Iblis, l\'amante tradito

July 23, 2017 | Autor: Marco Eggenter | Categoria: Sufism
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IBLIS: L'AMANTE TRADITO



Nonostante la sottile speculazione teologica e filosofica sull'origine del male, nell'occidente cristiano si è consolidato un' immaginario nel quale Satana figura come l'ipostasi del male radicale ed irredimibile. Questo ha generato una sorta di dualismo, dal sentore vagamente manicheo, tra Dio, l'assoluto bene, ed il Demonio, l'assoluto male. Tra i due poli, l'uomo vive la sua breve esistenza in perenne tensione, avendo in sé un'anima che, per sua essenza, aspira al sommo bene, ma, essendo rivestita di "carne", di contro, lo trascina negli abissi infernali. L'amore, in quanto veicolo del sommo "bene" è per tanto riservato al solo Dio, dal quale proviene a al quale aspira. Nel triangolo ai cui vertici figurano Dio, l'uomo e Satana, Dio rappresenta l'Amore sommo ed originario, l'uomo il sommamente amato e sommamente amante, mentre Satana il sommamente odioso, odiato e maledetto, che nulla sa e nulla vuole sapere dell'amore, al quale si oppone con tutta la sua volontà nel tentativo di estinguerlo per sempre dal mondo, mutandolo in mera e peccaminosa concupiscenza.
Così, però, non è in tutti gli immaginari e, in particolare, così non è in quello sotteso alla tradizione a noi più vicina, ovvero nell'Islam. Nella Persia islamizzata, infatti, soprattutto ad opera dell'esperienza Sufi è venuta formandosi un'immagine del Diavolo del tutto originale.
L'origine di tale speculazione si trova già adombrata nel Corano dove, secondo quanto ispirato al Profeta, Dio, dopo aver dato forma all'argilla e creato Adamo, ordinò agli Angeli di Fuoco di prostrarsi di fronte alla nuova creatura: tutti, com'è ovvio, ubbidirono, giacché gli ordini di Dio sono, per assioma, indiscutibili. Tutti, però, tranne uno, che si rifiutò, lui, essere di fuoco, di inginocchiarsi davanti ad un essere di fango. (Cor.XV, 30,33- XVII,61,62-XII,10,18-XXXVIII,71,85)
Il nome di questo essere "ribelle" è Iblis, nome che etimologicamente richiama il Diablos greco, nel significato di colui che divide, ma prima del suo insano gesto era chiamato 'Azâil, cioè l'Amato da Dio.
Nel Corano lo ritroviamo citato con diversi nomi: Al-shaytan (il demone), 'Adu (il nemico), La 'in (il maledetto). Fu Dio a maledirlo perché si era macchiato di una duplice colpa disobbedendo al suo comando: Orgoglio – "io sono migliore di lui"-( Cor.XXXVIII, 76) e Gelosia – "costui sarebbe quello che hai onorato sopra di me?- (Cor.XVII, 62).
Ci informa poi, sempre il Corano, che tra i due antichi amanti si stipulò un patto: escluso dalla presenza divina, Iblis chiese ed ottenne da Dio, prima d'essere sprofondato nella Gheenna, di "attendere fino al giorno in cui gli uomini saranno resuscitati…poiché tu mi hai fatto errare, io mi apposterò sulla Tua via diritta, ed apparirò loro…e per la tua potenza, io tutti li sedurrò". (Cor.XXXVIII, 82)
Il Profeta, nel tradurre agli uomini queste parole, non poteva essere più sconvolgente. Si dice, infatti, che Iblis non è il solo responsabile del suo atto e soprattutto che la sua opera di seduzione nei confronti dell'uomo è patrocinata da Dio stesso: Iblis, in fin dei conti, non è altro che uno strumento del disegno di Dio.
Cosa accadrà di lui alla fine dei tempi, se non è sua l'intera responsabilità del male sulla terra? Secondo alcuni passi del Corano verrà da Dio gettato nella Geenna in compagnia di tutti gli uomini che lo avranno seguito, come recita il verso XXXVII, 85, ma la sua sorta rimane comunque, in tutto il Libro Santo al quanto incerta.
E proprio su questa incertezza si inserisce la speculazione dei maestri persiani Sufi, per i quali, invece, la sua redenzione è pressoché certa.
Iblis, l'ingannatore-ingannato, vittima di un arcano disegno divino, verrà lungamente meditato dai saggi della Ţariq, uno dei quali fu il grande Al-Hallāj, che visse in quel di Persia tra il 858 e il 922 dell'era cristiana.
La sua meditazione e conseguente predicazione fu tanto originale ed eccentrica da costargli il martirio, a Bagdad, il 27 marzo 922. Nei lunghi anni che trascorse in carcere, dove attese pazientemente il supplizio, scrisse il Tā-sīn Alazal, un libro di versi mistici incentrati sulla figura del Maledetto, dove Iblis acquista i tratti dell'archetipo del martire d'amore.
Un salto ermeneutico, il suo, quasi paradossale, dovuto ad una lettura personalissima del rifiuto dell'essere di fuoco di inginocchiarsi di fronte all'uomo, inteso, dal poeta Sufi, come l'adesione fedele, da parte di Iblis al dogma: Non c'è altro Dio che Dio. Per Hallāj, in quanto primo amante di Dio, Iblis era, di fatto, impossibilitato, per sua stessa natura, a quel gesto quasi idolatrico che Dio voleva imporgli, giacché, amandolo di un amore sconfinato, aveva il cuore totalmente riempito dalla Sua immagine, ed un amore così grande ed ardente non poteva e non voleva tollerare rivali.
Ma Iblis, secondo il poeta Sufi, possedeva un amore ancora più grande di quello che manifestò attraverso il suo rifiuto e la sua gelosia. Un amore segnato in modo profondo dalla passività, dall'accettazione senza riserve di un destino che Dio stesso, il suo solo Amore, gli aveva riservato maledicendolo senza alcuna comprensibile ragione. Sorte a lui certamente incomprensibile perché, in quanto 'Azail, era il più vicino al cuore di Dio; era colui che dialogava con l'Altissimo faccia a faccia, senza intermediario alcuno, ed ora ridotto, per una decisione incomprensibile, ad essere per sempre il Maledetto e per sempre separato da Colui che amava sopra ogni cosa. Eppure, anche in questa triste condizione di amante rifiutato, lui continuava, senza riserve, ad amare il suo Dio.
Questa visione apofantica di Iblis fece scuola e venne ripresa da tutta la mistica orientale di matrice Sufi ed in particolare venne messa in versi dai due maggiori poeti-mistici dell'Islam: Farîdoddin 'Attar di Neyshâpûr e Jalâ loddin Rûmî, detto Mawlawi: nostro maestro.
'Attar nacque nella Persia nord-orientale nel 513 dell'egira (1120 d. C.) e fu, io credo, il più significativo rappresentante della poesia mistica islamica in lingua persiana. Il suo pensiero si dispiega in opere il cui numero e le cui dimensioni difficilmente trovano paralleli nella letteratura universale. Tra queste ci interessa in particolare il Elâhî-Nâmeh, o "Libro Divino", un testo nel quale ritroviamo la figura di Iblis nelle vesti dell'amante respinto da Dio senza motivo apparente. All'interno della lunga lirica che compone il testo, assistiamo ad un dialogo tra Mosé, il Kalim, ovvero " colui il quale interloquisce con Dio" e Iblis, il Maledetto, immerso nel male per un misterioso disegno divino e costretto dal sommo amato all'esilio dal bene. Anche per 'Attar, Iblis riceve la sua sofferenza come un dono, in quanto favore concessogli dall'Amato e, "accettando di spargere il proprio sangue", compie un atto d'amore perché, dice nel dialogo lo stesso Iblis, la sofferenza è l'essenza stessa dell'Amore: " Che ne sai tu della condizione dell'Amante? Per lui il luogo di prosternazione è la forca. È necessario che tu compia un'abluzione nel tuo stesso sangue perché questo luogo di prosternazione sia portato davanti a te". ( canto VI, versi 2122-2123)
Chi parla qui è ovviamente Iblis rivolto a Mosè.
Il loro dialogo avviene in una notte, quando lo stesso Mosè, camminando sul Sinai, incontra Iblis e vedendolo si rivolge a lui con questa domanda: "Ehi, Confidente, perché non ti sei prosternato dinnanzi ad Adamo?. Il "Maledetto" rispose: "Oh tu che accedi alla divina Maestà, la Sua Potenza mi ha respinto senza motivo. Se avessi avuto adito alla via della prosternazione, sarei adesso come te, o Kalim. Ma Dio, che Egli sia esaltato, volle che la mia parola fosse storta: mi è toccato soltanto questo, niente che fosse dritto". ( canto VIII, vv. 2705-2710).
L'origine del male è dunque un mistero così come rimane un mistero di chi sia la responsabilità, se di Dio o di Iblis, del suo apparire nel mondo, così come rimane un mistero quale sia il ruolo della predestinazione divina e quale quello della responsabilità umana.
Il "dritto" è qui inteso come sinonimo del bene, mentre lo "storto", il "tortuoso" lo è del male e Iblis è condannato ad esserlo per eccesso di gelosia e di orgoglio. Eppure, pur in questa triste condizione, alla successiva domanda di Mosè: "Oh tu che sei caduto nei lacci, ti ricordi mai di Dio?" Iblis risponde come solo un innamorato sa rispondere: "Come potrei dimenticare un solo attimo il Suo amore?, più cresce la Sua collera, più nella mia anima cresce l'amore per Lui".
A questo punto lo stesso poeta commenta: " Non domandò un solo istante se ciò che gli veniva dato fosse buono o cattivo: disse a sé stesso soltanto che veniva dalla Divina Soglia. Poiché la dannazione era il favore che Dio gli riservava, la accolse con tutto il suo cuore. E ciò fu tutto." ( canto VIII, vv. 2639-2641).
Con il potere del suo amore, mai sopito, Iblis, accettando incondizionatamente la sua dannazione, in realtà la trasforma cambiandone la prospettiva e traendone un insegnamento essoterico: "Qualcuno chiese a Satana: Essere Maledetto, perché quando hai appreso la tua dannazione, l'hai accolta con tutta l'anima, nascondendola come un tesoro nel profondo del tuo cuore?" Egli rispose: "La mia dannazione era simile alla freccia scagliata dal Re che mira il bersaglio prima di tirare. Perché, prima di lasciar andare la freccia, bisogna sempre mirare il bersaglio. In quel momento tu vedi soltanto la freccia. Ma, se hai occhi, vedi piuttosto lo sguardo che si posa su di te." ( canto VIII, 10, vv. 2661-2265).
In questo passo torna una legge fondamentale della via dell'Amore alla conoscenza: non importa tanto "vedere", quanto "essere visti" dall'amato.
Se Dio è l'arciere che scocca la freccia secondo una traiettoria a volte dritta, a volte tortuosa, allora è anche colui il quale, mirando il suo bersaglio, lo rende presente: lo vede, e nel far ciò ne fa memoria, cioè lo rende presente in sé. Tra l'arciere e il suo bersaglio si stabilisce una relazione, e la freccia, per quanto sia tortuosa la sua traiettoria, è il loro legame; legame che li unirà fino alla fine dei tempi e, fuor di metafora, che unirà sempre e per sempre il bene al male.
Iblis è l'amante tragico, portatore di un destino incomprensibile, ed in quanto tale è simile all'uomo: entrambi sono nel tumulto, nella confusione. Inclini al male vorrebbero, di contro, fare il bene, ma ne sono impediti da un destino di cui non sono del tutto responsabili, perché affidato loro da Dio stesso, il cui disegno rimane per entrambi sconosciuto e misterioso.
La loro comune sofferenza consiste nell'essere separati dall'Amato; il loro maggior desiderio è quello di ritrovare l'unione con Lui, e se per Iblis quest'unione è ormai rifiutata, almeno fine alla fine dei tempi, per l'uomo esiste ancora una via attraverso la quale ritrovarla guardando nel proprio cuore che è lo stesso cuore di Iblis, dell'eterno innamorato.
Solo il cuore, dicono i Sufi, può portare l'uomo a questa unione, quando, nell'estrema sofferenza dell'esilio, lancia un grido tanto forte da squarciare il velo che lo separa dall'Amato: "Io non conosco niente di più strano: il mio cuore sanguina, non so dire nient'altro."

La meditazione sulla via del cuore e sulla complessa figura di Iblis verrà ripresa dal grande Jalâloddîn Rûmî, il quale nacque in Asia centrale, a Balkh, il 6 Rabî I 604 (30 settembre 1207) e morì a Qonia, in Anatolia, il 5 Jomâdâ II 672 (17 dicembre 1273). È impossibile riassumere in poche righe la sua produzione, in particolare il Mathnawî-e Mawlawî, considerato da tutti i Sufi come il Corano persiano (Qorân-e Fârsî). Il suo prologo ne dà la nota fondamentale: il lamento della canna divenuta un flauto, strappata dalla sua terra natale, aspira a tornare al suo luogo d'origine. Poi una maestosa lirica, più di ventiseimila distici, concatena una lunga serie di narrazioni simboliche che sono la traduzione in versi dell'epopea dell'anima. Tra questi, nel Daftar II, versi 2640-2792, si svolge un sorprendente dialogo tra Iblis ed il califfo Mo'âwiye, il famoso fondatore della dinastia degli Ommayyadi.
In questi versi, il Mawlawî disegna la figura di Iblis attraverso una serie di contrari. Egli non solo è l'innamorato maledetto da Dio, ma è contemporaneamente l'inquisitore, il brigante, il veritiero, il rivelatore della vera natura degli uomini, il maestro, il rivelatore di insegnamenti essoterici. Tutti questi aspetti si presentano in Iblis in modo indissociabile e, qualora ci si lasci convincere che lui è solamente uno di questi aspetti, allora il suo inganno avrebbe avuto il suo effetto. Iblis è, in verità, un ossimoro, anzi è l'ossimoro che è sotteso alla realtà del mondo, e dunque va inteso nella sua essenza "tutto e simultaneamente": bene-male, verità-inganno, luce-tenebra, veglia-sonno sono i contrari che rivelano la via dell'amore, e a dichiararlo è lo stesso Iblis: "La collera e la bontà si sono accoppiate: da esse è nato un mondo di bene e di male […] Anche se questi, il bene e il male, sono contrapposti, lavorano insieme […] Dio ha fatto di me il delatore veritiero perché io dica dov'è il male e dov'è il bene. Sono un testimone: il testimone merita forse la prigione?".
Ma veniamo alla storia narrata da Rûmî in questi versi che, si badi bene, è una storia "sapienziale", dove il Mawlawî ci svela la verità che si raggiunge percorrendo la via del cuore.

Un uomo dormiva nella camera del suo palazzo. La stanza era chiuso dall'interno e nessuno poteva entrarvi. L'aveva chiusa lui stesso perché era stanco e non voleva più ricevere visite. Quest'uomo era un Califfo, il grande Mo 'awiye.
All'improvviso, viene svegliato dal suo sonno dalla presenza di uno sconosciuto accanto al suo letto, il quale, vistosi scoperto, subito si rifugia dietro gli ampi tendaggi. "Chi mai potrà essere quest'uomo che viene a disturbare il mio sonno" si domanda il Califfo, " Chi mai è così abile da poter penetrare impunemente nella stanza chiusa di un palazzo sorvegliato dalle guardie?" L'intruso, facendo passare la testa attraverso la cortina, mostra il suo volto e dichiara di essere un povero accattone venuto a mendicare. Il Califfo, ovviamente, non gli crede: come potrebbe un mendicante eludere le guardie per intrufolarsi in una stanza chiusa? Per tanto gli riformula la domanda: Chi sei tu, che disturbi il mio sonno? A questo punto l'uomo rivela la sua vera identità. L'accattone, in verità, è Iblis. Il Califfo è irritato e allo stesso tempo stupito da quella presenza; egli sa che il Maledetto non fa nulla senza una precisa ragione: è un ingannatore, e come tale non può che tramare inganni. Allora Mo 'awiye inizia con Iblis una lunga disputa nel tentativo di capire perché il Demonio lo abbia svegliato: "Perché, tu, mi hai svegliato?" diverrà il ritornello dell'intero dialogo e la chiave per svelarne il senso.
Iblis, a questa domanda postagli direttamente, risponde dissimulando: " Ma come -dice- non sai che è l'ora della preghiera? Si deve correre alla moschea!". Risposta sincera o inganno? Il Califfo non ha dubbi: il demonio non può fare una buona azione, ci deve essere un altro motivo, dunque ribatte: " Come potrei prestar fede a questo ladro?". Iblis si mostra risentito dalle sprezzanti parole del Califfo e inizia una sorta di monologo tragico in cui ricorda la sua condizione di Angelo decaduto, il suo tragico destino che lo ha separato da Dio e aggiunge: "Se la separazione esiste è perché l'anima conosca il valore dei giorni dell'unione". Sono le parole dell'amante che esprimono tutta la sua condizione di innamorato respinto che non sa capacitarsi del suo triste destino: "Ancora per qualche giorno dopo avermi allontanato dal Suo cospetto, i miei occhi hanno continuato a rimanere fissi sul Suo bel viso. Che da un viso simile promani una tal collera…O cosa strana!".
Perché questa colera, si domanda Iblis, perché questa separazione? È una domanda alla quale lui non sa dare risposta. Certo, ha rifiutato di prostrasi di fronte a quell'essere di fango, come il suo Dio gli aveva comandato, e certo lo ha fatto per gelosia ma, si chiede il Demonio, la gelosia non è forse la condizione stessa dell'amore? . "In verità non ho avuto scelta" continua Iblis "ho giocato una partita e l'ho persa. Mi ha detto : Gioca!...non so altro. Ho giocato questa partita e l'ho persa. Mi sono gettato da solo nell'infelicità. Ma anche in essa io godo delle Sue delizie".
Il Califfo, ascoltando queste parole, si rende conto che la condizione del Maledetto è la stessa condizione umana e non può che concordare: " Dici il vero! Ma il tuo è un caso a parte.. tu sei l'ingannatore, il maestro di tutti i ladri: sei tu che hai ingannato Adamo, che hai ingannato interi popoli; sei tu "l'oceano dell'astuzia" che sommerge l'umanità a te non posso credere…Allora dimmi, perché mi hai svegliato?".
A queste accuse "l'Antagonista" risponde alzando la posta del gioco dialettico, rivelando al Califfo un suo aspetto sorprendente, definendosi come colui il quale agisce nel mondo con lo scopo di mettere alla prova ogni creatura al fine di rivelarne la vera natura nascosta sotto il velo dell'apparenza, e, per dimostrare quanto dice, gli narra una favola a mo' d'esempio: "Immaginiamo che un lupo ed una gazzella si siano accoppiati dando alla luce un figlio: la sua natura sarà dubbia. Il piccolo è lupo o gazzella? Io non faccio altro che gettare degli ossi sull'erba. Se il cucciolo si lancerà sulle ossa rivelerà la sua natura di lupo; se si pascerà dell'erba del prato sarà gazzella".
Il mondo in cui viviamo è un mondo mischiato, è bene e male. Lui, in fin dei conti, non fa altro che lavorare per portare a compimento il disegno divino, rivelando la verità delle cose. E allora, chiede Iblis, dov'è il bene? Dov'è il male?
Il Califfo, a queste incalzanti risposte di Iblis, rimane turbato: sa che ha ragione, che è vero quello che dice, tuttavia sa anche che dargli credito significherebbe cadere nella trappola del suo inganno dato che è impossibile che il Maledetto sia un benefattore dell'umanità perché "il lui sono nascoste centomila magie" e dunque è necessario continuare la lotta. E allora, al limite delle sue risorse, si rivolge direttamente a Dio: "Questo discorso è come fumo: Dio aiutami…" e intima per l'ennesima volta a Iblis di svelargli il vero motivo che lo a indotto a svegliarlo. La risposta di Iblis si fa, a questo punto, impertinente: " È pura follia parlare con un idiota!". Iblis accusa il Califfo di essere in mala fede, di avere l'anima piena di cattive intenzioni nei suoi confronti, quindi di non dovergli alcuna spiegazione e insiste nel dichiararsi " non colpevole": "Che cosa hai da lagnarti di me presso Dio, eh, uomo santo? Lamentati piuttosto del male che ti procura questa tua anima vile e carnale!...Iblis non ti ha fatto nulla e tu lo maledici. L'inganno deriva da te stesso, non te ne accorgi?". Ma all'improvviso, come un cambio di scena, l'irritazione e furia dell'Antagonista si mutano in una profonda tristezza: "Non mi caricare dell'errore, non sbirciare dalla mia parte: sono disgustato dal male, dall'avidità, dallo spirito di vendetta. Ho fatto il male, e ancora me ne pento. Attendo che la mia notte vada incontro al suo giorno".
Ma il Califfo rimane fermo nella sua convinzione: Iblis, in un qualche modo lo sta ingannando e ribatte con la consueta domanda: " Dimmi perché mi hai svegliato, dimmi la verità".
La risposta di Iblis alla domanda divenuta ormai un tormento, è secca e tagliente: "Come puoi tu, distinguere la verità dalla menzogna, tu, essere chimerico pieno di chimere?".
Il Califfo, ormai lo sappiamo, è un "lottatore" che non si perde d'animo e a questo punto attacca con una risposta chiara e limpida: "Il Profeta ha dato un segno, ha assicurato una pietra di paragone per distinguere il vero dal falso. Ha detto che la menzogna è turbamento nei cuori, la verità è gioiosa tranquillità."
Le parti si sono invertite, è il Califfo ora il maestro che annuncia una verità inconfutabile: lo strumento atto a distinguere il bene dal male è il cuore e solamente il cuore. Trasformare il proprio cuore, questa è la via verso la verità, passando da uno stato di "malattia e di cecità" ad uno di "salute e chiaroveggenza". Ecco enunciato uno dei principi fondamentali del Sufismo, il segreto che sta al fondo della via dell'Amore. Il Profeta ha detto che la menzogna è turbamento nei cuori, e questo turbamento non è altro che il desiderio, perché l'ebbrezza causata dal desiderio rende gli uomini ciechi. Al contrario, "colui che rompe l'abitudine della passione rende il segreto famigliare ai suoi occhi". Ma questa liberazione dalle passioni non è un fine in sé, ma un mezzo.
Così, da buon maestro, Mo' âviye racconta una storia sapienziale:
"Un giorno, davanti a due malfattori fu fatto sedere un giovane giudice. Questi, sentito il racconto delle loro malefatte, si mise a piangere. "Perché piangi" chiese il cancelliere. Rispose il giudice: "Come posso io emettere un giudizio? Io sono un povero giudice che nulla sa della situazione dei due malfattori. Essi sanno, io invece sono solo un'ignorante". A queste parole il canceliere rispose: "È vero, essi sanno, ma sono malati, accecati dal loro intento; tu sei ignorante ma sano, non hai cupidigia, e dunque vedi".
È chiara la metafora sottesa ala storia: il Califfo è questo giudice, il cui cuore è illuminato perché conosce il vero e sa distinguere la verità dalla menzogna.
Il racconto prosegue sulla scorta della domanda che continuamente si ripete: " Ma perché mi hai svegliato, tu che sei il nemico del risveglio, eh, ingannatore!".
È a questo punto che Iblis, messo alle corde dall'incalzante dialogo del Califfo, è costretto a confessare la sua verità: ha destato dal sonno Mo' âwiye perché potesse giungere in tempo per la preghiere comunitaria, questo è vero, ma lo ha fatto perché, se fosse mancato, ne avrebbe avuto un dolore così grande che "questa delusione e questo dolore gli sarebbero valsi cento preghiere!". Questa è la verità del suo gesto. Voleva impedire che il dolore provocato al Califfo dalla sua esclusione dalla preghiera si mutasse in irresistibile tensione verso Dio.
Iblis, quasi ché tutto il dialogo non fosse altro che il confronto tra due Mawlawî, per rendere più evidente la sua verità, racconta anch'esso una storia:
"Un Giorno, un uomo che non si era destato in tempo, arrivò troppo tardi alla preghiera, quando già tutti stavano uscendo dalla moschea. Allora chiese a quanti stavano uscendo:
"Cosa mai è accaduto a questa assemblea per farla uscire così rapidamente dalla moschea?". Uno degli uomini gli rispose: "Il Profeta ha recitato la preghiera assieme all'assemblea e si è liberato dal segreto. Dove corri, eh, novizio, mentre il Profeta ci ha detto arrivederci?". L'uomo che aveva ritardato emise allora un sospiro, e da quel sospiro sfuggì un vapore. Questo sospiro fece sentire l'odore del sangue, il gran dolore che saliva dal suo cuore.
Allora, l'uomo dell'assemblea gli disse: "Dammi questo tuo sospiro ed io darò a te la mia preghiera." Egli disse: "Ti do il sospiro, accetto la tua preghiera. L'altro afferrò questo sospiro con mille desideri".
La notte, mentre dormiva, una voce gli disse: "Hai comprato l'acqua della vita e della guarigione. In onore di questa scelta e di questo acquisto, la preghiera di tutte quante le creature è stata accettata da Dio."
" Ecco" proseguì Iblis "quel che volevo evitare. Se tu avessi perso la preghiera, ne avresti avuto una pena così grande, che questo rimpianto, questo gemito sarebbe valso più di cento litanie e preghiere. Ti ho svegliato, o grande Califfo, per paura che tale sospiro bruciasse il velo (quello che separa Dio dall'uomo)".
Solo ora, l'Ingannatore, dopo l'estenuante lotta con "colui che si era risvegliato" dice il vero svelando al contempo il segreto dell'Amore: è questo sospiro, questa preghiera del cuore, quest'infinito desiderio dell'Amante nei confronti dell'Amato il vero segreto. Il potere di tale sospiro avrebbe potuto riunire, seppur per un solo istante, l'uomo a Dio. Ma Iblis è il Geloso, colui il quale è stato dannato proprio a causa della sua gelosia e non avrebbe potuto tollerare tale unione, ragion per cui volle, vuole e sempre vorrà impedire all'uomo di percorrere le vie che possano condurlo a Dio.
È vero, Iblis è l'ingannatore, il geloso al massimo grado, ma al contempo è l'amante ferito, portatore di un tragico destino incomprensibile, colui che soffre per amore così come è colui che rivela agli esseri la propria essenza, buona o cattiva che sia. Inoltre, per la sua primordiale intimità con Dio, in quanto 'Azael, è anche il grande iniziato, il conoscitore dei segreti più essoterici e dunque anche un possibile maestro per gli uomini.

Proviamo, ora, a ripercorrere le tappe di questo straordinario dialogo sapienziale.
All'inizio, Mo' âwiye è l'uomo addormentato. Chi lo desta? Iblis, colui che inganna.
Al suo risveglio, al Califfo si aprono due possibilità: o si lascia sedurre dalle parole del demonio, oppure lotta con lui, tentando di vedere oltre l'apparenza, cercando strenuamente la verità che solo si può comprendere dalla retta risposta alla domanda ricorrente: "Perché tu mi hai svegliato?".
La verità, il Califfo, alla fine la troverà, ma ha quale condizione?
La prima è che per accedere alla via del cuore è necessario risvegliarsi, ma ciò non basta: bisogna lottare contro il bene apparente, qui incarnato dallo stesso Iblis.
Poiché è un uomo di "qualità" Mo' awiye sceglie la lotta e resiste all'inganno e alla seduzione trovando al fine il segreto ma, e questo è il paradosso, lo risolve proprio grazie a colui il quale lo voleva ingannare. Iblis, infatti, durante il loro lungo alterco, dona al Califfo la perla di un sapere iniziatico, inducendolo dapprima a constatare che per conoscere la verità, il giudizio discorsivo è fallimentare e poi lo porta ad abbandonarsi a Dio, ad invocarlo come unico aiuto nel momento dello sconforto. L'invocazione è come un grido di speranza, e nel momento in cui questo grido fuori esce dal suo cuore, il Califfo "fa esperienza" di ciò che ridona all'uomo la sua condizione di "salute", di "veggenza" riunendolo a Dio.
A questo punto del racconto, il tono dell'intero dialogo cambia di piano. Da un generico alterco tra i due, si trasforma nello scambio di battute tra due maestri, i quali si raccontano l'un l'altro due storie che in fondo si equivalgono: quella del giudice nella quale il Califfo svela la capacità di discernimento del cuore, e quella del sospiro dell'uomo che si era attardato, dove Iblis-'Azazil svela che quel è null'altro che sospiro che il compimento di quella capacità del cuore di comprendere il bene ed il male. In verità, dietro al sospiro dell'uomo che si era attardato alla preghiera, si cela lo stesso sospiro di Iblis, che per un attimo, il tempo appunto di un sospiro, torna ad essere 'Azazil, colui che un tempo conversava direttamente con Dio e che lo amava sopra ogni cosa. Per tutto il dialogo, il grande Califfo, ha camminato, senza saperlo, condotto per mano dal suo antagonista verso questo sospiro, ed una volta raggiuntolo capisce che entrambi, lui nella sua debolezza e Iblis nella sua stanchezza, vivono lo stesso destino la cui trasformazione può avvenire solamente in quel crogiuolo che muta il fango in oro: il cuore. Il mistero dell'amore si è compiuto perché da ognuno dei due si è levato il sospiro dell'Amore : il velo si è squarciato, l'unione si è compiuta (non per Iblis, il quale dovrà attendere la fine dei tempi perché la maledizione di Dio è più forte del suo sospiro).
Svegliare Mo' awiye per meglio addormentarlo, questo era l'originale disegno dell'Ingannatore, il geloso. Ma il Califfo ha saputo lottare con lui strenuamente, ed ha lottato con l'unica cosa certa che aveva: la sua stessa debolezza che lo ha guidato verso il proprio cuore, aprendogli così la via dell'amore che conduce a Dio.
Iblis, piegato dalla debolezza del Califfo, ritrova la sua stessa debolezza, quella "stanchezza per il male commesso" che gli apre nuovamente il cuore e lo trasforma, per un attimo, in ciò che era: 'Azazil, l'amante di Dio.
Alla fine Iblis si fa incontro a Mo' âwiye, non più come suo ingannatore ma come suo nuovo maestro per donargli l'insegnamento del sospiro del cuore, che è il sospiro del suo desiderio tragico che tormenta il suo cuore di innamorato dall'inizio dei tempi e che forse, un giorno, alla fine dei tempi, cesserà di tormentarlo, ritrovando in una ri-unione con l'Amato il suo nuovo, eterno e splendido giorno.











































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