteriore suddivisione della seconda dal basso in due assi distinte. 108 L’impronta lasciata dalle possibili cornici sagomate è riapparsa dopo il restauro del 1984-1994, che è andato a rimuovere le stuccature effettuate con quello del 1949-1951, quando le lacune vennero integrate con un tratteggio verticale all’acquerello. 109 Il GALASSI (1776, p. 91), vedendo il dipinto provvisto di una nuova cornice e ricollocato sul recente altare di Sant’Onofrio, afferma: “questa memoria però alla giornata non si vede, perché forse l’ornato moderno della tavola, tutto indorato, la cuopre”. In verità, la rimozione del quadro dalla sua collocazione settecentesca nel 1923 e i due restauri effettuati nella seconda metà del ’900 non hanno mostrato alcuna traccia di questa iscrizione. Cf. anche ADP, Visitationes Odoardi (1781), ms. 32 bis, c. 12r (“inferius dictam tabulam sequentia verba leguntur”); SIEPI 1822, p. 84. 110 MANCINI 1903, pp. 58-59; KEACH 1978, pp. 341-342; BERNARDINI 1991, p. 24. 111 SCARPELLINI 1964, p. 24; PAOLUCCI 1990, p. 15. 112 MANCINI 1903, p. 178; KEACH 1978, pp. 343-345; KANTER-HENRYTESTA 2001, pp. 19, 104 e 162-163. 113 Si consideri, ad esempio, la predella del Compianto sul Cristo morto nel Museo Diocesano di Cortona. La Natività del Battista è alta 31,5 cm e

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larga 70 cm: ammettendo ben tre scene di predella, si supererebbero di molto le dimensioni della Pala Vagnucci (larga 193,5 cm). Pertanto è possibile che gli scomparti laterali presentassero le storie dei due santi principali collocati ai lati della Vergine, mentre quello centrale alludesse con le sole parole a Gesù Bambino (richiamato dall’espressione “Deo Maximo”) e ai restanti due personaggi (sant’Onofrio e il vescovo Vagnucci): quanto alla Storia di san Lorenzo, si può supporre una preferenza per la scena del Supplizio, che permetterebbe di recuperare l’attributo della griglia sulla quale il santo venne martirizzato, stranamente assente dalla tavola maggiore (così avviene infatti nella Pala di Paciano della Galleria Nazionale dell’Umbria, opera appartenente alla bottega di Signorelli). Ad ogni modo, il fatto che i due Crispolti riportino il testo della memoria su più righe (da cinque a nove) non garantisce che essa fosse compressa in una “tabella” quadrangolare, poiché sono conosciuti casi di iscrizioni che si snodano per tutta la lunghezza del gradino (si veda, ad esempio, la Madonna col Bambino e santi di Filippino Lippi nella chiesa di Santo Spirito a Firenze). Si noti però che in diverse tavole del Signorelli sono dipinti, sotto la Vergine e in posizione centrale, dei cartigli recanti la firma del pittore e la dedica del committente (come nella Pala di Montone della National Gallery di Londra). 114 L’insieme delle candelabre opera nel dipinto una suddivisione ideale in tre scomparti, corrispondenti a quelli ipotizzati per la predella (anch’essa forse articolata dal medesimo motivo) e alle luci della trifora sovrastante. 115 Dalla tavola del Signorelli derivano il trono sopraelevato su tre gradini, la figura di san Nicola, la mitra vescovile appoggiata su un gradino, i due angeli svolazzanti negli angoli superiori e le porzioni di paesaggio ai lati del seggio. Sulla Pala della Sapienza Vecchia, la cui cornice è stata recentemente restaurata e riunita alla tavola principale, cf. CICINELLI 1982, pp. 74-78; SANTI 1985, pp. 167-169. 116 Nel settembre del 1512 il comune di Cortona inviò a Firenze, per omaggiare i Medici da poco ritornati al potere, una delegazione composta da Signorelli, due membri della famiglia Vagnucci e il futuro cardinale Silvio Passerini (MANCINI 1903, p. 161). 117 La predella, separata dalla tavola principale, per lungo tempo è stata conservata dietro il tempietto dell’altare maggiore della chiesa del Calcinaio; attualmente si trova in deposito presso la Soprintendenza di Arezzo. Il testo delle iscrizioni è il seguente: INTACTAE XP[IST]I || M[AT]RIS VANUT || IUS HEROS || BAPTISTA H || OC SUPPLEX PI[N] || GERE IUSSIT || OPUS; MDXXIIII [Battista Vagnucci, uomo illustre, devoto all’Immacolata Madre di Cristo, fece dipingere quest’opera; 1524]. Sulla pala, cf. KANTER 1994, pp. 199-203; KANTERHENRY-TESTA 2001, p. 253. 118 La tavola è illuminata da destra, quindi si trovava a sinistra del presbiterio: infatti la vetrata col San Paolo (sempre del Marcillat), oggi nella monofora del transetto sinistro, in origine doveva trovarsi nel braccio destro, venendo poi scambiata col Sant’Onofrio in seguito al restauro compiuto da Francesco Moretti (1890). 119 KANTER-HENRY-TESTA 2001, p. 104. 120 VASARI [1568], p. 548. 121 MANCINI 1899, p. 496; IDEM 1903, pp. 58-59. 122 KAFTAL 1965, col. 549. 123 Lo studioso ritiene che la rappresentazione poco umile del prelato, collocato in piedi tra i santi che circondano la Vergine, non costituisca un gros-

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so elemento di difficoltà, come dimostrerebbero esempi contemporanei analoghi (MANCINI 1899, pp. 496-497). 124 Da questo punto di vista, non è priva di significato la rappresentazione del presbiterio del duomo (nell’angolo in basso a sinistra), che si andava edificando in quegli anni e nel quale più forte fu l’impronta lasciata dal prelato cortonese. 125 Nella leggenda greca di Onofrio si narra che il santo scelse di darsi alla vita anacoretica proprio per seguire l’esempio del Battista (cf. le note 138-139). 126 KANTER-HENRY-TESTA 2001, p. 104. 127 BAEC, Vita del vescovo..., p. 70. 128 KEACH 1978, pp. 265-267. Nell’iconografia tradizionale anche san Dionigi, primo vescovo di Parigi, è effigiato come un uomo di mezza età provvisto di barba (KAFTAL 1952, coll. 307-308). 129 BERNARDINI 1991, p. 22. 130 SCARPELLINI 1992, p. 580. Iacopo, nato intorno al 1416, nel 1484 aveva circa 68 anni: il volto del suo ritratto risulta giustamente emaciato e scavato, come sottolineato con dovizia di particolari dalla Vita cortonese. 131 PAOLUCCI 1990, p. 15. Lo studioso si riferisce, in modo particolare, al Sant’Agostino di Lisbona (già a Sansepolcro), che pare preannunciare il vivace effetto illusionistico della stola istoriata del nostro vescovo. 132 Si è ipotizzato, con argomenti non sempre convincenti, che nel santo di Bari sia effigiato papa Niccolò V (eletto nel 1447, ipotetico termine post quem per la realizzazione del polittico), grande amico dell’Angelico come del Vagnucci (cf. GARIBALDI 1998, pp. 24-34). 133 Molti anni più tardi (1499), il Signorelli si sarebbe cimentato con lo stile dell’Angelico negli affreschi della cappella di San Brizio nel duomo di Orvieto, completando la decorazione delle vele ed inserendo il proprio ritratto, accanto alla possibile immagine ideale del frate domenicano, sulla sinistra della scena che rappresenta i Fatti dell’Anticristo. 134 BATTISTI 1976, coll. 583-587. 135 MANCINI 1903, pp. 59-60. 136 Si tratta di sette scene per parte, di cui alcune illeggibili (perché coperte nell’illusione pittorica), altre difficilmente identificabili. A sinistra dall’alto si riconoscono: Incontro di Anna e Gioacchino alla porta Aurea, [?], Miracolo della verga fiorita (?), Sposalizio della Vergine, Fuga in Egitto, Riposo nella fuga, Battesimo di Cristo; a destra: Annunciazione, Natività, Adorazione dei Magi, Disputa di Gesù coi dottori, Pesca miracolosa, [?], Visitazione (?). La penultima scena, completamente estranea al tema mariano, rappresenta un ulteriore richiamo al nome del committente, poiché uno dei primi quattro discepoli che Gesù chiamò a sé fu il pescatore Giacomo di Zebedeo (LUCA, 5, 1). 137 UGHELLI [1644], tomo I, col. 1164. 138 Pafnuzio, lasciato il proprio monastero egiziano per fare esperienza di vita anacoretica, dopo ventuno giorni di cammino s’imbatte nella spaventosa figura di Onofrio, dal quale viene iniziato all’eremitismo, esattamente come sessanta (o settanta) anni prima era capitato al santo, che aveva abbandonato il proprio monastero nella Tebaide per seguire l’esempio del Battista. Nella narrazione autobiografica che Onofrio fa a Pafnuzio opera tutta una serie di luoghi comuni della letteratura sui padri del deserto: il tema dell’anacoreta nudo e villoso, in sembianze quasi animalesche; il nutrimento fisico e spirituale garantito dall’assistenza assidua di un angelo; la morte dell’eremita durante la visita annuale di un compagno: proprio Pafnuzio, divenuto attore nel racconto di cui è destinatario, dovrà seppellire Onofrio che, prima di morire, promet-

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te la propria intercessione a chi, in suo nome, compirà opere di carità (SAUGETCELLETTI 1967, coll. 1187-1193). Per l’iconografia di Onofrio, cf. le voci relative in KAFTAL 1952, coll. 777-781; IDEM 1965, coll. 833-836; IDEM 1978, coll. 795-800; cf. anche SAUGET-CELLETTI 1967, coll. 1197-1200. 139 Spiegato il parallelo Onofrio-Battista a sinistra della Vergine; giustificata la presenza dell’angelo ai piedi del trono; chiara la scelta di Onofrio quale nume tutelare di una cappella funeraria destinata ad accogliere le ceneri dei committenti e, successivamente, ad ospitare una confraternita dedita al suffragio dei sacerdoti defunti. Trovare Onofrio associato al Battista non è infrequente: ad esempio, nella chiesa di San Francesco a Montefalco i due santi sono contrapposti negli sguanci della monofora della cappella absidale di sinistra (decorata da Giovanni di Corraduccio intorno al 1415). Invece nella Pala di Sant’Agnese di Bicci di Lorenzo (1430-1440, Galleria Nazionale dell’Umbria) sant’Onofrio appare in compagnia di altri anacoreti, san Paolo Eremita e san Girolamo penitente. 140 Già da giovanissimo, il Vagnucci aveva trascorso un lungo periodo a Città di Castello nel convento dei Gesuati, ordine dedito alla carità ospitaliera; da governatore di Bologna aveva emanato disposizioni a favore dei pellegrini; in Umbria aveva combattuto l’usura, contribuendo alla fondazione di diversi Monti di Pietà; a Cortona probabilmente sosteneva la confraternita di Sant’Onofrio, dedita al soccorso di infermi e bisognosi; negli ultimi anni scelse di ritirarsi alla Pieve del Vescovo presso Corciano, lontano da ogni sollecitudine, per terminare degnamente la propria esistenza. A quest’ultimo proposito, è interessante notare che un piccolo sant’Onofrio appare nel finto pilastro destro dell’affresco staccato conservato nel Museo della Pieve (datato 1496, forse proveniente dalla cappella di San Giovanni): segno che la devozione del Vagnucci aveva lasciato il proprio ricordo anche nella residenza di campagna dei vescovi perugini. 141 A Perugia, per esempio, nella chiesa di San Matteo degli Armeni (fondata dai monaci di San Basilio) Sant’Onofrio è dipinto sulla parete all’inizio della navata, a sinistra della monofora ogivale; nella stessa posizione (sul lato sinistro della controfacciata; fig. 35) appare affrescato anche nella chiesa di Santa Maria Nuova, di fondazione silvestrina (famiglia appartenente all’ordine benedettino). Sant’Onofrio compare poi nella sacrestia della chiesa di Santa Maria di Monteluce (parete destra), che apparteneva al monastero delle clarisse ora a Sant’Erminio. 142 A Roma, una chiesa di Sant’Onofrio venne fondata sul Gianicolo sotto papa Eugenio IV. Al Sacro Speco di Subiaco (monastero benedettino a 70 km da Roma, con due chiese sovrapposte), il santo è presente in due affreschi, ascrivibili a maestranze umbro-marchigiane e senesi del XIV secolo. In Umbria, oltre agli esempi già citati (cf. le note 139 e 141), due immagini del santo sono conservate nella Pinacoteca Comunale di Assisi, mentre un altro Sant’Onofrio è affrescato nella chiesa di San Crispolto a Bettona (nei pressi della quale sorge ancora un convento dedicato al santo). Resta difficile l’identificazione di un malconcio affresco nella chiesa di San Francesco a Gubbio, mentre non ci sono dubbi per quello, un po’ sbiadito, nella cripta della chiesa di San Ponziano appena fuori Spoleto. 143 La cappella sorgeva verso il rione di Porta San Pietro, ma dopo il 1382, essendo stata scaricata, venne ricostruita dalla parte opposta, verso il rione di Porta Sole; era destinata alla sepoltura dei condannati a morte: ASP, ASCP, Riformanze, n. 28 (1380), c. 60; n. 30 (1382), c. 184. Cf. BAP, Lancellotti, Scorta sagra..., tomo I, c. 195vb (12 giugno).

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144 L’antica sede dell’ospedale coincide con l’attuale cappella di Sant’Anna in Sant’Onofrio, presso la chiesa di Sant’Andrea (cf. MARRI MARTINI 1965). 145 I nomi sono quelli di Bernardo Daddi e Puccio di Simone (fiorentini), Francesco d’Arezzo, Lorenzo Monaco (senese), Francesco Traini (pisano, ma di formazione senese), ai quali bisogna aggiungere il polittico di Santa Croce a Firenze (scuola giottesca), il pannello alla Certosa di Firenze (scuola del Beato Angelico), il trittico della Pinacoteca di Siena e il Sant’Onofrio affrescato dietro il chiostro dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore (presso Siena). 146 Il primo affresco è attribuito al senese Iacopo di Mino del Pellicciaio (cf. SCAPECCHI 1980, pp. 43-44); il secondo, già assegnato al Signorelli, è di attribuzione assai controversa, forse mediocre opera di bottega (KANTERHENRY-TESTA 2001, pp. 258-259). 147 Del monastero, dove il beato Ugolino Zefferini (compatrono di Cortona) trascorse gli ultimi anni della propria vita, oggi rimane solo un’edicola con la Madonna del Latte, affresco di scuola perugina del XIV secolo. 148 REAU 1958, p. 1008; KEACH 1978, p. 267. Uno statuto quattrocentesco dell’Università dei Tintori (recante un Sant’Onofrio all’interno dell’iniziale miniata) è conservato nel museo della Fondazione Horne di Firenze. 149 Chiesa ed ospedale furono ristrutturati nel XIV secolo e, tra alterne vicende, rimasero in possesso dell’arte fino al 1719, quando, venendovi istituito un convento di Cappuccine, i tintori furono costretti a trasferire sede ed ospizio in piazza dell’Uccello, quindi in via San Gallo, infine nell’attuale via Guelfa (PASSERINI 1853, pp. 98-104; FANELLI 1988, pp. 47-48, 60-63 e 196197). In una stanza dell’ospedale di Sant’Onofrio Michelangelo Buonarroti preparò i cartoni della Battaglia di Cascina, celando a tutti il proprio lavoro. 150 Cortona era sotto il dominio di Firenze dal 1411, quando Ladislao di Durazzo, dopo aver messo fino alla signoria dei Casali (1409), vendette la città ai fiorentini. Come altre città toscane, mantenne una certa autonomia amministrativa, mentre le arti, pur sopravvivendo, furono sottoposte a quelle fiorentine affini od uguali. 151 Nella matricola dell’arte conservata alla British Library di Londra (Add. ms. 22497) è registrata al 1439 un’adunanza generale “congregata in ecclesia Sancte Elisabette sita in civitate Perusii Porta Sancti Angeli solito eorum loco” (cf. BAP, Mariotti, Spoglio delle matricole..., pp. 181-188; RONCETTI 2001, pp. 179180). Nel 1647 fu istituita nella chiesa la compagnia di Sant’Onofrio dei Tintori, la quale fondò un altare decorato con un quadro effigiante Sant’Onofrio e quattordici scenette della propria vita: la compagnia ebbe vita effimera e con il tempo si sciolse; la tela oggi si trova nella chiesa dei Santi Sebastiano e Rocco, che ha rilevato la parrocchia di Santa Elisabetta dopo la demolizione della chiesa (BAP, Lancellotti, Scorta sagra..., tomo I, c. 195r [11-12 giugno]; SIEPI 1822, p. 264; MARINELLI 1965, p. 861; MANCINI-CASAGRANDE 1980, p. 80). A Foligno, nel duomo di San Feliciano, l’arte dei tintori aveva il giuspatronato di una cappella dei Santi Onofrio e Barnaba (fondata ai primi del ’400 dalla famiglia degli Onofri), sul cui altare lo Jacobilli descrive un quadro, ora disperso, con Sant’Onofrio nel deserto in atto contemplativo (opera di Ferraù Fenzoni da Faenza); nel 1682 l’arte decise di istituire la festa del santo per l’11 di giugno nella chiesa di Santa Margherita (JACOBILLI 1626, p. 94; METELLI 1981, pp. 170-171). 152 BAEC, Cartapecore Vagnucci, 10 marzo 1682, 31 gennaio 1727, 18 settembre 1736, 27 e 29 marzo 1776. 153 Per la bibliografia relativa alle vetrate, cf. BENAZZI 1996, p. 196. Aggiungi: Mecozzi 1991, p. 151; MARTIN-RUF 1998, pp. 205 (fig. 116), 218-

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225, 339-341 e tavv. 343-346; BENAZZI 1998, pp. 57-68; CARACCIOLO 2005a, pp. 41-44 e 48, note 31 e 34; IDEM 2005b, pp. 11-12. 154 Cf. MARCHINI 1973, p. 162 e nota 309. 155 BAEC, Vita del vescovo..., pp. 70-71. 156 Possiamo farci un’idea dei rapporti proporzionali tra la trifora quattrocentesca e la fiancata sud della cattedrale (sgombrata dalla “fastidiosa” loggia) attraverso il progetto di completamento della decorazione esterna dell’architetto Guglielmo Calderini (scala 1:40), elaborato nel 1880 ed accompagnato da un piccolo opuscolo esemplificativo (BOCO-KIRK-MURATORE 1995, pagg. 70-71). 157 ORSINI 1784, p. 116. 158 Ringrazio i geometri Paolo Zarmanian e Tommaso Caracciolo per aver provveduto a fornirmi queste misure. Il rilievo metrico della sezione trasversale della cattedrale è stato pubblicato da MATRACCHI 1992, p. 246. 159 Questa ricostruzione è stata avanzata per primo dal Marchini, anche se le due terminazioni trilobate rappresentanti colmi di baldacchino coperto a cupola, dallo studioso riferite alla medesima serie, appartengono in effetti ad una serie di altra provenienza (MARCHINI 1973, pp. 161-162): per ora basti osservare come le luci laterali delle trifore non siano coronate da un trilobo come quella centrale, ma da un semplice arco; terminazione trilobata presentano invece le luci delle bifore soprastanti. 160 CRISPOLTI iunior 1648, p. 270. 161 BAP, Lancellotti, Scorta sagra..., tomo I, c. 195v (12 giugno). 162 Cf. anche ROSSI 1864a, p. 16: “il Capitolo sul cominciare del secolo decimosettimo [...] non provvide alla conservazione delle due belle invetriate”. 163 ADP, Visitationes Oddi (1660), ms. 21, c. 42r. 164 BAP, Bigazzini, Vescovi..., c. 9v. 165 GIUSTO 1911, pp. 371-372. 166 ORSINI 1784, p. 116 e nota (c); SIEPI 1822, pp. 80-81. 167 RAMBOUX 1836, p. 111 (in basso). 168 Sulla vicenda delle vetrate e per le fotografie del primo ’900, cf. MARTIN-RUF 1998, pp. 218-225. 169 La Madonna e il Sant’Onofrio sostarono per un breve periodo nella cappella di Sant’Antonio Abate della chiesa inferiore, mentre il San Girolamo transitò in una delle due monofore della cappella di passaggio tra quella di San Martino e quella di San Pietro d’Alcantara (MARCHINI 1956, p. 43 e nota 61). 170 Per una descrizione dei quattro pannelli esposti nel Museo del Tesoro di San Francesco (sala conferenze Pio XI), cf. MARTIN-RUF 1998, pp. 340341. Nel grafico 3, tratto dal MARCHINI (1973, pp. 161-162) e rielaborato, il colore grigio indica le formelle non originali e quelle rimosse dopo l’ultimo restauro; i numeri fanno riferimento all’Elenco dei pannelli (già o tuttora in magazzino) redatto nel 1991 e disponibile presso la Biblioteca del Sacro Convento di Assisi; le misure sono state verificate personalmente, poiché quelle riportate da MARTIN-RUF sono del tutto errate. 171 Non si comprende come si sia potuto affermare che il San Girolamo si staglia contro un fondo giallo (ZOCCA 1936, p. 96). 172 Ibidem. 173 Forse questo volto è il frutto di un ripristino della fine del ’700 (ivi, p. 98); comunque compare già nel disegno del Ramboux del 1836 (fig. 41). Prima del restauro di fine ’900, il pannello risultava concluso ad ogiva, per l’adattamento alla bifora della cappella di Sant’Antonio Abate nella chiesa inferiore, dove sostò temporaneamente nel secondo dopoguerra.

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174 PENNA-CASANOVA 1965, coll. 1132-1134. A parte il fatto che Girolamo (341 ca-420) non fu mai cardinale, l’abito purpureo venne in uso solo dal XIII secolo. Lo stemma di Cortona è costituito da una “variante” del leone di San Marco: significativo che esso compaia, insieme a sant’Onofrio, negli smalti del tempietto del Reliquiario Vagnucci di Cortona (cf. par. IV, 1). 175 GIUSTO 1911, pp. 244-245; BENAZZI 1996, p. 196; MARTIN-RUF 1998, p. 343 (n. 302). 176 Si tratta di una rappresentazione tipica dell’iconografia orientale: il globo simboleggia l’intera creazione divina e il regno di Cristo in cielo e in terra (HEINZ MOHR 1984, pp. 126-127 e 316-317). 177 MARCHINI 1973, p. 162. Infatti, essendo il pannello destinato ad una luce tripartita, di cui doveva occupare la posizione centrale, fu necessario trasformare il profilo originario in rettilineo. Nel disegno del Ramboux (1836), precedente il restauro del Bertini, i due cherubini non compaiono (fig. 41). 178 BENAZZI 1996, p. 196. Con questi due cherubini, il pannello venne trasformato in ogivale e riadattato alla bifora della cappella di Sant’Antonio Abate nella chiesa inferiore, dove nel secondo dopoguerra rimase montato per un breve periodo. 179 Il tabernacolo non ha pianta esagonale, bensì ottagonale; inoltre gli archetti non sono dentellati, ma trilobati, e poggiano su colonnine che al motivo tortile (piatto e largo) delle altre tre edicole sostituiscono una spirale molto simile a quella del trono della Vergine. 180 BASCAPÈ-DEL PIAZZO 1983, pp. 608 e 615. 181 Già negli smalti del piede del Reliquiario Vagnucci (1457-1458), l’orso del blasone occupava il medesimo spazio riservato alle figure dei santi, rappresentati però a mezzo busto e non a figura intera (cf. par. IV, 1). 182 BENAZZI 1996, p. 196. A queste dobbiamo ovviamente aggiungere il monumentale finestrone absidale di San Domenico, realizzato nel 1411 da Bartolomeo di Pietro da Perugia (vetratista) e da Mariotto di Nardo da Firenze (pittore): proprio quest’ultimo, secondo il MARCHINI (1956, p. 43 e nota 61), avrebbe introdotto a Perugia la tipologia tardo-gotica delle “finestre-baldacchino”. 183 BENAZZI 1996, p. 185. 184 Ivi, pp. 185-186; EADEM 2004, pp. 406-407. Per i due documenti (ASP, Sezione di Foligno, Notarile, Serie I, 76 bis, notaio Battista di Gianni, 17 maggio 1485; Miscellanea. Anonimi e frammenti, 140, notaio non identificato, 5 novembre 1488), cf. FELICETTI 2000, pp. 92-93 e 96-97; il documento del 1488 è stato pubblicato da M. SENSI (1982, pp. 105-107). 185 BENAZZI 1994, pp. 438-439. Per la descrizione delle immagini, la storia dei pannelli, i disegni della prima metà del XIX secolo, le fotografie del primo ’900 e la bibliografia relativa, cf. MARTIN-RUF 1998, pp. 205 (fig. 116), 207 (fig. 120), 215 (fig. 135), 218-225, 337-339, 344 (n. 303) e tavv. 341342; BENAZZI 2004, pp. 406-407. 186 EADEM 1996, p. 196. 187 MARCHINI 1956, p. 43 e nota 61; IDEM 1973, pp.163-164. 188 Su questa opera del Caporali, cf. BERNARDINI 1991, pp. 26-27. 189 BENAZZI 1996, p. 196. 190 THODE [1885], p. 471. 191 Cf. SUPINO 1924, pp. 217-219; anche MARCHINI 1973, p. 162 e nota 309. 192 Tra l’altro, sappiamo che il pittore perugino Benedetto Bonfigli giunse a Roma nei primi mesi di quello stesso anno: un arrivo che, certamente determinato da numerosi fattori, andrebbe messo in relazione anche con la presen-

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za del Vagnucci. Allo stesso modo, il vescovo perugino e Pietro di Noceto, primo segretario di Niccolò V e amico del cappellano dei priori di Perugia, potrebbero aver pesato nella decisione di questi ultimi di assegnare a Benedetto il ciclo della cappella Nuova dei Priori (MANCINI 1992a, pp. 36-38 e 53). 193 Sul messale ms. 10, cf. par. III, 3. Su Bartolomeo Caporali, cf. cap. III, nota 45 e cap. IV, nota 69. 194 Un disegno ricostruttivo della trifora si trova in FALOCI PULIGNANI 1903, p. 182 (il disegno, rielaborato, è stato utilizzato per la ricomposizione virtuale della fig. 47). 195 JACOBILLI 1626, p. 85; MARCHINI 1973, pp. 164-165 e tav. 134. Nel grafico 4, i pannelli indicati in grigio sono esposti nella sala conferenze Pio XI del Museo del Tesoro di San Francesco ad Assisi, davanti a quelli provenienti dal duomo di Perugia; gli altri si trovano nei magazzini del convento; la numerazione fa riferimento all’Elenco dei pannelli redatto nel 1991; le frecce indicano l’orientamento delle figure. 196 Cf. FALOCI PULIGNANI 1937. 197 MARCHINI 1973, p. 162. 198 Ivi, p. 164 e tav. 133.

Capitolo III Perugia, cattedrale di San Lorenzo 1. Il Monumento Baglioni (1451) 2. Gli altari di Agostino di Duccio (1473-1475) 3. Il messale della Biblioteca Capitolare (1474-1478) 4. Il tabernacolo di Niccolò del Priore (1491-1492)

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Introduzione In attesa di approfondite indagini nell’Archivio Capitolare di San Lorenzo (oggetto di una recente catalogazione), il ruolo di Iacopo Vagnucci nella ricostruzione del massimo “tempio” perugino può essere, per il momento, solo intuito sulla base di una coincidenza cronologica con gli anni del suo episcopato; il discorso è diverso, invece, per quanto riguarda la decorazione (scultorea, lignea e pittorica) degli interni della cattedrale, dove l’impronta lasciata dal prelato cortonese (e, successivamente, dal nipote Dionisio) sembra emergere con maggiore evidenza. Il XV secolo, nel clima generale di rinnovamento edilizio della città, segna anche per il duomo una forte ripresa nella committenza artistica privata, secondo i nuovi orientamenti teorizzati da Leon Battista Alberti nel De re aedificatoria (1452): non più vasti cicli di pitture murali, tipici della tradizione gotica, ma altari isolati con tavole dipinte o, preferibilmente, scolpite a rilievo. Non è infatti casuale che, a Perugia, il massimo protagonista di questo mutato indirizzo sia il fiorentino Agostino di Duccio, che aveva lavorato con l’Alberti, suo concittadino, nel Tempio Malatestiano di Rimini1. Oltre ad Agostino, in cattedrale si alternano gli scalpelli di Urbano da Cortona, Bartolomeo Bellano detto “da Firenze” (in effetti era padovano), Benedetto Buglioni, Giuliano da Maiano e Domenico del Tasso (tutti originari della “città dell’Arno”): bastano i nomi ad evidenziare un orientamento artistico di marca esplicitamente toscano-fiorentina, del quale il vescovo perugino non può che essere il primo responsabile. A questo punto viene da chiedersi, per usare un’espressione dello Scarpellini, se il cortonese non sia il “vero deus ex machina dell’intero rinnovamento del duomo perugino”2. Al suddetto quesito è connessa la necessità di chiarire se l’ornamentazione quattrocentesca sia il frutto di interventi isolati, legati alle singole committenze, o il risultato di un progetto organico, capace di porre in diretta contiguità la fase decorativa con quella costruttiva3: se le difficoltà incontrate nella riedificazione del duomo e le manomissioni da esso subite nei secoli successivi possono aver generato una certa impressione di frammentarietà, d’altra parte vediamo contemporaneamente impegnate su ambo i versanti sia maestranze locali (Bartolomeo di Mattiolo, Ludovico d’Antonibo, Piero di

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Giovanni), sia lombardo-comacine (Gasparino d’Antonio, Pietro Paolo di Andrea), sia toscane (Pagno di Lapo Portigiani, oltre ai nomi già menzionati). Tra la fine del ’400 e gli inizi del ’500, sarà proprio il capolavoro commissionato dai Vagnucci al Signorelli ad inaugurare, in luogo della mostra d’altare marmorea, la preferenza per la pala dipinta appoggiata sulla mensa, coniugata ad un rinnovato interesse per la pittura ad affresco (a partire dai perduti lavori intrapresi dal Perugino nella cappella del Crocifisso). Nel corso dei secoli, poi, l’incapacità della scuola perugina di raccogliere l’eredità lasciata dai maestri della scultura toscana, il rinnovamento tardo-rinascimentale, il mutato clima della Controriforma, le nuove esigenze del classicismo settecentesco (si pensi al giudizio negativo dell’Orsini)4 e, infine, il restauro purista condotto alla metà del XIX secolo, saranno responsabili del progressivo isolamento in cui sono andate cadendo le opere scultoree del ’400, con la conseguenza di essere distrutte o, nella migliore delle ipotesi, smantellate o alterate5.

1. Il Monumento Baglioni (1451) Storia del cenotafio e sua attribuzione Paradossalmente, l’unica opera ad essersi conservata, anche se in una foggia piuttosto difforme rispetto alla conformazione originaria, è proprio la più antica, il cosiddetto Monumento Baglioni (fig. 59), oggi collocato a sinistra dell’uscita principale (od orientale) della chiesa (n. 18)6. Si tratta della tomba pensile di Giovanni Andrea Baglioni, vescovo di Perugia dal 1435 al 1449, la cui immagine giacente occupa la parte superiore del monumento. La data del 1451, precocissima, può essere desunta dall’iscrizione che si snoda nel riquadro mediano della tomba (fig. 60): HEC BREVIS ILLUSTRI BALIONA AB ORIGINE || CRETUM ANDREAM TEGIT URNA GRAVEM VEN || ERANDA IOHANNEM INGENTI VIRTUTE VIRUM QUI IN IU || RE SACRORUM DOCTOR PONTIFICUM ET TECTIS || SURGENTIBUS AUCTOR LAURENTI ECLESIE PER || USINUS PRESUL ET INGENS ANTISTES VIX || IT NUNC ALTA IN PACE QUIESCENS || MCCCCLI

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Fig. 59 Urbano da Cortona, Monumento Baglioni, 1451. Perugia, cattedrale di San Lorenzo.

[Questa piccola urna, degna di venerazione, conserva il nobile Giovanni Andrea, disceso dalla illustre stirpe dei Baglioni, uomo di grandissima virtù, dottore nel sacro diritto pontificio e sostenitore della nascente fabbrica di San Lorenzo, che visse quale vescovo perugino e sacerdote esemplare, ora riposando nella pace del Cielo. 1451.]

L’opera in origine si trovava addossata alla parete sud (n. 9), tra la cappella del Gonfalone, nel ’500 detta di San Giovanni (o del Fonte Battesimale), e l’uscita secondaria verso la piazza Maggiore7. In questa posizione, infatti, è attestata nel 1564 dal vescovo Fulvio Della Corgna, che la vede collocata sopra

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Fig. 60 Monumento Baglioni, part. con l’iscrizione dedicatoria e i putti reggistemma.

un altare dedicato a san Girolamo: il tutto, però, non è di suo gradimento, perché, durante la seconda visita pastorale del 1568, dà l’ordine di smantellare l’altare, riservandosi di decidere sulla sistemazione della tomba che, qualora fosse rimasta al suo posto, avrebbe dovuto comunque essere allestita in modo più decoroso8: 1564. Visitavit altare Sancti Hieronimi positum prope portam maiorem dicte ecclesie et, cum ibi esset cadaver reverendissimi domini ... de Ballionibus olim episcopi perusini et statura rilievi ipsius episcopi in petra marmorea sumptuose facta et in muro apposita, reservavit sibi alias deliberandi an debeat removeri, cum ex ordine summi pontificis removende sint ex ecclesiis capse mortuorum et alia in altum posita et eminentia deposita, vel sic dimitti, cum potius videat locum decorare. 1568. Visitavit altare Sancti Hieronimi iuxta primam portam ecclesie, quod altare supra se habet quoddam sepulchrum marmoreum reverendissimi olim Andree de Balionibus episcopi perusini, quod altare iussit quam primum removeri de sepulchro, vero reservavit alias declarare quid agendum sit.

Evidentemente il vescovo e i canonici della cattedrale optarono per questa seconda soluzione, perché il cenotafio del Baglioni mantenne la sua antica collocazione: qui lo testimoniano il Crispolti (1648), il Galassi (1776), il Siepi (1822), il disegno di Gregorio Amadei (1834; fig. 61) e quello pubblicato dal Rotelli (1864; fig. 62)9. Nel 1849-1852, in occasione del rifacimento del pavimento, voluto dal vescovo Cittadini ma fatto eseguire dal successore Gioacchino Pecci (1846-1878), la tomba venne collocata nel sito attuale (al posto di un altare dedicato ai santi Ivo e Marta, giuspatronato dei Coppoli)10, in posizione simmetrica rispetto al monumento funebre di

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Fig. 61 G. Amadei, Disegno dell’interno della cattedrale (part.), riproduzione fotografica dell’originale del 1834. Perugia, Museo Capitolare di San Lorenzo.

Marcantonio Oddi (n. 16), trasferito nella controfacciata destra dalla chiesa di Sant’Agostino (1855). Probabilmente è in questa circostanza che il sepolcro del Baglioni, forse già alterato nella disposizione dei suoi elementi (con l’inversione tra il sarcofago e il blocco delle quattro Virtù cardinali), venne rimontato con un assetto differente da quello schizzato da Johann Anton Ramboux agli inizi del XIX secolo (fig. 63)11.

Fig. 62 Disegno dell’interno della cattedrale, pubblicato da L. Rotelli nel 1864.

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Fig. 63 Ricostruzione virtuale dell’assetto originario del Monumento Baglioni.

I bassorilievi della fronte (le Virtù, gli angeli reggi-stemma e il festone decorativo; figg. 60 e 64) sono eseguiti in marmo (forse di Carrara) levigato con cura, mentre la figura del vescovo giacente è realizzata sommariamente in calcare locale (si notino i piedi piccolissimi e le enormi mani piatte), a dimostrazione di come, anche nell’ubicazione originaria del monumento, essa fosse collocata molto in alto rispetto al punto di vista dell’osservatore12. Nonostante alcune mediocrità (soprattutto le mani delle Virtù), si tratta di un’opera di indiscusso valore, assegnata dalla critica moderna ad un “povero scalpellino” (Venturi), Urbano di Pietro da Cortona (1426 ca-1504), già allievo di Donatello (1386-1466) a Firenze e a Padova. L’attribuzione è stata avanzata dallo Schubring, riproposta da Venturi ed infine confermata dalla Magliani e da Gentilini13.

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Fig. 64 Monumento Baglioni, part. con le Virtù della Temperanza e della Fortezza.

Commissione e realizzazione della tomba Dai documenti sappiamo che Urbano soggiornò a Padova, dove collaborava con il maestro alla decorazione dell’altare del Santo, dall’aprile del 1446 al settembre del 1447; terminato l’impegno padovano, decise di abbandonare Donatello (con il quale i rapporti non erano idilliaci) per affermarsi come artista autonomo, anche se le sue modeste qualità lo dissuasero dal rientrare a Firenze, dove la concorrenza dei maestri locali (Desiderio da Settignano, Luca Della Robbia e i fratelli Rossellino) gli lasciava ben poco spazio14. Ristabilita così la residenza a Cortona, Urbano potrebbe essere giunto a Perugia tra la fine del 1449 (il Baglioni era morto in ottobre) e i primi mesi del 1450, forse chiamato dal conterraneo Iacopo Vagnucci, vescovo neo-eletto della città: in quel lasso di tempo, tra l’altro, non è da escludere che Iacopo, nei suoi spostamenti tra Roma e Bologna (dove esercitò le funzioni di governatore), sia transitato almeno una volta per la nativa Cortona, dove è possibile che abbia contattato direttamente lo scultore15. Tuttavia l’inizio del soggiorno perugino di Urbano potrebbe essere anticipato al 1448, data scolpita sulla lastra tombale del medico Luca di Simone in Santa Maria Nuova (ma proveniente dalla distrutta chiesa di Santa Maria dei Servi), opera che, posta a confronto

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con le analoghe e successive produzioni senesi dello scultore, potrebbe essere ricondotta proprio alla sua mano16. Comunque, a parte il dato scontato della comune origine cortonese, diversi elementi avvalorano l’ipotesi di un interessamento del Vagnucci: innanzitutto, questi conosceva molto bene il Baglioni, anch’egli protetto di papa Eugenio IV, dal quale venne innalzato alla dignità vescovile nel 1435 a Firenze, dove probabilmente Iacopo si era già trasferito. Inoltre, abbiamo visto come il Vagnucci intendesse “ereditare” l’impegno personale profuso dal suo predecessore a beneficio della fabbrica di San Lorenzo, mentre non è casuale che nell’iscrizione dedicatoria (fig. 60) il vescovo Giovanni Andrea sia qualificato come “tectis surgentibus auctor”, e che il suo cenotafio venisse collocato all’interno del duomo vecchio (che arrivava all’altezza del portale laterale), quasi a vegliare su quei lavori che il Baglioni aveva avviato con tanta energia. Infine, alla partenza di Donatello per Padova e della corte pontificia alla volta di Roma (1443), Urbano già si trovava nella bottega fiorentina del maestro, dove Iacopo potrebbe benissimo averlo conosciuto17. Il monumento venne realizzato entro la primavera del 1451, perché il 16 luglio di quell’anno Urbano si trovava sicuramente a Siena, dove la partenza di Antonio Federighi (Siena, ?-1490 ca), chiamato a dirigere il cantiere del duomo di Orvieto (1451-1456), aveva lasciato campo libero allo scultore: il cortonese vi sarebbe rimasto fino alla morte, realizzando tutta una serie di lavori nei quali l’insegnamento donatelliano (ancora palese nella tomba di Perugia) andò progressivamente perdendosi, nonostante una rinnovata collaborazione con l’antico maestro in occasione del soggiorno senese di costui (1457-1459)18.

La statua bronzea di Paolo II Molti anni più tardi (1466), un altro allievo e assistente di Donatello sarebbe stato chiamato ad eseguire la statua bronzea del pontefice Paolo II (1467), già collocata nella nicchia (opera del lapicida perugino Piero di Giovanni) sovrapposta all’edicoletta della facciata meridionale del duomo di San Lorenzo, quindi andata distrutta ai tempi dell’occupazione napoleonica di Perugia (1798): si tratta di Bartolomeo Bellano (1437/81496/7), scultore padovano figlio di un orefice, la cui breve biografia è compresa tra le Vite di Giorgio Vasari. Mentre Urbano

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da Cortona, in un documento senese del 1451, non è denominato “da Padova”, poiché era rientrato nella propria città natale, viceversa il padovano Bartolomeo, in due documenti perugini del novembre 1467, è chiamato “de Florentia”, perché qui aveva seguito il maestro Donatello (al quale era ben più legato di Urbano) nel 1454, dopo aver collaborato all’altare del Santo. Nella decisione dei magistrati perugini di affidare l’opera al Bellano, che probabilmente si era già cimentato con l’effigie del papa durante un precedente soggiorno romano (busto marmoreo di Paolo II, 1464, Museo di Palazzo Venezia), potrebbe aver pesato l’autorità di Iacopo Vagnucci, di cui conosciamo gli intensi rapporti intercorsi con Paolo II durante tutto il periodo del suo pontificato (1464-1471)19.

2. Gli altari di Agostino di Duccio (1473-1475) Da Rimini a Perugia: la facciata di San Bernardino Una breve monografia dedicata al fiorentino Agostino di Antonio di Duccio (1418-post 1481) recita nel sottotitolo “itinerari di un esilio”20, in riferimento al lungo peregrinare dello scultore, a partire dall’episodio del furto di argenterie nella chiesa della SS. Annunziata a Firenze (ante 1446)21. L’ambito d’indagine del presente studio non permette di esaminare dettagliatamente i vari lavori intrapresi dallo scultore a Perugia, per cui ci si limiterà a delineare alcune problematiche e ad osservare come le tappe di quell’esilio siano strettamente connesse alla figura del Vagnucci, cui lo scultore sembra legare buona parte della propria carriera artistica. Nel 1447 Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, incaricava il veronese Matteo De’ Pasti (morto nel 1468) di sovrintendere alla ristrutturazione interna della chiesa gotica di San Francesco e, successivamente, Leon Battista Alberti (1406-1472) di “rivestire” in forme moderne l’intero edificio22: tra quella data e l’inizio dei lavori esterni (1450), sicuramente prima del giugno del 1449, Agostino giunse a Rimini, per attendere, sotto la direzione di Matteo De’ Pasti, alla decorazione scultorea delle cappelle del tempio, di cui una (la prima a destra dopo l’entrata) dedicata a san Sigismondo, santo eponimo del committente. Nel 1457, in seguito all’in-

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terruzione dei lavori, Agostino lasciò Rimini, per approdare a Perugia il 17 luglio di quell’anno23. Diversi sono i canali attraverso i quali lo scultore potrebbe essere giunto in città, dove era chiamato a realizzare la facciata dell’oratorio di San Bernardino, annesso al monastero dei padri francescani Conventuali: grande promotore dell’impresa dell’oratorio, la cui costruzione era stata avviata sin dalla primavera del 1451, fu il generale dei frati Minori Angelo del Toscano, che ebbe il merito di convogliare sul monumento le attenzioni del comune, ma morì troppo presto (agosto del 1453) per essere considerato il responsabile della venuta dello scultore; chiamare in causa i molteplici rapporti tra Perugia e Firenze, poi, è abbastanza problematico, perché sappiamo che Agostino era stato bandito dalla propria città natale per l’accusa di furto24. Più che l’arruolamento da parte del Malatesta di Guido Baglioni (fratello minore di Braccio), mandato contro Federico da Montefeltro nel 1456, dovette risultare decisivo l’interessamento di Iacopo Vagnucci che, dal 1448 al 1449, fu vescovo di Rimini, succedendo proprio ad un Malatesta (dal quale, il 31 ottobre 1447, era stata benedetta la prima pietra della cappella di San Sigismondo). A questo proposito, si notino due particolari molto significativi: Agostino giunse a Perugia poco dopo l’ingresso del Vagnucci nella sua nuova diocesi (marzo del 1456), anche se il cortonese ne ripartì quasi subito alla volta di Roma; secondo, l’ex-chiesa di San Francesco a Rimini dipendeva dal ministro provinciale di Bologna, dove il Vagnucci svolse le funzioni di governatore subito dopo la breve parentesi riminese: il provinciale bolognese era Francesco da Rimini, che nel 1450 fu presente al Capitolo generale di Roma - durante il quale (24 maggio) Niccolò V celebrò la canonizzazione di san Bernardino (e in quella cerimonia il Vagnucci gli era accanto) - e nel maggio del 1453 al Capitolo generale di Perugia, nella cui occasione venne inaugurato solennemente l’oratorio (beneficiato dall’indulgenza concessa da Niccolò V con la bolla Splendor paternae gloriae). La facciata di San Bernardino venne compiuta entro il 1461, come attesta l’iscrizione scolpita sull’architrave del monumento25: nel 1462 il Bonfigli e Angelo di Baldassarre Mattioli ne diedero una perizia favorevole allo scultore che, nel frattempo, aveva realizzato altre opere, tra cui l’altare di San Lorenzo nella chiesa di San Domenico (1459)26.

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L’altare di San Bernardino in duomo Il grande dispendio di energie e denaro, concentrato sull’oratorio dai francescani e dal comune, aveva oscurato altre importanti iniziative, volte a celebrare la figura di san Bernardino all’indomani della canonizzazione: tra queste spicca certamente la costruzione di una cappella intitolata al santo nel massimo “tempio” perugino, precisamente all’inizio della navata sinistra (nel sito oggi occupato dalla cappella del Sant’Anello; n. 14). Essa fu deliberata sin dal marzo del 1451 (a questa data risale il San Bernardino affrescato sul pilastro che la delimitava; n. 15)27, ma solo nel 1473, dopo numerose nomine di soprastanti e continui rinvii, e sull’onda di un rinnovato interesse per il santo (il cui corpo venne in quell’anno traslato all’Aquila), Agostino di Duccio dava finalmente inizio ai lavori28. Infatti l’artista, dopo l’infelice parentesi bolognese (1462) e l’altrettanto deludente ritorno a Firenze (1463), città egemonizzata dalle botteghe dei soliti scultori (con l’aggiunta del Verrocchio), tornò a Perugia29, dove poteva facilmente dominare un ambiente artistico “provinciale” e contare sull’appoggio del Vagnucci, che subito lo indirizzò alla decorazione plastica della cattedrale, la cui costruzione era giunta nel frattempo ad uno stadio avanzato. La cappella di San Bernardino venne compiuta nella primavera del 1475, ma da quest’anno inizierà per essa un interminabile “calvario”: officiata solo nel 1483, già nel 1486 veniva smantellata per essere ricomposta alla bell’e meglio sul lato opposto (n. 19); nel 1515 il patronato passò al collegio della Mercanzia, che si incaricò di rinnovarla completamente (1559); nel 1793, infine, venne ricostruita nelle forme attuali: del complesso quattrocentesco e di quello manieristico non si conserva praticamente nulla30. Con una possibile eccezione: le famose Tavolette di San Bernardino della Galleria Nazionale dell’Umbria, datate “1473 FINIS” (anno coincidente con quello dell’inizio dei lavori). Infatti Laura Teza, in un saggio di recente pubblicazione31, ha voluto dimostrare, con argomenti molto interessanti, la possibile provenienza dall’omonima cappella in duomo delle otto tavolette, da sempre riferite al complesso di San Francesco al Prato (dove “comparvero” misteriosamente nel 1784) e poste in relazione con il “gonfalone” di Bonfigli del 1465 (di cui avrebbero costituito, per così dire, la cornice)32: di quest’ulti-

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mo, d’altra parte, si continua a sollevare il problema di un possibile uso processionale, nonostante che l’iconografia, come ha dimostrato Mancini, lo escluda chiaramente33. Comunque, se davvero l’origine delle tavolette andasse ricercata in cattedrale, l’altare di San Bernardino, da sempre considerato una realizzazione esclusivamente lapidea di Agostino, diventerebbe una mostra polimaterica, col risultato di ridurre il ruolo dello scultore a ben poca cosa, anche perché da fonti indirette veniamo a conoscenza, per la parte lapidea, di motivi decorativi che sembrerebbero estranei al linguaggio corrente del fiorentino34. È davvero difficile, però, immaginare come la mostra scultorea potesse integrarsi con la Nicchia di San Bernardino, che negli sguanci accoglieva le tavolette e il “celetto” col trigramma bernardiniano, sul fondo un misterioso “quadro” di Bonfigli35 e anteriormente una statua lignea o fittile del santo36. Una soluzione, quella della nicchia foderata di tavole, “povera” e tipicamente francescana che, obiettivamente, sembra mal adattarsi al contesto quattrocentesco degli altari in pietra di cui la chiesa era disseminata, anche se l’altare della Madonna del Verde (1477-1479) offre un esempio quasi coevo di integrazione tra tavole dipinte (quelle del Caporali) e mostra marmorea. Se fosse dimostrata la provenienza delle tavolette dal duomo, bisognerebbe considerare seriamente l’ipotesi, già avanzata da alcuni studiosi37, che alla cosiddetta “Bottega del 1473” (forse coordinata dal medesimo Caporali) abbia partecipato anche Pierantonio di Niccolò del Pocciolo che, in quegli anni, miniava per il Vagnucci il ms. 10 della Biblioteca Capitolare di San Lorenzo (cf. par. 3).

L’altare della Pietà (e altri lavori) Contemporaneamente alla cappella di San Bernardino e poco lontano da essa, tra l’accesso al pulpito esterno e l’uscita meridionale, Agostino attese alla costruzione dell’altare della Pietà (n. 11), commissionatogli dall’ospedale della Misericordia su lascito testamentario di Niccolò Ranieri, nobile perugino: l’opera fu realizzata tra il maggio del 1473 (quando il Capitolo le assegnò il sito) e l’aprile del 1474 (allorché venne stimata da un maestro comacino)38. L’altare, attestato in quella posizione dal vescovo Fulvio Della Corgna, che vi scorgeva accanto una piccola mensa dedicata a san Matteo (n. 13)39, ebbe una vita piuttosto travagliata, testimoniata nelle varie fasi dalle visite

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pastorali e dalla letteratura locale: dopo l’ultima collocazione (1832) nei pressi del transetto sinistro (n. 7), quel poco che sopravvive della pala marmorea è passato nei depositi, con destinazione Museo Capitolare. Esaurito il duplice impegno della cattedrale, nel 1475 Agostino ottenne una nuova commissione tra il duomo e il palazzo vescovile: la facciata dell’oratorio della Maestà delle Volte40, distrutta dall’incendio del 1534 e definitivamente demolita nel 1566, di cui oggi rimangono alcuni frammenti esposti nella pinacoteca perugina. In precedenza, sin dal maggio del 1473, gli era stato affidato anche il rivestimento marmoreo della Porta alle due porte, ubicata tra il convento di San Domenico e il monastero di San Pietro41. Al secondo soggiorno perugino risale infine la replica in gesso (incassata nella parete destra del duomo) della Madonna col Bambino conservata al Bargello di Firenze42.

Il trasferimento ad Amelia Agostino concluse la sua straordinaria carriera artistica in una piccola cittadina dell’Umbria meridionale, Amelia, dove si recò nel 1476, anche se le ultime notizie che abbiamo di lui ne documentano la presenza nel 1480-1481 ancora a Perugia, dove provvedeva alle rifiniture della Porta alle due porte43. Ad Amelia lo scultore eseguì due monumenti funerari nella chiesa di San Francesco, più un terzo probabile in cattedrale: quelli del vescovo Giovanni Geraldini, dei coniugi Matteo ed Elisabetta Geraldini (fig. 65) e del vescovo Ruggero Mandosi44. Nonostante che, nel 1477, si allogasse nel duomo perugino l’altare della Madonna del Verde (assegnato al lapicida lombardo Pietro Paolo di Andrea da Como), in parte superstite all’interno della cappella del Battistero (n. 23)45, è molto probabile che Agostino venisse indirizzato ad Amelia ancora una volta dal Vagnucci, che vi aveva esercitato le funzioni di governatore fino al 1471: in quella circostanza Iacopo ebbe modo di intrecciare rapporti sia con l’influente famiglia Geraldini (che nel 1476 ospitò per venti giorni papa Sisto IV) e, in particolare, con Giovanni (vescovo di Catanzaro, morto nel 1488) ed Angelo (vescovo di Sessa, morto nel 1486, figlio dei coniugi Geraldini); sia con Ruggero Mandosi, vescovo di Amelia per ben 40 anni, dal 1444 al 1484 (quando rinunciò all’episcopato, morendo probabilmente l’anno seguente)46.

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Fig. 65 Agostino di Duccio, Monumento dei coniugi Geraldini, 1477. Amelia, chiesa di San Francesco, cappella di Sant’Antonio Abate.

Non è da escludere che all’ultimo soggiorno di Agostino ad Amelia possa essere ricondotta, in qualche modo, la pietra tombale del medico Andrea Chirurghi (in Santa Maria Nuova a Perugia), celebre dottore perugino (insignito della cittadinanza nel 1467) morto ad Amelia nel 1490, data riportata ai piedi della lastra47.

3. Il messale della Biblioteca Capitolare (1474-1478) Un esemplare di gran lusso Tra i numerosi codici miniati dei secoli XIII-XV appartenenti alla Biblioteca del Capitolo di San Lorenzo, spicca il ms. 10 (di cc. 353), oggi esposto in una sala del Museo della

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Fig. 66 Pierantonio di Niccolò del Pocciolo, Messale ms. 10, 1474-1478, dorso e prima di coperta. Perugia, Museo Capitolare di San Lorenzo.

Fig. 67 Messale ms. 10, quarta di coperta.

Cattedrale (figg. 66-67)48: si tratta di un messale romano (cc. 7r-351v) risalente all’ottavo decennio del ’400 e realizzato per Iacopo Vagnucci, come dimostra inequivocabilmente lo stemma prelatizio dipinto sul margine destro della pagina che funge da frontespizio (c. 7r); invece il tondo con san Lorenzo, nel margine inferiore della medesima carta, e il carattere tipicamente perugino del calendario anteposto al messale (cc. 1r-6v)

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Fig. 68 Messale ms. 10, frontespizio miniato (c. 7r).

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indicano chiaramente come l’opera sia stata eseguita per l’ufficio liturgico della cattedrale (figg. 68-70). Ci troviamo di fronte ad un esemplare membranaceo di gran lusso, le cui caratteristiche riflettono il gusto e la raffinatezza del committente: legatura coeva in assi e cuoio con ricche impressioni (alcune delle quali in oro), piatti provvisti di borchie di ottone agli angoli (sul piatto anteriore ne mancano due),

Fig. 69 Messale ms. 10, part. del frontespizio con lo stemma del vescovo Vagnucci.

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Fig. 70 Messale ms. 10, part. del frontespizio con la figura di san Lorenzo.

Figg. 71-72 Messale ms. 10, particolari delle cc. 16v e 26r con capilettera miniati (Natività e Adorazione dei Magi).

Figg. 73-74 Messale ms. 10, particolari delle cc. 195r e 248v con capilettera miniati (Pentecoste e Annunciazione).

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Fig. 75 Messale ms. 10, part. della c. 282r con capolettera miniato (Nascita della Vergine).

quattro fermagli (di cui uno solo integro), taglio delle pagine dorato, pergamena bianca di ottima qualità, bella gotica regolare su due colonne, inchiostro multicolore (nero, blu, rosso, oro), decine di capilettera miniati (18 dei quali con figurazioni; figg. 71-75), frontespizio interamente miniato49.

Il servizio liturgico di San Pietro La vicenda attributiva del ms. 10 è piuttosto complessa ed ha come imprescindibile punto di riferimento (e termine di confronto) il servizio liturgico fatto eseguire dai monaci di San Pietro (sottoposti alla congregazione di Santa Giustina di Padova) negli anni 1471-1473, e composto dai codici segnati con le lettere A, B, I, K, L, M50: I) antifonario dalla prima Domenica d’Avvento alla Quaresima, pagato a Pierantonio di Niccolò del Pocciolo nel 1471-1472, datato novembre 1472 (frontespizio con l’Annunciazione e san Pietro; carta con i santi Pietro e Paolo, san Benedetto e santa Giustina); L) antifonario dalla Quaresima alla festa dei Santi Pietro e Paolo, pagato a Pierantonio di Niccolò del Pocciolo nel 1471-1472 (miniatura con il Cristo benedicente);

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M) antifonario dalla festa dei Santi Pietro e Paolo alla prima Domenica d’Avvento, pagato a Giapeco Caporali nel 1472-1473 (frontespizio con san Pietro in cattedra); K) santorale realizzato da Giapeco Caporali nel 1472-1473, trafugato a Perugia nel 1906, oggi a New York; A) graduale eseguito da due collaboratori di Pierantonio di Niccolò del Pocciolo (il fratello Niccolò e un tale Bernardino); B) kiriale realizzato dai sopraddetti.

A ciò dobbiamo aggiungere la miniatura (serpente con testa di grifone perugino) della Riformanza 110, eseguita “gratuitamente” da Giapeco Caporali durante il suo priorato del 1474 (bimestre maggio-giugno)51. L’insieme di queste miniature, confortato dai dati documentari, ci permette di distinguere nettamente la maniera di Giapeco da quella di Pierantonio (entrambi morti nel 1478) e di rilevare la mediocrità del primo al cospetto del secondo, dotato di sapienza prospettica e sensibilità volumetrica, conoscitore della miniatura ferrarese e padovana mediatagli dal monastero benedettino (come si desume dalla qualità lucente e metallica del suo modellato), aggiornato sulle novità figurative più avanzate: emblematico l’angelo dell’Annunciazione (codice I), stretto “parente” di quello appena dipinto da Piero della Francesca nella cimasa del Polittico di Sant’Antonio (ante 1468). Non a caso, Pierantonio di Niccolò del Pocciolo, oltre ad essere miniatore, dalla metà circa del secolo era iscritto per Porta Sant’Angelo alla matricola dei pittori perugini: nel 1475 venne nominato camerlengo dell’arte; nel 1479, essendo stato rieletto maldestramente in quella carica (in quanto, benché defunto, il suo nome era rimasto nel bussolo), fu sostituito dal fratello Niccolò, anch’egli iscritto alla matricola dei pittori52.

Attribuzione, datazione e commissione Dopo una prima comparsa alla Mostra di antica arte umbra del 190753, la fortuna critica del messale di San Lorenzo ha inizio con la Mostra storica nazionale della miniatura (Roma, 1953), dove viene esposto con l’attribuzione a Giapeco Caporali, poi confermata dal Muzzioli (1954). Il Caleca (1969) assegna a Giapeco l’ideazione generale del messale, relega i capilettera nel limbo della bottega e chiama in causa Bartolomeo Caporali per i brani più alti del frontespizio (san Lorenzo e alcuni putti), mentre il David, l’Eterno e il fregio

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spetterebbero allo stesso Giapeco54. Lo Scarpellini (1975) conferma le distinzioni del Caleca e, notando la maggiore disinvoltura di Giapeco rispetto all’antifonario M di San Pietro, data il codice all’ultimo periodo di attività del pittore (poco prima del 1478). In verità, poiché le sottili differenze individuate dal Caleca sono impalpabili, la pagina sembra opera di una stessa mano, che ripetuti interventi del Lunghi (1984, 1987, 1992) hanno permesso di individuare in quella di Pierantonio, sulla base di confronti stilistici con le miniature degli antifonari I ed L di San Pietro. In particolare, mi sembra molto significativa la coincidenza d’impostazione tra il frontespizio del ms. 10 (c. 7r; fig. 68) e quello dell’antifonario I (c. 1r): una pagina interamente contornata da un esuberante fregio con volute vegetali, tra le quali alcuni putti giocano o suonano strumenti musicali; nel margine inferiore, entro una ghirlanda circolare sorretta agli angoli da quattro putti, il santo titolare della chiesa (san Lorenzo o san Pietro); praticamente identica, poi, è la qualità pungente e metallica della cornice vegetale. L’attribuzione al Pocciolo trova una straordinaria conferma in un documento dell’Archivio di Stato perugino segnalato da Alberto Maria Sartore, nel quale veniamo a sapere che nel 1474 il “miniator” Pierantonio aveva preso in affitto una bottega, confinante con quella dei fabbri, addirittura nel palazzo vescovile55: quest’ultimo, insieme alla vicina cattedrale, rientrava nel rione di Porta Sant’Angelo, per il quale il Pocciolo era appunto immatricolato come pittore. Possiamo concludere, pertanto, che la scelta del Vagnucci cadde sì sul nome di maggiore spessore, ma anche sull’artista più facile da reperire; quanto alla datazione già proposta per il codice (anni settanta del ’400), questa trova riscontro nel fatto che, in quel decennio, risiedendo effettivamente nella diocesi perugina, Iacopo poté commissionare il messale in prima persona, destinandolo alle funzioni liturgiche da tenersi in cattedrale. Il codice fu realizzato presumibilmente tra il 1473-1474 (quando Pierantonio riceve gli ultimi pagamenti dal monastero di San Pietro e allorché prende in affitto la bottega nel vescovato) e il 1478 (morte del pittore), anno in cui, come sappiamo, il Vagnucci tornò a Roma, chiamato da Sisto IV a ricoprire nuovamente la carica di vicecamerlengo.

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Il coro ligneo di San Lorenzo L’ufficio liturgico della cattedrale, al quale il messale romano era destinato, alla fine del ’400 forse si svolgeva in un contesto strutturale diverso da quello dell’attuale presbiterio, con l’altare maggiore avanzato verso la navata centrale e gli stalli del coro disposti ai lati innanzi alla mensa, occupando grosso modo lo spazio della prima campata, separata dalle rimanenti attraverso un documentato “serraglio”56: questa soluzione, prevista dalla consuetudine liturgica antecedente la riforma del Concilio di Trento (pur se in proposito le eccezioni non mancano), poteva essere molto simile a quella descritta da Giorgio Vasari nella Vita del Perugino, a proposito della chiesa di San Giusto fuori le mura a Firenze. Anche se la maggior parte degli studiosi (a partire dal Rossi) rigetta l’ipotesi di un successivo trasferimento del coro nella tribuna absidale, la testimonianza del Lancellotti, forse supportata da un oscuro passo del Crispolti relativo alla traslazione di sant’Ercolano, meriterebbe un auspicabile approfondimento della questione57. Il coro venne progettato, tra il 1481 e il 1485 circa, da Giuliano da Maiano (1432-1490), mentre Domenico Del Tasso (1440-1508) lo completò e firmò entro il 1491 (i nomi dei due fiorentini e la data finale erano leggibili nella testata destra del coro, prima del devastante incendio del 1985)58. Il post quem del 1481 è molto importante, perché sappiamo che, proprio in quel periodo, Iacopo Vagnucci fece demolire le pareti laterali del presbiterio per edificarvi il transetto sporgente e, in modo particolare, la cappella di Sant’Onofrio sul lato destro: pertanto, anche nella progettazione del coro, che rientrava a pieno titolo nella sistemazione di questa zona della cattedrale, è possibile che sia intervenuto il cortonese, che poté avvalersi dei suoi rapporti con Federico da Montefeltro (morto nel 1482) per la chiamata di Giuliano a Perugia. A conferma del fatto che i vescovi Vagnucci ebbero contatti con maestri di legname, rimane testimonianza (ancora nel 1594) di un’opera lignea realizzata per uno dei due prelati cortonesi, presumibilmente negli stessi anni dell’attività perugina di Giuliano o della famiglia Del Tasso (Domenico e figli): i seggi della cancelleria (o sala d’udienza) del palazzo vescovile, con “doi armi de’ Vagnucci con mitre da vescovo sopra” scolpite o intarsiate nella parte superiore della cattedra, sulla quale il vescovo o il suo vicario sedevano ed emettevano le sentenze59.

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All’epoca del Crispolti (1648), e dopo il furioso incendio del 1534, la cancelleria si trovava al piano terra, “a lato di detta entrata dalla parte di fuori”60.

4. Il tabernacolo di Niccolò del Priore (1491-1492) Il Priore: un caso paradossale Tra i pittori umbri del ’400, Niccolò di Giovanni di Benedetto del Priore (Perugia, 1455-1501) costituisce uno di quei casi anomali in cui alla ricchezza di notizie documentarie non corrisponda un’adeguata conoscenza della produzione artistica. Iscritto alla corporazione dei pittori per Porta San Pietro dal 1470 circa, Niccolò, che risulta allibrato al catasto nella parrocchia di San Savino, apporta numerose modifiche ai propri beni (concentrati nella zona di Deruta) a partire dal 1473; da questa data sino alla morte (dicembre del 1501) è tutto un sus-

Fig. 76 Niccolò del Priore, Altarolo di San Lorenzo (con sportelli aperti), 1491-1492. Perugia, Museo Capitolare di San Lorenzo.

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seguirsi di notizie: nel 1483 prende in affitto una bottega ed esegue un pallio con San Girolamo per la chiesa di San Pietro; nel 1489 si associa al pittore Assalonne di Ottaviano61. In assenza di qualsiasi convalida documentaria, gli studiosi hanno potuto soltanto attribuirgli alcuni lavori, tra cui due sportelli (di cui uno recante sul rovescio la data del 1496) che rappresentano, su un fondo di broccato decorato con serafini, le figure di Santa Chiara e San Francesco: i due pannelli sono stati posti in rapporto (probabilmente in maniera impropria) con la tavola delle Stimmate di san Francesco, il tutto proveniente dalla chiesa di San Francesco al Prato ed oggi conservato nei depositi della Galleria Nazionale del’Umbria62. Invece la Pietà tra san Girolamo e san Leonardo (datata 1469 sul bordo inferiore), conservata in fondo alla navata sinistra di San Pietro ma proveniente dalla chiesa di San Costanzo, quadro tradizionalmente riferito a Niccolò, è di attribuzione assai incerta, forse opera giovanile di Fiorenzo di Lorenzo, alla quale sicuramente guardò il Caporali per la sua Pietà del 148663.

Fig. 77 Altarolo di San Lorenzo, part. dell’anta sinistra con la figura di san Lorenzo. Fig. 78 Altarolo di San Lorenzo, part. dell’anta destra con la figura di san Girolamo.

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Fig. 79 Altarolo di San Lorenzo, part. dell’anta sinistra con lo stemma del vescovo D. Vagnucci.

Fig. 80 Altarolo di San Lorenzo, part. dell’anta destra con lo stemma del vescovo G. Balbano.

L’anconetta del Museo Capitolare di Perugia (fig. 76)64 raffigura nel riquadro centrale la Madonna col Bambino e san Giovannino fra tre serafini, il tutto scolpito a pastiglia, e nelle ante laterali, realizzate a tempera, San Lorenzo a sinistra e San Girolamo a destra (figg. 77-78); sotto le lunette entro cui campeggiano le figure dei santi, sono dipinti, entro tondi, due stemmi gentilizi sormontati dal cappello vescovile (figg. 79-80); le fasce “risparmiate” che delimitano i tondi e le lunette sono ripetute sulle facciate esterne degli sportelli, dove disegnano quattro rombi che circoscrivono altrettante manopole traforate, rese con efficace effetto illusionistico (fig. 81-82)65. L’opera viene riferita al Priore dallo Gnoli, che osserva una qualche influenza di Bernardino Pintoricchio, e dal Van Marle;

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Fig. 81 Altarolo di San Lorenzo (con sportelli chiusi).

quindi il Santi propone una datazione intorno al 1480 e l’attribuzione ad un ignoto seguace del Pintoricchio, poi confermata dal Todini: quest’ultimo, infatti, parla di un pittore perugino con riflessi del giovane Bernardino e di Fiorenzo di Lorenzo.

Datazione, attribuzione e commissione del tabernacolo In verità, proprio i due stemmi vescovili - sui quali è stata fatta grossa confusione - consentono di pervenire ad una data-

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Fig. 82 Altarolo di San Lorenzo, part. dell’anta sinistra con motivi geometrici.

zione molto precisa del tabernacolo. Per quello dell’anta di sinistra, il Todini e la Bernardini chiamano in causa il valenzano “Antonio Lopez” che, sulla base del Crispolti, dicono vescovo di Perugia dal 1495 al 1501: l’arme dello spagnolo (che in realtà si chiamava Giovanni e tenne il seggio vescovile dal dicembre del 1492 al 1498) rappresenta, come sappiamo, un lupo passante verso sinistra66. Per esso, probabilmente, è stato scambiato l’orso rampante contenuto a stento dallo scudo “a cranio di bue” del blasone, il quale altro non è che lo

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stemma dei Vagnucci (fig. 79), precisamente del secondo dei due prelati cortonesi, Dionisio, che fu vescovo di Perugia dal 1482 sino alla morte (aprile del 1491). Invece il blasone dell’anta di destra, che la Bernardini dice di Iacopo Vagnucci, evidentemente confondendo e invertendo i due sportelli, è sicuramente l’arme di Girolamo Balbano da Lucca (fig. 80), che resse la diocesi perugina dal 18 aprile 1491 sino alla morte, avvenuta il 28 dicembre 149267. Lo stemma era sconosciuto agli studiosi locali, poiché nei blasonari perugini (come il manoscritto del Bigazzini) viene sempre lasciato in bianco, in quanto ignoto ai compilatori. Il fatto, piuttosto curioso, mi ha indotto a compiere una ricerca sulla famiglia lucchese, scoprendo infine che il blasone dei Balbano consiste proprio in un campo argentato spartito obliquamente da “tre bande d’azzurro caricate ciascuna di tre aquile d’oro poste nel senso delle bande”68. Il Balbano, già segretario privato di papa Innocenzo VIII (1484-1492), ebbe uffici di rilievo nella Curia pontificia e, pertanto, restò prevalentemente a Roma, anche se ciò non gli impedì di ottenere la cittadinanza perugina69; morì nella capitale qualche mese dopo la scomparsa del pontefice, venendo sepolto nella chiesa di Santa Maria del Popolo70. Tenendo conto della concezione unitaria delle parti eseguite a tempera (dal punto di vista stilistico e nella scelta dei motivi ornamentali), si può ipotizzare che l’opera, commissionata da Dionisio Vagnucci prima dell’aprile del 1491, sia stata successivamente rilevata dal Balbano e per lui completata entro il dicembre del 1492. Forse l’idea originaria prevedeva la ripetizione dello stemma Vagnucci su entrambe le ante, con l’orso sempre rivolto verso l’interno, esattamente come nelle vetrate della cappella di Sant’Onofrio e, probabilmente, nei plinti del gradino della pala signorelliana. È pure possibile che nell’anta di destra, in luogo del San Girolamo, fosse inizialmente contemplata un’altra figura (sant’Ercolano o san Dionigi?) e che, soltanto in un momento successivo, Girolamo Balbano avesse richiesto al pittore l’immagine del proprio santo eponimo. Dionisio, per disposizione testamentaria, potrebbe anche aver lasciato una somma di denaro destinata all’esecuzione dell’opera, incaricandone il Capitolo o il proprio successore: comunque siano andate le cose, è indubbio che la “macchina” lignea sia stata dipinta in un lasso di tempo relativamente breve, senza una lunga interruzione, e che almeno lo sportello di destra sia stato terminato solo dopo la morte del cortonese.

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La corretta datazione del 1491-1492 permette ora di istituire un confronto diretto con le due ante, di poco posteriori (1496), conservate nella Galleria Nazionale dell’Umbria, fornendo nuovi elementi a chi voglia definire l’autografia dei dipinti tradizionalmente attribuiti a Niccolò del Priore. In effetti, l’anconetta della cattedrale presenta molti aspetti in comune con l’ipotetico tabernacolo proveniente da San Francesco al Prato (anche se, come già detto, il quadro delle Stimmate di san Francesco non è probabilmente pertinente ai due sportelli, pur condividendone provenienza, misure e momento stilistico): un quadro centrale delimitato da una cornice pressoché identica e affiancato da due ante di pari altezza, dipinte sul lato interno con figure e decorate all’esterno con specchi a finto marmo. Gli sportelli del Museo Capitolare presentano queste decorazioni marmoree anche sulle facce interne; inoltre il motivo dei tondi inscritti in fasce rettangolari (gli stemmi) compare identico nelle sei tavolette (già formanti la predella di un tabernacolo) con Cristo morto e cinque santi, altra opera della Galleria Nazionale assegnata al Priore71. Questi sembra dimostrare una certa dimestichezza sia con la carpenteria degli altaroli in legno, sia con l’ornamentazione a finto marmo, conoscenze forse maturate nella bottega del padre, che aveva esercitato l’arte della pietra e del legname. Per quanto riguarda la scelta del pittore, un tramite fu forse rappresentato dall’ambiente della legatoria dei codici miniati, nell’ambito del quale l’attività di Niccolò è documentata sin dal 1476. A questo proposito, si noti che il pittore condivide con Pierantonio di Niccolò del Pocciolo, miniatore reclutato dal primo dei Vagnucci, una stessa cultura figurativa, che ruota intorno ai nomi di Boccati, Bonfigli, Caporali e il cosiddetto “Maestro della Pietà di San Costanzo”, anche se il Todini, accogliendo i suggerimenti dello Gnoli e del Santi, chiama in causa Fiorenzo di Lorenzo e il Pintoricchio: in effetti, nelle figure di entrambi i tabernacoli, l’assenza di certe “durezze” tipiche di quei primi pittori, la pienezza dei volti, nonché la dolcezza o l’intensità delle espressioni, portano nella direzione di un pittore ben più tardo, maturo e raffinato quale il Pintoricchio: basti confrontare la figura di San Girolamo con quella dipinta da Bernardino nella Pala di Santa Maria dei Fossi (Galleria Nazionale dell’Umbria), opera coeva ai due altaroli (1495-1496). Per quanto concerne invece il gruppo scultoreo, questo è stato riferito ad uno sconosciuto scultore perugino della

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seconda metà del XV secolo, fornito di buona conoscenza della plastica fiorentina: il Todini parla di un prototipo di Benedetto da Maiano, altri studiosi chiamano in causa le terrecotte invetriate di Luca Della Robbia72.

Il crocifisso d’argento della sacrestia Il nostro tabernacolo, sicuramente pertinente alla cattedrale (data la presenza di San Lorenzo), proviene dalla cappellina della sacrestia (n. 35)73, ma non è possibile capire come vi sia giunto e dove fosse inizialmente collocato. In sacrestia si trovava un’altra opera riconducibile al mecenatismo artistico dei Vagnucci e tale da confermarne la predilezione per gli oggetti d’oreficeria (soprattutto se destinati a contenere reliquie sacre): si trattava di una grande croce in argento, con la figura a rilievo del Crocifisso. Il fatto è testimoniato implicitamente dalla Vita di Iacopo, nella quale, a proposito delle “Memorie che fin di presente [1594] si vedono in Perugia del vescovo de’ Vagnucci”, si dice74: Di più nella sagrestia di detta chiesa [= cattedrale] si vede una bella et assai gran croce d’argento con il Crocifisso.

La notizia trova una preziosa conferma nella seconda visita pastorale di Fulvio Della Corgna (1568), quando, al termine del consueto giro degli altari, il vescovo entra in sacrestia, all’epoca in piena fase di ristrutturazione. Poiché molti degli arredi sacri colà inventariati erano stati ceduti al monastero di San Pietro, il giorno seguente Fulvio fece redigere un nuovo catalogo, dando poi una serie di disposizioni sugli arredi stessi, riportate dal cancelliere in volgare: tra queste, anche che “si racconci la croce del vescovo di Cortona n. 1”, evidentemente bisognosa di pulitura75. Esiste un solo luogo in cui cercare questa croce, il Museo della Cattedrale, dove però le uniche argenterie conservate del XV secolo sono una testa di Sant’Ercolano e un turibolo76.

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NOTE 1 LUNGHI 1994, p. 39. 2 SCARPELLINI 1992, p. 580. 3 Ivi, p. 579. 4 Il pittore, riferendosi all’altare

della Madonna del Verde, scrive: “Un impaccio architettonico sono questa sorta di altari, e di questo, e di altri n’è questa chiesa fornita. Discordano coll’architettura della medesima, e non danno che idea di piccolo” (ORSINI 1784, p. 114). 5 MAGLIANI 1992, p. 303. 6 Si fornisce di seguito la bibliografia relativa all’opera: CRISPOLTI iunior 1648, pp. 71, 269 e 318; GALASSI 1776, pp. 47-48; SIEPI 1822, p. 102; ROTELLI 1864a, p. 27; ROSSI SCOTTI 1878, p. 32; SCHUBRING [1903], pp. 710; VENTURI 1908, p. 479; GURRIERI 1961, p. 19; BAGLIONI 1964, p. 52; GABRIJELCIC 1992, pp. 527-528; MAGLIANI 1992, pp. 296-298 e 306-308; MUNMAN 1992, pp. 228-231 e figg. 182-186; GENTILINI 1993, p. 528; LUNGHI 1994, pp. 39 e 80-81. 7 Il GABRIJELCIC (1992, p. 528), riferendosi alle prime Visitationes Comitoli (1592), sostiene che la tomba si trovasse subito dopo la cappella del Sant’Anello (cioè al n. 13); ma il registro non la cita affatto e, dopo aver descritto la cappella, passa subito a parlare dell’altare della Pietà di Agostino di Duccio (ADP, ms. 10, c. 40r). Tra l’altro, nel 1451 questa zona della cattedrale era in piena fase di costruzione, ed è quindi improbabile che il monumento venisse qui collocato. 8 ADP, Visitationes Della Corgna (1564, 1568), ms. 1, cc. 19r e 433v. 9 CRISPOLTI iunior 1648, p. 71; GALASSI 1776, p. 47; SIEPI 1822, p. 102; ROTELLI 1864a, p. 4. Non è stato possibile rinvenire il disegno dell’Amadei citato dalla MAGLIANI (1992, p. 296 e nota 7), conservato in qualche deposito della cattedrale, ma riprodotto da una fotografia esposta nel Museo Capitolare. 10 Questo spostamento è testimoniato da una nota di commento alla descrizione di San Lorenzo del Siepi (estratta dal suo testo del 1822): BAP, ms. 3293 (seconda metà del XIX secolo), p. 39 della trascrizione dal Siepi, nota (b). 11 È probabile, infatti, che l’artefice (identificato, come si dirà, con un discepolo fiorentino di Donatello) abbia preso a modello il monumento funerario di Baldassarre Coscia nel battistero di Firenze, realizzato da Michelozzo e Donatello intorno al 1427: in esso le mensole poggiano sul blocco delle Virtù e sostengono il sarcofago corredato d’iscrizione, sul quale è adagiata l’effigie del defunto. Rispetto alla situazione attuale, nel disegno di Ramboux le Virtù presentano una successione diversa, mentre si nota l’inversione tra i putti reggi-stemma e i vasi, quest’ultimi all’esterno e non all’interno del sarcofago (cf. MUNMAN 1992, pp. 229-231). 12 MAGLIANI 1992, p. 296. 13 SCHUBRING [1903], pp. 7-10; VENTURI 1908, p. 479; MAGLIANI 1992, p. 297; GENTILINI 1993, p. 528. 14 SCHUBRING [1903], pp. 5-7 e 20. 15 Dalla Vita, infatti, sembrerebbe di capire che il Vagnucci, tornando a Roma, avesse lasciato a Cortona il vessillo gentilizio tenuto alla porta del suo palazzo bolognese (BAEC, Vita del vescovo…, p. 67). 16 GENTILINI 1993, pp. 528-529. Lo studioso ipotizza che i contatti del Vagnucci con Urbano possano risalire già al periodo del suo vescovato rimine-

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se (1448-1449), quando lavorava in città Agostino di Duccio, la cui opera presenta molte affinità con quella dello scultore cortonese. 17 SCHUBRING [1903], pp. 3-4. 18 Ivi, p. 20; MAGLIANI 1992, pp. 297-298. 19 Sulla perduta statua di Paolo II, cf., oltre alla mia tesi di laurea (pp. 150153), la seguente bibliografia: VASARI [1568], p. 405; CRISPOLTI iunior 1648, pp. 59-60; GALASSI 1776, pp. 15-19; ORSINI 1784, p. 107; MARIOTTI 1788, pp. 113-114; SIEPI, 1822 pp. 49-50; ROTELLI 1864a, p. 47; ROSSI 1874, pp. 81-91; GURRIERI 1961, p. 17; CESSI 1965, p. 589; SCERNI 1969, p. 8; MAGLIANI 1992, p. 298; SCARPELLINI 1992, p. 580; LUNGHI 1994, pp. 38-39 e 72; KRAHN 2001, pp. 64-65. 20 CUCCINI 1990. Lo studioso è tra coloro che propongono di spostare la data di morte dello scultore a dopo il 1484-1485, poiché la tomba (nel duomo di Amelia) del vescovo Ruggero Mandosi, morto in quegli anni, potrebbe essere opera autografa di Agostino (ivi, pp. 31 e 44-45, nota 70). 21 In quell’anno monna Lorenza, madre di Agostino, implora indulgenza per il figlio, che sappiamo bandito da Firenze e rifugiato a Venezia; tuttavia già nel 1442 lo scopriamo a Modena, dove scolpisce per il duomo la fronte d’altare con quattro Storie di san Gimignano: la lastra, firmata e datata, oggi è murata all’esterno della cattedrale (ROSSI 1875, pp. 5-6). 22 Sul Tempio Malatestiano di Rimini, cf. RICCI 1925; ZANOLI 1967, pp. 57-84. 23 ROSSI 1875, p. 16. Per tutto l’iter documentario dei soggiorni perugini di Agostino, resta ancora fondamentale ed attuale il Prospetto cronologico di Adamo Rossi, cui spetta il grande merito di aver fatto “emergere” una vicenda fino ad allora completamente oscura. 24 MERCURELLI SALARI 1996, pp. 138-140. 25 A questo è dedicata la monografia di COMMODI 1996. Cf. anche ZANOLI 1967, pp. 169-196; MERCURELLI SALARI 1996, pp. 140-143. I documenti relativi alla facciata sono in ROSSI 1875, pp. 11-25 e 33-50. 26 Per una bibliografia sull’altare di San Lorenzo, cf. COMMODI 1996, pp. 42-43, nota 137; per i documenti, cf. ROSSI 1875, pp. 76-83. L’opera venne realizzata per gli eredi di Lorenzo di Giovanni di Petruccio dei Belli (sulla famiglia, cf. GROHMANN 1981, pp. 452-453). 27 Già ritenuto un ritratto del beato Bernardino da Feltre dipinto dal Pintoricchio, è stato assegnato alla stretta cerchia del Bonfigli dal LUNGHI (1994, pp. 40 e 108) e, successivamente, considerato dallo stesso studioso opera autografa del pittore (IDEM 1996, p. 46). 28 I documenti relativi a questo altare sono pubblicati dal ROSSI (1875, pp. 203-211). La bibliografia è assai scarsa, essendo il monumento completamente perduto: LUNGHI 1994, pp. 39-40 e 81-83; MERCURELLI SALARI 1996, p. 146, nota 9; COMMODI 1996, p. 45 e nota 145; TEZA 2004, pp. 250-259. 29 Sul decennio 1462-1472 dello scultore, cf. COMMODI 1996, pp. 43-44. 30 Nel Museo della Cattedrale, alcuni frammenti di fregio formanti un arcone, decorati con un motivo a treccia e recanti tracce di doratura, potrebbero appartenere all’altare quattrocentesco di San Bernardino (BERNARDINI 1991, pp. 296-297). Ma potrebbero anche provenire dal successivo altare del Sant’Anello, rappresentato con un arcone assai simile in un’incisione pubblicata da Felice CIATTI nel 1637 (cf. TEZA 2004, p. 257): in tal caso, il monogramma bernardiniano, scolpito in corrispondenza della chiave di volta, non si riferirebbe al titolo della cappella di San Bernardino, ma al ruolo svolto

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dagli Osservanti nella fondazione di quella dedicata al Sant’Anello (CARACCIOLO 2005c, pp. 74 e 82, nota 69). 31 TEZA 2004, pp. 247-305. 32 ORSINI 1784, p. 313 e nota (a). La letteratura relativa alle tavolette è molto ampia (cf. MANCINI 1992a, p. 136; MERCURELLI SALARI 2004, p. 184): alla GARIBALDI (1995, pp. 25-51) spetta il punto sulla complessa vicenda ricostruttiva della Nicchia di San Bernardino. 33 MANCINI 1992a, pp. 75-76 e 109-110. 34 In effetti, nel documento del 23 maggio 1475, l’ambiguità del notaio non ci permette di capire se Agostino sia il “cottimatarius”, cioè l’artefice del lavoro, oppure il semplice estimatore o, in qualche modo, il titolare legale di una commissione affidata, in fase di concreta realizzazione, a vari “magistri periti in arte” (ROSSI 1875, pp. 210-211; TEZA 2004, pp. 253-256). 35 La Teza coglie nelle parole dell’Orsini relative al “quadro” di Bonfigli (“vien citato dal Vasari, ma è dipinto in tela, e non in tavola”) un “imbarazzo di fondo” del pittore-scrittore, che non riuscirebbe ad armonizzare bene i dati in suo possesso: tuttavia l’espressione potrebbe semplicemente indicare l’uso non-processionale del cosiddetto Gonfalone di San Bernardino del 1465, realizzato su un supporto diverso da quello delle tavolette. 36 Probabilmente molto simile a quella di Corciano e forse coincidente con quel San Bernardino che, attestato nella cappella del duomo, ha lasciato tracce di sé fino al ’700. Sul San Bernardino di Corciano, cf. MERCURELLI SALARI 1996, pp. 158-159. 37 LUNGHI 1992, p. 261; MERCURELLI SALARI 1996, pp. 144-145; EADEM 2004, p. 184. 38 Sull’altare della Pietà, cf. CUCCINI 1990, pp. 28-29 e 42-43, nota 62; MAGLIANI 1992, pp. 299-300 e 310; LUNGHI 1994, pp. 40-42 e 100-101; COMMODI 1996, p. 45 e nota 143; MERCURELLI SALARI 2000, pp. 173-188. I documenti relativi all’opera sono in ROSSI 1875, pp. 117-122. 39 ADP, Visitationes Della Corgna (1564, 1568), ms. 1, cc. 19rv e 434v. L’altare di San Matteo fu demolito nel 1587, in quanto troppo modesto, e il titolo venne trasferito alla cappella del Crocifisso (SIEPI 1822, p. 102; GABRIJELCIC 1992, p. 530). 40 I documenti sono in ROSSI 1875, pp. 241-249 e 263-275. 41 Per i documenti, ivi, pp. 141-152 e 179-184. 42 Per la bibliografia di queste tre opere, cf. COMMODI 1996, p. 45, note 144-147. 43 ROSSI 1875, p. 10. 44 Per la bibliografia di questi monumenti, cf. COMMODI 1996, p. 46, note 148-149. La tomba dei coniugi Geraldini in San Francesco (1477) si trova nella cappella omonima (intitolata a sant’Antonio Abate), fatta costruire da Giovanni Geraldini e terminata nel 1476: a quest’anno risale il sepolcro del vescovo Giovanni, successivamente trasferito in cattedrale, per poi essere smantellato e nuovamente murato in prossimità del fonte battesimale, nella prima cappella a sinistra. Di fronte a questa, sul lato opposto del duomo, si trova la cappella della famiglia Mandosi, con la lastra tombale del vescovo Ruggero (1484-1485), probabilmente rimasta incompiuta per la morte di Agostino. 45 Su questo altare, per il quale Bartolomeo Caporali fu chiamato nello stesso giorno (12 agosto) a dipingere delle tavole (probabilmente la Pietà di San Martino in Colle e gli Angeli con strumenti della passione della Galleria Nazionale dell’Umbria), cf., oltre alla mia tesi di laurea (pp. 162-165), i

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seguenti contributi: BERNARDINI 1991, pp. 5-8 (e bibliografia precedente); EADEM 1992, pp. 543-544 e 554; GABRIJELCIC 1992, p. 526; MAGLIANI 1992, p. 301, nota 29; LUNGHI 1994, pp. 42 e 85; TEZA 2004, pp. 254-255. 46 GAMS 1873, pp. 662, 874 e 921; EUBEL 1913, pp. 86, 121 e 243. La famiglia Geraldini, appartenente alla nobiltà di Amelia, fu molto vicina (non solo geograficamente) all’ambiente politico-culturale romano, in particolare ai due papi Borgia (Callisto III e Alessandro VI) e a Sisto IV, il quale, grazie ad essa, arruolò il pittore Pier Matteo d’Amelia per la volta stellata della cappella Sistina (cf. FREZZA FEDERICI 1989, pp. 453-457). 47 Cf. MARIOTTI 1788, p. 112; SIEPI 1822, pp. 289-290; VERMIGLIOLI 1829, tomo II, pp. 204-205, nota 3. Utili considerazioni possono emergere dal confronto con la pietra tombale del vescovo Ruggero Mandosi ad Amelia e con quella di frate Angelo del Toscano nell’oratorio di San Bernardino a Perugia. 48 Sul messale ms. 10, cf. la seguente bibliografia: BELLUCCI 1892, p. 176, n. 25; CATALOGO 1907, p. 132, n. 45; CERNICCHI 1911, p. 118, n. 25; CATALOGO 1923, n. 25; MUZZIOLI 1954, p. 420, n. 673; DIRINGER 1958, p. 353; CALECA 1969, pp. 107-110, 187-190, 230 e 369-374 (figg. 604-626); HARRSEN-BOYCE 1953, p. 42, nota 15; SCARPELLINI 1975, pp. 682-683; LUNGHI 1984, pp. 162 e 170; SILVI ANTONINI 1987, pp. 39-40; LUNGHI 1987, pp. 20 e 34; TODINI 1989, tomo I, p. 283, tomo II, p. 367; LUNGHI 1992, pp. 259-261 e 274-276; SANTANTONI MENICHELLI 1999, pp. 32 e 165. 49 Il codice è minutamente descritto in CALECA 1969, pp. 187-190. 50 Cf. MERCURELLI SALARI 1996, pp. 191-193. 51 ASP, ASCP, Riformanze, n. 110 (1474), c. 58r. Sulla miniatura in questione, cf. LUNGHI 1987, pp. 18-20. 52 GNOLI 1923, pp. 238-239. 53 Nel Catalogo l’opera non può essere la n. 29 a p. 130, come riportato in tutte le bibliografie, ma deve essere la n. 45 a p. 132, dove però si dice che il codice appartiene all’abbazia di San Pietro. 54 CALECA 1969, pp. 108-110. 55 ASP, Notarile, Bastardelli, cc. non inventariate, settembre 1474. 56 Sul coro di San Lorenzo, cf., oltre alla mia tesi di laurea (pp. 170-175), la seguente bibliografia: BAP, Lancellotti, Scorta sagra…, tomo II, c. 290vb; GALASSI 1776, p. 34; ORSINI 1784, p. 119; SIEPI 1822, p. 90; ROTELLI 1864a, p. 34; ROSSI 1872, pp. 97-106; GURRIERI 1961, pp. 28-29; FERRETTI 1982, pp. 526-527; ACIDINI LUCHINAT 1984, pp. 57-58; TRIONFI HONORATI 1992, pp. 279-281; GABRIJELCIC 1992, p. 534; LUNGHI 1994, pp. 47-48 e 97-98. 57 VASARI [1568], p. 530; CRISPOLTI iunior 1648, p. 69 (“fu il corpo di questo glorioso martire [...] trasferito dall’altare vecchio di rimpetto al pergamo all’altare che hora è sotto la tribuna”); BAP, Lancellotti, Scorta sagra…, tomo II, c. 290vb (“il coro che stava prima nel mezzo della detta nave alla monastica [...] fu trasportato dove hoggi il vediamo nel 1524”). 58 Nel 1481 Giuliano si trovava ad Urbino, mentre intorno al 1485 si trasferì a Napoli, chiamato da Ferdinando d’Aragona per costruire la porta Capuana e la villa di Poggio Reale. Nel libro contabile del duomo, all’anno 1489, Giuliano è ricordato come debitore, mentre Domenico Del Tasso riceve delle somme destinate all’acquisto di legname, colla e cera (ASP, ASCP, Fabbrica di San Lorenzo, reg. 6, c. 78rv). 59 BAEC, Vita del vescovo…, p. 70. 60 CRISPOLTI iunior 1648, pp. 31-32.

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Cf. BRIGANTI 1911, pp. 62-67; GNOLI 1923, pp. 217-218. GUARDABASSI 1872, p. 221; VAN MARLE 1933, pp. 149-150; SANTI 1985, p. 83; TODINI 1989, tomo I, p. 247, tomo II, p. 576. 63 Per una rassegna sul dipinto, cf. MANCINI 1992a, p. 145. 64 Si fornisce di seguito la bibliografia relativa al tabernacolo: CATALOGO 1907, p. 55, n. 13; GNOLI 1908, p. 49; IDEM 1923, p. 218; CATALOGO 1923, n. 14; VAN MARLE 1933, pp. 150-151; SANTI 1950, p. 42; GURRIERI 1961, pp. 38-40; TODINI 1989, tomo I, p. 372; BERNARDINI 1991, pp. 20-21; EADEM 1992, p. 541; LUNGHI 1994, p. 117. 65 Si noti qui come il campo circolare, incavato a forma di patera, sia molto simile a quello su cui si staglia lo stemma Vagnucci nel frontespizio del messale ms. 10 (fig. 69). 66 Cf. cap. I, nota 105. 67 UGHELLI [1644], tomo I, col. 1164; GAMS 1873, p. 714; EUBEL 1913, p. 214. 68 DI CROLLALANZA 1887-1890, vol. I, p. 80. L’assenza di tre delle nove aquile dorate è giustificata dalla scelta del pittore di adottare per gli stemmi lo scudo “a cranio di bue” al posto di quello tradizionale (“gotico” o “a mandorla”); l’argento dello sfondo si è annerito per ossidazione. 69 ASP, ASCP, Riformanze, n. 121 (1491-1492), c. 33. 70 Su questo personaggio, cf. MIANI 1963, pp. 354-355. 71 Cf. SANTI 1985, p. 84. 72 TODINI 1989, tomo I, p. 372. 73 CATALOGO 1907, p. 55, n. 13. 74 BAEC, Vita del vescovo…, p. 71. 75 ADP, Visitationes Della Corgna (1568), ms. 1, cc. 435v-436r. 76 BERNARDINI 1991, pp. 116-117 e 180-181. Si noti che, tra gli argenti del XVII secolo, il museo possiede un Reliquiario ad ostensorio di Sant’Onofrio, certamente appartenuto alla confraternita del Pilo, come dimostrano lo stemma e l’iscrizione (ivi, pp. 190-191).

Capitolo IV Il culto delle sacre reliquie 1. Il Reliquiario Vagnucci di Cortona (1457-1458) 2. La donazione del reliquiario alla città (1458) 3. Il Reliquiario dei Serviti di Cortona (1483) 4. Il Sant’Anello di Perugia (1473-1488)

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Introduzione Ferdinando Ughelli, nella Vita di Iacopo Vagnucci, afferma che “hic presul [...] in cortonensem Ecclesiam, ubi fuerat natus, multa contulit ornamenta”1: lo scrittore si riferisce certamente ai due preziosi reliquiari commissionati e regalati alla città dall’illustre cortonese. Il primo, il cosiddetto Reliquiario Vagnucci (1457-1458), è custodito nella sala n. 7 del Museo Diocesano di Cortona (ex-chiesa del Gesù), situato proprio dinanzi alla facciata del duomo cittadino, cui la teca fu donata nel 1458; l’altro, purtroppo perduto, venne offerto alla chiesa dei padri Servi di Maria nel 1483, dunque lo stesso anno in cui il Vagnucci incaricava il concittadino Luca Signorelli di dipingere la pala per il duomo di Perugia. Un filo conduttore lega quest’ultima ai due reliquiari: parlando delle Storie della Vergine ricamate sulla stola del vescovo leggente, in cui è possibile riconoscere un ritratto del Vagnucci, si è detto che Iacopo, stando ancora alla testimonianza dell’Ughelli, nutrì sempre una forte venerazione per la figura della Madonna: a Lei è intitolato il duomo di Cortona, che all’epoca della donazione era ancora noto come pieve di Santa Maria, venendovi la cattedra episcopale trasferita solo nel 1508; a Lei apparterrebbe la ciocca di capelli custodita nel perduto reliquiario del 1483, destinato, ancora una volta, ad insignire un luogo-simbolo del culto alla Vergine, la chiesa di Santa Maria dei Servi. Si noti, tra l’altro, che questo culto rappresenta una caratteristica peculiare del pontificato di Sisto IV, personaggio che, come abbiamo visto, appare legato in più modi al cortonese: tra gli scritti teologico-filosofici attribuiti al Della Rovere e, in gran parte, risalenti al periodo precedente la sua elevazione al soglio pontificio, ampio spazio è concesso alla figura di Maria; inoltre il papa intervenne direttamente nella costruzione o nel restauro di diversi templi dedicati alla Vergine, tra cui la cappella della Concezione in Vaticano (consacrata all’Immacolata l’8 dicembre 1479) e la celebre cappella Sistina (consacrata all’Assunta il 15 agosto 1483)2. Alla venerazione di Iacopo per le reliquie e per la figura della Madonna non sembra estraneo anche il coinvolgimento del vescovo perugino nella delicata vicenda del Sant’Anello nuziale della Vergine (1473), aspramente conteso tra Perugia e Chiusi, episodio che, grazie alla complicità decisiva del papa, si concluse definitivamente con la collocazione della presunta “reliquia”3 in una cappella appositamente costruita nel duomo di Perugia (1488).

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1. Il Reliquiario Vagnucci di Cortona (1457-1458) Studi precedenti Quanto oggi sappiamo sul reliquiario di Cortona (figg. 8384) è in gran parte dovuto alla straordinaria erudizione di Girolamo Mancini che, negli anni 1897-1909, tornò più volte sull’argomento: da qui muove il mirabile saggio di Marco Collareta (1987), il più sistematico degli studi dedicati al

Fig. 83 Giusto da Firenze, Reliquiario Vagnucci (recto), 1457-1458. Cortona, Museo Diocesano del Capitolo.

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manufatto, del quale fornisce interessanti proposte di lettura4. L’analisi del reliquiario coinvolge fondamentalmente un doppio ambito d’indagine: l’uno relativo alla storia e all’iconografia del manufatto, l’altro riguardante la sua realizzazione e le sue qualità artistiche e stilistiche. Il primo aspetto, quello che più ci interessa, concerne il committente e il pubblico al quale egli si rivolge attraverso i “messaggi” veicolati dall’oggetto; il secondo, quello maggiormente problematico, riguarda la

Fig. 84 Reliquiario Vagnucci (verso).

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Fig. 85 Riproduzione grafica della firma dell’orefice, pubblicata da G. Mancini nel 1909.

nebulosa figura dell’orefice, quel Giusto da Firenze il cui “marchio di fabbrica” (OP[US] GUSTO DE FL[OREN]TIA) è impresso sulla testa del perno in bronzo che tiene insieme la montatura del manufatto (fig. 85)5. LATO ANTERIORE Crocifisso Statuette

Niccolò V

orso

orso S. Michele Arcangelo

Tempietto

Gregorio III

RELIQUIA

orso Madonna col Bambino

orso S. Onofrio Eremita

orso

orso

Piede

S. Iacopo

LATO POSTERIORE Crocifisso Statuette

Gregorio III

orso Tempietto

Grafico 5 Schema del programma iconografico del Reliquiario Vagnucci.

orso S. Margherita di Cortona

orso Imago Pietatis

orso Piede

Niccolò V

CHIUDENDA

orso Leone di Cortona

orso S. Onofrio

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Le iscrizioni Non si può non partire da un esame del cospicuo corredo di iscrizioni latine che, eseguite a niello in moderni caratteri capitali, risultano come pronunciate dai tre personaggi che ruotano intorno alla storia della reliquia e del “tabernacolo” destinato a contenerla: due di essi sono anche effigiati nelle statuette laterali del “candelabro”6. Iacopo Vagnucci: + HEC EST PARS || SACRE VESTIS D[OMI]NI || N[OST]RI YH[S]U XP[IST]I P[ER] CUIUS || TACTU[M] LIB RATA EST MU || LIER A FLUXU SANGUIN || IS ET QUOMO[DO] P[ER]VENIT || AD MANUS MEAS IACOBI || EP[ISCOP]I P[ER]USINI IN [H]OC OPE || RE APPARET L[ITTE]RIS GR || ECIS ET LATINIS E

[Questo è un frammento della sacra tunica del Signore Nostro Gesù Cristo, toccando la quale la donna fu guarita dal flusso sanguigno; e in quale modo esso pervenne nelle mani del sottoscritto, Iacopo vescovo di Perugia, appare in questo manufatto, scritto in caratteri greci e latini.]

L’iscrizione, conchiusa in basso dallo stemma vescovile del Vagnucci, si trova sulla chiudenda posteriore (in argento) della teca a forma di mandorla che contiene la reliquia (figg. 8688). Il ritrovamento della chiave del reliquiario, in occasione

Fig. 86 Reliquiario Vagnucci, part. con il recto della “mandorla”. Fig. 87 Reliquiario Vagnucci, part. con il verso della “mandorla”.

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Fig. 88 Reliquiario Vagnucci, part. del verso della “mandorla” con lo sportellino e l’iscrizione dedicatoria.

della campagna fotografica del 1987, ha permesso di verificare che l’epigrafe in greco si trova sulla faccia interna del medesimo sportellino; nella stessa circostanza, si è potuto constatare che l’encolpio d’oro (reliquario a forma di medaglione da portare al collo), nel quale la reliquia è direttamente racchiusa, è decorato sul retro con una minuta rappresentazione del Miracolo della guarigione dell’emorroissa (figg. 89-90), motivo iconografico di tradizione assai scarsa e, per questo, tanto più importante. L’encolpio è sostenuto dal perno in bronzo della

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Fig. 89 Reliquiario Vagnucci, l’encolpio sostenuto dal perno in bronzo della montatura.

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Fig. 90 Reliquiario Vagnucci, il verso dell’encolpio decorato con la scena della Guarigione dell’emorroissa.

montatura e lascia intravedere la reliquia anteriormente, attraverso il cristallo di rocca molato incastonato nella “mandorla” (fig. 86). Patriarca Gregorio: + H C E[ST] PARS SACRE VESTIS D[OMI]NI N[OST]RI YH[S]U XP[IST]I QUAM DIVO NICOLAO V° SUM[M]O || PONTIFICI EGO G[RE]GOR[IUS] PAT[R] ARCHA EX CONSTANTINOPOLI DONO E

I

TRADUXI

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[Questo è un frammento della sacra tunica del Signore Nostro Gesù Cristo, che io, Gregorio patriarca di Costantinopoli, portai in dono a Sua Santità Niccolò V, sommo pontefice.] Papa Niccolò: + HEC E[ST] PARS SACRE VESTIS P[RE]D[I]C[T]E Q[UE] NOB[IS] P[ER] PATRIARCHA[M] CONSTANTINOPOLITANU[M] || LARGITA E[ST] IP[S]AMQ[UE] D NO DED M[US] IA[COBO] EP[ISCOP]O P[ER]USINO VICECAMER[ARI] AC THESAURAR[I] N[OST]RO O

I

O

O

[Questo è un frammento della sacra tunica suddetta, che ci è stato donato dal patriarca di Costantinopoli; e lo stesso demmo in dono a Iacopo, vescovo perugino, vicecamerlengo e tesoriere nostro.] D[OMI]NE IH[S]U

|| XP[IST]E PHILI || DEI VIVI || P[ER] CRUCEM || ET PASSION || EM TUAM || LIBERATI || SUMUS || QUIA TU ES || SALVATOR || MUNDI MI || SERERE N || OBIS || D[OMI]NE LABIA || MEA APERI || ES ET HOS [Signore Gesù Cristo, figlio del Dio vivente, per mezzo della tua croce e passione noi siamo liberati, poiché tu sei il Salvatore del mondo; abbi pietà di noi; Signore, apri le mie labbra e la mia bocca.]

Fig. 91 Reliquiario Vagnucci, part. con la statuetta del Pontefice Niccolò V. Fig. 92 Reliquiario Vagnucci, part. con la statuetta del Patriarca Gregorio III.

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Figg. 93-94 Reliquiario Vagnucci, particolari della statuetta del Pontefice Niccolò V.

Le prime due iscrizioni si trovano sotto le statuette corrispondenti, agli estremi del “candelabro” (figg. 91-92); la terza scritta, invece, compare sul libro che il Pontefice tiene aperto nella mano sinistra, mentre con la destra benedice (figg. 93-94). Iacopo Vagnucci: + EGO IACOB[US] EP[ISCOP]US P[ER]USINUS

HOC TABERNACULUM FECI FIERI AD HONOREM HUIUS SACRE VESTIS PREDIC[T]E DIE X SEPTE[M]BR[IS] MCCCCLVII

[Io, Iacopo vescovo perugino, feci realizzare questo reliquiario in onore della sacra veste suddetta il giorno 10 settembre 1457.]

L’epigrafe compare alla base del tempietto esagonale che sorregge la teca (fig. 95), chiudendo la narrazione che lo stesso committente ha introdotto sullo sportellino posteriore della “mandorla”.

Storia della reliquia e suoi protagonisti Grazie a questo ricco corpus di iscrizioni, veniamo a sapere che Gregorio Mammas, un alto prelato ortodosso convertitosi alla Chiesa latina e divenuto nel 1443 patriarca cattolico di Costantinopoli, aveva donato a papa Niccolò V (Tommaso Parentucelli) un frammento della veste indossata da Cristo quando venne toccato dall’emorroissa7. Gregorio, in qualità di protosyncellus del patriarca greco di Costantinopoli e di

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confessore dell’imperatore bizantino Giovanni VIII, aveva partecipato al Concilio di Ferrara-Firenze (14381439), diventando uno dei più ferventi “unionisti” di parte greca e sottoscrivendo la bolla del 6 luglio 1439, con la quale veniva sancita l’unione tra le due Chiese. Passato alla Chiesa cattolica ed essendosi schierato contro il mancato rispetto delle clausole conciliari, fu costretto nell’agosto del 1451 ad abbandonare la propria sede vescovile, trovando rifugio a Roma presso Niccolò V, che lo dotò di una pensione8: probabilmente è in questa circostanza che Gregorio, in segno di riconoscenza, fece dono al pontefice della reliquia che, racchiusa in un encolpio secondo l’uso orientale, aveva portato con sé da Costantinopoli. I due “attori” principali della vicenda, effigiati nelle statuette laterali del reliquiario, sono collocati in un rapporto reciproco che è tale da sottolineare la preminenza del papa sul patriarca, quindi della Chiesa occidentale su quella orientale, come sancito dalla bolla di unione emanata dal Concilio di Firenze, sottoscritta da Gregorio e pubblicata dal Parentucelli9: il Papa, rappresentato secondo l’iconografia usuale per san Gregorio Magno, si trova alla destra del Cristo (fig. 97), al quale rivolge l’invocazione scritta sul libro aperto; viceversa il Patriarca, effigiato come uno dei tanti santi vescovi, regge un libro chiuso, particolare allusivo alla fedeltà di costui verso il magistero papale10. Il Collareta ha inoltre notato che il complesso delle statuette, con il Cristo portacroce in alto e i due personaggi laterali che ad esso alzano la testa, ripropone l’iconografia familiare della Crocifissione, dove la sequenza di lettura “Cristo-Madonna-san Giovanni” (guidata da un vero e proprio automatismo dell’osservatore) corrisponde a quella “Cristo-Papa-Patriarca” del reliquiario: nello stesso ordine gerarchico le tre statuette sono enumerate nel documento di donazione del 1458 (cf. par. 2)11.

Fig. 95 Reliquiario Vagnucci, part. con il tempietto esagonale.

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Fig. 96 Reliquiario Vagnucci, part. della statuetta del Pontefice Niccolò V. Fig. 97 Reliquiario Vagnucci, part. della statuetta di Cristo.

Fatto straordinario per l’oreficeria, la statuetta di Niccolò V (fig. 96) offre un ritratto fisionomico del papa estremamente veritiero: chi all’epoca fosse dotato di buona cultura poteva riconoscerlo facilmente, grazie alla circolazione dell’immagine del pontefice promossa dalle cosiddette “medaglie-ritratto”. Il realismo di questa effigie risulta con evidenza se messa a confronto con l’immagine proposta dal monumento funerario del Parentucelli nelle Grotte Vaticane e con quella dipinta dall’Angelico nella cappella Niccolina (sotto le sembianze di papa Sisto II)12. La verosimiglianza travalica certe caratteristiche fisiche, coinvolgendo anche aspetti ben noti della personalità del pontefice: infatti è risaputo che Niccolò V, papa molto attento alla liturgia, ebbe una cura particolare per le vesti sontuose e gli arredi sacri, e che il medesimo, rifondatore della biblioteca pontificia, predilesse i codici elegantemente rilegati e vergati con uno stile epigrafico innovativo13. La passione per lo splendore liturgico e la bibliofilia del papa umanista trovano interessanti riscontri proprio nella personalità del Vagnucci, sì da ritenere che sia stato il committente a suggerire certi particolari iconografici: basti ricordare lo sfarzoso piviale del vescovo ritratto nella pala di Signorelli e il prezioso messale miniato per il Vagnucci da Pierantonio di Niccolò del Pocciolo14. Quando poi si pensi che nelle Elegantiae, di cui Lorenzo Valla reclamava la restituzione, è contenuta una violenta requisitoria contro i codici scritti alla maniera gotica, non

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ci stupisce constatare che i moderni caratteri capitali delle iscrizioni niellate sul reliquario siano gli stessi della perduta epigrafe commemorativa (“a lettere d’oro maiuscole”) che compariva nel gradino della Pala Vagnucci di Perugia15.

La commissione e il problema della statuetta del Cristo Il terzo “attore” della vicenda, vale a dire il committente Iacopo Vagnucci, non è effigiato da alcuna statuetta, ma è rappresentato dall’immagine di san Iacopo (o san Giacomo Maggiore) nel tondo anteriore del piede. Il Vagnucci ricevette la reliquia in dono da Niccolò V, mentre si trovava a Roma al suo servizio, precisamente tra il gennaio del 1452, quando venne nominato vicetesoriere della Camera Apostolica, e il marzo successivo, allorché concluse il mandato di vicecamerlengo (con questi due titoli, infatti, viene qualificato nel manufatto). Per dare una degna collocazione al frammento della sacra tunica, egli fece forgiare l’imponente gioiello all’orefice fiorentino Giusto, affidandogli la commissione il 10 settembre 1457: la data niellata sul reliquiario, infatti, non si riferisce alla sua messa in opera, ma rientra a pieno titolo nella sfera del committente. Come ha dottamente scritto il Collareta, questa data, nel suo valore assoluto e ciclico, cela in sé una doppia valenza simbolica, allusiva al valore teologico e taumaturgico della reliquia: essa, infatti, non solo segue di poco l’istituzione della festa della Trasfigurazione (6 agosto 1457), ma soprattutto coincide con la festa di San Nicola da Tolentino (10 settembre), canonizzato da Eugenio IV nel 1446 anche grazie alla guarigione miracolosa di una emorroissa (la bolla fu edita solo nel giugno del 1447, quindi sotto Niccolò V)16. Il Vagnucci, però, non fu indotto solo dalla devozione popolare per il santo agostiniano a stabilire questo nesso, perché il nome “Niccolò” appartiene a tre personaggi-chiave della carriera ecclesiastica del cortonese: fra Niccolò Vagnucci (a queste date ancora vivente), certosino e zio di Iacopo, il beato cardinale Albergati e papa Niccolò V, il quale, come sappiamo, aveva assunto questo nome proprio in onore del secondo (cf. par. I, 1). Il ritratto fisionomico del pontefice nella statuetta di sinistra, dunque, non lascia dubbi sul fatto che il Vagnucci volesse dedicare, soprattutto all’amico da poco scomparso (1455), un ricordo pieno di ossequioso affetto: del resto, il fatto che nel documento del 1458 sia del tutto

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omessa la descrizione degli smalti figurati dimostra che l’intenzione del Vagnucci fosse quella di “pilotare” sulle statuette la lettura del messaggio veicolato dal reliquiario. Tra l’altro, la statuetta del Cristo portacroce che corona l’oggetto (fig. 97) venne fornita all’orefice direttamente dal Vagnucci: sappiamo infatti dagli antichi storici di Cortona che il “Cristo d’oro con la croce di valuta sopra cinquecento scudi d’oro di peso” gli era stato donato dal marchese di Mantova (quindi da Ludovico III Gonzaga, 1444-1478); il dato è confermato dalla Vita di Iacopo, nella quale, però, si chiama in causa il marchese di Ferrara (quindi Borso d’Este, 1441-1471), cui il Vagnucci aveva donato a sua volta un bellissimo cavallo17. L’ipotesi di una provenienza mantovana della statuetta, trascurata in tutta la successiva letteratura critica, è stata seriamente considerata da Colin Eisler, il quale ha proposto alcune spiegazioni abbastanza deboli e non sempre confortate da dati precisi18. Tenendo conto che, di fatto, il marchesato estense faceva parte dello Stato della Chiesa, che Ferrara (città non lontana da Bologna, dove il Vagnucci soggiornò più volte) ospitò il concilio del 1438 (al quale parteciparono sia l’Albergati che il Parentucelli e le cui finalità sono ampiamente presupposte dal nostro reliquiario) e, infine, che nel 1452 Borso d’Este venne investito dall’imperatore Federico III del Ducato di Modena e Reggio, è molto più probabile che sia corretta la notizia riportata, in maniera ben più circostanziata, dalla Vita cortonese. In ogni caso, la cesura stilistica che separa il Cristo dalle statuette laterali (fisicamente e psicologicamente forti e austere) è evidentissima, al punto che il Mancini ha ipotizzato che l’originale “totus aureus” sia stato sostituito, in tempo di gravi necessità finanziarie (1529), con un surrogato in ottone dorato. Tuttavia Eisler ha decisamente rivalutato la statuetta, definendola un prezioso esempio della plastica di piccole dimensioni coltivata in Francia nel primo quarto del XV secolo, in parallelo con la miniatura. Il Collareta ha giustamente osservato che la preesistenza della statuetta ha condizionato sensibilmente il lavoro dell’orefice, come si rileva dall’andamento della pianta di ogni elemento strutturale, che in sostanza ripete quello della base esagonale del Cristo portacroce (ornata con i cosiddetti fiori ad émail en ronde bosse bianco, cioè in smalto a tutto tondo)19.

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Gli smalti del piede e del tempietto Veniamo ora agli smalti figurati del reliquiario, racchiusi nei quattro tondi del piede mistilineo e nei due “trittici” del tempietto esagonale che sostiene la “mandorla” contenente la reliquia. Nel piede, a parte la ripetizione dell’orso di Casa Vagnucci, è eloquente la contrapposizione tra san Iacopo, eponimo del committente, e Onofrio, santo al quale Iacopo era devotissimo (figg. 98-101): essa ci ricorda l’analoga contrapposizione, fra il ritratto del Vagnucci e la figura del santo eremita, che verrà proposta da Signorelli nella pala di Perugia.

Figg. 98-99 Reliquiario Vagnucci, particolari del piede con gli stemmi del vescovo Vagnucci.

Figg. 100-101 Reliquiario Vagnucci, particolari del piede con le figure di san Giacomo Maggiore e di sant’Onofrio.

Nel “trittico” posteriore (figg. 102-104), l’Imago Pietatis, in rapporto con la sovrastante statuetta del Cristo portacroce, è circondata da santa Margherita, protettrice di Cortona, e dallo stemma della città (un leone rampante riguardante)20. Nel “trittico” anteriore (figg. 105-107), invece, san Michele Arcangelo, contrapposto ad un altro sant’Onofrio, è stato definito il “punctum dolens” del programma iconografico21. Tuttavia questa figura non sembra rappresentare un grosso problema: prima di san Marco e di santa Margherita, infatti, il più antico protettore di Cortona era san Michele, la cui immagine compariva nello stemma della città, che solo in un secondo momento ha assunto il leone di san Marco22; la rappresentazione del santo ricorre spesso nelle opere di Luca Signorelli e nelle chiese di Cortona, dove anche esisteva un

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Figg. 102-103 Reliquiario Vagnucci, particolari del tempietto con le figure dell’Imago Pietatis e di santa Margherita.

Figg. 104-105 Reliquiario Vagnucci, particolari del tempietto con lo stemma di Cortona e la figura di san Michele Arcangelo.

Figg. 106-107 Reliquiario Vagnucci, particolari del tempietto con le figure di sant’Onofrio e della Vergine col Bambino.

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monastero di San Michelangelo (oggi distrutto), mentre non lontano dalla città sorge ancora l’antica chiesa di Sant’Angelo a Metelliano23. Al centro del “trittico” anteriore, infine, non può mancare l’immagine della Madonna col Bambino (fig. 107), dal momento che il reliquiario era destinato ad una chiesa consacrata alla Vergine. In questa parte del programma iconografico la volontà del Vagnucci è chiarissima: nella scelta delle figure, nell’iterazione dello stemma gentilizio e di sant’Onofrio, nella fastidiosa rottura della “logica visiva all’interno dello stesso registro di figurazioni”24. Da notare poi che i sei quadrupedi seduti sulle zampe posteriori, scolpiti ai vertici della cupola esagonale del tempietto, altro non sono che ulteriori orsi (fig. 108), derivandone una presenza “dilagante” del blasone di famiglia, simile a quella già registrata nella futura cappella di Sant’Onofrio nel duomo di Perugia. Ma non è su questi aspetti, legati ad una conoscenza (limitata a pochi) della casata e delle devozioni del committente, che Iacopo intendeva concentrare l’attenzione: gli smalti sono illeggibili da lontano e non vengono ricordati nel documento di donazione, mentre gli orsi della cupoletta non sono immediatamente riconoscibili come tali.

Fig. 108 Reliquiario Vagnucci, part. del tempietto con piccoli orsi araldici.

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La realizzazione del manufatto Demandando al prossimo paragrafo le vicende del reliquiario, passiamo ora al secondo grande aspetto, quello concernente la misteriosa figura dell’orefice e i suoi riferimenti stilistici, senza troppo addentrarci in questioni sulle quali regna il massimo disaccordo e, pertanto, ben lontane dal trovare una soluzione soddisfacente. A parte chi nega validità alla firma “Giusto da Firenze” (Frescucci, 1969), è indubbio che il reliquiario vada ricondotto all’ambiente dell’oreficeria fiorentina che, alla metà del XV secolo, si apriva a sostanziali innovazioni, accogliendo suggerimenti provenienti dall’architettura classica25: a questo proposito, il Collareta ha rilevato strette affinità tra il tempietto che sorregge la teca e le opere di Filippo Brunelleschi (Firenze, 1377-1446), in modo particolare la lanterna della cupola di Santa Maria del Fiore (realizzata dopo la morte dell’architetto su disegno del medesimo), notazione interessante se si considera che un “Gusto orafo” risulta tra i maestri chiamati a decidere sulla palla della lanterna nel 1467. Ciononostante, la forma generale dell’oggetto rimanda ancora al Gotico Internazionale, nel cui clima artistico si colloca la statuetta oltremontana del Cristo portacroce; viceversa lo stile delle figure, nelle statuette laterali e negli smalti traslucidi, torna a nutrirsi delle novità rinascimentali, soprattutto di quelle proposte da Domenico Veneziano (m. 1461)26. In sostanza di questo Giusto, che non risulta immatricolato tra gli orefici fiorentini, non sappiamo nulla, anche se la Liscia Bemporad ha reso noto un documento che permette di ascrivere alla stessa mano un lavoro eseguito nella chiesa di Sant’Ambrogio a Firenze (cappella del Miracolo Eucaristico); la studiosa ha anche ipotizzato, riprendendo alcune osservazioni del Middeldorf, la possibile origine tedesca di Giusto27. Ciò potrebbe spiegare, tra l’altro, perché l’atto di procura che precede la donazione del manufatto venga stipulato da un chierico di Colonia (cf. par. 2). Una questione irrisolta è quella della priorità progettuale del nostro reliquiario rispetto alla Croce d’argento del battistero di Firenze (lavoro di Antonio del Pollaiolo e Betto di Francesco, ora nel Museo dell’Opera del Duomo), con la quale le concordanze tipologiche e stilistiche sono innegabili28. La Croce venne commissionata nell’aprile del 1457 (quindi poco prima del reliquiario) e fu saldata soltanto nel 1459 (quando

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il prezioso oggetto splendeva già da un anno nella pieve di Cortona): mentre il Collareta ritiene che l’orefice Giusto abbia avuto accesso ad alcuni disegni preparatori per la Croce del battistero, viceversa la Liscia Bemporad assegna proprio a Giusto la precedenza ideativa29. Comunque stiano le cose, è facile concludere che il Vagnucci non ebbe alcuna difficoltà nel reperire un orefice fiorentino, essendo in rapporti molto stretti con la “città dell’Arno” sin dalla seconda metà degli anni trenta e, in particolare, godendo di grandissima stima negli ambienti legati alla signoria medicea (cf. par. I, 2). A questo proposito, si noti che il vescovo di Cortona, il fiorentino Mariano Salvini (1455-1477), creatura dei Medici e ad essi estremamente devoto, fu il principale artefice della ricostruzione del duomo cittadino, per il quale venne probabilmente chiamato Giuliano da Sangallo. Invece la notazione del Middeldorf, che ha riferito a Giusto alcune montature di vasi provenienti dal tesoro di Lorenzo il Magnifico, è stata rigettata dalla maggior parte degli studiosi30.

2. La donazione del reliquiario alla città (1458) L’atto di donazione Veniamo ora alle vicende del reliquiario, probabilmente consegnato dall’orefice fiorentino solo nella primavera del 1458. Il 28 giugno di quell’anno, infatti, il Vagnucci (residente a Roma al servizio di papa Callisto III), volendo donare la reliquia alla vecchia pieve di Santa Maria a Cortona31, nominò suo procuratore il concittadino Michelangelo di Niccolò Pecci, affinché costui, insieme al giovane Dionisio (nipote di Iacopo), stipulasse i dovuti patti con il vescovo di Cortona Salvini, il Capitolo dei canonici e i priori del comune: l’atto di procura venne rogato da messer Gonsbuino di Diepenbroich (notaio e chierico della diocesi di Colonia) nel palazzo vescovile di Perugia, alla presenza di Fabiano Benci da Montepulciano e Guglielmo di Goro, rispettivamente vicario generale e cappellano del vescovo Vagnucci (fig. 109)32. Finalmente il 2 luglio 1458, nel corso di una solenne cerimonia, si svolse sulla piazza dell’erigendo duomo cortonese la con-

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Fig. 109 Atto di procura del 28 giugno 1458 per la consegna del Reliquiario Vagnucci.

segna del prezioso cimelio: l’atto di donazione, datato 3 luglio e conservato nel locale Archivio Comunale, venne rogato da Niccolò di Cristoforo di Tommaso da Cortona, cancelliere e notaio del comune (figg. 110-111); il documento ci è pervenuto anche in due trascrizioni (risalenti, rispettivamente, al ’500 e al ’700), mentre nel 1747 un certo Niccolò Vagnucci lo presentò in casa propria nel corso di una delle celebri Notti Coritane (Notte XXXVII del 21 ottobre)33. Molto interessante, ai nostri fini, è la parte centrale dell’atto, quella che descrive minutamente l’oggetto della donazione34. Assente il Vagnucci (sempre trattenuto a Roma), intervennero alla cerimonia il vescovo e il clero di Cortona, il Capitolo della pieve, l’abate di Pietrafitta Iacopo, il capitano fiorentino messer Giovannozzo di Francesco Pitti, il collaterale (vice-

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podestà) messer Vellichino di Arezzo, i sei priori del comune (in rappresentanza di ciascun terziere della città: Santa Maria, San Marco e San Vincenzo) e il lanaiolo Michelangelo di Andrea, oltre ad uno straordinario numero di cittadini e a diversi membri della famiglia Vagnucci: tra questi il vecchio lanaiolo Francesco di Vagnuccio (padre di Iacopo, giunto alla venerabile età di 84 anni), il figlio Pietro (fratello e “biografo” di Iacopo, uno dei due priori del terziere San Vincenzo) e il nipote Dionisio di Pietro. In tale circostanza, i parenti del vescovo perugino accompagnarono il dono del reliquiario con altre offerte: così la moglie di Onofrio, altro fratello di Iacopo, con le figlie Cassandra e Margherita (“una tovalia contesta cum virgis de filo aureato”, “duo caputergia nova et pulcra”, “unum par paternostrum de ambris grossis et magnis”); così la vedova del lanaiolo Angelo di Vagnuccio (“unum iocale cum dindolis argenteis iam aureatis”), come pare di capire; lo stesso Iacopo aggiunse al suo dono “una clamis parvula de bisso cum dindolis argenteis et aureatis”. Invece Michelangelo Pecci, il procuratore incaricato dal Vagnucci di presenziare alla consegna, donò “unus çaffiri lapis [...], qui lapis reponi et aptari debet super dicto nobilissimo tabernaculo”, forse la stessa “nobilissima matreperla” (oggi dispersa) descritta dal contratto sulla sommità della croce del reliquiario.

Fig. 110 Registro delle ostensioni del Reliquiario Vagnucci. Fig. 111 Prima pagina dell’atto di donazione del 2-3 luglio 1458.

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Il giorno successivo (3 luglio) seguirono all’atto pubblico le funzioni religiose, durante le quali si celebrò l’uffizio dei morti per gli antenati del vescovo donatore, alla presenza di tutti coloro che erano intervenuti il giorno avanti.

Fig. 112 Frontespizio dei capitoli relativi al Reliquiario Vagnucci.

Fig. 113 Prima pagina dei capitoli relativi al Reliquiario Vagnucci.

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I capitoli del reliquiario Come si deduce dal documento, la gestione del “tabernacolo” e l’ostensione della reliquia in esso contenuta sarebbero state regolate da dettagliati capitoli che, redatti nel 1456 dal cortonese Mariotto di Giovanni, dottore in legge, furono approvati dal Vagnucci e confermati da una votazione comunale del 24 maggio, venendo infine registrati dal solito cancelliere del comune il 24 giugno 1458, qualche giorno prima della consegna del reliquiario (figg. 112-113). Così infatti si legge alla fine del testo dei capitoli, allegati all’atto di donazione35: Que omnia dicta ordinamenta lecta fuerunt in dicto consilio comunis Cortone et finaliter approbata per dominos priores et consilium dicti comunis [...] sub annis Domini ab incarnatione MCCCCLVI die XXIIII mensis maii. Ego, Nicolaus condam Christofori Tome, cancellarius comunis Cortone, copiavi et complevi manu propria subscripsi sub die XXIIII iunii 1458.

Da questo passo si evince un dato molto importante, cioè la decisione del Vagnucci di donare la reliquia alla pieve di Santa Maria già prima del maggio del 1456, quindi in una data prossima al passaggio della stessa nelle sue mani e, soprattutto, assai vicina alla morte dell’amato papa Niccolò V, evento che rappresenta, come già sottolineato, l’immediato precedente dell’iniziativa artistica e devozionale del cortonese. Proprio nel 1456 si dava inizio alla costruzione della nuova cattedrale, nella cui cappella maggiore (il coro attuale), di patronato di Francesco Vagnucci e dei suoi discendenti, sarebbe stato collocato il reliquiario, custodito da un “armario fortiter roborato meliusque roborando”, protetto da ben quattro chiavi36. A dimostrazione della grande considerazione di cui sempre godette il manufatto, anche i capitoli vennero copiati integralmente nel XVI e nel XVIII secolo37.

Il privilegio di Gregorio III Mammas Nel medesimo manoscritto che contiene le trascrizioni sia dell’atto di consegna che dei capitoli, si conserva in duplice copia persino la traduzione del privilegio che il patriarca Gregorio III, al fine di certificare la validità della reliquia, aveva fatto depositare presso il Capitolo del duomo, privilegio scritto sia in latino che in greco, un doppio attestato legale simile a quello della

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chiudenda opistografa del reliquiario: in esso il prelato garantiva che la reliquia in questione era proprio quella della veste inconsutile di Cristo, e che egli, fuggendo da Costantinopoli, l’aveva portata con sé insieme ad altri frammenti sacri, prima a Napoli, poi a Roma, facendone infine dono a papa Niccolò V38. Si noti, tra l’altro, che lo stesso patriarca aveva in precedenza accertato l’autenticità di un altro frammento della veste toccata dall’emorroissa, attraverso una bolla inviata al duca di Borgogna Filippo III Valois il Buono (1419-1467), che aveva ricevuto la reliquia in omaggio da Teodoro Paleologo, fratello minore dell’imperatore bizantino Giovanni VIII (14201448)39. Sarebbe importante indagare se la provenienza francese della statuetta portacroce del reliquiario (fig. 97), da alcuni assegnata proprio ad una scuola borgognona, possa essere collegata a questa vicenda piuttosto che alla già menzionata “pista” ferrarese: Gregorio potrebbe averla ricevuta in dono dal duca, in ricompensa del proprio servizio, e successivamente averla “girata” al Vagnucci (in questo caso assumerebbe maggiore significato il ritratto del patriarca proposto dal reliquiario). Questo secondo frammento della tunica miracolosa, insieme ad altre reliquie collegate alla passione di Cristo (quattro frammenti provenienti rispettivamente dalla veste, dalla canna, dalla spugna e dal sudario), si trovavano agli angoli di una croce-reliquiario contenente un pezzetto della Vera Croce; è molto probabile che, sempre per mezzo del patriarca Gregorio, una parte di quest’ultima reliquia sia finita nelle mani del Vagnucci, perché da diverse fonti si deduce che, nella donazione alla pieve di Santa Maria, il reliquiario di Cortona fu accompagnato da un’altra teca a forma di croce dorata, racchiudente appunto un pezzetto della Vera Croce40.

Le vicende successive alla donazione In attesa che si completasse la costruzione del coro del duomo, il Reliquiario Vagnucci fu riposto nella vecchia pieve, in una collocazione provvisoria: tant’è vero che, nell’inverno del 1462, i danni causati dal maltempo generarono grossa preoccupazione per il manufatto41. Questo venne avvolto in “pannis lineis finissimis” e, insieme a tutti gli altri oggetti della donazione, fu rinchiuso in un grande armadio ad ante serrato da tre chiavi (“quadam fenestra magna sub tribus clavibus”)42: una fu data in custodia a Francesco Vagnucci, la seconda al preposto dei prio-

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ri, la terza al medesimo, essendo da consegnarsi ad uno dei tre soprastanti della reliquia, che sarebbero stati eletti dopo qualche giorno, il 6 luglio. Quanto alla quarta chiave che, come previsto dai capitoli, doveva essere conservata dal vescovo di Cortona, essa era forse destinata, una volta terminata la cappella, ad aprire una cancellata o una grata metallica che proteggesse l’armadio delle reliquie (“se serri et ferri con 4 chiavi de diversi ingegni”), ma pare che non sia mai stata predisposta. Sempre secondo il testo dei capitoli, l’ostensione della reliquia era prevista per il 2 luglio, festa della Visitazione della Vergine Maria: ancora una volta, dunque, torna la devozione per la figura della Madonna, motivo conduttore di larga parte del mecenatismo artistico del Vagnucci. Ogni anno, in quel giorno, i magistrati del comune dovevano recarsi collegialmente alla cappella del reliquiario per portarvi le loro offerte: questa tradizione è attestata ancora nel ’600 da Giacomo Lauro (pseudonimo di Pietro Ridolfini), quando, oltre alla prima Domenica di luglio, si usava esporre la reliquia anche durante le celebrazioni pasquali43. In seguito alla radicale trasformazione del coro del duomo (altare maggiore di Francesco Mazzuoli del 1664, stalli lignei di Vincenzo Conti e Stefano Fabbrucci del 1684-1688), il reliquiario venne rinchiuso sotto la mensa del nuovo altare maggiore, in un ripostiglio le cui chiavi erano custodite nel palazzo del comune: qui lo descrivono l’Uccelli e il Mancini, ai cui tempi la teca veniva esposta solo il Venerdì Santo44. È lo stesso Mancini ad informarci, con sommo sdegno, che nel 1895, dopo ben quattro secoli e mezzo di permanenza, era stata cancellata dalla sala maggiore del palazzo comunale l’arme dei Vagnucci, accompagnata da un’epigrafe che ricordava la munificenza del prelato cortonese; questa testimonianza è riportata già dal Braccioli (1565), dal quale veniamo a sapere che “un’arme grande in pietra” del vescovo Vagnucci compariva anche all’interno del duomo, precisamente nel coro della chiesa, già coincidente con la cappella del reliquiario45. Oggi, come detto, si può ammirare il prezioso oggetto nella sala n. 7 del Museo Diocesano di Cortona.

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3. Il Reliquiario dei Serviti di Cortona (1483) Dalla chiesa di Santa Maria dei Servi... Un altro reliquiario perduto46, donato nel 1483 alla chiesa di Santa Maria dei Servi a Cortona (ancora una volta, dunque, un tempio intitolato alla Madonna)47, testimonia la dedizione dei Vagnucci al culto delle sacre reliquie: in questo caso si tratta di un frammento alquanto improbabile, ossia una “biettarella” (o “mazzetto”) di capelli della Vergine. L’Ughelli parla genericamente di una teca elegante (definita nelle memorie di un frate Servita come un “tabernacolo di cristallo”), la quale custodiva, oltre alla preziosissima reliquia, altri resti sacri, come attestavano due distici incisi o niellati intorno all’oggetto48: PIXIDE INAURATA POSUIT VANNUCCIUS HEROS || CAESARIEM SACRAM VIRGO BEATA TUAM || OSSAQUE SANCTORUM FELICI HAC FEDE [SEDE] QUIESCUNT || QUORUM ANIMAE IN COELIS GAUDIA VERA FERUNT

[Vergine Beata, in questa pisside indorata il Vagnucci, uomo illustre, ha riposto i tuoi sacri capelli; e le ossa dei santi, le cui anime recano in cielo le vere gioie, riposano in questa sede felice.]

Il convento dei padri Serviti, che si stabilirono in città nella seconda metà del secolo XIII, sorgeva un tempo nel borgo di Santa Maria, in prossimità delle mura cittadine, a non molta distanza dalla porta omonima: borgo, porta e via di Santa Maria (attuale via Roma) probabilmente dovevano il loro nome, piuttosto che alla presenza del complesso dei Serviti, alla vicina pieve urbana di Santa Maria. Al pari degli altri due borghi (San Vincenzo e San Domenico), anche quello di Santa Maria venne in gran parte distrutto intorno al 1554, per esigenze militari legate alla guerra tra Siena e Firenze49. Non potendo quindi ricorrere alla pianta di Piero Berrettini del 1634 (la quale, tra l’altro, non rappresenta il nostro borgo), ci viene in soccorso un disegno a penna (piuttosto sommario) di Tommaso Braccioli, eseguito a memoria nella seconda metà del ’500 (fig. 114): si scorge con chiarezza la facciata della chiesa, molto semplice, con il portale sormontato da un rosone50. Dal disegno apprendiamo pure che i Vagnucci possedevano alcune proprietà non lontano dal convento: conside-

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Fig. 114 T. Braccioli, disegno dell’antico borgo di Santa Maria a Cortona, seconda metà del XVI secolo.

rando la presenza nell’attuale via Roma di un palazzotto appartenuto ai Vagnucci (oggi Hotel Sabrina) e la scelta di Iacopo di collocare il primo reliquiario nella cappella maggiore della pieve di Santa Maria, sembra attestata una forte presenza della famiglia in questo lato occidentale della città. A differenza dell’ex-cattedrale di San Vincenzo e del convento di San Domenico (ubicati nei rispettivi borghi omonimi), la chiesa di Santa Maria dei Servi, troppo a ridosso delle mura urbiche, venne completamente demolita: non diversamente da quanto accadeva a Perugia negli stessi anni (dove, sempre per ragioni militari, la chiesa dei Servi venne sacrificata alla costruzione della rocca Paolina), i padri Serviti furono costretti a trasferire la propria dimora (e i propri oggetti, compreso il nostro reliquiario) all’interno del perimetro cittadino, andando ad occupare gli ambienti della chiesa di Sant’Antonio Abate51.

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...alla chiesa di Sant’Antonio Abate La storia di questo complesso è assai interessante. La chiesa fu con molta probabilità costruita nel XIV secolo dai canonici regolari di Sant’Antonio Abate, ai quali venne affidato un preesistente oratorio con annesso ospedale, intitolati ai santi Antonio e Onofrio e già gestiti da una confraternita locale (forse proprio quella di Sant’Antonio, attestata nel terziere di Santa Maria sin dal ’300). Racconta Domenico Tartaglini, storico cortonese del ’700, che questa congregazione offriva soccorso ed assistenza a poveri, pellegrini e forestieri, soprattutto in tempo di guerra; ma doveva occuparsi anche dei malati affetti dal cosiddetto “fuoco di Sant’Antonio”, fornendo loro quelle cure per le quali era rinomata la casa-madre dell’ordine omonimo (nel Delfinato, in Francia)52. Nel XV secolo la confraternita rientrò in possesso della chiesa, unendo al culto dei santi sotto cui militava quello di san Rocco, patrono contro la peste e santo legato al conforto dei condannati a morte: nacque così la compagnia dei Santi Antonio, Onofrio e Rocco53. È in questo momento che il pittore già identificato con Luca Signorelli dipinse per l’oratorio uno stendardo processionale a due facce, rappresentante Sant’Antonio Abate sul lato anteriore e la Vergine col Bambino tra i santi Onofrio e Rocco sul lato posteriore, tela oggi conservata nel Museo dell’Accademia Etrusca di Cortona: l’opera è collocata da L. Kanter e T. Henry tra le attribuzioni respinte, essendo piuttosto assegnata a Francesco Signorelli, nipote di Luca54.

Fig. 115 P. Berrettini, pianta della città di Cortona, 1634, part. con il complesso di Sant’Antonio Abate (n. 18) e la chiesa di San Rocco (n. 20).

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Come già detto, intorno al 1554 la confraternita cedette la chiesa e i locali annessi ai Servi di Maria, trasferendosi in un altro oratorio ubicato vicino al medesimo complesso e noto nelle antiche descrizioni come chiesa di San Rocco: ancora oggi se ne può vedere l’accesso in fondo a via Sant’Antonio, sulla destra, al n. 14 (fig. 115, n. 20). Diversamente dal gonfalone sopra citato, seguì il trasferimento della compagnia un’altra opera già attribuita al Signorelli, rappresentante il Crocifisso con i santi Giovanni Battista, Rocco, Maria Maddalena e altri santi (Antonio e Onofrio?). Sappiamo dal Della Cella che, dopo la soppressione delle compagnie voluta dal granduca Pietro Leopoldo nel 1785, la tavola venne trasportata nel coro della cattedrale, dove rimase gravemente danneggiata dall’incendio del 1886, per poi finire in un ripostiglio della sacrestia55. L’antica intitolazione ai santi Antonio e Onofrio ha lasciato, relativamente alla chiesa di Sant’Antonio, anche altri ricordi. Il Della Cella ci informa che, al di sopra della lapide (oggi illeggibile) collocata sull’architrave della porta, si aprivano tre nicchie contenenti le statue dei due santi e della Vergine: furono chiuse ai primi dell’800, come si scorge chiaramente dal rifacimento di tutta la porzione centrale della facciata. Da una visita pastorale del 1583, sappiamo poi che monsignor Angelo Peruzzi, visitatore apostolico, aveva ordinato il restauro di antiche pitture che si trovavano agli altari dedicati ai santi Antonio ed Onofrio (successivamente distrutti dall’apertura delle navate laterali). Ancora nel ’700, il pittore cortonese Lorenzo Zalli effigiava i due santi orientali in un quadro andato poi smarrito56. Ancora una volta, dunque, il nome di sant’Onofrio risulta legato alla città che diede i natali al Vagnucci, della cui devozione per il santo eremita si sono già analizzate le ragioni (cf. par. II, 5): proprio la matrice signorelliana delle due opere sopra menzionate renderebbe necessaria un’indagine approfondita sul ruolo eventualmente ricoperto dalla famiglia Vagnucci nelle vicende artistiche e decorative della chiesa di Sant’Antonio.

La scomparsa del reliquiario Ma torniamo alla nostra reliquia che, solo per un caso fortuito (è bene precisarlo), transitò in un luogo-simbolo della devozione a sant’Onofrio. La preziosa teca venne consegnata ai padri Serviti non nel 1481, come affermato dal Tartaglini (che tra l’altro ritiene il reliquiario pertinente sin dall’inizio

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alla chiesa di Sant’Antonio!), ma il 15 settembre del 1483, come testimoniato dalle carte del convento dei Servi e come ripetuto da tutti gli eruditi57. In modo analogo a quanto accaduto nel 1458 con il primo reliquiario, anche questa volta la donazione si svolse nel corso di una solenne cerimonia, preceduta da una processione che, una volta all’anno, si sarebbe ripetuta in quei giorni; diversamente però dal 1458, quando gli impegni romani avevano costretto il Vagnucci all’assenza, nell’occasione avvenne che “in un dì si trovarono insieme tre vescovi cortonesi”, cioè nativi di Cortona: Iacopo arcivescovo di Nicea, Dionisio vescovo di Perugia e Cristoforo dei marchesi Bourbon di Petrella, vescovo di Cortona (1477-1502)58. Stando sempre al Tartaglini, che ci narra un curioso aneddoto popolare già riportato dal Lauro, il Vagnucci avrebbe dimostrato l’autenticità della ciocca di capelli della Vergine, tentando inutilmente di bruciarla per ben due volte. Ancora ai tempi dello storico cortonese (1700), la reliquia era oggetto di fervida devozione cittadina: una volta all’anno, “con gran decoro” e “gran concorso di popolo”, veniva portata in processione per le vie di Cortona, insieme ad una reliquia “complementare” (il “latte della beatissima Vergine”); il rito si ripeteva la terza Domenica di settembre, a ricordo, appunto, della data in cui Iacopo aveva consegnato il reliquiario alla chiesa dei Serviti59. Ai tempi del Salvini (1751) e prima dell’ulteriore trasferimento dei Servi nel convento di San Domenico (1788), ubicato all’esterno delle mura cittadine, il reliquiario si trovava ancora presso quei padri60. La reliquia che esso conteneva ha ovviamente poco credito di autenticità. Ma la teca, che doveva essere preziosissima, dove è andata a finire?

4. Il Sant’Anello di Perugia (1473-1488) Il furto e la gestione della reliquia Come la veste di Cristo o i capelli della Vergine nei reliquiari di Cortona, così il Sant’Anello di Perugia (niente meno che l’anello nuziale della Madonna; figg. 116-117) è protagonista di una vicenda storico-artistica di grande importanza, al di là della presunta autenticità della reliquia e della tradizione leggendaria che ruota intorno ad essa61.

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Fig. 116 Il Sant’Anello con la sua coroncina.

Fig. 117 Part. del Sant’Anello con la cavità inferiore.

Sottratto alla chiesa di San Francesco a Chiusi (nella Repubblica di Siena), dove si trovava malamente custodito sin dal 1420, il Sant’Anello fece la sua prima comparsa a Perugia il 29 luglio 1473, divenendo ufficialmente proprietà del comune il 6 agosto successivo62. Come ha sottolineato la Duranti, l’autorità politica e quella religiosa compresero immediatamente la possibilità di sfruttare “le caratteristiche bidimensionali della reliquia (sicuro interesse devozionale quanto economico)”, la prima trovando con essa l’occasione per un sussulto di orgoglio municipale, la seconda cogliendo il momento

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propizio per risvegliare il fervore religioso della città e rinverdire un culto, come quello delle sacre reliquie, che si era andato progressivamente affievolendo nel corso del ’400. Chi mostrò subito vivo interesse per la reliquia della Vergine, divenendo il “punto focale dell’organizzazione della fase perugina del culto al Sant’Anello”, fu ovviamente il vescovo di Perugia Iacopo Vagnucci che, a quelle date, dimorava in maniera stabile nella propria diocesi63. È da ritenersi, infatti, che nella gestione complessiva della vicenda, a tal punto delicata da apparire imminente un conflitto armato tra Perugia e la repubblica senese (che reclamava la restituzione della reliquia)64, e che per il buon esito finale della stessa, il Vagnucci abbia svolto un ruolo fondamentale, alla luce del quale potrebbe essere letto l’atteggiamento, a dir poco sorprendente, tenuto in quell’occasione da papa Sisto IV, chiamato dalle parti a pronunciarsi sulla contesa65. Infatti gli anni 1473-1474 videro un susseguirsi ininterrotto di legazioni tra Perugia, Chiusi, Siena e Roma, periodo durante il quale il pontefice, piuttosto che condannare quella che si presentava come una palese “operazione ladresca”, mantenne un atteggiamento attendista e diplomatico, prima di stabilire che l’anello, secondo le autorità perugine “capitato in questa città miracolosamente per volontà de la Vergene gloriosa”, sarebbe rimasto dove si trovava, sulla base di una semplice ratifica dell’accaduto. Le fonti sottolineano come il successo finale venisse favorito anche dalla morte improvvisa, nello spazio di pochi giorni, dei due cardinali che si erano assunti la difesa della parte lesa, Niccolò Forteguerri, vescovo di Teano e cardinale di Santa Cecilia (morto nel dicembre del 1473), e Pietro Riario Della Rovere, nipote del papa, cardinale di San Sisto e legato apostolico di Perugia nel 1473 (morto nel gennaio del 1474)66. La linea tutt’altro che imparziale tenuta dal pontefice è stata interpretata da Adamo Rossi e da Ettore Ricci alla luce degli intensi rapporti che, sin dagli anni cinquanta, Francesco Della Rovere intratteneva con Perugia, di cui era cittadino onorario67. La Duranti, attenuando la portata di questa antica amicizia perugina, ritiene piuttosto che Sisto IV fosse mosso dal desiderio di non indagare in casa francescana, evitando così di far precipitare in uno scandalo l’ordine religioso al quale egli stesso apparteneva68. Non si può tuttavia negare che l’attivismo privo di indugi del Vagnucci, molto legato al pontefice

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Fig. 118 Forziere del Sant’Anello. Perugia, cattedrale di San Lorenzo, cappella di San Giuseppe.

come ai francescani (con i quali stava costituendo in quegli anni il terzo Monte di Pietà), derivasse dalla consapevolezza di avere “le spalle coperte” sin dal primo momento69. Dopo il suo approdo in città, la reliquia venne riparata nella cappella Nuova del palazzo dei Priori e, “testimone” il Bonfigli che lavorava alla decorazione pittorica delle pareti, fu riposta sotto l’altare della cappella, in un cassone di legno ferrato protetto a sua volta da una grata metallica: il primo chiuso da ben sette chiavi, una delle quali fu consegnata al vescovo, la seconda serrata da quattro chiavi, di cui una venne data in custodia ai francescani (fig. 118)70. Già il 15 agosto del 1473 il Vagnucci, in occasione della festa dell’Assunzione della Vergine, inaugurò la prassi delle ostensioni periodiche della reliquia, esibendola per la prima volta alla cittadinanza71. L’ostensione venne ripetuta il primo di novembre (festa di Ognissanti), quando l’anello fu mostrato “per le mani di monsignor Giacomo vescovo della città nel duomo con molta concorrenza di popolo e divotione”: si narra che in piazza ci “foro li migliaia de le persone”72. Il Vagnucci mostrò la reliquia con rito solenne anche il terzo giorno di Pasqua del 1474 (12 aprile) e il 3 agosto successivo, dopo averla prelevata personalmente dalla cappella del palazzo comunale alla presenza dei priori, evento sintomatico di una singolare convergenza d’interessi tra le due massime autorità perugine73.

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La cappella del Santo Anello in cattedrale Dopo gli eventi convulsi del biennio 1473-1474, seguiti da uno strascico di polemiche e tensioni che continuò fino alla sentenza definitiva di papa Innocenzo VIII (1486), si tornò a parlare del Sant’Anello nel 1487, allorché, sull’onda della predicazione del beato Bernardino da Feltre (1439-1494), Minore Osservante, venne istituita in cattedrale la compagnia di San Giuseppe, nel cui ruolo il frate registrò personalmente il proprio nome74. A quelle date, infatti, i francescani dell’Osservanza erano impegnati in un’assidua promozione della figura e del culto di san Giuseppe, finalizzata alla valorizzazione delle virtù familiari e dell’unità coniugale. Nel frattempo, il beato Bernardino aveva ottenuto l’autorizzazione per la costruzione, all’inizio della navata sinistra della cattedrale (nel sito già occupato dall’altare di San Bernardino di Agostino di Duccio, n. 14), di una cappella intitolata a san Giuseppe, destinata ad ospitarne il venerato pegno nuziale: la prima idea risale al 1486; quindi l’altare venne eretto tra l’ottobre del 1487 (primi stanziamenti) e il settembre del 1488 (stima dei lavori) da Benedetto Buglioni da Firenze (1461 ca-1521), discepolo di Andrea Della Robbia, ancora una volta uno scultore toscano, a conferma di un indirizzo stilistico ben preciso del quale già si è parlato75. Il 19 marzo 1488, sotto la spinta di un altro Minore dell’Osservanza, fra Michele lombardo, e in singolare anticipo sulla festa di precetto istituita solo nel ’600, “fo comenzato a guardare la detta festa de S. Giosefe e che prima non se guardava”, con una processione di tutta la cittadinanza che dalla cattedrale giungeva sino alla chiesa di Santa Maria dei Servi di colle Landone, per poi ritornare al duomo e concludersi con un’offerta di cera alla cappella del santo (peraltro già funzionante)76. Non era che la preparazione all’evento tanto atteso: l’ultimo giorno di luglio, infatti, nel corso di una solenne cerimonia presieduta dal vescovo Dionisio, il Sant’Anello venne finalmente traslato dall’altare della cappella dei Priori alla cappella da poco edificata77. Purtroppo quest’ultima non ebbe sorte migliore di quella in cui, a distanza di tre anni (1491), le spoglie del secondo dei Vagnucci avrebbero raggiunto quelle dello zio Iacopo.

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NOTE 1 2 3

UGHELLI [1644], tomo I, col. 1164. LOMBARDI 2000, pp. 704 e 711. Con il termine “reliquia” ci riferiremo anche a possibili oggetti appartenuti a santi e beati o venuti a contatto con essi: pertanto si ometterà il virgolettato. 4 Si fornisce di seguito la bibliografia completa relativa al reliquiario: BAEC, Braccioli, Stemmi e brevi notizie..., c. 7v; LAURO 1633-1639, parte II, c. 17rb; TARTAGLINI 1700, pp. 82-83; BAEC, Contratto di donazione..., pp. 188-190; BAEC, Vita del vescovo..., p. 68; ACDF, Salvini, Vite e memorie...; BREVI NOTIZIE 1827, pp. 23-24; UCCELLI 1835, p. 128 e nota 2; CARLONI 1887, pp. 79-80; CRONACHE 1896, p. 45; MANCINI 1897, pp. 336-338; IDEM 1898, p. 39; IDEM 1899, pp. 493-497; DELLA CELLA 1900, pp. 112-113; MANCINI 1909, pp. 60-63; SALMI 1916, p. 241, in nota; MIDDELDORF 19371940, pp. 437-438; MORASSI 1963, p. 12 e tavv. 4, 10, 16 e 17; FRESCUCCI 1969, pp. 89-91; EISLER 1969, pp. 107-118 e 233-246; SALMI 1971, p. 132, nota 15; HEIKAMP-GROTE 1974, pp. 91-92, 105, 127-128 e 145; SCAPECCHI 1980, p. 54; COLLARETA 1987a, pp. 87-96; IDEM 1987b, pp. 27-29; LISCIA BEMPORAD 1988, pp. 195-214 e tavv.; TAFI 1989, pp. 478-479; MAETZKE 1992, pp. 201-204; MORI 1995, pp. 84-85; CORTI 1998, pp. 147-148; CARACCIOLO 2005a, p. 47, nota 21; IDEM 2005c, pp. 79-80, nota 9. 5 La firma venne letta per primo dal MANCINI (1909, p. 63), il quale in precedenza aveva ipotizzato che l’artefice potesse essere un orafo fiorentino domiciliato presso la corte romana (1899, p. 493). 6 Il “tabernacolo” è in rame fuso, cesellato e dorato; le statuette laterali sono in argento dorato; il Cristo centrale è d’oro; il tutto è decorato con smalti (trasludici ed opachi), paste vitree, pietre semipreziose e perle. Le iscrizioni niellate sono state più volte riportate da vari studiosi, con lievi differenze ma numerosi errori: pertanto se ne fornisce la trascrizione definitiva, personalmente verificata in loco. Inoltre non è condivisibile l’ordine di lettura proposto da alcuni (COLLARETA 1987b): la prima epigrafe, infatti, non ha la funzione di concludere e riassumere la vicenda, ma serve ad introdurre la narrazione. 7 L’episodio è narrato da tre degli Evangelisti: MATTEO, 9, 20-22; MARCO, 5, 25-35; LUCA, 8, 43-48. 8 Gregorio morì nel 1459 e venne sepolto in San Giorgio del Velabro (HOFMANN 1951, coll. 1087-1088; EISLER 1969, pp. 110-111). Nell’ottobre del 1451 Niccolò V, inviando un severo documento all’ultimo imperatore bizantino Costantino XII, reo di non aver ancora pubblicato la bolla di unione, gli intimò che il patriarca Gregorio venisse richiamato e reintegrato in tutti i suoi onori (PASTOR 1910, p. 532; MIGLIO 2000, pp. 647-648). Di lì a poco, nel 1453, Costantinopoli sarebbe caduta nelle mani dei Turchi del sultano Maometto II. 9 COLLARETA 1987a, pp. 89 e 92. 10 MANCINI 1899, pp. 493-494. Il rapporto gerarchico tra le due figure è rafforzato dal testo delle iscrizioni sottostanti, nelle quali solo il Pontefice utilizza il plurale maiestatis. 11 COLLARETA 1987a, p. 92. 12 Viceversa, il presunto ritratto di Niccolò V adombrato nel san Nicola di Bari del Polittico Guidalotti di Perugia (fig. 33) mostra tratti fisionomici troppo discordanti per accettare l’ipotesi avanzata dal De Marchi (sulla questione, cf. GARIBALDI 1998, pp. 24-34).

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13 PLATINA \ PANVINIO 1663, p. 493; PASTOR 1910, pp. 498-504; MIGLIO 2000, p. 655. Nella statuetta si vedano la dalmatica, la casula e il pallio, ispirati a prototipi reali di gran lusso, e il libro aperto, scritto in caratteri maiuscoli rosso-neri. 14 La ricca stola istoriata del vescovo signorelliano risalta quanto più si tenga conto che, in pittura, si era ormai affermato il modello semplificato proposto da Domenico Veneziano nella Pala di Santa Lucia dei Magnoli ed accolto dall’orefice nel piviale del Patriarca Gregorio (COLLARETA 1987a, p. 91). 15 BAEC, Vita del vescovo..., p. 70. In una lettera a Giovanni Tortelli (primo bibliotecario della Vaticana) del 28 ottobre 1448, il Valla scrive all’amico di non essere ancora riuscito a farsi rendere il proprio libro dal vescovo di Rimini che, nel 1448-1449, è il Vagnucci (MANCINI 1891, p. 236). 16 COLLARETA 1987a, pp. 88-89. A Cortona san Nicola da Tolentino era venerato nella chiesa degli agostiniani, ordine religioso al quale appartenne il popolarissimo santo taumaturgo. 17 LAURO 1633-1639, parte II, c. 17rb; TARTAGLINI 1700, p. 83; BAEC, Vita del vescovo..., p. 68. 18 EISLER 1969, pp. 116-117. A quanto risulta, il Vagnucci non ebbe alcun rapporto col Concilio di Mantova (1459), promosso da un pontefice (Pio II Piccolomini) che sembra tenere nei confronti della città di Perugia e del suo vescovo una linea piuttosto distaccata; quando poi la testa di sant’Andrea, patrono di Mantova, venne dal Bessarione solennemente traslata da Narni (dove era stata deposta) a Roma (aprile del 1462), Iacopo non era ancora governatore della cittadina umbra (LABOWSKY 1967, p. 691). 19 MANCINI 1899, p. 496; EISLER 1969, pp. 111-116; COLLARETA 1987a, p. 90. 20 Margherita, in attesa della canonizzazione (avvenuta solo nel 1728), viene rappresentata con l’aureola raggiata dei beati. La sua presenza è significativa in relazione non solo alla città di Cortona, ma anche alla stessa famiglia Vagnucci che, proprio in quegli anni, alimentò un’antica leggenda in base alla quale Margherita da Laviano (1247-1297) avrebbe pianto la morte dell’amato, il nobile di Montepulciano Arsenio, in un sacello annesso alla villa che i Vagnucci fecero costruire a nord di Petrignano del Lago (cf. anche l’appendice C). Ma il gioco delle allusioni familiari non si ferma qui, perché il nome del committente (Iacopo) è anche quello del figlio che Margherita ebbe dal nobile Arsenio. 21 COLLARETA 1987a, pp. 92-94. Lo studioso propone un nesso tra l’arcangelo, deputato a pesare le anime dei defunti, e il desiderio del committente di accumulare meriti per l’aldilà, attraverso la commissione e il dono di un oggetto destinato alla pietà devozionale. 22 San Michele che uccide il drago è una trasformazione cristiana del primissimo stemma pagano, un drago alato verde in campo rosso; il leone venne assunto per ricordare la data del 25 aprile 1261 (giorno di San Marco), quando i cortonesi rientrarono in patria dopo la guerra con Arezzo; rispetto allo stemma di Venezia, in quello di Cortona il libro che il leone tiene tra le zampe anteriori è chiuso (DELLA CELLA 1900, pp. 245-259). 23 Tra i dipinti del Signorelli, si veda il già citato stendardo opistografo di San Niccolò o il tondo dell’Accademia Etrusca. Sul distrutto monastero di San Michelangelo, cf. TAFI 1989, pp. 356-357. 24 Infatti i simboli araldici (orso, leone) occupano a figura intera lo stesso spazio riservato alle mezze figure dei santi (COLLARETA 1987a, p. 90).

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MAETZKE 1992, p. 204. COLLARETA 1987a, pp. 90-91 e 95 (note 22 e 25). MIDDELDORF 1937-1940, pp. 437-438; LISCIA BEMPORAD 1988, pp. 195-214. 28 Il “tabernacolo” di Cortona ha molti elementi in comune con le croci d’altare, collocandosi al di fuori della tipologia nota dei reliquiari; inoltre la soluzione decorativa delle lastrine in argento smaltato è quella tipica dell’oreficeria toscana dopo la metà del ’400 (vedi anche il pastorale di Pio II nel Museo Vescovile di Pienza): ma ciò non basta a spiegare le analogie troppo strette con la Croce di Firenze (su quest’ultima, cf. BECHERUCCI-BRUNETTI 1969, pp. 229-236). 29 COLLARETA 1987a, p. 94; LISCIA BEMPORAD 1988, pp. 195-214. 30 MANCINI 1897, pp. 323-326; MIDDELDORF 1937-1940, pp. 437-438; COLLARETA 1987a, p. 91. 31 I resti della pieve sono inglobati nella facciata del duomo attuale, costruito tra il 1456 (documento citato dal Mancini) e il 1508, quando, con licenza di Giulio II, la cattedra episcopale venne trasferita dall’antica chiesa di San Vincenzo (MANCINI 1897, pp. 323-326). 32 BAEC, Cartapecore Vagnucci, 28 giugno 1458; cf. MANCINI 1899, p. 494. Nel documento di cui alla nota 33, il notaio è identificato dal toponimo “Diexenbroicsr”: questo dovrebbe coincidere con Diepenbroich, quartiere di Willich, cittadina tedesca a nord di Colonia, nei pressi di Düsseldorf. 33 ASCC, Opere riunite del duomo e di Santa Maria Nuova, ms. G59, cc. 1r-2v; BAEC, ms. 739, cc. 37v-41r; BAEC, Contratto di donazione..., pp. 188-190. Il primo manoscritto, che nell’antico inventario è descritto come Capitoli concernenti le sacre reliquie regalate da monsignor Iacopo Vagnucci alla comunità ed entrata ed uscita di dette reliquie, registra tutte le ostensioni dal 1458 sino al 1492 (cc. 3r-25v, mentre le carte restanti sono bianche). Anche se il contratto porta la data del 3 luglio 1458, considerata da tutti gli scrittori come quella della donazione, quest’ultima avvenne invece il 2 luglio, giorno scelto dal Vagnucci per la coincidenza con la festa della Visitazione della Vergine, mentre il giorno successivo si svolsero soltanto le celebrazioni religiose, anch’esse comprese nella stipula dei patti. 34 Per la trascrizione completa del testo latino del documento, cf. appendice A, n. 10. La parte descrittiva è stata già pubblicata da MANCINI (1899, pp. 494-495) e da EISLER (1969, p. 107, nota 1). Quest’ultimo propone una traduzione inglese affatto convincente; pertanto si fornisce una traduzione letterale della sezione centrale dell’atto notarile: Michelangelo di Niccolò Pecci da Cortona, uomo spettabile e saggio, a tutte queste cose sotto menzionate procuratore in rappresentanza del reverendissimo in Cristo padre e signore messer Iacopo di Francesco dei nobili Vagnucci di Cortona degnissimo vescovo perugino [...], delegato insieme all’istruitissimo e non meno eloquentissimo giovinetto Dionisio figlio di Pietro figlio di Francesco dei nobili Vagnucci e nipote del detto reverendissimo messer Iacopo vescovo, presentò, donò e concedette [...] ai priori del popolo e del comune di Cortona [...] i beni sotto descritti, vale a dire innanzitutto questo eccellentissimo e preziosissimo dono, un tabernacolo o reliquiario, parte in oro e parte in argento, abbellito e decorato con pietre preziosissime ed altre descritte più sotto, e cioè: sulla cima del detto tabernacolo è un Crocifisso interamente d’oro, del peso di tre libbre e tre once, che tiene in mano una croce che ha abbracciato, con un’altra croce di diaspro all’incrocio di

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detta croce ed una nobilissima madreperla sulla sommità di detta croce. Intorno al mezzo del detto tabernacolo è collocata l’immagine o figura della felicissima e santissima memoria di papa Niccolò V, lavorata in argento e oro, con un libro aperto in argento, e decorata con pietre varie e perle preziose e nobili: e questo da una parte. Dall’altra parte del detto tabernacolo l’immagine o figura in argento e oro di un prelato di altissimo rango ed eccellentissimo, il patriarca di Costantinopoli, con un libro chiuso nella mano sinistra, ornata allo stesso modo. E per tutto il rimanente del detto tabernacolo, un ornamento di nobilissime e preziosissime pietre ed un numero infinito di perle del massimo valore, con sculture varie e sottilissime ed ornamenti che sopravanzano ogni altro reliquiario. Nel mezzo poi di detto reliquiario è un frammento della veste o tunica del Salvatore Nostro Signore Gesù Cristo, e si trova in una teca d’oro ornata da dodici pietre preziosissime e dodici perle di molta nobiltà e anche del massimo valore. E dalla parte davanti, cioè dalla parte anteriore, un cristallo. Dalla parte posteriore una chiudenda d’oro, scolpita a caratteri greci e latini con molteplice splendore. Ad avere, tenere e possedere e nel tempo opportuno esporre o far esporre [questo reliquiario] e, una volta esposto, lo stesso riporre e far ricollocare nel luogo deputato alle medesime reliquie, e a compiere ed osservare ogni altra cosa, a tutto ciò sono tenuti i detti signori priori, che intervengono e accettano al posto e in nome del detto comune, per se stessi e i propri successori, secondo il tenore e gli ordinamenti di alcuni capitoli editi e composti dal defunto egregio dottore in legge messer Mariotto di Giovanni da Cortona, e confermati ed approvati dal reverendissimo messer [Iacopo] vescovo perugino e nel consiglio del popolo e del comune di Cortona per 21 fave nere. I sopraddetti signori priori, che si trovano nel sopraddetto luogo alla presenza del popolo [...], in nome del detto comune e della sua gente, per se stessi e i propri successori, coi detti nomi, ricevettero ed accettarono questo singolarissimo, eccellentissimo, devotissimo e preziosissimo regalo, rendendo grazie con ogni e umile e debita riverenza alla donazione del suddetto reverendissimo messer [Iacopo] vescovo perugino. 35 I capitoli sono scritti in volgare e si trovano in un fascicolo di quattro carte non numerate, collocato all’inizio del volume contenente l’atto: “Capitula pertinentia ad sanctas reliquias plebis de Cortona, quas largitus fuit reverendissimus dominus Iacobus comuni Cortone”. Per la loro trascrizione, cf. appendice A, n. 11. 36 Infatti l’ultima delle disposizioni recita che, in caso di incompiutezza della cappella alla data di consegna del manufatto, questo sarebbe stato sistemato nel luogo indicato dal vescovo di Perugia, ma le celebrazioni annuali avrebbero dovuto svolgersi ugualmente alla pieve. Le quattro chiavi menzionate dovevano essere consegnate ad un membro della famiglia Vagnucci (designato dal vescovo Iacopo e, dopo la morte di questi, dal più degno discendente per linea maschile), al vescovo di Cortona, al comune e ad uno dei tre soprastanti deputati alla custodia delle reliquie (in carica per un anno). L’esposizione del reliquiario era prevista per il 2 luglio (festa della Visitazione), ed eventuali ostensioni straordinarie potevano essere autorizzate solo dai custodi delle chiavi. Il notaio del comune doveva essere sempre presente agli spostamenti delle reliquie, registrando il tutto in un libro appositamente conservato nella cancelleria comunale. Per tutti gli inadempienti erano stabilite severe pene pecuniarie, che per la metà sarebbero state incamerate dal comune, per la restante metà dalla cappella del reliquiario, a copertura delle spese connesse alla conservazione ed ostensione delle reliquie. Il giorno seguente (3

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luglio) il Capitolo della pieve doveva celebrare l’uffizio dei morti per il vescovo Iacopo e i defunti della famiglia, con almeno trenta messe, di cui una solennemente presenziata dal vescovo cortonese o dal suo vicario. Il 2 luglio i priori del comune dovevano recare alla cappella del reliquiario un’offerta di venti libbre di cera in fiaccole accese e simbolicamente consegnare una torcia accesa ad un rappresentante della famiglia Vagnucci. Le offerte complessivamente raccolte in quel giorno dovevano essere convertite nei modi stabiliti dal vescovo, dai priori e dai soprastanti delle reliquie. 37 BAEC, ms. 739, cc. 11r-16v e 21r-26r; alla c. 43rv si trova invece un estratto settecentesco dei medesimi capitoli. 38 Ivi, cc. 16v-18r e 26r-28r. Nella bolla si conferma che, all’epoca della successiva donazione da parte di Niccolò V, il Vagnucci era vicecamerlengo, vicetesoriere e familiare del pontefice. Dal contratto di donazione emerge che un altro privilegio venne rilasciato dal cardinal ruteno Isidoro, il quale dichiarava che in passato aveva venerato la reliquia nella città di Costantinopoli e aveva visto altri fare altrettanto: entrambe le bolle vennero collocate all’interno dell’armadio delle reliquie. 39 Questa donazione avvenne tra il 1443 (elezione a patriarca di Gregorio) e il 1446, quando Teodoro Paleologo, despota di Selimbria, scompare dalla storia, essendosi fatto monaco ed avendo ceduto tutti i suoi diritti all’altro fratello Costantino, ultimo imperatore bizantino (1448-1453). Cf. GHEYN 1903, pp. 8-12 e 17-20. 40 “Vidit deinde quamplures sanctorum reliquias et presertim de cruce domini nostri Iesu Christi, quas reliquias omnias vidit conservari retro altare maius” (ADC, Visitatio civitatis..., c. 10r); “fu questo prelato affezionatissimo alla sua patria, onde alla cattedrale di quella donò molte insigni reliquie, fra le quali vi è quella della croce santissima del Signore Nostro in una croce d’oro” (ACDF, Salvini, Vite e memorie...); “monsignor Iacopo Vagnucci [...], insieme con buon numero di altre sante reliquie, da diversi prelati donateli, [...] donò il tutto alla sua patria di Cortona [...]. In oltre nella medesima chiesa si venerano parimente molti pezzetti del legno della santissima croce” (TARTAGLINI 1700, pp. 82-83). Si aggiunga poi che lo stesso documento del 1458 si riferisce alla donazione di più reliquie, anche se ad essere menzionato è soltanto il Reliquiario Vagnucci. 41 COLLARETA 1987b, p. 27. 42 ADC, Visitatio civitatis..., c. 10r. 43 LAURO 1633-1639, parte II, c. 17rb. Dal registro del reliquiario risulta comunque che la pratica dell’ostensione pasquale (nei mesi di marzo-aprile) si affermò da subito, già a partire dal 1459 (e ciò confermerebbe la compresenza di un’altra teca contenente il legno della Vera Croce, “complementare” alla statuetta portacroce del Reliquiario Vagnucci). 44 UCCELLI 1835, p. 128 e nota 2; MANCINI 1899, p. 493. 45 BAEC, Braccioli, Stemmi e brevi notizie..., c. 7v; MANCINI 1897, p. 336. Nel Braccioli una nota a piè della carta ci informa che lo stemma venne levato dal coro del duomo nel 1787. 46 Si fornisce di seguito la bibliografia relativa a questo secondo reliquiario: BAEC, Memoria del reliquiario..., c. 18v; LAURO 1633-1639, parte II, c. 19v; UGHELLI [1644], tomo I, col. 1164; TARTAGLINI 1700, pp. 95-96; BAEC, Vita del vescovo..., p. 68; ACDF, Salvini, Vite e memorie...; CRONACHE 1896, p. 43; MANCINI 1897, p. 338; DELLA CELLA 1900, p. 154; TAFI 1989, pp. 308 e 349; CARACCIOLO 2005c, pp. 65 e 79-80, nota 9.

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47 Che questa chiesa fosse un luogo-simbolo del culto alla Madonna è testimoniato dalla vicenda della pala di Andrea del Sarto oggi a palazzo Pitti (Firenze), rappresentante l’Assunzione della Vergine: essa fu commissionata dal cardinal Passerini per volontà della madre che, riavutasi da una grave malattia per intercessione della Madonna, Le volle dedicare una sontuosa cappella nella chiesa dei Servi. 48 UGHELLI [1644], tomo I, col. 1164; CRONACHE 1896, p. 43. Nell’Ughelli “hac fede” non ha senso, ma può essere corretto con “hac sede” che compare nel Salvini (ACDF, Vite e memorie...). 49 La cosiddetta “Guerra di Siena” (1552-1559), che portò alla fine della Repubblica senese e al suo incorporamento in un più ampio stato regionale fiorentino, non fu altro che il terreno di scontro tra la monarchia francese e l’Impero di Carlo V per il predominio nella penisola. I borghi di Cortona, addossati alle mura e, a loro volta, recintati e dotati di opere di fortificazione, caddero per ragioni di ordine pubblico e al fine di permettere una migliore difesa della città. 50 TAFI 1989, pp. 348-351. 51 Ibidem. La chiesa mantenne la sua intitolazione, ma fu consacrata alla Madonna Addolorata (sull’altare maggiore venne infatti trasferita l’Assunzione della Vergine di Andrea del Sarto); durante la permanenza dei padri, essa subì grosse trasformazioni, con l’aggiunta delle navate laterali già visibili nella pianta del Berrettini del 1634 (fig. 115, n. 18). Nel 1788 i Serviti si trasferirono nel convento del soppresso ordine domenicano, mentre il complesso di Sant’Antonio venne ceduto all’Ospedale, per poi diventare la sede di una confraternita laicale. Nel 1875 vi si stabilirono i monaci Cistercensi: dalla loro partenza (1976) la chiesa è caduta in uno stato di deplorevole abbandono (ivi, pp. 304-306). 52 Ibidem. È interessante l’associazione del culto di Onofrio (IV-V secolo) con quello di Antonio (251-356), altro santo anacoreta orientale, ma ben più venerato in Occidente: anche Antonio, come san Paolo Eremita (III-IV secolo), Onofrio e Pafnuzio, scelse di ritirarsi nella solitudine del deserto egiziano, nella Tebaide. Si noti che la “cruccia rustica” a forma di “T”, con la quale Onofrio e Antonio sono sovente rappresentati, venne assunta come insegna dai religiosi ospedalieri dell’ordine di Sant’Antonio di Vienne. 53 DELLA CELLA 1900, pp. 155-156. 54 Sulla tela opistografa dell’Accademia, cf. MANCINI 1903, pp. 174-175; KANTER 1994, pp. 207 e 210-211; KANTER-HENRY-TESTA, 2001, p. 259. 55 DELLA CELLA 1900, p. 202. 56 Ivi, pp. 150-155. 57 ASF, Diplomatico, Pergamene del convento dei Serviti di Cortona (12601751), 15 settembre 1483. Si noti la vicinanza di questa data con quella del 10 settembre che compare nel Reliquiario Vagnucci. 58 LAURO 1633-1639, parte II, c. 19v; BAEC, Vita del vescovo..., p. 68; EUBEL 1913, p. 138. 59 LAURO 1633-1639, parte II, c. 19v; TARTAGLINI 1700, pp. 95-96. 60 ACDF, Salvini, Vite e memorie... 61 Si tratta probabilmente di un anello-sigillo maschile del I sec. d.C., non essendo in alcun modo attestato presso gli ebrei, almeno nei primi secoli dell’era cristiana, l’uso di scambiarsi l’anello durante il rito matrimoniale. L’anello, traslucido e di colore grigio tendente al giallo, è realizzato in calcedonio, pesa 15 grammi e ha un diametro interno medio di 15 millimetri; nel lato inferio-

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re risulta schiacciato e presenta una cavità profonda 3-4 millimetri (fig. 117). La leggenda vuole che esso sia stato trafugato a Chiusi da un certo fra Vinterio da Magonza, Minore Conventuale, il quale sarebbe stato indotto da alcuni eventi soprannaturali a consegnare la reliquia nelle mani delle autorità perugine. Sull’argomento esiste un’abbondante letteratura che, dalla fine del ’500, giunge fino ai testi di Adamo ROSSI (1857) e di Ettore RICCI [1942]; ne hanno scritto con molta chiarezza Giovanna CASAGRANDE (1987, pp. 155-183) e Maria DURANTI (1992, pp. 363-372); recentemente (CARACCIOLO 2005c), un gruppo di ricercatori ha studiato la reliquia sotto tutti gli aspetti (leggendario, storico, storico-artistico, antropologico, devozionale, religioso, gemmologico), nella prima opera monografica di carattere scientifico ad essa dedicata. 62 ASP, ASCP, Riformanze, n. 109 (1473), c. 70r; cf. PELLINI 1664, parte II, p. 722 (nelle pagine seguenti lo storico narra diffusamente la leggenda anteriore e successiva al furto del frate). 63 DURANTI 1992, p. 363 e nota 1. 64 Già ai primi di ottobre del 1473 venne creata la magistratura dei Dieci dell’Arbitro, affinché la città non si trovasse impreparata ad eventuali iniziative dei senesi volte a recuperare la reliquia (ASP, ASCP, Riformanze, n. 109 [1473], c. 94v; cf. PELLINI 1664, parte II, p. 732). 65 Significativo che i magistrati comunali, quasi presi in contropiede dal comportamento risoluto del vescovo, inviassero prontamente alcuni ambasciatori al papa (che si trovava in villeggiatura estiva a Tivoli), per sapere se autorizzava la permanenza a Perugia della reliquia (ASP, ASCP, Riformanze, n. 109 [1473], cc. 71v-72r; cf. PELLINI 1664, parte II, p. 729). 66 Si ricorderà che il primo è il personaggio che nel 1459 aveva “soffiato” al Vagnucci la carica di tesoriere generale. Le vicende di questi anni, ampiamente documentate dai libri consiliari del comune perugino, si possono leggere nelle varie cronache della città: GRAZIANI \ FABRETTI 1850, pp. 644-646; DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, pp. 241-245; PELLINI 1664, parte II, pp. 729-734. 67 ROSSI 1857, p. 64; RICCI [1942], pp. 8-10. Su tali rapporti, cf. par. I, 4. 68 DURANTI 1992, p. 366, nota 9. 69 Cf. CARACCIOLO 2005c, pp. 65-67. Al Vagnucci porta anche il nome di Bartolomeo Caporali, autore insieme a Sante di Apollonio del Celandro del cosiddetto Trittico della confraternita della Giustizia (1475 ca, Galleria Nazionale dell’Umbria), nel quale è rappresentata santa Mustiola (leggendaria depositaria della reliquia, in quanto titolare della basilica chiusina in cui essa fu conservata fino al 1250 circa) nell’atto di mostrare l’anello penzolante da una cordicella dorata. Sul problema iconografico sollevato dall’opera, il cui scopo era quello di favorire il trapianto della reliquia in territorio perugino, cf. DURANTI 1992, pp. 367-369; CARACCIOLO 2005c, pp. 68-72. Sul trittico, si vedano anche SANTI 1985, pp. 65-66; LUNGHI 1996, pp. 194-195; MERCURELLI SALARI 2004, pp. 198-199. 70 ASP, ASCP, Riformanze, n. 109 (1473), c. 73rv; cf. PELLINI 1664, parte II, p. 730. La DURANTI (1992, p. 366) interpreta la decisione di non collocare subito la reliquia in duomo come un atto di buon senso, finalizzato a non provocare ulteriormente la depredata Chiusi; ma è assai più probabile che l’erigenda cattedrale non garantisse le necessarie misure di sicurezza, per cui l’anello vi venne traslato solo dopo l’inaugurazione del gennaio 1487. Sulle chiavi del Sant’Anello, salite da undici a quattordici dopo il trasferimento del forziere in duomo, cf. CARACCIOLO 2005c, pp. 67-68.

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71 “Interfuit maximus et innumerabilis populus numero quasi triginta milia et ultra” (ASP, ASCP, Riformanze, n. 109 [1473], c. 77r). Qualche giorno prima, una disposizione comunale aveva stabilito tre date per l’ostensione dell’anello: il giorno di Pasqua, il 3 agosto e il primo di novembre; alla fine del 1474, invece, si decise per la sola data del 2 agosto, poi diventata tradizionale. Oggi la reliquia viene mostrata negli ultimi giorni di luglio, a ricordo del suo primo approdo sulla scena perugina (29 luglio 1473) e della sua traslazione definitiva nella cattedrale di San Lorenzo (31 luglio 1488). 72 Ivi, c. 107v; cf. DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, p. 244; PELLINI 1664, parte II, p. 733. 73 ASP, ASCP, Riformanze, n. 110 (1474), cc. 45v-46r e 114r. Ricalcando una strategia già in atto a Chiusi, dove la reliquia veniva esposta il 3 agosto allo scopo di “catturare” il flusso dei pellegrini di ritorno dalla festa del Perdono di Assisi, tale data divenne tradizionale anche per i neo-possessori che, però, preferirono subito anticiparla al giorno precedente (2 agosto), evidentemente per la maggiore vicinanza tra Perugia ed Assisi (DURANTI 1992, p. 364, nota 3). 74 Cf. CRISPOLTI iunior 1648, p. 65. Fra Bernardino lasciò Perugia alla fine di aprile del 1487, dopo aver concluso la sua predicazione quaresimale nella piazza Maggiore, alla presenza di una gran folla di cittadini (DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, p. 406). La prima matricola maschile della compagnia copre il periodo 1487-1542 (BAP, ms. 3106): i suoi aderenti si registravano attraverso una dichiarazione d’impegno di contenuto libero, spesso autografa. Vi compaiono anche nomi di pittori: nel 1487, al numero 82 (c. 13r), troviamo Niccolò di Niccolò del Pocciolo, fratello di Pierantonio; nel medesimo anno, al numero 98 (c. 14r), Bartolomeo Caporali, che nel 1489 farà da procuratore al Pintoricchio relativamente alla commissione della tavola d’altare (Sposalizio della Vergine), poi finita al Perugino (1499). Sulla matricola della confraternita, cf. CASAGRANDE 1987, pp. 163-182 (la studiosa ha anche redatto una trascrizione manoscritta del testo delle registrazioni). 75 Per tutto ciò che riguarda l’altare di San Giuseppe (il suo artefice, la sua conformazione originaria anche in relazione al quadro del Perugino, le trasformazioni successive, i documenti e la bibliografia), si rimanda a CARACCIOLO 2005c, pp. 72-79. 76 DI GIOVANNI \ SCALVANTI 1903, p. 424 e nota 2. Nel 1496 fra Michele avrebbe istituito in cattedrale la compagnia del SS. Sacramento, dal 1583 unita proprio a quella di San Giuseppe (CRISPOLTI iunior 1648, p. 65). Il suo nome non compare tra quelli dei Minori dell’Osservanza iscritti alla compagnia del Sant’Anello. Questo personaggio non va confuso con quel beato Michele Carcano da Milano (1427-1484) che, nel 1462, si era scagliato contro l’usura ebraica, ispirando l’istituzione del Monte dei Poveri. 77 ASP, ASCP, Riformanze, n. 120 (1487-1488), cc. 81r-82r; cf. PELLINI 1664, parte II, p. 842.

Appendice A Documenti

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AVVERTENZE Si sceglie di modernizzare l’uso delle maiuscole e della punteggiatura. I casi lessicali anomali (anche per errore dell’estensore) vengono trascritti alla lettera. I riferimenti “bibliografici” sono compendiati, mentre le abbreviazioni vengono sciolte. Per quanto riguarda invece la grafia, si seguono le norme consuete della trascrizione paleografica. Questi, infine, i simboli utilizzati: [ ] [...] [?] (?) (sic)

= integrazione del testo = salto di trascrizione (o lacuna nel testo) = omissione di parola incomprensibile = restituzione incerta della parola = così nel testo

1. Girolamo Bigazzini: Vita di Iacopo e Dionisio Vagnucci Vescovi dell’illustrissima città di Perugia, copia di Pompeo Balzi (1642), BAP, ms. 1336, c. 9v (7v a matita). Iacomo Vannucci da Cortona, vescovo di Perugia. Fu fatto l’anno 1449, secondo le Memorie della catredale (sic) e nel Pellino (parte II). Morì detto vescovo Iacomo dell’anno 1487 \ Pellino (parte II). L’arme di lui è nell’invetriata sopra l’altare di Santo Stefano posto in San Lorenzo domo (sic) di Perugia, fatta fare da uno di questi vescovi di Casa Vannucci. Morì adì 28 gennaro 1487 e fu sepolto in San Lorenzo domo di Perugia con molto honore, [come] appare per mano del sudetto Sozii. Dionigio Vannucci da Cortona, vescovo di Perugia e nipote del sudetto vescovo Iacomo. Successe al zio nell’anno 1487 \ Pellino (parte II) e nelle Memorie della catredale di Perugia, nelle quali anche si ha che fece l’altare di Sant’Honofrio in San Lorenzo domo di Perugia, ove oggi è [la] cappella ornata dal canonico Salvuccio Salvucci dedicata a santo Stefano. Morì detto vescovo Dionigio l’anno 1491, secondo le Memorie della catredale e il Pellino (parte III). Morì adì 9 aprile 1491, come si vede nelle Memorie del quondam Raffaello Sozio gentilhuomo perugino.

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2. Ferdinando Ughelli: Vita di Iacopo e Dionisio Vagnucci Italia sacra sive de episcopis Italiae, Romae 1644, editio secunda aucta et emendata, Venetiis 1717, tomus primus complectens ecclesias Sanctae Romanae Sedi immediate subiectas, col. 1164. Iacobus Vannuccius, nobilis cortonensis, ariminensis antea episcopus, ad hanc perusinam Ecclesiam translatus est anno 1449 postrema die expirantis octobris. Vir doctrina preclarus, intimus cubicularius a secretisque Nicolai V summi pontificis, singularique dexteritate in politicis explicandis componendisque negotiis fanensibus aliisque, Ecclesiastice Ditionis civitatibus ius incorruptum dixit. Quibus negotiis distentus fuit usque ad annum 1456, occepitque sibi creditam administrare Ecclesiam die 25 mensis martii, a perusinis populis solemni pompa exceptus1. In cathedrali sancto Onuphrio, suo tutelari divo, sacellum dicavit, ubi postea tumulatus quievit. Imperatorem Fridericum Franciscumque Roboreum, qui postea Sixtus IV summus pontifex fuit, munificentissime excepit hospitio. Cumque anno 1472 Deipare Virginis anulus pronubus Perusiam fuisset delatus, illum summo honore decentiaque condidit in cathedrali. Cuius sane ingentis reliquie historiam Iohannes Baptista Laurus erudite perscripsit. Nepoti perusinam deinde cessit Ecclesiam ac Nicee archiepiscopus renuntiatus est anno 1482, inque plebaniam corscianam diecesis perusini sibi ipsi victurus se recepit, ubi in senectute bona quievit anno 1487 mense ianuario, delatusque Perusiam in summa ede, in Sancti Onuphrii sacello, conditus iacet. Hic presul beatissime Deipare Virgini devotissimus fuit. Quamobrem in cortonensem Ecclesiam, ubi fuerat natus, multa contulit ornamenta, precipue autem Servitis fratribus plures sanctorum reliquias eleganti vase inclusas, ubi etiam Virginis Marie capilli asservari dicuntur, dono dedit, circaque vas hec carmina incisa leguntur: PIXIDE INAURATA POSUIT VANNUCCIUS HEROS CAESARIEM SACRAM VIRGO BEATA TUAM

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OSSAQUE SANCTORUM FELICI HAC FEDE (sic)2 QUIESCUNT QUORUM ANIMAE IN COELIS GAUDIA VERA FERUNT

Dionysius Vannuccius cortonensis, preteriti nepos, ex cessione patrui episcopatum obtinuit, Sixto IV sedente, anno 1482 die 29 mensis maii. Herculani II pontificis perusini ac martyris invicti transtulit corpus die 10 mensis februarii 1487, Sanctorumque Stephani ac Benignatis (sic) sacellum in cathedrali construxit, ubi beati Benignatis corpus conditum iacet. Decessit autem 1491 die 9 mensis aprilis, inque cathedrali prope patruum sepultus est.

3. Salvino Salvini: Vita di Iacopo Vagnucci Vite e memorie de’ nostri canonici della Metropolitana fiorentina (1751), tomo II (dal 1400 al 1500), ACDF, cc. non numerate. Iacopo di Francesco di Giovanni Vagnucci da Cortona, nobile e possente famiglia arricchita di feudi e d’altri privilegi in Toscana. Per notizie venutemi di Cortona per mezzo del non men cortese che virtuoso Anton Maria Pitti, allora depositario pel granduca in quella città ed ora col nome di Cosimo degnissimo religioso delle Scuole Pie, [?] il nostro Iacopo, presa la laurea del dottorato in leggi nello Studio di Bologna, meritò per le molte virtù sue e singolari qualità d’essere sempre impiegato da cinque sommi pontefici in isplendidi ed importanti maneggi. Io trovo in un rogito di ser Bartolo Giannini all’Archivio Generale che egli l’anno 1445 ottiene un canonicato nel duomo di Firenze; ed in altro rogito di ser Filippo Mazzei in detto archivio de’ 6 giugno del 1447 si narra come, fino del 1443, il detto Iacopo aveva l’espettativa nel canonicato fiorentino da Eugenio IV, “cuius erat supplicationum de ipsius mandato signatarum registrator nec non reverendissimi patris et domini Francisci Clementis cardinalis et vicecancellarii continuus commensalis”, e che egli possedeva il canonicato fiorentino per morte d’Antonio dell’Antella che morì nel 1445, per conto del quale

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era sorto litigio con Antonio Tornabuoni, a cui poi il Vagnucci dovette cedere il canonicato. In detto protocollo è una bolla di Niccolò V che chiama il nostro Iacopo dottore in ambe le leggi, chierico della Camera Apostolica e suo familiare. In una filza d’atti beneficiali di quei da Lutiano3 nell’archivio del nostro arcivescovado si trova che l’anno 1447 egli prende il possesso d’un canonicato nella Primaziale di Pisa. In Bologna esercitò la carica di auditore del cardinale di Santa Croce4 e quindi, portatosi a Roma, da Eugenio IV fu dichiarato collettore nelle parti di Lombardia e di poi maestro del registro e auditore insieme del cardinale di Bologna che, l’anno 1447, creato pontefice col nome di Niccolò V, fece subito messer Iacopo suo chierico di Camera [?] e l’anno dopo gli conferì il vescovado di Rimini; ma, appena tenutolo un anno, passò a reggere la Chiesa di Perugia. Intanto, valendosi il pontefice di lui nelle cariche di segretario, vicecamerlingo, vicetesoriere, commissario delle genti d’arme della Chiesa e di governatore di Bologna e suo vicegerente, non prima che l’anno 1456 potè prendere l’amministrazione del vescovado di Perugia, solennemente incontrato da quei cittadini il dì 25 di marzo. Da Calisto III fu dichiarato referendario e susseguentemente da Paolo II eletto governatore di Norcia, di Fano, di Spoleto, di Narni e d’Amelia e finalmente governatore di Roma. Fu questo prelato affezionatissimo alla sua patria, onde alla cattedrale di quella donò molte insigni reliquie, fra le quali vi è quella della croce santissima del Signore Nostro in una croce d’oro [e quella] della veste inconsutile del medesimo, a lui donate da Nicolò V pontefice, al quale furono portate dal patriarca di Costantinopoli, cavate da quella città l’anno 1450, quando ella fu presa da’ Turchi5, come ben si riconosce dalle memorie che allora furono scritte per dette reliquie dal vescovo e dal Capitolo unitamente col consiglio della città di Cortona, dal quale si deputa un magistrato che abbia la cura delle medesime e intervenga quando si scuoprono al popolo, coll’assistenza d’uno della famiglia Vagnucci che precede al magistrato e tiene le prime chiavi di quelle. L’anno 1483 a 15 di settembre, ritrovandosi il nostro monsignor Iacopo in Cortona insieme con monsignor Dionigi Vagnucci suo nipote e successore nel vescovado, fece fare a monsignor Cristofano de’ marchesi di Petrella6 una solenne processione, alla quale il nostro Iacopo portò dei capelli della beatissima Vergine in un reliquiario e, terminata la processio-

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ne nella chiesa di Santa Maria de’ Servi allora fuori della città, donò quel prezioso tesoro a detta chiesa, la quale, trasferita poi in città, conserva ancora quella reliquia; e intorno al vaso si leggono questi versi, riportati anche dal padre Giani negli Annali de’ Servi e dall’Ughelli nell’Italia Sacra: PIXIDE INAURATA POSUIT VANNUCCIUS HEROS CAESARIEM SACRAM VIRGO BEATA TUAM OSSAQUE SANCTORUM FAELICI (sic) HAC SEDE QUIESCUNT QUORUM ANIMAE IN COELIS GAUDIA VERA FERUNT

Anche l’anello di Maria Vergine, portato l’anno 1472 a Perugia, fu da lui ricevuto con grande onore e riposto nella cattedrale. Un’anno avanti avea egli ricevuto in Perugia Federico III imperatore, col quale era il cardinale Della Rovere che, asceso al pontificato col nome di Sisto IV, creò il Vagnucci arcivescovo di Nicea nel 1482, come afferma Cesare Crispolti nella sua Perugia Augusta (libro II). Ed egli, cedendo il vescovado a Dionigi di Pietro Vagnucci suo nipote, si ritirò a far vita solitaria alla pieve di Corciano, luogo fuori Perugia, ove in età decrepita se ne morì l’anno 1487, il giorno 28 di gennaio; e fu il suo corpo trasferito in quella città e datogli sepoltura nella cattedrale entro alla sua cappella, che egli vi edificò allato alla sagrestia in onore di sant’Onofrio suo protettore e avvocato, ove è la bella tavola dipinta da Luca Signorelli da Cortona, assai lodata dal Vasari, sotto la quale sono queste lettere, riportate pure dal Crispolti suddetto: [...]. Gli scrittori che parlano di Cortona non lasciano di nominare con lode questo prelato. Il Biondo da Forlì nell’Italia Illustrata, ragionando di quella, dice: “quam Iacobus perusinus episcopus civis suus nunc plurimum exornat”. Leandro Alberti nella Descrizione d’Italia soggiugne: “ha illustrato questa città, questi anni passati, Silvio cardinale della Chiesa romana, fatto da Leone X, et Giacomo vescovo di Perugia”7. [...] Sono fioriti in questa famiglia tre altri degni prelati, monsignor Onofrio di Candido, cameriere e datario di Clemente VII e di Paolo III sommi pontefici, monsignor Francesco e monsignor Iacopo suoi fratelli, il primo governatore di Città di Castello e il secondo di Foligno e Perugia8.

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4. Notti Coritane: Vita di Iacopo Vagnucci Notti Coritane, vol. VIII (1751), BAEC, ms. 440, pp. 66-71. Notte XXII. Nello Spedale Maggiore, 8 giugno 1751. [...] [66] Furono portati i seguenti ricordi della persona di monsignor Iacopo di Francesco Vagnucci, vescovo di Perugia e arcivescovo di Nicea. Vita del vescovo della Casa di Vagnucci di Cortona. Sia noto come messer Iacomo di Francesco Vagnucci fu prima vescovo di Arimmine e poi vescovo di Perugia, ultimamente arcivescovo di Nicea d’Asia della Bithinia, la qual sua Vita autenticamente fu scritta da Pietro di Francesco Vagnucci, suo fratello, e copiata da me, Francesco di Cornelio di Francesco di Agnelo di Vagnuccio di Pietro di Ristoro di Maffeo de’ Vagnucci da Cortona città di Toscana, e ricopiata da me, Ottavio di Fabrizio di Iacopo di Sebastiano Vagnucci, nell’anno 15829. Al nome di Dio, adì 24 di maggio 1469. Qui di sotto io, Pietro di Francesco, farò ricordo di messer Iacomo, secondo genito, vescovo di Perugia, figliolo di detto Francesco. In prima detto messer Iacomo, secondo genito, stette a Perugia a studio in casa di Giovanni di Petruccio del Veli nostro amico e stette ad udir leggere alquanti anni; e di poi si partì ed andò alla Città di Castello, e ridussesi con i frati Ingesuati e stette solitario e vagabondo ben nove mesi; e da poi si partì ed andò a Fiorenza in quel tempo, et era papa Eugenio IV di nazione veneziana, e fe’ una disputazione così dotta che non si potrebbe dir con quanto onore fosse riceuto. Venendo all’orecchie del cardinale di Santa Croce10, che era dell’ordine de i frati Certosini, avendo notizia e grand’amicizia con frate Niccolò, priore del luogo della Certosa di Firenze, essendo parente e nostro zio, lo volse tenere in casa. Il detto cardinale in quel tempo vacò (?) in corte [...] del registo (sic) della supplicazione in cat. (?), e fu dato al detto messer Iacomo e sotto fiorini (?) 600, e questo fu suo principio di corte. Item, il sopradetto, stando in casa con il detto cardinale, avendo amicizia con un messer Thomaso da Serezzana, accadde

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che il detto messer Thomaso fu vescovo di Bologna e cardinale e papa in un medesimo anno11, [67] e il sopradetto vescovo lo volse in casa e fello suo segretario, e da poi si fe’ chierico di Camera Apostolica e stette ben tre anni e poi salì più oltre. 3. Prima che entrasse in detto luogo, s’addottorò in Bologna in utroque iure hoc est civili et canonico, come sono le bolle in casa, e tornò a casa con gran favore e di poi tornò alla corte. 4. Il detto messer Iacomo Vagnucci fu creato da papa Ni[cc]ola vescovo di Rimmini e, stato vescovo di Rimmini per spazio di dua anni, accadde che morì il vescovo di Perugia, et ivi fu eletto per 25 anni et ebbe la badia di Farneta in commenda12. 5. Il detto monsignor vescovo di Perugia fu mandato governatore di Bologna dal sopradetto papa e governò ben mesi dicennove (sic) e di poi tornò a Roma con gran corte13; et abbiamo la bandiera in casa di seta azzurra con l’orso ritto, la qual bandiera la teneva alla porta del palazzo del governatore di Bologna. 6. Item, fu detto monsignor vescovo di Perugia fatto vicecamerlingo e tesauriere maggiore del papa e luogo tenente dell’armi: andò al campo a Viterbo et ebbe grand’onore. Item, il detto monsignor vescovo resse e governò il temporale e lo spirituale per tempo di anni otto, detrattone il tempo di papa Niccola V14. Item, il detto monsignore vescovo stette in castello a tempo di papa Calisto e non si partì mai di Roma, e il detto papa lo tenne suo referendario, e tutti gl’altri di casa di papa Niccola si fuggirono, e stette il sopradetto vescovo sempre a paragone e volseli gran bene. Detto papa Calisto III era di nazione spagnola. Item, alla morte di papa Pio II di nazione senese, il re [di] Aragona et il collegio de’ cardinali mandarono per il detto monsignor vescovo patente che andasse governatore a Fano, in detto vicariato: stette doi anni in governo in Fano15, e un anno fu potestà messer Pier Lorenzo nostro fratello e un anno stette Pietro nostro fratello castellano della rocca di Fano, un anno con trenta paghe, che se fe’ buon guadagno e andava in governo. Item, il detto monsignore vescovo fu mandato in detto tempo da papa Pauolo (sic) II di nazione veneziana governatore di Spoleto, di Narni, di [A]melia, di tre città, e stette doi anni in detto governo. [68] Item, che in detto tempo papa Pauolo II lo mandò a Norcia che si era ribellata, e fu del 1467 e vi stette una vernata con il campo16, e fella ritornare alla devozione e governo che

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erano stati sempre liberi e prese tutti li castelli e fortezza di detta terra e partisse con grand’onore. Item, che il detto comprò una casa in Roma in Navona di valuta scudi mille in circa del guadagno di Fano. Item, che il detto monsignore comprò una scrittoria a messer Dionigi nostro lire (?) 160 da un messer Mattio da Castiglione Aretino. Item, che il detto messer Dionigi ha auto un offizio in corte di Roma che si chiamò acolito di papa Pauolo II, e assistette et è degno offizio. Aggiunta di F. V. C. [= Francesco Vagnucci Cortonese] Il detto messer Iacomo vescovo di Perugia donò alla cattedrale di Cortona, del 1458 adì 2 di luglio, le reliquie che oggi vi sono17. Item, l’anno 1478 papa Sisto IV lo lasciò vicecamerlingo e governatore di Roma in sua assenza, e n’hanno oggi le bolle li figlioli di Pietro Vagnucci. Item, le soprascritte partite e ricordi si trovano in un libro di Pietro di Francesco de’ Vagnucci, de mano del detto Pietro; oggi detto libro è in mano del cancelliere Francesco e dell’alfier Candido, fratelli e figlioli di Pietro di Candido Vagnucci, e detto alfiere l’ha copiate e date a me Francesco di Cornelio, et è scritto questo [nell’]anno presente 1577 del mese di ottobre di detto anno18. Item, il Crocifisso d’oro, il quale al presente è nel domo (sic) di Cortona, pesa libbre tre e once nove; lo donò il marchese di Ferrara al sopradetto vescovo, in ricompensa di un bel cavallo quale gli aveva donato il detto vescovo, che non gne (sic) ne haveva voluto vendere per denari. Item, adì 15 di settembre 1483 detto messer Iacomo arcivescovo di Nicea e messer Dionigi Vagnucci vescovo di Perugia donarono una biettarella di capelli della Vergine Maria a Santa Maria de’ Servi, all’ora fuora delle mura di Cortona, e ferono una processione ove fu ancora il vescovo di Cortona messer Cristofano da Pratell19: e così in un dì si trovarono insieme tre vescovi cortonesi che, al tempo di me, Francesco di Cornelio Vagnucci, Cortona non ha hauto, se non Alticozio Alticozi vescovo di Guardia, e prima [69] fu vicelegato di Bologna e prima auditor del cardinale Sforza al Concilio di Trento. Di (?) più seguono ricordi, seguiti di Pietro di Francesco, scritti dall’alfiere Candido di Pietro di Candido Vagnucci.

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Il sopradetto Dionigi, figliolo del sopradetto Pietro di Francesco de’ Vagnuccio, fu di poi vescovo di Perugia, che gne ne rinunziò messer Iacomo suo zio e commendatario della badia di Farneta, e messer Iacomo restò arcivescovo di Nicea d’Asia, al che appare nella tavola dell’altare della cappella di San Lorenzo in Perugia, a man sinistra dell’altar maggiore. Adì 23 di marzo 1594. Memorie che fin di presente si vedono in Perugia del vescovo de’ Vagnucci e vescovo di detta città e massime di monsignore Iacomo primo vescovo et [...]. Primo, nel libro dove sono registrate le costituzioni et ordini dell’almo collegio Gregoriano detto Sapienza Vecchia di detta città, quale sta sotto il governo e regimento del vescovo di detta città e dell’abbate di Monte Morcino, appariscono molte costituzioni in più tempi fatte dal detto monsignor vescovo et da un messer Forese Vagnucci dottore o pure da un messer Fabio Bertii da Monte Pulciano suo general vicario; e prima nel sopradetto libro, a 61 sino a 77, si vedono molte costituzioni fatte alcune dal detto monsignore vescovo e altre da i detti messer Fabio e messer Forese suoi vicarii; e le prime furono fatte adì 23 di maggio 145420, al tempo del pontificato di Pio II, anzi ne apparisce una a 69 fatta dal detto vescovo adì 28 di settembre 144621; e per quanto si vede in detto libro, non sono messe per ordine, poi che le prime sono indietro, né è da maravigliarsi, per che queste che oggi appariscono non sono gli originali, ma copie autentiche delle costituzioni tanto del vescovo de’ Vagnucci quanto di tutti gl’altri, qual copia fu cavata del 1565 e 1566 al tempo dell’illustrissimo e reverendissimo cardinal Della Corgna e vescovo di Perugia, come nel principio di detto libro si vede22. L’ultima costituzione di detto monsignore vescovo apparisce fatta adì 17 giugno 1472, al tempo del pontificato di Sisto IV, come in detto libro a 74 nella [70] seconda faccia, di modo che, per quanto dalle costituzioni e detti millesimi si puol raccogliere, il vescovo Iacomo Vagnucci resse il vescovado di Perugia anni 23, mesi 8 e giorni 20. Item, nell’audienza overo cancelleria del sopradetto vescovado, nella suprema parte del banco dove si siede pro tribunali, si vedono doi armi de’ Vagnucci = con mitre da vescovo sopra. Item, in San Lorenzo chiesa cattedrale di Perugia, a mano sinistra dell’altar maggiore e accanto alla sagrestia, apparisce una cappella grande, nella quale vi è un altare con una bella

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tavola, dove sono dipinti una Nostra Donna con il Figliolo in grembo, a mano destra della quale si vede un san Giovanni Battista et a sinistra un san Lorenzo. Item, sotto al detto san Giovanni Battista un santo Onofrio, sotto a piedi di Nostra Donna un angelo che siede e finge di accordare un liuto, e sotto a piedi di san Lorenzo si vede un vescovo in abito pontificale, ma con la testa scoperta, e questa figura tengo per certo che sia il vero ritratto del vescovo Iacopo per molti argomenti: la sua effigie mostra molta gravità, ha la testa in gran parte calva, la fronte rugosa e crespa assai, come ancora tutta la faccia, il naso grosso lungo et aquilino, la bocca grossa e massime il labbro di sotto, quale è per la grandezza e per la vecchiaia; credo io sta assai riverniciato nel mento, quale a proporzione dell’altre parti è assai grande; et in faccia è tutto raso. Questo vescovo pure assai si assomiglia a Angelo di Cornelio Vagnucci nostro e molto più a frate Bernardino suo fratello23. Nel fregio di detta tavola si leggono queste parole, scritte a lettere d’oro manuscole (sic): IACOBUS VANNUTIUS NOBILIS CORTONENSIS OLIM EPISCOPUS PERUSINUS HOC DEO MAXIMO ET DIVO ONOFRIO SACELLUM DEDICAVIT CUI IN ARCHIEPISCOPUM NICENUM ASSUMPTO NEPOS DIONISIUS SUCCESSIT ET QUANTA VIDES IMPENSA RITE ORNAVIT [AE]QUA PIETAS 1484

Sopra il detto altare si vede un gran vetriata grande et alta [e] - eccetto che in detta vetriata in luogo dell’angelo [che] tiene la tavola vi è un san Girolamo - nella quale sono le medesime figure che sono nella tavola, di statura di giusto homo; e nella parte più bassa di detta vetriata appariscono tre armi [71] de’ signori Vagnucci, doi con le mitre da vescovo sopra et una con la croce che fanno i governatori de’ popoli. Item, sopra il cornicione della cappella si vede di più un’altra vetriata non tanto grande quanto l’altra, nella quale appariscono doi altre arme di Casa Vagnucci, una con la croce sopra e l’altra con la mitria. Di più nella sagrestia di detta chiesa si vede una bella et assai gran croce d’argento con il Crocifisso.

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5. Belforti-Mariotti: Vita di Iacopo e Dionisio Vagnucci Serie de’ vescovi di Perugia dall’anno di Cristo 171 a tutto l’anno 1785, ms. autografo di G. Belforti con note di A. Mariotti (ante 1785), BAP, ms. 1349, pp. 123-12824. [123] XLVIII. IACOPO VANNUCCI. Nell’anno di Cristo 1449. Nato in Cortona di nobile famiglia, [124] per il suo merito e per la sua virtù, mentre era chierico di Camera (vedi Scarmalli, nota in Hieronimi Aliotti epistulae), meritò d’essere promosso nel 1448 alla Chiesa vescovile di Rimino, dalla quale fu trasferito a questa di Perugia li 31 ottobre 1449 da Niccolò V, di cui era stato cameriere segreto, segretario ed intimo confidente. Prima d’intraprendere la carriera ecclesiastica, aveva mostrata la sua abilità e destrezza nell’amministrazione di vari governi nello Stato Ecclesiastico e, specialmente, nel comporre alcune rilevanti differenze a Fano; e questi governi lo tennero occupato per fino all’anno 145625, in cui ai 25 di marzo incominciò ad amministrare questa Chiesa, ricevuto da perugini con que’ preparativi di gioia che meritava la sua dignità e il suo arrivo da tanto tempo desiderato (Pellini, parte II). Edificò da fondamenti nel duomo la cappella di Sant’Onofrio, nella quale ordinò di essere sepolto, e dal celebre Luca Signorelli, suo paesano, vi fece dipingere quella tavola che anche oggi ne adorna l’altare (vedi Lettere pittoriche perugine). In questa medesima cappella, secondo che accenna il Tartaglini nella Storia di Cortona e come afferma il Crispolti (Perugia Augusta), si ha la seguente iscrizione: [...]. Questa memoria però presentemente non si vede, perché forse l’ornato moderno della tavola tutto indorato la copre (vedi Galassi, Descrizione di San Lorenzo). Furono dal Vannucci, con quella magnificenza che si conveniva, ricevuti Federigo III imperadore e il cardinal Della Rovere, che fu poi Sisto IV. [125] Nell’anno 1472, avendo un tal fra Vinterio, Minore Conventuale, involato nella chiesa di Santa Mostiola di Chiugi il pronubo anello della santissima Vergine e quello

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recato in Perugia26, fu dal vescovo Iacopo con somma decenza collocato nella cappella del Magistrato, da dove poi fu trasferito nella chiesa di San Lorenzo. L’anno 1482 rinunziò questa Chiesa a Dionigi Vannucci suo nipote, ed avendo per sé ottenuto il titolo di arcivescovo di Nicea, si ritirò alla pieve di San Giovanni di Corciano detta comunemente la Pieve del Vescovo, da lui risarcita e fornita di quattro case nuove coloniche (da cartapecora presso di me segnata n. 7), ove visse vita privata e in buona salute fino all’anno 1487, in cui nel mese di gennaio passò all’altra vita. Trasportatone il cadavere in Perugia, dopo le solenni esequie in cui fu lodato con orazion funebre da Carlo di Aurelio di Matteo (Bottonio, Memorie manoscritte; Memorie Auguste manoscritte), fu tumulato nel luogo che si era prescritto (Ughelli, n° 49). In tempo di questo vescovo, vennero ad abitare in Perugia i canonici regolari di San Salvatore, detti volgarmente Scopettini, a’ quali fu ceduto con diverse riserve dalle monache di Monteluce [126] la chiesa e monastero annesso di Santa Maria degli Angioli, oggi detta Santa Maria de’ Fossi. E fu edificata la chiesa di San Bernardino, la quale fu compita nel 1461 sotto la direzione di Agostino Della Robbia fiorentino27. Fu parimenti eretto in Perugia il Monte di Pietà ad insinuazione del beato Giacomo da Montefeltre, Minore Osservante28, quale ha il vanto d’essere stato il primo Monte nel mondo, come lo attesta l’iscrizione: HIC MONS PIETATIS PRIMUS IN ORBE FUIT29

Tanto il nostro vescovo Giacomo quanto Bartolomeo Regas pretesero che ad un di loro fosse dovuta la carica di tesoriere pontificio sotto il papato di Pio II, ma niun di essi l’ottenne, essendo stata conferita il dì 6 novembre del 1459 a Niccolò Fortiguerri detto di Teano, stato infino allora pro-tesoriero (Marini, Degli archiatri pontifici). Nel 1460 si trovò il vescovo Iacopo alla consagrazione della cappella eretta nella cattedrale di Sarzana dal cardinal Filippo Calandrino da quella città e fratello uterino di Niccolò V (Targioni, Viaggi per la Toscana). Flavio Biondi, parlando di Cortona, dice: “quam Iacobus perusinus episcopus civis suus nunc plurimum exornat” (Blondi, Italia illustrata).

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Vicario generale del vescovo Giacomo Vannucci fu per cinque anni Fabiano Benci da Montepulciano, celebre canonista, e in tal officio era nel 1459 (da cartapecora presso di me segnata n. 7). Nel dì 4 giugno 1460, in cui fu fatto cittadin perugino, per istanza ch’egli ne fece, nel partito si dice: “Reverendissimus dominus Fabianus De Bencis de Montepolitiano, decretorum doctor, olim vicarius episcopi perusini et nunc auditor reverendissimi domini Alexandri de Sassoferrato, cardinalis Sancte Subxanne” (Annales Decemvirales; vedi Tiraboschi, Storia della letteratura italiana). Altro suo vicario fu poi Michelangelo Barbi di Cortona, che era in tale officio nel 1472 (Annales Decemvirales), e poi Forese Vannucci di Cortona e, dopo questo, nel 1480 era in detto officio Antonio Pagani di Fermo (da cartapecora antica presso di me segnata n. 24). Nel 1460 era vicario del vescovo di Perugia “Venerabilis et egregius decretorum doctor dominus Nicolaus De Ferrettis de Monte Fortino” (Spoglio Brunetti). L’abbate Girolamo Aliotti aretino, la cui famiglia discendeva dallo stesso stipite del nostro vescovo Iacopo Vannucci, gli scrisse una lettera in data di Arezzo 7 febbraio 1473, in cui lo chiama “beatum et opulentum episcopum” (Hieronimi Aliotti epistulae). Molti beni del vescovado furono da lui dati in enfiteusi fra il 1465 e il 1473 (Archivio Pubblico Perugino, Rogiti Marsilii ser Francisci; Spoglio Brunetti). XLIX. DIONIGI VANNUCCI. Nell’anno di Cristo 1482. Nipote del qui sopra detto Giacomo, che per rinunzia del zio ottenne la Chiesa di Perugia li 29 maggio 1482. Nel dì 10 febbraio del 1487 fece la traslazione [127] del corpo di sant’Ercolano, vescovo e martire, protettore di Perugia. Fece parimenti inalzare a sue spese nella cattedrale l’altare di Santo Stefano, nella cavità del quale sono riposte alcune ossa di san Bevignate, monaco perugino. Assolvette questo vescovo, per comando del papa, il popolo perugino dalle censure e, coll’autorità del medesimo, fece dare il giuramento e i mallevadori alla scolaresca di Perugia, la quale in que’ tempi, con sommo danno e dispiacere de’ buoni, faceva spesso de’ pericolosi tumulti (Serie de’ vescovi). Consagrò la chiesa di San Severo de’ monaci Camaldolensi (Crispolti, Perugia Augusta).

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Mancò di vita li 9 aprile 1491 o (come è scritto nel Libro mortuale di San Lorenzo) li 10, e fu [128] sepolto nella cattedrale e nella stessa cappella ove era stato sepolto il zio (Ughelli, n° 50).

6. Cesare Crispolti senior: cappella di Sant’Onofrio (poi di Santo Stefano) Raccolta delle cose segnalate (1597), BAP, ms. 1256, c. 4r. Appresso nella cappella di Sant’Onofrio la tavola è dipinta da Luca da Cortona, della quale fa mentione Giorgio Vasari nella Vita di detto Luca. È in detta cappella una sepoltura di monsignor Hippolito della Corgna, già vescovo di Perugia, quale sepoltura è dello Scalzo.

Perugia Augusta (1603 ca), BAP, ms. C45, c. 56r. Segue la cappella dedicata a sant’Honofrio da Iacomo Vannucci da Cortona, vescovo di Perugia, il quale insieme a Dionigi suo nipote, che li successe nel vescovato, l’adornò della bella e diligente tavola posta sopra l’altare e dipinta da Luca Signorelli da Cortona, famoso pittore di quei tempi, la qual tavola è molto comendata dal Vasari nella Vita di detto Luca. Sotto il cornicione d’essa sono queste lettere: [...]. A lato di questa cappella, l’illustrissimo cardinale Fulvio Della Corgnia f. m. fece fare dallo Scalza la sepoltura, che hora vi si vede di stucco nel muro, ad Ippolito Della Corgnia, vescovo di Perugia. Et in detta sepoltura si legge l’infrascritta inscrittione: [...].

7. Ottavio Lancellotti: cappella di Santo Stefano (già di Sant’Onofrio) Scorta sagra (ante 1671), tomo I, BAP, ms. B4, c. 195rbv (12 giugno).

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[195rb] In San Lorenzo alla cappella di Sant’Onofrio, oggi di Santo Stefano, come a 26 di decembre, fa ogni onore possibile al santo la compagnia dei sacerdoti secolari che sotto al di lui glorioso nome militano. Era chiamata già la fraternita [195va] del Pilo, avendo per instituto particolare di giovare alle anime dei fratelli defunti con ogni sorta di suffragi. La fondazione è antica. Il vescovo Francesco Bossi nel 1579 le approvò alcuni ordini e capitoli, i quali nel 1625, riformati essendo priore don Lavinio Magi rettore della parrocchiale di San Severo e Sant’Agata della Piazza, furono pure approvati dal cardinale Cosimo de Torres vescovo. Ogni primo Martedì del mese o pure, quando quello sia impedito, in altro giorno, si canta con l’intervento dei fratri una messa per i confratri e benefattori passati a miglior vita, con l’assoluzione in fine. Della cappella antica non resta altro che la tavola ch’oggi si vede attaccata alla facciata del lato sinistro della cappella di Santo Stefano. È opera di Luca Signorelli da Cortona che morì nel 1521 (Bottonio, cent. ms.)30, ricercato da Giacomo Vannucci concittadino, prima familiare di Nicola V e di Callisto III, poi vicelegato di Bologna e vicecancelliero in Roma e, finalmente, vescovo di Perugia nel 1449 (Lauri, De Annulo pronubo). Dall’istesso Vannucci fu adornata la cappella, come chiaramente pruovano l’armi di quella Casa colorite, con le due invetriate che sopra vi si vedono, venendo particolarmente la maggiore lodata dagli intendenti e per l’artifitio e per la vivacità oggi affatto perduta dei colori. In quest’ornamento vogliono avesse ancora qualche parte il [195vb] vescovo Dionigi Vannucci, nipote di Giacomo, dal quale gli fu rinunciato il vescovato per esser egli stato dichiarato arcivescovo di Nizza (sic) in partibus (Chrispolti, in Annalibus). L’altare di questa cappella fu già privilegiato per i defunti. Fu però, con licenza di Gregorio XIII, trasportato il privilegio a quello del Crocifisso, come a 3 di maggio. Scorta sagra (ante 1671), tomo II, BAP, ms. B5, cc. 503ra504rb (26 dicembre). [503ra] Nella catedrale adorasi il prencipe tra guerrieri di Christo alla cappella di Santo Stefano, il cui quadro è opera degna del cavaliere Giovanni Baglioni romano e le pitture laterali a fresco di Giovanni Antonio Scaramuccia perugino. Di

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pietre lustre è lavorata la cappella, e di questa materia fu la prima ch’altrove si vedesse con gran spesa, non in duomo solamente ma in tutta la città. Con buona gratia de’ Vannucci nobili cortonesi, de’ quali era questo sito con la cappella di Sant’Onofrio, come a 12 di giugno, fondò questa di Santo Stefano il canonico Salvuccio Salvucci, che vi spese quanto acquistò per i molti anni che servì nella carica di vicario generale l’idea (?) de’ vescovi Napolione Comitolo, per esser l’ultimo della sua famiglia, nel 1608. La dotò poi nel 1619 (Riccardi, ex Archivio Episcopali) con instituire quattro cappellani perpetui et un chierico pure perpetuo, conferendo questo e quelli l’anno medesimo. I primi quattro cappellani furono Placido Salvucci, Nicolò Terrazzi, Marcantonio Senesi e Cesare Rossetti, il primo chierico fu Giovanni Paolo Sagramorri. [...] [504rb] Nel pavimento di questa cappella riposano i corpi di due vescovi Vannucci, Giacomo e Dionigi, zio e nipote. Morì quelli alla Pieve [del Vescovo] nel 1487 a 28 di genaro, e portato a Perugia ricevette tutti quelli honori che dalla città potessero farsi a persona di merito non ordinario, e questi a 10 d’aprile 1491.

8. Visite pastorali Visitationes Della Corgna (1564), ADP, ms. 1, c. 20r31. Visitavit altare Sancti Honophrii, episcopi olim perusini ex civitate cortonie (sic) “il vescovo di Cortona” nuncupati, situm in capella nuncupata “del vescovo” prope sacristiam dicte ecclesie. Visitavit altare Sancti Nicolai in eadem capella existens, et circa illud quid agendum sit in camera reservavit deliberare. Visitationes Della Corgna (1568), ADP, ms. 1, cc. 435r-436r. [435r] Visitavit capellam Sancti Honofrii nuncupatam “del vescovo”, et ibi constituit velle se suis sumptibus capellam honorificam construere. [...] [435v] Et visitando totam ecclesiam, cum altaria existentia in dicta ecclesia sint admodum numerosa, mandavit archipresbitero et canonicis ut, si commode fieri potest, reducantur ad

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decem seu undecim, onera eorum que amovebuntur in alia remanentia transferendo, et remanere possent ista altaria, videlicet: [...] et Sancti Honofrii. Visitavit portas ecclesie et maiorem invenit reaptari et adesse muratores. Postque visitavit sachristiam dicte cathedralis ecclesie, in qua [436r] idem illustrissimus construi faciebat quandam capellam, et aderant muratores illam fabricantes et, quoniam omnes res descripte in inventario, ut assertum fuit, dicta die ibi non aderant, quia multe fuerunt accommodate monacis Sancti Petri, distulit earum visitationem pro altera die; et sic die sequenti, que fuit dies quarta dicti mensis, visitando bona sachristie, producto et lecto inventario manu ser Agabiti Nerulii confecto et presentibus ser Gabriele Alexio et ser Ludovico Almerico notariis perusinis testibus etc., iussit ut infra, videlicet: [...] si racconci la croce del vescovo di Cortona n. 1. Visitationes Della Rovere (1571), ADP, ms. 2, c. 1v. Suam perseverando prefatus reverendissimus visitationem, pervenit ad dictam cathedralem ecclesiam Sancti Laurentii et, ibi celebrata missa, idem reverendissimus dominus visitavit capellas et altaria in dicta ecclesia existentes et existentia, incipiens ab altare Sancti Honofrii, erectum a reverendissimis episcopis Vanutiis cortonensibus et civitatis Perusii episcopis, quod invenit nil possidere in bonis, et ibi perscripsit ecclesiam officiari et missas celebrari oportunis temporibus manutenerique. Visitationes Gallo (1587), ADP, ms. 8, c. 20r32. Ad altare Sancti Honofri nuncupati “episcoporum”, mandavit altare portatile in castrari et sigillari impetra dicti altaris in forma. Visitationes Comitoli (1592), ADP, ms. 10, c. 39r. Inde visitavit cappellam et altare Sancti Honofrii, cum mensa lapidea petra sacra, candelabris ferreis et cruce lignea aurata tobaleisque munitum, cuius altaris icona habet figuras Virginis, sancti Honofrii et aliorum sanctorum, et audivit illud erectum fuisse a reverendissimis dominis episcopis Vannutiis cortonensi-

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bus, olim episcopis Perusie, et hodie nullos habere redditus et, ob eam causam, ad ecclesiam spectare, assertumque fuit altare predictum concessum seu accommodatum esse societati Sancti Honofrii Presbiterorum et illius cappella[m], in qua positum est altare predictum, congregari semel quolibet mense. Visitationes Oddi (1660), ADP, ms. 21, c. 42r. Desuper vitria fenestra se attollit lapidibus intersecta et pluribus sanctis imaginibus insignita, que, preter lucem altari prestantem, suorum imaginum et colorum exuberantium venustate dictum altare nobilitat. Visitationes Marsili (1703), ADP, ms. 24, c. 11r. Altare postremum Sancti Stephani Prothomartiris visitavit, sub quo custoditas decenter vidit reliquias sancti Beveniatis, et de omnibus optime ornatum et provisum reperiit. Novum chorum ingressus [est] post dictum altare Sancti Stephani nuper constructum, in quo erectum invenit altare divo Onufrio dicatum, audivit adesse societatem Presbiterorum eidem aggregatam, mandavit tantum appingi cruces ante illius aram. Visitationes Odoardi (1781), ms. 32 bis, cc. 11v-12r. [11v] Ingressus fuit postea cappellam seu oratorium sub invocatione sancti Honuphrii, huic sancto dicatum ab reverendissimo patre domino Iacobo Vannucci cortonensi, olim episcopo perusino, qui illam ornavit una simul cum Dionisio Vannucci, eius nepote et in episcopatu successore. [12r] Tabula, que super altare inest, fuit depicta a Luca Signorelli cortonensi, eximio et celeberrimo pictore, et inferius dictam tabulam sequentia verba leguntur: [...]. In cuius cappelle visitatione nihil habuit decernendum. Visitatio civitatis et diecesis totius Cortone facta per illustrem ac reverendissimum dominum dominum Angelum Perutium episcopum sarsinatensem et comitem visitatorem apostolicum generalem (1583), ADC, c. 10r.

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Vidit deinde quamplures sanctorum reliquias et presertim de cruce domini nostri Iesu Christi, quas reliquias omnias vidit conservari retro altare maius in quadam fenestra magna sub tribus clavibus, quarum duas retinet magnifica comunitas Cortone et aliam retinet unus de familia de Vanutiis, ex eo quia unus episcopus de Vanutiis reliquias ipsas donavit. Et cum vidisset reliquias ipsas satis decenter asservari, visitavit caput beati Guidonis de Cortona [...].

9. Concessione del titolo gentilizio ai Vagnucci BAEC, Cartapecore Vagnucci, 10 settembre 1450 (pergamena PR 31/4). [...] Federigus, Dei gratia Romanorum Imperator semper Augustus, Austrie et Scitie dux, nobili Francisco de Vannutiis cortonensi nostro et Imperii Sacri fideli diletto [...], tibi Francisco predicto ac tuis, et fratris tui condam Angeli de Vannutiis, filiis et heredibus vostris legiptimis, et sucessoribus eorum, inperpetuum arma seu nobilitatis insignia, videlicet clipeum cum campo cilestini seu saffiri coloris, in quo ursus seu forma ursi eretti aurei sive topatii coloris cum corona in capite et pedibus ac cruribus extensis continetur, habens ac tenens in destro suo pede ramusculum tripartitum cum tribus rosis albi viridis et rubei colorum, prout in medio huius nostre pagine clarius sunt depicta gratiose, conferimus et largimur [...].

10. Reliquiario Vagnucci: donazione del 1458 Donazione del reliquiario del 2-3 luglio 1458, ASCC, Opere riunite del duomo e di Santa Maria Nuova, ms. G59, cc. 1r-2v33. [1r] Iesus. In nomine domini nostri Iesu Christi eiusque piissime atque intacte matrii (sic) Virginis Marie omniumque sanctorum celestis curie Paradisi, amen. Anno Domini a nativitate MCCCCLVIII, indictione [...], pontifficatu sanctissimi patris et domini domini pape Chalisti divina providentia pape tertii, die vero tertia iulii.

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Actum in civitate Cortone in terçerio Sancte Marie, super cimiterio sive platea infrascripte ecclesie sito vel site iuxta plebem Sancte Marie de Cortona, in presentia reverendissimi patris et domini nostri domini Mariani de Florentie civitate dignissimi episcopi civitatis Cortone et generosi equitis et magnifici capitanei civitatis eiusdem eiusque fortie et districtus domini Iohannoççi Francisci de Pictis de Florentia, presentibus domino Vellichino de Aretio iudice et chollatterale prefati ac magnifici ac generosi capitanei et Michelangelo Andree lanifice et Chamillo Francisci ser Lippi et quam pluribus aliis de civitate Cortone, testibus ad hec omnia infrascripta habitis vocatis et electis et rogatis. Spectabilis et prudens vir Michelangelus Nicolai Peccie de Cortonio, ad hec omnia infrascripta procuratoria et ut procurator et procuratorio nomine reverendissimi in Christo patris et domini domini Iacobi Francisci de nobilibus Vagnucii de Cortona dignissimi episcopi perusini, ut patet manu ser Gonsbuini Diexenbroicsr (?) clerici diocesis coloniensis in quodam contractu per eum scripto edito et publicato, ex sua scientia sponte deliberate et consulte, et non per alliquem errorem iuris vel facti, et omni meliori modo et via quibus magis et melius potuit, ac etiam de voluntate et mandato dicti reverendissimi domini Iacobi episcopi perusini, et cognoscens id quod faciebat et facere intendebat esse bene bonaque fide factum, tam propter hobedientiam prestandam dicto reverendissimo domino Iacobo, tam etiam quia ad hec inter cetera fuerat deputatus una cum instructissimo nec non eloquentissimo iuvenculo Dionisio filio Petri filii Francisci de nobilibus Vagnuciis et nepote dicti reverendissimi domini Iacobi episcopi, presentavit donavit et concessit Laççaro Petri Luce, Andree Antonii Usacti pro terçerio Sancte Marie, Nicolao Bernabei, Iacobi Christofori Rustichelli de terçerio Sancti Marci, Petro Francisci de nobilibus Vagnuciis et Marcello domini Nicolai pro terçerio Sancti Vincentii, prioribus populi et comunis Cortone, stipulantibus et recipientibus pro ipso comuni et vice et nomine ipsius comunis, infrascripta bona, videlicet: [1v] Imprimis hoc excellentissimum ac preçiosissimum [munus, I unum]34 tabernaculum sive reliquiarium, partim aureum et partim argenteum, redimitum et ornatum pretiosissimis lapidibus et aliis inferius enarratis, videlicet: in culmine dicti tabernaculi est unus Crucifixus totus aureus, ponderis

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librarum trium et unciarum III, habens unam crucem in manu quam amplexatus est, cum quadam alia cruce de diaspro in cruce dicte crucis, cum quadam nobilissima matreperla in summitate dicte crucis. Circha medium dicti tabernaculi posita est ymagho sive figura felicissime ac sanctissime memorie pape Nichole de argento et auro laborata, cum libro argenteo aperto, et variis lapidibus et pretiosis ac nobilibus perlis ornata: et hec ab una parte. Ab alia parte dicti tabernaculi ymago sive figura argentea et aureata persone curialissimi (sic) excellentissimeque patriarce constantinopolitani, cum libro clauso in manu sinistra, ornata similiter. Et per totum residuum dicti tabernaculi, ornamentum nobilissimorum ac pretiosissimorum lapidum et numerus infinitus perlarum maximi valoris, cum variis subtilissimisque sculturis et ornamentis excessivis omne aliud reliquiarium. In medio autem dicte reliquiarie (sic) est quedam pars vestis sive tunice salvatoris nostri domini Iesu Christi, et est in quodam arculo aureo ornato duodecim lapidibus pretiosissimis et duodecim perlis multe nobilitatis et maximi valoris ymmo. Et a parte ante quoddam cristallum, videlicet a parte a parte (sic) anteriori. A posteriori quedam claudenda aurea, literis grais et ytalicis schulpta cum multifariis nobilitatibus. Ad habendum tenendum et possidendum et in tempore obstendendum sive obstendere faciendum et, illo obstenso, ad ipsum reponendum et in loco pro ipsis reliquiis deputato reponi faciendum et omnia alia faciendum et observandum, ad que tenentur dicti domini priores, intervenientes et acceptantes vice et nomine dicti comunis, pro eis et eorum subcessoribus, secundum tenorem et ordinamenta quorumdam capitulorum editorum et compositorum per egregium condam legum doctorem dominum Marioctum Iohannis de Cortona et confirmatorum et approbatorum per reverendissimum dominum episcopum perusinum et in consilio populi et comunis Cortone per XXI fabas nigras. Quod singularissimum excellentissimum devotissimum pretiosissimumque munus supradicti domini priores, in supradicto loco coram populo existentes, primum invocatione facta et stipulata per me cancellarium infrascriptum subsequentem, servatis servandis, in presentia supradictorum testium, nomine dicti comunis et hominum ipsius, pro se et suis subcessoribus, dictis nominibus, receperunt et acceptaverunt, Altissimo ac donationi prefati reverendissimi domini episcopi perusini cum

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omni ac humili ac debita reverentia regratiantes. Qui se, donec in oficio predicto erunt et postmodum pro suis subcessoribus, vice et nomine dicti comunis et hominum et personarum ipsius, obligaverunt et obtulerunt, ita et taliter et in totum dictis nominibus, se facturos quantum et qualiter per dicta capitula in consilio obtenta disponitur, et melius, si melius poterunt; [2r] et precipue in dictas reliquias obstendendo ad tempus et ad tempus bene reponendo et conservando et omnia alia faciendo, ut supra promissum est omni exceptione remota et sub illis penis que in dictis capitulis continentur. Qui dicti domini priores, ut supra obligati, dicta die et hora XX dicti vesperis35, solempniter cantatis et habitis quibuslibet suis consolationibus de dictis pretiosissimis reliquiis, in presentia dicti domini episcopi cortoniensis supradicti et plurium hominum et personarum dicte civitatis, et precipue egregii doctoris canonici iuris et sinodi cortoniensis prepositi domini Baldassaris Luce et domini Gostantii Iohannis de Cortona archidiaconi cleri cortoniensis et domini Taddei Guidonis doctoris egregii civilis, Nicolai Antonii Franceschini, Petri Pauli Blaxii, magistri Iohannis et Baxilii Christofori Baxilii, testium ad infrascripta habitis vocatis (sic) habitorum et rogatorum, cum solempnitatibus requisitis, dictas reliquias reposuerunt et in loco ad id deputato reponi fecerunt, videlicet in armario fortiter roborato meliusque roborando, quas pannis lineis finissimis involvi fecerunt, et tandem, omnibus faciendis cum summa diligentia peractis, dictum armarium tribus clavibus clauserunt, quarum unam postmodum in custodiam Francischo patri dicti reverendissimi domini episcopi, in presentia venerabilis ac reverendi viri domini Iacobi dignissimi abatis abatie de Petraficta comitatus Perusii, dederunt, aliam vero simili modo et causa preposito dominorum priorum presentaverunt, aliam vero eidem, ut ipsam custodiret et postmodum daret uni ex superstitibus eligendis die VI iulii proximi futuri, qui custodiam habere debent de dictis sanctissimis reliquiis et quibuslibet eorum introitibus et oblationibus; alie, que fiende sunt, modo hoc, videlicet una domino nostro episcopo, alie aliis superstitibus, videlicet ut videbitur congruum dictis dominis prioribus et superstitibus. Introitus primitus subsceptus est iste. Una clamis parvula de bisso cum dindolis argenteis et aureatis, obtulit dominus episcopus perusinus supradictus. Item una tovalia contesta cum virgis de filo aureato, oblata per uxorem Honofrii

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Francisci supradicti de nobilibus Vagnuciis. Unum iocale cum dindolis argenteis iam aureatis obtulit mater Ugucii Petri Iohannini. Duo caputergia nova et pulcra, que obtulit domina Cassandra, uxor condam Iansonis Francisci. Unus çaffiri lapis, quem habebat Michelangelus Nicolai Peccie supradictus, qui lapis reponi et aptari debet super dicto nobilissimo tabernaculo. Unum par paternostrum de ambris grossis et magnis, cum quadam mappula de siricho et perlis, largita fuit domina Margherita, uxor condam bone memorie Bartolomei Sensi de Cortona. Que omnia reposita fuerunt in armario predicto, et cum ipsis duo brevilegia sive [2v] sive (sic) bulle, quarum una reverendissimi patris et domini domini Gregorii patriarce constantinopolitani, in quo scriptum est grece et lactine de dictis sanctissimis reliquiis et fidem ipsarum et fidem ipsarum (sic) et indulgentias; et unus alius repositus est, qui est reverendissimi domini domini Ysideri cardinalis rutinensis, qui attestatur qualiter iam temporibus elapsis hanc pretiosissimam vestem adoravit et adorare alios vidit quamplurimos in civitate constantinopolitana, et coram ipsa pretiosissima veste quamplurimas lacrimas effudit. Die vero sequenti, videlicet die tertia presentis mensis iulii, reverendissimus pater noster et dominus episcopus et clerus ipsius episcopatus ordinaverunt dixerunt atque solempniter et devotissime celebraverunt unum solempne ofitium multarum missarum cum ofitio ordinato, cui interfuerunt prefatus dominus episcopus, magnifici priores et cancellarius dicti comunis et alliqui alii cives, et hoc totum pro animabus defunctorum et36 antenatorum de familia mortuorum dicti reverendissimi domini episcopi perusini, ut dominus noster Iesus Christus misereatur earum que opus habent, et domino epischopo reverendissimo predicto et sue venerabili familie Altissimus in hoc vitam felicitatem sanitatem et pacem tribuat longevam et in futuram mansionem et gloriam concedat eternam. Amen. Oblate fuerunt libre XXXIIII solidi VI denarii III cortonienses in dicta prima die et vice. Ego, Nicholaus condam Christofori Tome de Cortonio, notarius et ad presens cancellarius dicti comunis Cortone, super dictis omnibus interfui et ea, rogatus scribere et ex37 debito mei ofitii, manu propria scripsi, et ad fidem et robur predictorum signum meum apposui consuetum38.

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11. Reliquiario Vagnucci: capitoli del 1456 Capitoli del reliquiario del 24 maggio 1456, ASCC, Opere riunite del duomo e di Santa Maria Nuova, ms. G59, fascicolo sciolto di cc. 4, cc. 1r-3v39. [1r] Capitula pertinentia ad sanctas reliquias plebis de Cortona, quas largitus fuit reverendissimus dominus Iacobus comuni Cortone. [2r] Iesus. Spiritus Sancti gratia illuminet corda nostra. Capitula firmata in sacro sinodo cortoniensi circha celebrationem et venerationem sanctarum reliquiarium sitarum et existentium in ecclesia plebis Sancte Marie de Cortona sunt hec, videlicet: Imprima che il tabernacolo dele sancte reliquie, donate [al comune de Cortona]40 per lo reverendissimo in Christo padre et signore messer Iacobo de’ nobili de’ Vagnucci de Cortona veschovo de Perusgia, sia collocato et conservato chole reliquie nella pieve de Sancta Maria da Cortona nella capella maggiore hedifficata et facta sotto el nome et rasgione de’ padronato del decto messer lo veschovo et de’ suoi consorti, nella qual capella si debba fare construire uno luogho ydoneo honorevele et degno a conservare decte sancte reliquie. Il quale luogho sia fortifficato con serramenti per tal modo che non se possa [?] aprire né deinde trarre le dette reliquie se non per quelli a chui seranno consegnate le chiave41. Et, per dare forma et regola alla conservatione delle predecte sancte reliquie, si è ordinato et stabilito, per lo reverendissimo in Christo padre et signore messer Mariano frate de l’ordine de’ Servi de Sancta Maria dignissimo veschovo de Cortona et per lo Capitolo dei chanonici et per lo sinodo dela diocesi de Cortona ad perpetua fermeçça dei presenti capitoli et per lo conseglio generale del comune de Cortona, che lo detto luogho, dove sarà lo detto tabernacolo chole decte sancte reliquie, se serri et ferri con 4 chiavi de diversi ingegni, delle quali l’una si tengha in perpetuo per uno più degno dela Casa o vero consorti d’esso messer lo veschovo de Perusgia ciptadino dei nobili de’ Vagnucci da Cortona. El quale sarà deputato et electo per esso messer lo veschovo per fine che viverà esso messer lo veschovo; et da puoi il più degno d’essa consorteria et descendenti d’essa per linea mascholina. La seconda chiave se tenga

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et conservi per messer lo veschovo de Cortona. La terça chiave se tengha et conservi per li priori de Cortona42. La quarta chiave [2v] se tengha et conservi per tre ciptadini, i quali sieno electi et eleggere si debbano per li signori priori et conseglio del comune de Cortona, a questo offitio solamente deputati, i quali sieno deputati et sieno soprastanti delle sancte reliquie della pieve de Cortona, o per uno più degno dei decti soprastanti, el quale debbono eleggere i signori priori de Cortona. Et duri decto uficio uno anno. Et se per morte o per altro iusto impedimento alchuno de’ decti soprastanti non potesse exircitare detto uficio, che in luogho de questo si provegga d’uno altro per li signori priori et conseglio, approvato imprima lo impedimento de tale impedito per li signori priori de Cortona. Et così si provegga in perpetuo43. Item, che dette sancte reliquie non si possano né debbano mostrare né trarre del sopradetto luogho se non una volta l’anno, el dì dela Viçitatione de nostra Donna, ciò è adì 2 de luglio. Et dal decto dì in fuori non si possano né debbano mostrare in niuno modo né per veruno caso, sença licença et deliberatione de messer lo veschovo o suo vicario et dei signori priori et conseglio del comune de Cortona et d’uno della consorteria del detto messer lo veschovo de Perusgia, il quale terrà una delle decte chiavi, et dei detti soprastanti. Et acciò che né dolo né fraude non se possa commectere et per obviare alle malitie de chi volesse fare contra questi capitoli, sia ordenato che, quando se mostraranno decte reliquie, vi sia presente messer lo veschovo de Cortona o vero suo vicario e i priori de Cortona e tucti quelli che tengono le chiavi predette et il cancelliere del comune de Cortona. Sia rogato chome dette reliquie et tabernacolo d’esse se rimectono et sieno rimesse nel sopradetto luogho acciò deputato. Et de ciò faccia il cancelliere publica scriptura in uno libro acciò deputato, el quale stia et conservisi in cancellaria del comune de Cortona44. Et se altrimenti facessero et non se observasse quanto de sopra se contiene, caggiano ipso facto in pena i priori et quelli che tengono le chiave in pena de libre cento per ciaschuno de loro che contro facesse, et in simile pena caggia il cancellieri se non observasse quanto è detto de sopra, la qual pena per la meità s’intenda essere et sia applicata al comune de Cortona et l’altra al’opera del decte sancte reliquie, per conservatione delle decte reliquie et tabernacolo d’esse [3r] et per la festa quando se mostraranno dette reliquie et per le spese occorrente in conservatione et

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veneratione d’esse reliquie45. Questo sempre inteso et excepto che, se per deliberatione o vero per chomandamento dei nostri magnifici et excelsi signori priori de l’arti et gonfaloniere dela giustitia del popolo et comune di Firençe se avessero a mostrare decte reliquie, i decti priori de Cortona né altri sopra nominati in detto caso non caggiano in decta pena per non avere observato quanto se contiene de sopra46. Item, per che degna chosa è render gratia et merito a chi fa tanto dono quanto è quello che a facto el prefato messer lo veschovo de Perusgia al comune de Cortona de decte sancte reliquie et tabernacolo, per evitare el vitio della ingratitudine, sia ordinato che ‘l primo seguente dì che occorrerà doppo la festa de la Visitatione dela nostra Donna, ciò è adì 2 de luglio, et doppo la mostra et veneratione delle decte sancte reliquie el Capitolo dei canonici de Cortona et il vicario della pieve de Cortona e i capellani de decta pieve sieno tenuti et debbano fare celebrare nella detta chiesa uno solempne et ordinato ofitio de’ morti per l’anima del decto messer Giacopo veschovo de Perusgia, quando piacerà ad Dio chiamarlo a vita eterna, et per l’anima de quelli de Casa sua. Et questo si faccia una volta l’anno in perpetuo doppo la morte del decto messer Giacopo veschovo predecto, alle spese del Capitolo et de l’entrate et rendite della capella maggiore, se vi sarà entrata; altrimenti, se non vi fusse entrata, alle spese del Capitolo et del vicario della pieve et della capella d’essa pieve. Nel quale ufitio se celebrino al meno trenta messe, con una messa solempne cantando, et predichise degnamente. Al quale uficio intervengano et sieno presenti messer lo veschovo de Cortona o vero il suo vicario, quando lui fusse impedito, e li priori de Cortona et soprastanti d’esse reliquie et più altri ciptadini47. Item, che le obferte che se faranno al decto altare maggiore [o vero al ceppo]48 della pieve, il dì che se mostraranno dette reliquie, si debbano convertire, per li soprastanti d’esse reliquie et per uno canonico deputato a ricevere dette offerte et entrate, in quel modo et forma che sarà deliberato per messer lo veschovo et per li priori de Cortona et per li soprastanti predetti, a conservatione et veneratione de detti sancti reliquii et del tabernacolo d’esse, et per quelli che terranno le chiavi d’esse o per la maggior parte de loro49. [3v] Item, che, a honore et riverentia d’Iddio et dela sua madre sempre Vergene Madonna sancta Maria, el dì che se mostraranno dette sancte reliquie, ciò è il dì che acciò serà

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deputato, una volta l’anno li priori de Cortona et conseglieri del conseglio del comune de Cortona siano tenuti et debbano andare alla detta pieve honoratamente, a modo che si fa al’altre feste del comune, et debbino fare obferta alla capella maggiore per le dette reliquie de libre venti de cera in facole accese alle spese del comune de Cortona, come si chustuma al’altre feste de’ comune, et [?] dieno stare alla messa et allo officio50. Et in recognitione del padronato de decta capella, per memoria et ricordo del dono facto de decte sancte reliquie facto per lo prefato messer lo veschovo de Perusgia, i priori de Cortona sieno tenuti et debbino dare et donare et mandare a chasa de decto messer lo veschovo in Cortona il dì della decta festa una facola de quelle che seranno ordinate et facte per la sopradetta obferta ogni anno in perpetuo; et che uno dei consorti d’esso messer lo veschovo de Perusgia sia alla decta obferta in quel luogho che a lui sarà deputato per li priori de Cortona. Et, quando si mostreranno dette reliquie, in veneratione d’esse si faccia copia de’ lumi de quella quantità de cera che sarà deliberata per li sopradetti messer lo veschovo de Cortona et per li priori del decto comune de Cortona et soprastanti sopradetti51. Item, che, se altempo quando decte sancte reliquie saranno portate a Cortona et presentate alla sopradetta capella della pieve la capella non fusse facta e il luogho dove anno a stare esse reliquie et il tabernacolo et il tabernacolo (sic) non fusse facto et fortifficato per modo che se conviene et che stessono chome de sopra è detto, che decte reliquie et tabernacolo d’esse si conservino in quello luogho et modo che deliberarà messer lo veschovo de Perusgia, per infine a tanto che decto luogho in decta capella sarà fornito. Et, non de meno, sempre l’ohnorança (sic) et veneratione d’esse si faccia nella detta pieve et non altrove al tempo de sopra ordinato. Que omnia dicta ordinamenta lecta fuerunt in dicto consilio comunis Cortone et finaliter approbata per dominos priores et consilium dicti comunis, ut patet in actis venerande memorie ser Christofori Honofrii cancellarii comunis Cortone proxime preteriti, sub annis Domini ab incarnatione MCCCCLVI die XXIIII mensis maii. Ego, Nicolaus condam Christofori Tome, cancellarius comunis Cortone, copiavi et complevi manu propria subscripsi sub die XXIIII iunii 1458.

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NOTE 1

È l’errore ripetuto da tutte le cronotassi vescovili: l’ingresso nella diocesi perugina non fu ritardato dalle mansioni di legato (che si collocano sotto il pontificato di Paolo II), ma dagli incarichi romani svolti al servizio di Niccolò V (cf. par. I, 2). 2 Probabilmente la parola corretta è “sede” (cf., in questa appendice, il n. 3). 3 Paese del Mugello presso Borgo San Lorenzo (Firenze). 4 Il beato Niccolò Albergati (1375 ca-1443), cardinale di Santa Croce in Gerusalemme. 5 La fuga del patriarca Gregorio III (1451) non fu motivata dalla caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi (1453), ma dalle sue posizioni a favore dell’unione delle due Chiese (cf. par. IV, 1). 6 Cristoforo dei marchesi Bourbon di Petrella, vescovo di Cortona (14771502). 7 BIONDO, 1503; ALBERTI, 1550. 8 Si tratta di alcuni nipoti di Pietro, fratello e “biografo” di Iacopo. 9 Sulla formazione del documento, cf. cap. I, nota 5 (vedi anche l’albero genealogico della famiglia nel grafico 1). 10 Cf. nota 4. 11 Si tratta di un’errata convinzione diffusa già presso i contemporanei di Niccolò V: in effetti Tommaso Parentucelli divenne vescovo nel 1444, cardinale nel 1446 e pontefice l’anno seguente. 12 Il Vagnucci fu vescovo di Rimini dal 1448 al 1449 e di Perugia dal 1449 al 1482 (effettivamente solo dal 1456, dopo la morte di Niccolò V). 13 Questo dato è assolutamente errato: l’esperienza bolognese del Vagnucci durò appena due mesi e mezzo, dal novembre del 1449 al gennaio successivo (cf. cap. I, nota 24). 14 Gli anni del suo pontificato (1447-1455). 15 Dal 1464 al 1466. 16 L’inverno del 1466-1467. 17 Qui la conferma che la donazione avvenne il 2 e non il 3 luglio (cf. cap. IV, nota 33). 18 Cf. nota 9. 19 Cf. nota 6. 20 Anche se datate 1454, in effetti furono deliberate nel 1459 (cf. par. I, 3). 21 Ovviamente il vescovo non è il Vagnucci, ma Giovanni Andrea Baglioni (1435-1449). 22 Il manoscritto in questione si trova presso ASP, Inventari diversi, Sapienza Vecchia, misc. 1. 23 Da questo passo si evincono due informazioni: primo, che l’estensore dell’ultima parte della Vita probabilmente è sempre Francesco di Cornelio (cf. nota 9); secondo, che il vescovo Iacopo ebbe anche un quinto fratello, tale fra Bernardino, del quale evidentemente sopravviveva un ricordo visivo alla fine del ’500. 24 Con il corsivo si indicano le note e le integrazioni autografe del Mariotti. 25 Cf. nota 1. 26 In verità l’anello fu sottratto dalla chiesa di San Francesco (cf. par. IV, 4). 27 L’errata convinzione che Agostino di Duccio fosse fratello di Luca Della Robbia discende dalle Vite del Vasari. 28 Giacomo della Marca, responsabile della fondazione di diversi Monti di Pietà, ma non di quello perugino (cf. cap. I, nota 72).

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Questa integrazione compare nella copia di Serafino Silvestrini (ADP). Vasari afferma che Signorelli morì nel 1521 all’età di 82 anni: in verità il pittore venne a mancare nell’ottobre del 1523. 31 Per le visite pastorali, si fa riferimento alla cartulazione moderna eseguita a matita (quando presente). 32 Cf. anche ADP, ms. 9, c. 23r. 33 Dal punto di vista della tradizione diplomatistica, si tratta di un secondo originale [A’] che il medesimo notaio ha redatto copiando dal primo originale perduto [A], come indicano i frequenti errori di ripetizione. 34 Aggiunto sopra il rigo dalla stessa mano. 35 Corrisponde all’hora secunda noctis dopo il tramonto del sole. 36 “Et” corretto su un “de”. 37 “Ex” corretto da un “de”. 38 La completio del notaio è accompagnata dal signum tabellionis, sormontato dalla croce e contenente il nome “Nicholaus”. 39 Dal punto di vista della tradizione diplomatistica, si tratta di una copia autentica redatta dallo stesso notaio del documento precedente, chiusa dalla completio ma priva del signum tabellionis. 40 Aggiunto sopra il rigo dalla stessa mano. 41 Rubrica: “Che ‘l tabernacolo cole sancte reliquie stia in la pieve de Cortona”. 42 Rubriche: “Prima chiave”; “Seconda chiave”; “Terça chiave”. 43 Rubriche: “Quarta chiave”; “Dei soprastanti”. Una mano diversa da quella dello scrittore, certamente sulla base del documento di donazione (dove si parla di tre chiavi, più altre tre da fabbricarsi), ha operato delle correzioni, eliminando il periodo relativo alla seconda chiave da consegnarsi al vescovo di Cortona e correggendo “terza” e “quarta” in “seconda” e “terza”. Alla stessa mano appartengono altre integrazioni di cui è inutile dar conto. 44 Rubrica: “In che modo se debbano mostrare le reliquie”. 45 Rubriche: “Pena a chi non observa el modo ordinato”; “Il cancelliere cade in pena se non observa”. 46 Rubrica: “In che caso se posso mostrare sença le solempnità sopra decte”. 47 Rubriche: “El dì dela festa se debba offerire la mactina libre XX de cera lavorata”; “Del’ofitio di morti”. 48 Aggiunto sopra il rigo dalla stessa mano. 49 Rubrica: “Quid debeat fieri de oblationibus”. 50 Rubrica: “Obferta el dì dela festa”. 51 Rubriche: “La facola a casa di Vagnucci”; “Che uno di Vagnucci sia all’offerta”.

Appendice B I restauri della Pala di Sant’Onofrio di Daila Radeglia, Istituto Centrale per il Restauro di Roma

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1. Premessa La grande tavola di Luca Signorelli1, opera fondamentale per la definizione del suo periodo giovanile sia per l’altissima qualità che per il fatto di essere datata con certezza al 1484, è un’opera che ha molto sofferto sia per le condizioni di conservazione che per gli effetti di antichi restauri. I problemi conservativi, che rendono questa tavola una sorta di malato cronico, sono costituiti principalmente dalla sua forte sensibilità alle variazioni climatiche, che provocano perdita di adesione degli strati pittorici e sollevamenti del colore, con conseguente perdita di porzioni di pittura. Questo fenomeno è legato alla struttura stessa del supporto, realizzato con assi assemblate orizzontalmente, che malgrado l’incamottatura, avente il compito di attutire gli effetti dei movimenti del legno sugli strati pittorici nelle linee di giunzione, risente anche del peso delle assi le une sulle altre. L’alto valore artistico e la notorietà del dipinto, accompagnati alla critica situazione conservativa, hanno prodotto una sorta di accanimento terapeutico che, se è riuscito a tramandare quasi completamente le sue componenti iconografiche anche nei dettagli, ha provocato però la perdita di importanti dati materiali riguardanti il supporto e le finiture pittoriche. Analogamente a quanto è capitato ad altri capolavori della pittura rinascimentale, su quest’opera si sono esercitate le sperimentazioni e le pratiche di intervento considerate all’avanguardia nelle diverse epoche, per cui la storia dei suoi restauri costituisce una sintesi caratteristica della storia del restauro dei grandi dipinti su tavola. Prima che si sviluppasse una coscienza critica del restauro, la prassi abituale era quella di effettuare drastiche puliture, anche con sostanze caustiche, ai cui danni il pittore-restauratore sopperiva con vere e proprie ridipinture e rifacimenti delle parti mancanti, ravvivando e armonizzando l’insieme con pesanti vernici, spesso colorate e addizionate di olio. Con l’affermarsi dello storicismo e la nascita della moderna teoria del restauro, si instaura il principio del rispetto dell’originale e della riconoscibilità delle integrazioni e vengono applicate alla conservazione metodologie scientifiche e indagini strumentali mutuate da altri campi. In anni più recenti, in ottemperanza al criterio brandiano di restauro preventivo, e al subentrare del concetto di conser-

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vazione, è andata affermandosi la consapevolezza che è sull’ambiente in cui l’opera è conservata che occorre intervenire per preservarla nelle condizioni raggiunte con il restauro, ed è in questa direzione che si è orientato l’intervento effettuato dall’Istituto Centrale per il Restauro fra il 1984 e il 19942.

2. Interventi documentati Eseguito dal Signorelli per il vescovo Vagnucci come pala d’altare della cappella di Sant’Onofrio, il dipinto dovette soffrire fin da epoche remote per le cattive condizioni della cappella. All’inizio del XVIII secolo, in concomitanza con la costruzione dell’attuale oratorio di Sant’Onofrio, l’opera dovette essere restaurata in vista del suo inserimento nel nuovo altare, e a ciò viene fatta risalire la perdita della cornice originale e della predella che verosimilmente la completava. A questo intervento probabilmente si deve l’abrasione di molte parti delle figure, particolarmente degli incarnati, che sono stati oggetto di una drastica pulitura, come è evidente soprattutto nei volti del san Giovanni, nel gruppo della Madonna col Bambino e nella figura dell’angelo, dalla quale traspare addirittura il disegno preparatorio. Purtroppo anche il nuovo oratorio di Sant’Onofrio non offrì a lungo condizioni climatiche ottimali, tanto è vero che la decorazione a tempera delle volte, eseguita da Domenico Bruschi nel 1877, deperì rapidamente a causa delle infiltrazioni dai tetti3. Nel 1923, quando venne creato il Museo del Capitolo della cattedrale, il dipinto vi fu esposto (soprattutto per motivi di sicurezza), e in quella circostanza è documentato un altro restauro, che è registrato fra quelli eseguiti a cura della Soprintendenza di Perugia, senza ulteriori specificazioni4. A tale intervento, o ad altro non molto precedente, potrebbe essere ascritto il rifacimento della testina e del piede dell’angelo volante in alto a destra, che nel 1948 era stato conservato per non interrompere la continuità dell’immagine, ed è stato invece rimosso nell’ultimo restauro, risultando di scarsa qualità e dipinto su un inserto di legno recente.

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3. L’intervento dell’I.C.R. del 1948-1951 Le cose nella nuova collocazione non procedettero però nel verso giusto, se dopo soli 25 anni la tavola dovette subire un nuovo restauro, questa volta effettuato presso l’Istituto Centrale di Roma (fig. 119)5.

Fig. 119 La Pala di Sant'Onofrio prima del restauro del 1948-1951.

Individuando nel supporto la responsabilità dei danni alla pittura addensati nei punti di giunzione delle assi, l’intervento si pose l’obbiettivo di intervenire sulla causa del degrado, e quindi di conferire alla tavola la perduta planarità, correggendo l’imbarcamento delle assi (fig. 120)6. Come è indicato nella scheda di restauro anonima compilata in quella occasione, la

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Fig. 120 Il supporto della Pala di Sant'Onofrio prima del restauro del 1948-1951.

tavola venne raddrizzata, verosimilmente mediante riduzione dello spessore, con l’inserimento di piccoli cunei nel legno in modo da costringere le assi incurvate a raggiungere la posizione piana, e venne dotata di una parchettatura costituita da cinque traverse verticali scorrevoli in sedi definite da cattelli incollati alla tavola7. Questo tipo di intervento, assai radicale anche se meno traumatico del “trasporto”, nel quale il supporto viene sacrificato a beneficio dei soli strati pittorici, era considerato all’epoca il sistema più efficace per stabilizzare le tavole caratterizzate da accentuato imbarcamento delle assi, e raggiunge il risultato estetico di migliorare le condizioni di lettura dell’opera conferendole planarità, ma qualora l’opera sia soggetta a variazioni climatiche non riesce a contrastare il naturale dilatarsi e contrarsi del legno; inoltre, riducendo lo spessore del supporto, elimina parte degli elementi costitutivi dell’opera d’arte e tutte le informazioni tecniche in esso contenute. Pertanto, dopo essere stato ampiamente usato fino a tempi relativamente recenti, è stato abbandonato. La campagna fotografica fu molto accurata, adottando anche riprese a luce radente per evidenziare i sollevamenti e le discontinuità della superficie pittorica, nonché particolari della tecnica esecutiva come la presenza della tela dell’incamottatura, visibile in seguito alla rimozione di una stuccatura sul volto del vescovo (figg. 121-123). Per quanto concerne l’intervento sulla pittura che, come detto nella scheda, si presentava abrasa a causa di “un’antica drastica pulitura, i cui effetti in seguito si cercò di mascherare con un beverone di olio e vernice”, prima di intraprendere la pulitura furono effettuati alcuni prelievi stratigrafici nella zona

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Figg. 121-123 Pala di Sant’Onofrio, particolari a luce radente del volto del vescovo Vagnucci durante il restauro del 1948-1951.

Fig. 124 Part. della Pala di Sant'Onofrio durante il restauro del 1948-1951.

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del cielo, finalizzati a verificare se al di sotto delle ridipinture fosse presente uno strato pittorico originale da recuperare. La pulitura fu molto cauta (fig. 124), allo scopo di rispettare l’eventuale patina (erano gli anni della polemica brandiana contro le eccessive puliture della National Gallery!) e di non creare indesiderati squilibri fra le parti abrase e quelle meglio conservate; non venne pertanto completamente rimosso il vecchio “beverone”, e furono mantenute anche le ridipinture, dove non era conservato l’originale, e la parte di rifacimento dell’angioletto in alto a destra, frutto di un precedente restauro. Come era consuetudine, vennero conservati alcuni tasselli non puliti a testimonianza dello stato della pittura precedente al restauro. Le estese lacune vennero stuccate e reintegrate con un tratteggio ben visibile.

4. L’intervento dell’I.C.R. del 1984-1994 A lungo andare però, i provvedimenti presi per trattenere i movimenti del legno, accompagnati da condizioni climatiche sfavorevoli nella sede espositiva, risultarono insufficienti, e si verificarono numerosi sollevamenti dello strato pittorico estesi a tutta la superficie del dipinto, che indussero a consultare nuovamente l’Istituto. In seguito al sopralluogo effettuato da M. Cordaro, si decise un nuovo ricovero presso i laboratori dell’I.C.R. (fig. 125)8. L’orientamento che ha guidato l’intervento è stato quello di non limitare l’azione alla riparazione dei danni esistenti, ma di individuare le condizioni espositive da rispettare per evitare il riproporsi dei danni stessi. Venne avviato pertanto un monitoraggio del comportamento del dipinto in relazione alle variazioni ambientali, finalizzato alla progettazione della nuova esposizione museale. In vista della fine dei lavori e in previsione del rientro in sede, fu acquistata una centralina per il rilevamento dei valori ambientali “Climart 90”, che rimase posizionata nel laboratorio di restauro in prossimità del dipinto dal maggio 1993, registrando per un intero anno i valori della temperatura e dell’umidità relativa, allo scopo di confrontare, quando fosse stato individuato il luogo dove l’opera sarebbe stata esposta, i

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Fig. 125 La Pala di Sant'Onofrio prima del restauro del 1984-1994.

valori registrati nei due ambienti, e di accompagnare poi il dipinto nella sua nuova sede espositiva. Purtroppo i pur lunghi tempi del restauro sono stati inferiori a quelli di realizzazione del nuovo allestimento del museo; pertanto al termine del lavoro il dipinto è stato riconsegnato ed esposto in una cappella della navata destra del duomo, e il suo monitoraggio è stato affidato alle cure della Soprintendenza competente9. Entrata in laboratorio nel 1984, la tavola presentava estesi sollevamenti particolarmente localizzati nelle zone critiche già dette, nonché nella parte bassa del piviale del vescovo. Il primo problema da affrontare era quello della verifica dello stato del supporto e della funzionalità della parchettatura approntata nel precedente restauro (fig. 126). Si trattava di decidere se mantenerla o sostituirla con altra più idonea.

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Fig. 126 Il supporto della Pala di Sant'Onofrio prima del restauro del 1984-1994. Fig. 127 Il supporto della Pala di Sant'Onofrio dopo il restauro del 1984-1994.

Dopo la disinfestazione con bromuro di metile10, si procedette quindi per prima cosa alla fissatura dei sollevamenti della pellicola pittorica, mediante infiltrazioni di adesivo a base di colla animale a caldo, e poi alla revisione del supporto. La tavola, costituita da cinque o sei assi disposte orizzontalmente11, era stata assottigliata nel restauro precedente fino a raggiungere lo spessore medio di 2 centimetri; inoltre molte gallerie di insetti xilofagi indebolivano ulteriormente il legno: necessitava quindi di una robusta struttura di sostegno. Sebbene la parchettatura realizzata nel restauro del 1948 si fosse bloccata e le traverse non scorressero più nelle loro sedi e la struttura avesse perso in tal modo la sua originaria funzionalità, essa risultò ben strutturata e adatta a svolgere la sua funzione: si decise pertanto di conservarla, sottoponendola ad un’attenta revisione che fosse in grado di restituire scorrevolezza in modo permanente ai suoi elementi (fig. 127). Tale delicato intervento non invasivo consentì di evitare di assoggettare la delicata pittura agli inutili stress che sarebbero stati indotti dalla rimozione meccanica delle parti da asportare nel caso della sostituzione. Nel corso di questa lunga e paziente operazione, che è stata effettuata sfilando una per volta le traverse, che sono state foderate di teflon e reinserite nei ponticelli, anch’essi opportu-

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namente ricoperti dallo stesso materiale in modo da evitare gli attriti del legno contro legno, è stato possibile documentare capillarmente tutte le fessure, i fori lasciati dai chiodi e dai nodi del legno rimossi nel precedente restauro, individuare i punti di giunzione delle assi, etc. Si è quindi affrontato il problema della pulitura, che in un primo tempo ha comportato saggi effettuati dalle sole restauratrici Costanza Mora e Beatrice Provinciali e alcune analisi, principalmente volte al riconoscimento di pigmenti e alla individuazione di eventuali ridipinture. Anche per quanto concerne i prelievi, si è cercato di limitarli al massimo sia nel numero che nella dimensione dei campioni, allo scopo di salvaguardare il più possibile l’integrità dell’originale, già così compromessa dalle estesissime lacune. La pulitura si è svolta principalmente in due fasi: rimozione degli strati di vernici alterate mediante una miscela solvente e successivo perfezionamento della pulitura a tampone dove necessario, in particolare in quelle zone nelle quali permanevano residui del “beverone” di cui si è detto, segnatamente il cielo e il pavimento bianco. Una volta messo a punto il giusto sistema di pulitura, sono intervenuti al lavoro anche alcuni allievi del corso di restauro, sempre controllati dalle due restauratrici, che hanno ovviamente continuato a partecipare personalmente a tutte le operazioni. Rispetto al restauro del 1948 è stato possibile ottenere una pulitura più completa ed omogenea che, tranne in qualche caso (nei colori più delicati come il verde, nelle applicazioni della doratura o anche nelle parti più abrase del cielo e del manto azzurro della Madonna), non ha presentato grandi problemi. Per quanto concerne la doratura, applicata diffusamente in vaste porzioni del dipinto sia a corpo che in forma di piccoli punti in rilievo che cospargono la veste della Madonna, il piviale del vescovo e la dalmatica di san Lorenzo, è interessante l’osservazione fatta al videomicroscopio di alcuni punti della doratura in rilievo, dove l’oro si presentava abraso: è stato possibile osservare che la missione sulla quale è applicato l’oro è caricata di grani di pigmento. L’esame del dipinto al videomicroscopio si è rivelato molto utile per osservare il sovrapporsi degli strati pittorici, la consistenza delle stesure pittoriche, le fenditure in esse presenti, etc. e, ad ingrandimenti spinti, anche i granuli di pigmento costituenti il colore.

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Fig. 128 Pala di Sant’Onofrio, part. con il paesaggio in basso a sinistra e con la lacuna lasciata dalla cornice dopo il restauro del 1984-1994.

Nel corso della pulitura si è presentato un problema critico: la figura dell’angelo in alto a destra era raccordata da una reintegrazione che nello scorso restauro era stata mantenuta, non essendo possibile ricostruire l’originale mancante. La rimozione di parte della stuccatura nella porzione di cielo adiacente ha mostrato che si trattava di un inserto recente, effettuato su una tavola di legno nuovo e di scadente qualità;

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pertanto si è deciso di asportare la ridipintura e di sostituire la porzione di legno aggiunta con un tessuto di piccoli tasselli di legno, poi opportunamente stuccati e trattati un modo da imitate il legno abraso dei bordi. Tutte le lacune nel precedente intervento erano state stuccate e reintegrate a tratteggio verticale all’acquerello. Nel presente restauro ci si è attenuti allo stesso criterio per quanto concerne le lacune all’interno delle figure, sostituendo una nuova reintegrazione alla precedente, per non creare fastidiose soluzioni di continuità all’interno di un tessuto pittorico molto ricco e curato minuziosamente in ogni dettaglio. Lo stesso criterio non è stato adottato invece per i bordi, nei quali sono state asportate le vecchie stuccature rimettendo in luce il legno della tavola, che è stato opportunamente trattato in modo da ridurne le disomogeneità (fig. 128). In tal modo la pittura originale, liberata dalle vernici che attenuavano fortemente il timbro del colore, che ha ora ritrovato il giusto equilibrio, risalta con maggiore naturalezza, senza indebite interpretazioni delle zone marginali. Le indagini chimiche tradizionali e le analisi non distruttive, volte ad evidenziare la tecnica esecutiva e gli eventuali pentimenti, sono state affiancate in via sperimentale da una nuova tecnica resasi all’epoca disponibile per l’individuazione dei materiali adottati, la fluorescenza X, mediante la quale è stato possibile estendere le campionature per il riconoscimento dei pigmenti impiegati ad un numero di punti molto più vasto di quello ottenibile mediante prelievi. L’elaborazione di tali esami ha confermato pienamente le osservazioni e le interpretazioni fatte dai restauratori nel corso del lavoro, prima fra tutte che il dipinto è stato eseguito ad olio, presumibilmente su un’imprimitura a biacca e olio sulla tradizionale preparazione della tavola a gesso e colla. Con questa tecnica è possibile ottenere la solida modellazione dei volumi e la profondità del colore che si possono apprezzare nelle parti meglio conservate degli incarnati, come nella bellissima testa di san Lorenzo o nella figura del sant’Onofrio, miracolosamente scampata all’accanimento terapeutico che ha abraso le altre figure, ed è stato possibile anche realizzare in punta di pennello tutti quei particolari minuziosamente eseguiti che rimandano all’arte fiamminga e vanno riferiti all’influenza esercitata dal Trittico Portinari di Hugo van der Goes, giunto a Firenze nel 1483.

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Fig. 129 Pala di Sant’Onofrio, part. con il piede sinistro del Battista dopo il restauro del 1984-1994. Fig. 130 Pala di Sant’Onofrio, part. con le ginocchia di sant'Onofrio dopo il restauro del 1984-1994.

La minuzia esecutiva è evidenziata anche dall’uso dello spolvero, ben visibile in trasparenza nelle decorazioni del gradino del trono (figg. 129-130). Il disegno preparatorio è stato sostanzialmente rispettato tranne che per alcuni pentimenti, in parte visibili ad occhio nudo, come quello presente nella mitria del vescovo o quello in prossimità della caviglia sinistra del Battista o quello sotto la coscia sinistra del sant’Onofrio (figg. 129-130), in parte evidenziati con la riflettografia i.r., come quello presente nella testa di sant’Onofrio, che nel disegno preparatorio era stata concepita meno inclinata. Anche la radiografia, effettuata su alcune figure, ha mostrato una sostanziale coerenza tra gli strati soggiacenti e la pittura finita, con limitati pentimenti. Un valido ausilio nel corso dell’intervento è stato fornito da altre indagini di controllo non distruttivo12, che permettono di evidenziare le differenti campiture in base alla loro composizione e pertanto consentono di estendere a più vaste zone del dipinto le risultanze delle analisi puntuali effettuate con metodi microdistruttivi; inoltre, differenziando con grande chiarez-

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za la pittura originale dalle lacune e dalle sovrapposizioni, hanno fornito una guida nella difficile opera di trattamento delle lacune. La reintegrazione infatti ha costituito un lavoro di grande impegno, soprattutto a causa della presenza di estesissime lacune proprio nei volti delle figure principali, quelli della Madonna, del Bambino e del vescovo. Nel corso del lavoro sono state redatte tavole tematiche illustranti le tecniche esecutive, lo stato di conservazione e gli interventi effettuati che, riprodotte su pannello, sono state consegnate insieme al dipinto ed esposte nella collocazione provvisoria all’interno della chiesa. Tale documentazione, associata all’esame visivo del dipinto e alla documentazione fotografica eseguita dopo il restauro, costituisce un utile strumento per il controllo del suo stato di conservazione e per la verifica del mantenimento dei risultati raggiunti con il restauro. A distanza di quasi dieci anni dalla riconsegna sembra confermata la convinzione che ha guidato l’intervento, che è sulla stabilità dei valori climatici che si basa la possibilità di preservare da ulteriori danni questa tavola già tanto compromessa.

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NOTE 1 Il presente testo rappresenta una rielaborazione della relazione da me presentata a Perugia (palazzo dei Priori, sala della Vaccara) il 6 dicembre 1994 in occasione della riconsegna della pala restaurata, nel corso della X Settimana dei Beni Culturali. 2 Il lavoro è stato eseguito completamente con personale dell’Istituto Centrale del Restauro, sia per l’intervento sul dipinto, al quale hanno partecipato negli anni scolastici 1989-90, 1990-91 e 1991-92 alcuni allievi dei rispettivi corsi di restauro (XLIII, XLIV, XLV), che per le indagini chimiche, fisiche, di controllo non distruttivo e radiografiche e per la documentazione grafica degli interventi. Direzione dei lavori: Daila Radeglia. Restauratori: Costanza Mora, Beatrice Provinciali (consolidamento della pellicola pittorica, pulitura, integrazione delle lacune), Domenico De Palo (integrazione delle lacune), Carlo Festa (revisione del sistema di sostegno, consolidamento del legno e della pellicola pittorica), Angelo Pizzi (risanamento della tavola). Indagini chimiche: Giuseppina Vigliano, Pierluigi Bianchetti. Indagini per il controllo ambientale: Carlo Cacace (laboratorio di Fisica). Indagini di controllo non distruttivo: Giuseppe Fabretti (laboratorio di Fisica). Radiografie: Roberto Ciabattoni, Onorato Francesco Orfanò (laboratorio di Fisica). Fotografi: Pietro Introno, Marcello Leotta, Gianfranco Santonico, Paolo Piccioni, Ferdinando Provera. Documentazione grafica: Maria Antonietta Gorini, Marina Marchese. 3 Come si evince da un documento della Soprintendenza del 19/9/1917 (ASSU, busta 55, fascicolo 5), che fornisce ragguagli circa un malaccorto restauro di quelle pitture. 4 Il documento (ASSU, corrente, busta 11, fascicolo 5: “Relazione riassuntiva sui lavori di restauro ai monumenti e agli oggetti d’arte diretti da questa Regia Soprintendenza all’arte medievale e moderna a partire dal gennaio 1923”) si esprime in questi termini: “Perugia, Duomo - Consolidamento e restauro della tavola di Luca Signorelli”. 5 Il dipinto fu ritirato l’8 febbraio 1948 con verbale di consegna firmato dal restauratore Giovanni Urbani e riconsegnato alla Soprintendenza dell’Umbria con verbale di consegna dell’11 giugno 1951 firmato da Luigi Salerno (cf. Archivio I.C.R.). 6 La foto del supporto precedente all’intervento mostra che sul verso della tavola era applicato un telaio inchiodato, con una traversa e due rompitratta. Sono visibili inoltre tracce di stucco a gesso e colla, applicato probabilmente per impermeabilizzare il retro. 7 “Descrizione dello stato di conservazione: tavola marcita, tarlata e imbarcata negli elementi che la compongono. Sollevazioni di molte zone di colore e soprattutto nelle giunture trasversali. Ritocchi e stucchi nelle connessure e in altre vaste zone in alto alla sinistra della tavola. Abrasioni del colore e varie ossidazioni delle vernici. Provvedimenti di restauro: restauro del supporto ligneo, con raddrizzatura, connessione e risanamento delle varie assi. Parquetage ad elementi affini e scorrevoli. Asportazione del denso strato di vernici ingiallite e ossidate. Espunzione dei ritocchi e conseguente completa-

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mento delle lacune. Come è possibile rilevare da un accurato esame delle fotografie precedenti l’attuale restauro, è risultata una antica drastica pulitura i cui effetti in seguito si tentò di rimediare con imbeviture di olio e vernici” (Scheda di consegna per restauro, marzo 1948). 8 Richiedendo contestualmente che venissero effettuate opportune misurazioni delle condizioni ambientali, con i conseguenti provvedimenti di adeguamento del microclima (lettera del 18/6/1983). In realtà i dati richiesti non furono raccolti, perché frattanto fu intrapreso il restauro architettonico del museo, gli spazi prima utilizzati a fini espositivi vennero trasformati e la progettazione dell’allestimento museale posticipata: di conseguenza fu necessario affrontare il lavoro sulla tavola senza poterlo correlare, come era stato previsto, con quello sull’ambiente. 9 Preventivamente al rientro fu valutata la situazione climatica della cappella. Dal 13 maggio 1994 vi fu posizionata la centralina “Climart 90”, con quattro sonde che registravano i dati ambientali all’esterno (1), sulla cancellata che separa la cappella dalla navata (2) e all’interno a due diverse altezze (34). Risultando i valori misurati piuttosto stabili e compatibili con la conservazione dell’opera, questa vi fu trasferita alla fine di novembre, venendo affidata alle cure della Dott.sa Francesca Abbozzo della Soprintendenza dell’Umbria. Nei primi tempi dopo la collocazione in Duomo, il controllo del dipinto e la registrazione dei valori erano curati dal restauratore Piero Nottiani, prematuramente scomparso. 10 Attualmente, ormai da qualche anno, la disinfestazione con bromuro di metile in camera a gas non è più in uso all’I.C.R. e la disinfestazione dagli insetti xilofagi viene ottenuta mediante trattamenti in atmosfera modificata con gas inerti (generalmente azoto), in sostituzione del bromuro di metile, di cui è riconosciuta la tossicità. 11 Data la presenza di numerosi tasselli inseriti nel precedente restauro, non è possibile verificare sul verso l’ipotesi di una suddivisione ulteriore che porterebbe il numero delle assi da 5 a 6. 12 Foto in falso colore all’i.r. e u.v.

Appendice C La Pala di San Martino di Petrignano del Lago

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Numerosi stemmi lapidei (o in terracotta) dei Vagnucci compaiono tutt’ora nelle due ville che la famiglia possedeva a nord di Petrignano del Lago, in località Palazzi (comune di Montepulciano; fig. 131)1, e a sud di Cortona, nei pressi di Ossaia (San Marco in Villa). I Vagnucci, i quali, come sappiamo, tennero la signoria di Petrignano sino alla fine del ’400, continuando a risiedervi nei secoli successivi, possedevano anche un palazzotto (oggi distrutto) all’interno dell’abitato, localizzato grosso modo all’altezza dell’attuale oleificio. Alcuni stemmi della villa fuori Petrignano recano la sigla “FV” e la data 1609, che dovrebbero riferirsi al ramo della famiglia discendente dal capitano Francesco di Pietro Vagnucci, castellano di Forlì (1563) e cavaliere di Santo Stefano (1567); invece la residenza di Ossaia (attuale villa Laura) apparteneva al nipote di costui, Onofrio di Candido di Francesco, anch’egli, come lo zio Onofrio di Francesco (1587), cavaliere di Santo Stefano (1627)2.

Fig. 131 Part. di una carta IGM con i dintorni di Petrignano del Lago.

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È da ritenersi che Onofrio di Candido sia il committente del pregevole quadro “caravaggesco” rappresentante San Martino che dona metà del suo mantello al povero (olio su tela, 245 x 180 cm; fig. 132), appeso alla parete d’altare della chiesetta omonima al centro di Petrignano. Infatti l’opera, recentemente restaurata dallo studio di Bruno Masci a Passignano sul Trasimeno, presenta in basso a sinistra lo stemma Vagnucci sovrapposto alla croce di Santo Stefano (fig. 133), identica alla croce a otto punte dell’ordine di Malta, ma con l’inversione dei colori (croce rossa su campo bianco)3.

Fig. 132 Anonimo, Pala di San Martino, 1627-1634. Petrignano del Lago, chiesa di San Martino.

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Fig. 133 Pala di San Martino, part. con lo stemma Vagnucci sovrapposto alla croce dell’ordine di Santo Stefano.

Nel 1634 Onofrio di Candido sposò Francesca Della Corgna, figlia di Fulvio Alessandro, duca di Castiglione del Lago e signore del Chiugi4, accogliendone l’arme di famiglia nel proprio stemma, che divenne pertanto bipartito: a quanto mi dice uno studioso locale, una volta questo doppio stemma compariva su un lato della villa di Ossaia, prima che vi venisse sottratto5. Ne consegue che, sulla base degli elementi disponibili, la Pala di San Martino può essere datata con buona precisione, poiché la sua realizzazione deve collocarsi tra il 1627, quando Onofrio venne nominato cavaliere di Santo Stefano, e il 1634, anno in cui si legò ai Della Corgna con un matrimonio tutto politico6. Considerando la parabola umana ed artistica di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (1571-1610)7, la datazione proposta risulta perfettamente compatibile con lo stile dell’opera, improntato ad un fresco “caravaggismo” di probabile matrice umbro-toscana, che stempera nel classicismo e nel naturalismo le irrequietezze del modello8. La tela venne collocata in un oratorio del SS. Sacramento (che alla fine del ’700 avrebbe preso il titolo di San Martino proprio dall’opera), la cappella di famiglia che i Vagnucci possedevano a due passi dal loro palazzotto all’interno di Petrignano e che era ubicata nello stesso punto in cui s’innal-

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Fig. 134 Petrignano del Lago (dintorni), probabile oratorio di Sant’Onofrio presso la villa già Vagnucci in località Palazzi.

za oggi la moderna chiesetta di San Martino. Una situazione molto simile a quella della villa a nord dell’abitato, in prossimità della quale si trovava, come già accennato, un oratorio di Sant’Onofrio, attestato dal ’600 in località Palazzi e forse coincidente con la graziosa cappella oggi davanti alla facciata della villa (fig. 134)9.

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NOTE 1

Il nucleo primitivo della villa appartiene al XV secolo e comprende un antico sacello sotterraneo a forma di ipogeo dove, secondo una tradizione fatta nascere e circolare dai Vagnucci, Margherita da Laviano (meglio nota come santa Margherita di Cortona) avrebbe pregato per la morte dell’amato, il nobile di Montepulciano Arsenio (da identificarsi probabilmente con Raniero del Pecora), ucciso in circostanze misteriose. Oggi il sacello non è accessibile, poiché l’ingresso alla scala che vi conduce è stato murato dagli attuali proprietari della villa. 2 BAEC, Cartapecore Vagnucci, dal 24 aprile 1563 al 2 maggio 1587; ANGELLIERI ALTICOZZI 1763, pp. 140-141. Francesco di Pietro è il bis-nipote di Pietro di Francesco, fratello e “biografo” di Iacopo Vagnucci. 3 Il particolare dei colori è importante, perché alcuni membri di questo ramo della famiglia Vagnucci (tra cui Girolamo, fratello di Onofrio) vestirono l’abito dei Cavalieri di Malta. 4 I Della Corgna divennero marchesi di Castiglione del Lago nel 1550, dopo l’ascesa al soglio pontificio di Gian Maria Ciocchi Del Monte (Giulio III, 1550-1555), la cui sorella, Giacoma, aveva sposato Francesco Della Corgna detto il Francia: dal matrimonio nacquero Ascanio il Grande, primo marchese di Castiglione, e Fulvio, il vescovo perugino più volte menzionato. Fulvio Alessandro, nipote del figlio adottivo di Ascanio I, fu l’ultimo (e certamente il meno meritevole) dei marchesi, riuscendo nel 1617 ad elevare il proprio titolo a quello di duca, ma morendo nel 1647 senza eredi (infatti dalle due mogli aveva avuto solo figlie, tra cui Francesca). 5 BOSCHERINI, in stampa. 6 Come sappiamo, i Vagnucci, sin dai tempi del vescovo Iacopo, erano molto legati all’ambiente mediceo, ed è possibile che, in occasione della guerra di Castro (1642-1643), essi venissero coinvolti nel fallito tentativo dei Della Corgna di sottrarre il Chiugi alla giurisdizione della Chiesa, con l’obiettivo di diventare vassalli del granduca di Toscana (ivi). 7 A Roma, nel 1595-1596, Caravaggio venne accolto in casa del proprio mecenate e protettore, il cardinale Francesco Maria Bourbon Del Monte, ambasciatore nella capitale pontificia del granduca di Toscana Ferdinando I: proprio i Medici, nella persona di Cosimo I, avevano istituito l’ordine dei Cavalieri di Santo Stefano (Pisa, 1562). 8 Potrebbe trattarsi del pittore perugino Giovan Battista Bassotti (comunicazione orale del prof. Francesco Federico Mancini). 9 La rottura della serratura della cappella, per il momento inaccessibile, non ha permesso di compiere una verifica in tal senso. Comunque si consideri che, poco sopra la villa fatta costruire dai Vagnucci, sorge un altro edificio già di proprietà della famiglia (i Palazzi, sec. XI), una casa-torre al cui interno si trova un sacello che fu, anch’esso, luogo di preghiera per santa Margherita (infatti alla metà del ’200 la residenza apparteneva a Raniero del Pecora, probabile marito di Margherita).

Appendice D Il duomo di San Lorenzo nella seconda metà del ’500

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Fig. 135 Planimetria della cattedrale di San Lorenzo (la pianta è riprodotta anche all’interno della bandella sinistra della copertina).

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Secondo ’500

Oggi

1 Tribuna absidale Coro ligneo (Giuliano da Maiano e Domenico Del Tasso, 1491)

Tribuna absidale Coro ligneo (Giuliano da Maiano e Domenico Del Tasso, 1491) Allegorie delle Virtù (affreschi di Domenico Sergardi, 1766) Storie di san Lorenzo (due tele di Baldassarre Orsini, 1767) Storie di san Lorenzo (due tele di Carlo Spiridione Mariotti, 1768)

2 Altare maggiore Tabernacolo (Bino Sozi, 1579)

Altare maggiore (Carlo Murena e Francesco Caselli, 1762)

3 Altare di San Francesco Gonfalone (tela di Berto di Giovanni, 1526)

Altare dell’Assunta (1620) Assunzione della Vergine (tela di Ippolito Borghesi, 1620) Monumento a Pierantonio Ghiberti (1627) Tabernacolo (Bino Sozi, 1579)

4 Altare del Crocifisso Crocifisso ligneo (primo quarto del ’500) Dolenti (affresco di Pietro Perugino, perduto)

Organo (1967)

5 Altare di Santa Barbara

Altare del Crocifisso (Pietro Carattoli, 1735) Crocifisso ligneo (primo quarto del ’500)

6

Sacra Famiglia (tela di Ludovico Caselli Moretti, 1896) Monumento a Francesco Morlacchi (1953)

7 Altare dei Santi Caterina, Maddalena e Nicola Pala di San Nicola (tavola di Pompeo Cocchi, 1529, Museo)

Madonna in gloria (tela di Francesco Appiani, 1740)

8 Altare di San Giovanni (1578) Fonte battesimale (Giulio Danti, 1571, perduto)

Altare del Gonfalone (Giovanni Santini, 1849) Cristo risorto (tela di Giannicola di Paolo, 1513) Gonfalone (tela di Berto di Giovanni, 1526)

9 Altare di San Girolamo Monumento a G. Andrea Baglioni (Urbano da Cortona, 1451) 10 Porta Sud (o principale)

Porta Sud (o principale)

11 Altare della Pietà (Agostino di Duccio, 1474, in deposito) 12 Accesso al pulpito esterno

Accesso al pulpito esterno

13 Altare di San Matteo

Eterno che benedice Perugia (tela di Simeone Ciburri, 1602)

14 Altare del Santo Anello (Benedetto Buglioni, 1488) Sposalizio della Vergine (tavola di Pietro Perugino, 1504, Caen) Reliquiario (Federico e Cesarino del Roscetto, 1511) Bancone dei Magistrati (G. Battista Bastone, 1529) Balconata (Ercole di Tommaso del Riccio, 1565) Annunciazione e Natività (vetrata, fine ’500)

Altare del Santo Anello (Francesco Caselli, 1761) Sposalizio della Vergine (tela di Jean-Baptiste Wicar, 1825) Reliquiario (Federico e Cesarino del Roscetto, 1511) Bancone dei Magistrati (G. Battista Bastone, 1529) Balconata (Ercole di Tommaso del Riccio, 1565) Adorazione dei pastori (vetrata di Francesco Moretti, 1873)

15 San Bernardino (affresco di Benedetto Bonfigli?, 1450 ca)

San Bernardino (affresco di Benedetto Bonfigli?, 1450 ca)

16 Altare di San Sebastiano Martirio di san Sebastiano (tela di Orazio Alfani, 1576)

Monumento a Marcantonio Oddi (Domenico Guidi, 1668)

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Secondo ’500

Oggi

17 Porta Est (o maggiore) Porta Est (o maggiore) Martirio di san Lorenzo (vetrata di Guglielmo de Marcillat, 1525 ca) Martirio di san Lorenzo (vetrata di Ludovico Caselli, 1919) Apparizione della Vergine (tela di G. Antonio Scaramuccia, 1617) 18 Altare dei Santi Ivo e Marta Pala di Giannicola di Paolo e G. Battista Caporali (perduta)

Monumento a G. Andrea Baglioni (Urbano da Cortona, 1451)

19 Altare di San Bernardino (Ludovico Scalza, 1559) Predica di san Bernardino (vetrata di Hendrick van den Broeck, 1565) Bancone (Iacopo di Antonio e Ercole di Tommaso del Riccio, 1567) Deposizione dalla croce (tela di Federico Barocci, 1569) Tredici statue di Vincenzo Danti (1567, perdute)

Altare di San Bernardino (Giovanni Cerrini e Innocenzo Elisi, 1797) Predica di san Bernardino (vetrata di Hendrick van den Broeck, 1565) Bancone (Iacopo di Antonio e Ercole di Tommaso del Riccio, 1567) Deposizione dalla croce (tela di Federico Barocci, 1569)

20 Altare della Santa Croce

Natività della Vergine (tela di Vincenzo Pellegrini, 1610 ca)

21 Porta Nord 22 Altare della Madonna del Verde (Pietro Paolo di Andrea, 1479) Madonna del Verde (affresco staccato, inizio ’300, Museo) 23 Sacrestia della cappella dello Spirito Santo

Cappella del Battistero (Giovanni Santini, 1855) Altare della Madonna del Verde (Pietro Paolo di Andrea, 1479) Battesimo di Cristo (affresco di Domenico Bruschi, 1876) Fonte battesimale (Giuseppe Luchetti, 1876)

24 Monumento a Troilo Baglioni (perduto) 25 Altare della Madonna delle Grazie Madonna delle Grazie (affresco di Giannicola di Paolo?, 1515 ca)

Altare della Madonna delle Grazie (Giovanni Santini, 1855) Madonna delle Grazie (affresco di Giannicola di Paolo?, 1515 ca)

26 Monumento a Giulio Oradini (Ippolito Scalza, 1573)

Monumento a Giulio Oradini (Ippolito Scalza, 1573)

27 Cappella dello Spirito Santo (Galeazzo Alessi, 1576) Pentecoste (tela di Cesare Nebbia, 1573) Stucchi di Ludovico Scalza e affreschi di G. Maria Bisconti (perduti)

Cappella del Santissimo Sacramento (Giovanni Santini, 1849) Pentecoste (tela di Cesare Nebbia, 1573) Storie dei santi Pietro e Paolo (affreschi di Marcello Leopardi, 1795) Pietà (vetrata di Tito Moretti, 1874)

28 Organo (1510 ca) Cristo risorto (tela) e tre tavole del Museo (Giannicola di Paolo, 1513)

Martirio di san Sebastiano (tela di Orazio Alfani, 1576)

29 Monumento ad Ippolito Della Corgna (Ludovico Scalza, 1568 ca, perduto)

Tomba dei papi Innocenzo III, Urbano IV e Martino IV (1615) Prospetto lapideo della tomba (Renzo Pardi, 1960)

30 Altare di Sant’Onofrio (1484) Altare di Santo Stefano (1608) Pala di Sant’Onofrio (tavola di Luca Signorelli, 1484, Museo) Lapidazione di Santo Stefano (tela di Giovanni Baglione, 1608) Vetrata di Bartolomeo Caporali e Nerio di Monte (1484 ca, Assisi) 31

Statua di Leone XIII (Giuseppe Luchetti, 1892)

32 Cappella dei Canonici

Oratorio di Sant’Onofrio (1703) Storie di sant’Onofrio (affreschi di Domenico Bruschi, 1877) Coretto a finte tarsie dipinte (Domenico Bruschi, 1878) Trasfigurazione (copia in tela da Raffaello Sanzio)

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Secondo ’500

Oggi

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Altare di Sant’Emidio (1784) Sant’Emidio battezza Polisia (tela di Francesco Appiani, 1784)

34 Sacrestia (1572) Armadio (Mariotto di Paolo Sensi detto il Terzuolo, 1497) Storie di san Lorenzo (affreschi di G. Antonio Pandolfi, 1576)

Sacrestia (1572) Armadio (Mariotto di Paolo Sensi detto il Terzuolo, 1497) Storie di san Lorenzo (affreschi di G. Antonio Pandolfi, 1576)

35 Tomba dei papi Innocenzo III, Urbano IV e Martino IV (1572) Episodi relativi ai tre papi (affreschi di anonimo, 1572)

Episodi relativi ai tre papi (affreschi di anonimo, 1572)

36 Cappella dell’Arciprete

Cappella dell’Arciprete Martirio di san Lorenzo (tela di Ferraù Fenzoni, fine ’500) Assunzione di san Lorenzo (tempere di Mariano Piervittori, ’800)

37 Sacrestia dei Canonici Storie del Vecchio Testamento (affreschi di Salvio Savini, ’500)

Sacrestia dei Canonici Storie del Vecchio Testamento (affreschi di Salvio Savini, ’500)

Bibliografia

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ABBREVIAZIONI ACDF ADC ADP ASCC ASCP ASF ASP ASSP

= = = = = = = =

Archivio Capitolare del Duomo di Firenze Archivio Diocesano di Cortona Archivio Diocesano di Perugia Archivio Storico del Comune di Cortona Archivio Storico del Comune di Perugia Archivio di Stato di Firenze Archivio di Stato di Perugia Archivio Storico del Monastero di San Pietro di Perugia ASSU = Archivio Storico della Soprintendenza BAPPSAE dell’Umbria BAEC = Biblioteca Comunale e dell’Accademia Etrusca di Cortona BAP = Biblioteca Comunale Augusta di Perugia

MANOSCRITTI Archivio Capitolare del Duomo di Firenze (ACDF) S. Salvini, Vite e memorie de’ nostri canonici della Metropolitana fiorentina (1751), tomo II (dal 1400 al 1500). Archivio Diocesano di Cortona (ADC) Visitatio civitatis et diecesis totius Cortone facta per illustrem ac reverendissimum dominum dominum Angelum Perutium episcopum sarsinatensem et comitem visitatorem apostolicum generalem (1583). Archivio Diocesano di Perugia (ADP) S. Silvestrini, Serie de’ vescovi di Perugia redatta da Serafino Silvestrini a proprio uso, copia non autografa (ante 1822) del Belforti-Mariotti (BAP), tomo I. Visitationes (1564-1781), mss. 1-32 bis.

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Archivio Storico del Comune di Cortona (ASCC) Opere riunite del duomo e di Santa Maria Nuova, ms. G59 (Capitoli concernenti le sacre reliquie regalate da monsignor Iacopo Vagnucci alla comunità ed entrata ed uscita di dette reliquie).

Archivio di Stato di Firenze (ASF) Catasto (1427-1491), Catasto di Cortona del 1427, II. Notarile Antecosimiano, C (1400-1561), reg. 682 (1471-1485). Diplomatico, Pergamene del convento dei Serviti di Cortona (1260-1751).

Archivio di Stato di Perugia (ASP) ASCP, Copiari di privilegi, bolle, brevi e lettere, reg. 2 (1439-1473). ASCP, Fabbrica di San Lorenzo, 7 regg. (1451-1491). ASCP, Miscellanea, reg. 65 (Costituzioni e atti diversi riguardanti il Monte di Pietà). ASCP, Riformanze, nn. 28-121 (1380-1492). Collegio della Sapienza Vecchia, Miscellanea, misc. 1. Notarile, Bastardelli. Sezione di Foligno, Notarile, Serie I; Miscellanea. Anonimi e frammenti. Sezione di Spoleto, Archivio Storico del Comune di Spoleto, Riformanze, Serie I (1352-1541).

Archivio Storico del Monastero di San Pietro di Perugia (ASSP) G. Belforti-A. Mariotti, Memorie istoriche de’ castelli e ville del territorio di Perugia, Porta Sant’Angelo (sec. XVIII), ms. CM295. G. Belforti-A. Mariotti, Serie de’ vescovi di Perugia dall’anno di Cristo 171 a tutto l’anno 1785, copia (post 1785) del Belforti-Mariotti (BAP), ms. CM300.

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Biblioteca Comunale e dell’Accademia Etrusca di Cortona (BAEC) T. Braccioli, Stemmi e brevi notizie di LXIX famiglie cortonesi (1565), ms. 389. F. Coppoli, Consilium saluberrimum pro Monte Pietatis... (1470 ca), ms. 249, pp. 77-90. Cartapecore Vagnucci, dall’8 febbraio 1446 al 29 giugno 1490. Contratto di donazione della reliquia dell’anno 1458, in Notti Coritane, vol. IV (1747), ms. 436, pp. 188-190. Dignità e uffizi che ha avuto messer Iacopo di Francesco de’ Vagnucci da Cortona, ms. 685, pp. 146-147. Memoria del reliquiario del 1483, ms. 739, c. 18v. Originale dell’atto di fondazione del Monte Pio di Cortona, ms. non inventariato. Vita del vescovo della Casa di Vagnucci di Cortona, in Notti Coritane, vol. VIII (1751), ms. 440, pp. 66-71. Mss. 423, 473, 529, 545, 616, 708.

Biblioteca Comunale Augusta di Perugia (BAP) C. Baglioni, Perugia sagra o vero annali della Chiesa perugina... (sec. XVII), ms. 31 (A31). G. Belforti-A. Mariotti, Serie de’ vescovi di Perugia dall’anno di Cristo 171 a tutto l’anno 1785, autografo di G. Belforti con note di A. Mariotti (ante 1785), ms. 1349. G. Bigazzini, Vescovi dell’illustrissima città di Perugia cominciando l’anno del Signore 56..., copia di P. Balzi (1642), ms. 1336. T. Bottonio, Annali del convento di San Domenico dal 1200 al 1591 (ante 1591), con l’aggiunta di altri padri fino al 1600, tomo II (dal 1401 al 1591), ms. 1151. C. Crispolti senior, Perugia Augusta (1603 ca), ms. 162 (C45). C. Crispolti senior, Raccolta delle cose segnalate di pittura, scoltura ed architettura che si ritrovano in Perugia e suo territorio... (1597), ms. 1256. G. Fabretti, Memorie dell’antico castello di Corciano, in Memorie di Corciano e dei paesi soggetti a questo comune, e cioè: Pieve del Vescovo,

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Capocavallo, Castel Vieto, Castel del Piano, Chiugiana, Canneto, Solomeo, Monte Frondoso, Mantignana, Pantano, Fontana, Olmo, San Mariano e Mugnano (ante 1868), ms. 1948, pp. 1-125. O. Lancellotti, Scorta sagra perugina (ante 1671), 2 tomi, mss. 6061 (B4-B5). A. Mariotti, Spoglio delle matricole de’ collegi delle arti di Perugia... (1786), ms. 1230. Costituzioni della casa degli scolari di San Gregorio, ms. 1239.

DATTILOSCRITTI Biblioteca Comunale Augusta di Perugia, Catalogo dei manoscritti in prosecuzione di quello redatto da Alessandro Bellucci e pubblicato nel volume V degli Inventari dei manoscritti delle biblioteche di Italia di G. Mazzatinti (mss. 1566-3285). Biblioteca del Sacro Convento di Assisi, Elenco dei pannelli vetrari conservati nei magazzini del Sacro Convento di Assisi redatto a novembre del 1991. Facoltà di Lettere e Filosofia di Perugia, R. Caracciolo, Iacopo e Dionisio Vagnucci vescovi e committenti d’arte nella Perugia del secondo Quattrocento, tesi di laurea, a.a. 2002-2003. Istituto Centrale per il Restauro di Roma, D. Radeglia, Luca Signorelli. Madonna in trono, angeli e santi: alcune notizie sul restauro, relazione tenuta a Perugia (sala della Vaccara) il 6 dicembre 1994.

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TESTI A STAMPA AA. VV. 2000 Enciclopedia dei papi, vol. II, Roma 2000. ACIDINI LUCHINAT 1984 C. Acidini Luchinat, Gli ornati delle tarsie perugine dal repertorio antiquario alla grottesca, in Annali della Fondazione Longhi, vol. I, Pisa 1984, pp. 55-69. ALBERTI 1550 L. Alberti, Descrittione di tutta Italia..., Bologna 1550. ANGELETTI-BERTINI 1993 G. Angeletti-A. Bertini, La Sapienza Vecchia, Perugia 1993. ANGELLIERI ALTICOZZI 1763 F. Angellieri Alticozzi, Risposta apologetica al libro dell’antico dominio del vescovo d’Arezzo sopra Cortona, parte I, Livorno 1763. ANGELUCCI MEZZETTI 2000 P. Angelucci Mezzetti, Il bosco conteso. Una convenzione tra il vescovo perugino e la comunità di Corciano nel secolo XIII (da un processo quattrocentesco), in Studi sull’Umbria medievale e umanistica. In ricordo di Olga Marinelli, Pier Lorenzo Meloni, Ugolino Nicolini, a cura di M. Donnini-E. Menestò, Spoleto 2000, pp. 3-28. BAGLIONI 1964 A. Baglioni, I Baglioni, Firenze 1964. BALLARINI 1747 P. Ballarini, De iure divino ac naturali circa usuram, tomus II, Bononiae 1747. BANDINI 1778 A. M. Bandini, Catalogus codicum latinorum Bibliothecae Mediceae Laurentianae..., tomus III, Florentiae 1778. BASCAPÈ-DEL PIAZZO 1983 G. C. Bascapè-M. Del Piazzo, Insegne e simboli: araldica pubblica e privata medievale e moderna, Roma 1983. BATTISTI 1976 E. Battisti, alla voce Ritratto, in Enciclopedia universale dell’arte, vol. XI, Roma 1976, coll. 583-598. BECHERUCCI-BRUNETTI 1969 L. Becherucci-G. Brunetti (a cura di), Il Museo dell’Opera del Duomo a Firenze, vol. II, Milano 1969.

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ISBN 978-88-86255-17-2

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