Il cinema contemporaneo: dal metaracconto al prodotto plurilivello

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Davide Villa Mat. 833773 Storia e critica del cinema

Il cinema contemporaneo: dal metaracconto al prodotto plurilivello La cinematografia attuale, in quella che viene definita “l’era postmoderna”, dimostra delle peculiarità caratteriali che la contraddistinguono in modo assolutamente netto e marcato rispetto ad altri prodotti legati all’intrattenimento, dato che, come vedremo, il cinema e il film in generale rappresentano oggigiorno un elemento plurilivello, che esula dalla sfera strettamente ludica e di svago di altre realtà come il teatro, i libri o i musical. Questa pluriscalarità di elementi è riscontrabile nella cinematografia attuale sia a livello intrinseco, nelle narrazioni stesse dei film, specialmente di ambito fantascientifico e fantastico (diffusione del metaracconto), sia a livello economicoaziendale (il cinema come industria). In questo breve lavoro si analizzeranno tre temi legati alla nuova dimensione della cinematografia attuale, che Federico Zecca definisce come “cinema reloaded” o “cinema della convergenza”: innanzitutto ci si occuperà della presenza sempre maggiore di quelli che vengono chiamati racconti incassati o metaracconti, parlando quindi della dimensione epistemologica ed ontologica dei film; in secondo luogo passeremo ad evidenziare come, dagli anni ottanta, la nascita del concetto di Blockbuster abbia mutato radicalmente la prospettiva del fare cinema, e per tale punto faremo riferimento alla creazione e diffusione, evidente ancora oggi, del franchise legato all’universo di “Star Wars”. Infine passeremo a osservare la collaborazione attualmente sempre più stretta fra cinema e altre dimensioni ludiche, come romanzi e soprattutto videogiochi, con riferimento alla pellicola di John Moore “Max Payne”, con Mark Wahlberg nella parte del protagonista. Prima di iniziare, una breve nota sulle fonti utilizzate: per la trattazione del metaracconto si farà riferimento a varie pellicole che citeremo volta per volta e ai saggi/appunti presenti in programma. Tra gli innumerevoli contributi sulla rinnovata dimensione cinematografica del nuovo millennio, sia italiani che stranieri, di particolare interesse si sono dimostrati i saggi presenti nel libro di Federico Zecca, “Il cinema della convergenza”, che tracciano un profilo accurato dell’industria audiovisiva dei nostri giorni, con particolare riferimento a strategie aziendali e soprattutto alla diffusione del Blockbuster come punta di diamante delle case produttrici statunitensi. Altri contributi riguardanti il franchise di Star Wars in lingua inglese provengono dalla notevole enciclopedia “Star Wars – Year by year” edita e pubblicata dalla stessa Lucasfilm per il solo mercato americano.

Roy Menarini, nel suo recente “Cinema e fantascienza” analizza attraverso saggi di vari autori la dimensione epistemologica del film di science fiction attuale, indagandone i suoi limiti sfumati rispetto ad altri generi, la sua storia evolutiva e gli archetipi ricorrenti dal dopoguerra ad oggi. Fatta questa doverosa premessa apprestiamoci quindi ad analizzare i temi che ci proponiamo di affrontare, iniziando con le metanarrazioni. Senza cadere nella banalità di ripetere concetti noti e presenti nei saggi in programma, premettiamo che i sinonimi metaracconto/racconto incassato implicano la presenza di una “storia dentro una storia” (o a più di esse), con i vari livelli relazionati tra loro e dove la realtà primaria della pellicola dalla quale partono gli altri metaracconti non coincide con la tangibilità dello spettatore esterno. Inoltre i diversi livelli diegetici sono rapportati a quello primario solo in base alla logica, e non ad una data ed assoluta condizione di base, come vedremo fra breve. Occupiamoci ora dei casi pratici, e osserviamo con quanta frequenza il ricorso alla pratica del metaracconto rientri nella casistica delle pellicole attuali, molte delle quali thriller o fantascientifiche. Partiamo con un esempio notissimo e descritto nei minimi particolari: “The Truman Show”. La pellicola di Peter Weir ottenne un successo magistrale, riconosciuto ancora oggi, per la sincerità con la quale affronta i temi libertà/arbitrio umano e realtà/illusione. Tralasciando i molteplici aspetti del film che non ci riguardano concepiamo il concetto di racconto incassato presente nell’opera: possiamo definire la vita di Truman un effettivo sottosistema del livello primario, il mondo dei telespettatori del suo show, dove però tale sottolivello non è introdotto o caratterizzato dalla presenza di un narratore extradiegetico (non si tratta di un racconto o di un sogno) ma da una vera e propria esistenza umana all’interno di un ecosistema-mondo più vasto. Se, infatti, per altre pellicole l’introduzione di un racconto di secondo livello può portare con sé il concetto di “tanto tempo fa” oppure di “in un'altra realtà”, lo show di Truman è caratterizzato dal “mentre”. In questo caso, la totale inconsapevolezza (unilaterale però) dell’esistenza di “una vita dentro una vita” da parte del protagonista rende l’utilizzo del metaracconto una vera e propria peculiarità in tal senso; fino alla scoperta dell’illusorietà della propria esistenza da parte di Truman quest’ultimo considera come reale ed effettivo ciò che vive, a riprova dell’assoluta relatività dell’esistenza umana (riprendendo Philip K. Dick). Passiamo a un’altra pellicola, ossia “Atto di Forza” di Paul Verhoeven. Qui, il tema dominante consiste nell’identificazione della realtà stessa, dato che il protagonista, in un futuro non troppo lontano, sembra essere stato manipolato e scopre invece di essere un agente segreto inviato precedentemente su Marte. Tuttavia l’andamento del film lascia trapelare la non assoluta certezza dei ricordi dell’eroe, soprattutto alla conclusione: egli è effettivamente un agente segreto al quale è stato fatto il lavaggio del cervello, oppure (come si vede all’inizio della pellicola quando si reca in un’agenzia di ricordi virtuali) non è altro che un comune

cittadino al quale sono stati impiantate artificialmente delle reminiscenze di laboratorio? Siamo quindi di fronte ad una doppia soluzione: il ricorso al concetto di metaracconto subentrerebbe solo nel secondo caso, ma a questo non vi è risposta definitiva, dato che al termine degli eventi solo lo spettatore può decidere se i fatti narrati siano effettivamente accaduti nella realtà diegetica primaria della pellicola oppure no. Prima di passare all’analisi dell’ultimo caso cinematografico che ho considerato inerente al tema vorrei descrivere brevemente una particolarità: nel passaggio da un livello diegetico ad un altro i limiti tra gli stessi sono considerati come mobili ma sacri, e il transito da uno all’altro dovrebbe essere permesso solo con strumenti “tradizionali” (introduzione di un racconto da parte di un personaggio, un sogno ecc.). Tuttavia vi sono eccezioni alla regola: è possibile stravolgere completamente questo passaggio utilizzando modalità particolari (come nel caso della metalessi); un esempio concreto è osservabile nel film “Una notte al museo 2”, dove i vari personaggi della galleria in questione prendono vita, e in una scena possiamo osservare come il protagonista “entri” in un quadro e poi in una fotografia, che non sono semplici rappresentazioni ma veri e propri universi a sé stanti. Concludiamo con un film a mio parere interessantissimo per le soluzioni narrative adottate: “Identità” (2003) di James Mangold e con Jonh Cusack nella parte del protagonista. La trama narra di dieci sconosciuti bloccati in un motel isolato a causa di una tempesta, che cominciano a venire uccisi uno dopo l’altro da un serial killer ignoto; intanto viene avviato un metaracconto riguardante Malcom Rivers, un altro serial killer in procinto di venire condannato a morte, che però si trova in un luogo (o realtà) apparentemente lontano da quello in cui si svolgono le vicende principali dei dieci forestieri. Al termine del film invece si capisce di come le vicende delle dieci persone in realtà non siano mai accadute, essendo la rielaborazione mentale di altrettanti vittime di Rivers; quest’ultimo infatti, sulla strada che sembra condurlo alla sedia elettrica, ha immaginato in sogno i fatti narrati fino a quel momento. Ecco quindi che il mistero è svelato: ciò che sembrava un metaracconto ben identificabile (le vicende di Rivers inserite parallelamente al racconto dei dieci sconosciuti) si dimostra invece il riflesso di se medesimo, inserito in una sorta di stordente gioco di specchi, dove il racconto di primo livello è in realtà esso stesso una narrazione incassata. In definitiva, citando brevemente i casi di “The Truman Show”, “Atto di Forza” e di “Identità” (ma vi sono innumerevoli altri esempi) si è delineato come il ricorso a questa pratica narrativa ottenga presso i registi, gli sceneggiatori e i produttori contemporanei un ampio consenso e utilizzo. Cambiamo campo di indagine e occupiamoci adesso dell’industria cinematografica attuale e del caso “Star Wars”, un marchio eccezionale sia per longevità di prodotto sia per le dinamiche cinematografiche e sociali che è stato in grado di sviluppare.

Prima di scendere nel dettaglio dobbiamo analizzare la nuova dimensione plurilivello del cinema attuale; Zecca nell’introduzione alla sua opera tratteggia espressamente alcune caratteristiche moderne delle maggiori industrie americane. Vediamone alcune; innanzitutto le maggiori case produttrici statunitensi hanno contribuito al processo di “convergenza”, come la chiama l’autore, mirando alla cosiddetta integrazione orizzontale, mediante la quale gli Studios acquisiscono o creano media conglomerates e sussidiarie mediali (case editrici, canali televisivi, aziende di giocattoli ecc.) con le quali creano un prodotto vasto in cerca di un’ampia clientela, prodotto che vede nel film il suo cardine. Lo strumento economico con il quale si realizza concretamente questo processo è il franchise. Nel franchise, vi è il franchisor ossia il detentore del marchio, dei beni e produttore del film che concede una licenza a terzi, chiamati franchaisee, i quali acquisiscono il diritto di vendere la merce del franchisor e di godere della sua reputazione per favorire le vendite. In cambio, il franchisor riceve una quota di partecipazione del franchisee, la possibilità di farsi pubblicità a basso costo e, a volte, una quota sulle vendite. L’utilizzo sempre più estensivo della pratica del franchise a Hollywood a partire dagli anni ottanta si deve alla necessità per le case produttrici di creare canali ausiliari e di supporto alla diffusione filmica dei loro prodotti, con lo scopo primario di fidelizzare il cliente e soprattutto ottenere flussi sussidiari di introiti che contribuiscano, insieme agli incassi al botteghino, a sostenere i costi sempre maggiori nella produzione dei film, altrimenti insostenibili. Come scrive l’autore Marco Cucco lo sviluppo di integrazione orizzontale tra gli anni ’70 e ’80 è infatti “un processo rivoluzionario, che colloca il nodo strategico per il successo dei film non più nell’integrazione delle attività all’interno (within), bensì attraverso (across) più industrie diverse attive nell’ambito del cinema” [M. Cucco, “Il film blockbuster”, Carocci editore. Roma 2010]. Un’attenzione particolare in riferimento alla diffusione del franchise e del merchandising, specialmente per il caso di Star Wars, consiste nella pratica di fidelizzazione del cliente e nella creazione di “metauniversi” inseriti nella linea originale del film ma con esso coerenti. Abbiamo visto come la reiterazione multimediale comprende oggi pratiche eterogenee, che spaziano dall’adattamento della pellicola in romanzi, fumetti, videogiochi, al merchandising (ossia tutto l’universo di gadgets e oggettistica legata al prodotto). Esse sono fra loro molto diverse nella sostanza, ma mirano a un medesimo scopo: creare “attorno” al consumatore un vero e proprio metauniverso nel quale il fruitore finale ha una parte attiva, sia preferendo un dato canale rispetto a un altro, sia divenendo egli stesso un creatore, con la capacità di comunicare con l’azienda madre proponendo nuovi prodotti o adattamenti del film originale. Queste pratiche si fondano da un lato sul comune riferimento a un movie franchise condiviso, e dall’altro sull’adattamento del franchise stesso in forme diverse dalla semplice dimensione audiovisiva.

Ogni singolo prodotto, specialmente se parliamo di romanzi, pellicole spin-off o videogiochi, mantiene un’indipendenza notevole rispetto alla matrice filmica di partenza, ma deve essere con essa coerente, per evitare blackout e corti circuito tra il metauniverso (il manufatto del franchise) e l’universo madre che lo contiene (il film originale). Scendiamo adesso più nel dettaglio e parliamo del merchandise di “Star Wars”: come serie cinematografica non ha certo bisogno di introduzioni o premesse, dato il suo enorme successo mondiale; la saga nasce, come idea nella mente del suo creatore George Lucas, già nel lontano 1971, quando la fantascienza sia cinematografica che di genere era in un momento di profonda crisi rispetto alle masse, sulle quali aveva perso la forte presa culturale degli anni ’50 e ’60. Lo stesso Lucas nella produzione del primo “Star Wars” (uscito nel 1977), tra un budget ridotto, problemi tecnici e difficoltà realizzative aveva seri dubbi sia sul portare a termine le riprese sia sull’improbabile successo della pellicola ai botteghini; tuttavia, poco prima dell’uscita nelle sale, compie una mossa che si rivelerà vincente: il regista, una volta completato il lavoro, ebbe la possibilità di scegliere fra un aumento del proprio stipendio erogato dagli Studios oppure un altro bonus a sua scelta, e Lucas decise di optare per l’acquisizione dei diritti di marchio e di merchandising sui prodotti del film, diritto questo che i produttori concessero sbrigativamente, inconsapevoli del clamoroso successo della pellicola di lì a poco. Il boom del primo lungometraggio spiazzò completamente i produttori, la critica e lo stesso Lucas, che come accennato non era sicuro dell’esito del proprio film; poco dopo l’uscita nelle sale non era ancora stato deciso un vero e proprio progetto di franchise e di merchandising. La prima azienda alla quale Lucas firmò un contratto di franchising fu la Kenner di Cincinnati, che impostò una iniziale linea di action figure legate al primo film, ma l’iniziale produzione di 200.000 pezzi fu esaurita in soli due giorni, e per tutto il 1977 la domanda di oggettistica della Kenner fu sempre superiore alle disponibilità. Tale evento, che poteva tramutarsi in un fallimento commerciale e di fidelizzazione venne invece sfruttato abilmente dall’azienda, che su suggerimento dello stesso Lucas commercializzò delle confezioni vuote, chiamate “Serie Early Bird”, contenenti un codice e la promessa di ricezione dell’action figure non appena questa si fosse resa disponibile; tutto ciò oltre a non danneggiare le vendite permise una prima, importantissima fidelizzazione del cliente, che oltre al prodotto in sé usufruiva di un trattamento quasi “ad personam” da parte dell’azienda. La Kenner restò la più importante, ma ben presto non l’unica, azienda franchaisee della Lucasfilm, la compagnia personale di Lucas, che nel corso degli anni ’80 e la produzione di ulteriori pellicole immise nel mercato una serie impressionante di prodotti legati alla saga, dagli orologi alle trapunte, dalle confezioni per il pranzo ai vestiti, dai pupazzi ai fumetti. Nel 1983 alla conclusione della prima trilogia, oltre alla Kenner, si contavano aziende sussidiare di Lucas come la Texas Instruments, la Underoos, la Swithceroo e la Kellogg’s.

Determinati prodotti sono diventati nel corso degli anni veri e propri oggetti di culto, molte volte rarissimi: si pensi al piccolo Jawa prodotto dalla Kenner nel 1978 con la cappa in vinile, che fu ben presto sostituito dalla cappa in plastica e che, in buone condizioni e ancora sigillato, oggi vale all’incirca 20.000 dollari! Inutile dire che tutta una serie di compagnie, dopo l’uscita della seconda trilogia e la programmazione della terza, stia producendo merchandising di “Star Wars” ancora oggi, e che le vendite non accennano a calare. Tiriamo dunque le somme: “Star Wars” fu il primo film che dette alla pratica del franchise una rilevanza ancora oggi fondamentale; come scrive Zecca, i prodotti del film trasposti in altri oggetti e contesti non sono semplici mutamenti della storia originale, ma si pongono come elementi organici e coerenti della stessa. Possiamo quindi definire il film blockbuster, punto di partenza di tali diramazioni, non solo come una semplice pellicola, ma come vero e proprio prodotto culturale, capace di influenzare un’epoca e grandi masse umane. Avviciniamoci ora al terzo tema di indagine di questo breve lavoro, e parliamo di “Max Payne”. Nel 2001 esce nel mercato videoludico il gioco “Max Payne” della Rockstar Ent., riscontrando un successo di critica e pubblico immediato e vastissimo. La storia narra di un poliziotto della DEA di New York, Max Payne, che trova la moglie e la figlioletta neonata massacrate da una banda di malviventi che agiscono sotto l’effetto di una nuova potente droga in circolazione, la Valchiria. Max intraprende quindi una dolorosa e difficile strada di vendetta, che lo porterà a combattere i suoi demoni interiori, la Mafia e le stesse forze dell’ordine, che lo ritengono colpevole dell’assassinio del suo partner poliziotto. Oltre all’avvincente storia il successo del videogioco è dato dalle atmosfere delle vicende narrate, calate in un alone noir di una New York violenta, brutale, durante l’imperversare della tempesta di neve del secolo. Durante varie fasi del gioco, Max vive incubi e allucinazioni, nei quali come in un sogno attraversa i corridoi della sua psiche, e che rappresentano una vera e propria metanarrazione inserita nella realtà, la quale però non sembra essere migliore dell’allucinazione stessa, e che fa sorgere dubbi al protagonista su quale sia la vera percezione del mondo reale. Dopo l’enorme successo di “Max Payne” e “Max Payne 2” la 20th Century Fox acquisisce i diritti cinematografici del soggetto, e nel 2008 il regista John Moore dirige l’omonimo film, che riscontra un discreto successo. Inutile dire che le differenze tra il videogioco e il film sono molte, ma in generale Moore riesce a mantenere l’atmosfera noir dell’originale; purtroppo, uno degli elementi maggiormente stravolti nel film consiste proprio nelle scene nelle quali Max affronta le esperienze allucinatorie, che nella pellicola sono riconducibili alla droga Valchiria e non alla psiche del protagonista. In questo senso, se nel videogioco potevamo con pieno diritto parlare di myse en abyme, sul livello di realtà relativa dickiana, nel film le percezioni di Max non riguardano un’altra realtà, un altro “mondo” parallelo del protagonista (ma collegato come nel gioco alla realtà tangibile

attraverso la sua psiche) bensì una percezione alterata della stessa (e unica) realtà nella quale Max/Mark Wahlberg agisce. Un altro punto di interesse, per fortuna rispettato nella sua trasposizione cinematografica, consiste in una sorta di metaracconto inserito nella storia principale: Max infatti nel corso dell’avventura incontrerà Mona Sax, la cui gemella era stata uccisa dalla droga Valchiria, ed è ora anch’ella in cerca di vendetta. In entrambe le versioni quindi i due cooperano, ognuno per ottenere giustizia e placare i propri demoni interiori, e in un certo punto del gioco il videogiocatore impersona addirittura i panni di Mona, e più volte le storie dei due, apparentemente distinte, si dimostreranno indissolubilmente intrecciate. Abbiamo parlato in concreto, con il caso di “Max Payne”, dell’intreccio tra cinematografia e videogiochi; l’esempio di pellicola che ho citato può essere fatto con innumerevoli altre produzioni, da “Matrix” a “Doom”. Facciamo però un passo indietro, e vediamo, a livello teorico, in cosa consiste questo rapporto, oggigiorno strettissimo, tra mondo videoludico e cinema. Centrale è il concetto, molto ricorrente ai nostri giorni, di transmedia storytelling. Esso consiste nel frammentare e diffondere elementi di una stessa base o storia di partenza, “spalmandoli” su più piattaforme di intrattenimento, dando quindi avvio a tutta una serie di diramazioni produttive, o, potremo aggiungere, autoproduttive. Emblematico è il caso di “Matrix”, dove nel quasi omonimo videogame tratto dalla saga (ossia “Enter the Matrix”) il videogiocatore veste i panni di un’eroina del secondo film, e la conclusione del gioco prevede che, per completare con successo la missione finale, il giocatore riesca ad arrivare in tempo all’appuntamento con Morpheus, come appare effettivamente nella pellicola. Ecco quindi che il transmedia storytelling appare come il collante teorico su cui si innestano molte collaborazioni film-videogiochi; questo emerge non come elemento casuale, ma come una vera e propria strategia commerciale degli Studios, che attraverso ricerche di mercato e statistiche hanno dimostrato come la clientela potenziale, soprattutto di fascia d’età giovane, sia maggiormente attratta verso un prodotto multilivello (film + videogioco + romanzo per esempio) invece che dalla semplice pellicola. Certo, la possibilità di impostare la creazione di un film su una più ampia base commerciale di prodotti dipende dai finanziatori, dal tipo di progetto e da numerosissimi altri fattori, soprattutto economici, e quindi non è sempre possibile prevedere con chiare dinamiche se le scelte operate si riveleranno di successo; un esempio in tal senso può essere identificato nella pellicola di Brad Bird, “Mission Impossible: Protocollo fantasma” del 2011, che poco prima dell’uscita nelle sale era stato preceduto dalla pubblicazione su Facebook del relativo social game “Mission Impossible: The Game”. Le statistiche dimostrarono chiaramente come gli utenti si sentissero attratti dal prodotto multimediale solo in relazione alla vicina uscita del film, ma come ben presto le visite e i giocatori online fossero diminuiti vertiginosamente, segno questo di mancata fidelizzazione del consumatore finale.

Capiamo quindi come la connessione plurilivello tra mondo videoludico e cinematografico degli anni zero, sebbene strettissima, non sia da sola garanzia di successo (anzi); il punto focale della questione risiede nell’aspettativa dei fan: abbiamo citato prima il caso cinematografico di “Max Payne” che, nonostante i buoni incassi, ha ricevuto dai sostenitori del videogioco più accaniti numerose critiche per la sua divergenza rispetto alla sua dimensione videoludica. Ad una più attenta analisi capiamo quindi come le aspettative dei fan, specialmente nel caso di saghe ben avviate, rappresentino sia un potenziale di vendite non indifferente sia una trappola nascosta per i produttori, che possono vedere frustrate le aspettative ai botteghini per il semplice fatto di aver creato una pellicola che non riproduce fedelmente le caratteristiche del prodotto di partenza. Si potrebbe essere tentati di riproporre il medesimo discorso per le pellicole create da romanzi o racconti e viceversa, ma stranamente il concetto non regge più: vuoi per la maggior dinamicità dei fruitori dei videogiochi, vuoi per la loro età media più bassa, i giovani giocatori sono quelli che meno transigono sull’errata trasposizione cinematografica dei prodotti videoludici, e in un mondo nel quale la reputazione di un prodotto e il sistema di valori ad esso connesso sono tutto, le voci sulla sua incongruenza con l’articolo di partenza rischiano di rovinare la pellicola in partenza. Tiriamo dunque le somme: abbiamo analizzato la diffusione del metaracconto in varie produzioni attuali, citandone le differenze peculiari; abbiamo poi visto un aspetto maggiormente economico, concentrandoci sulla diffusione della pratica del franchising, descrivendo quello legato a “Star Wars”; infine, abbiamo tracciato un profilo attuale per quanto riguarda l’intreccio fra videogiochi e cinematografia. Possiamo quindi confermare la tesi iniziale: che il cinema attuale più che mai si presenta come un elemento plurilivello, dotato di una multiscalarità notevole sia a stratificazione epistemologica sia a livello aziendale e produttivo. E per il prossimo futuro? Impossibile dirlo con certezza, dato che moltissime volte sono apparsi i “nuovi cinema reloaded”; certamente i produttori cinematografici sono oggigiorno alla continua ricerca di soluzioni sempre nuove e innovative, quasi come se lo spettatore, stanco di osservare le classiche produzioni lineari, sia “passato” a un altro livello diegetico, per usare una metafora, dove la realtà appare molto più relativa e complessa di quella precedente.

Bibliografia - “Il cinema della convergenza – Industria, racconto, pubblico”, a cura di Federico Zecca. Mimesis editore, Milano – Udine 2012 - “Tra cinema e fantascienza”, Roy Menarini. Archetipo libri, Bologna 2012 - “Star Wars Year by year – A visual Chronicle”, autori vari. Lucasfilm Ltd., New York 2012

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