Il Dadaismo, una sfida critica

June 16, 2017 | Autor: Gianni Eugenio Viola | Categoria: Surrealism, Dadaism
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IL DADAISMO : UNA SFIDA CRITICA [Nota introduttiva pubblicata in Album Dada. Storia e miti della rivoluzione dadaista, Roma. Ed. Biblioteca d'Orfeo, 2016, pp. 7-12]

Nato e sviluppatosi negli anni più tragici della Grande guerra il Dadaismo stentò a definirsi ‘movimento’. Ancora nel 1920 Marcel Duchamp poteva affermare di non sapere bene cosa esattamente fosse, e Hans Arp, ricordando gli anni della sua esperienza dadaista, affermò che “senza conoscerci l’un l’altro lavoravamo tendendo un po’ tutti verso lo stesso obiettivo” (1). Nella Zurigo come nella Ginevra del 1916, e più degli anni seguenti, città nelle quali esuli e profughi intellettuali di tutta Europa confluivano, le esperienze artistiche si trovarono a confronto, in un microcosmo nel quale l’esplosione dadaista appare oggi non sorprendente. La scintilla fu provocata dall’apertura il 5 febbraio 1916 di un piccolo locale intitolato Cabaret Voltaire da parte di una coppia di agitatori e provocatori antimilitaristi che già a Berlino, l’anno prima, aveva dato filo da torcere alle Autorità di polizia: Hugo Ball, regista teatrale, e la sua compagna e ispiratrice, la cantante e attrice Emmy Hennings. Il locale era minuscolo: meno di una cinquantina di posti attorno ad un piccolo palcoscenico. Vi confluirono poeti, pittori, rivoluzionari, spie, giornalisti e curiosi d’ogni risma e provenienza, in una babele di lingue che imponeva una generosa semplificazione e un’ardita inventiva. Due rumeni, Tristan Tzara e Marcel Janco furono tra i più attivi collaboratori del cabaret (a Janco si dovettero le maschere di scena che infiammarono di curiosità il pubblico, portate da attori-ballerini improvvisati in movimenti tragico-assurdi), e c’era il poeta Richard Huelsenbeck che Hugo e Emmy avevano conosciuto a Berlino, e l’alsaziano Arp, cui molti altri, tedeschi, francesi, russi, via via si aggiunsero. Dal palcoscenico giungevano fiumi di suoni e parole spesso fuori da ogni logica e senso: tre poemi recitati simultaneamente in diverse lingue, ad esempio (accadde con l’esibizione di Tzara, Janco e Huselbeck in francese, inglese e tedesco) oppure il diluvio di suoni delle liriche onomatofoniche di Hugo Ball, come la celebre Karavane. Indurre il disgusto per le forme d’arte consacrate, negare i canoni estetici e le loro ricadute commerciali, sembrarono il primo collante. Tzara aveva lo stesso genio per la pubblicità che animò Marinetti, e forse lo stesso rifiuto per la speculazione filosofica; li divideva la posizione verso il conflitto, che il primo rifiutava come la barbara conseguenza di uno sfrenato edonismo e che il secondo vedeva invece

come la necessaria catarsi di un mondo e di un’arte giunti a consunzione per il rivolgersi ad un opprimente passato. Tuttavia l’idea di un’arte che rappresentasse una novità assoluta, distruggendo le forme note sorprendendo e deridendo le aspettative del pubblico, li univa: e Marinetti fu invitato a partecipare al primo numero della rivista ‘Cabaret Voltaire’. La carneficina che vide il sacrificio di circa dieci milioni di uomini, e che fece venti milioni di feriti, finì nel 1918; e già nel ’19 Dada era emigrato dalla neutrale Svizzera: tornato in Germania, ad Amburgo, Colonia, Hannover e naturalmente a Berlino; aveva raggiunta la vecchia capitale della arti, Parigi, ma era anche emigrato oltre Oceano a New York, cioè verso la nuova capitale delle arti, dove Stieglitz ne intuì le straordinarie valenze. Gli ambasciatori furono numerosi: Duchamp e il franco-cubano Picabia furono forse i più efficaci. ‘Opere’ non mancavano, e la provocazione faceva discutere. Stieglitz, gallerista di genio, animatore culturale e collezionista egli stesso, sensibilissimo interprete del gusto del pubblico, seppe traghettare l’arte della contestazione dell’arte in un genere; ne indicò gli sbocchi prima che gli artisti stessi li praticassero: in una parola diede all’invenzione dissacratoria di Man Ray o di Duchamp una voce che varcava i confini di una unione artistica che sapeva breve e che era ben sintetizzata dalla scritta che accompagnava una scultura di Max Ernst che invitava lo spettatore a distruggerla. Da troppo diverse provenienze e lungo direttrici di ricerca diversamente orientate, le personalità artistiche che per un istante si incontrarono sotto la bandiera del Dada presto si allontanano. Nel 1916 poco lontano dal Cabaret Voltaire viveva l’esule Lenin, e non molto più discosto Joyce lavorava all’Ulisse. Già nel 1922 a Parigi (mentre Lenin guidava la rivoluzione russa trionfante) l’americana Sylvia Beach, animatrice della libreria di lingua inglese ‘Shakespeare and Company’, al Quartiere latino, pubblicava con immediato successo l’Ulisse, e Tzara veniva contestato dai poeti che si sarebbero radunati sotto la nuova bandiera surrealista. Breton, Argon, Soupault non sono più gli animatori di una violenta contestazione: sono gli eredi di Baudelaire, di Rimbaud, di Lautréamont, e al massimo riconoscono il loro debito verso la ‘stravaganza’ di Jarry (2). Né i pittori si comporteranno diversamente, se rifiutando decisamente di riconoscersi nel manifesto che Tzara aveva cercato di dare al movimento si diedero a sperimentare forme di intervento e provocazione del tutto singolari: dall’orinatoio esposto da Duchamp (la Fontana firmata R. Mutt, che era il nome della ditta che produceva il sanitario) all’occhiuto metronomo di Man Ray, alle prestazioni del pugile e poeta Arthur Cravan che a New York deliziava le signore di Park Avenue (3).

Nei soli primi cinque mesi del 1920, pochi mesi dopo l’arrivo di Tzara a Parigi da Zurigo, si organizzarono sei esibizioni di gruppo con recite, due mostre e numerose pubblicazioni (almeno una dozzina) videro la luce. Fu l’apogeo e l’inizio del rapido declino del movimento, cui la stessa condizione di aggregazione iniziale impediva adesso di trovare una struttura centrale e portante. In meno di due anni non rimase quasi nessuno che si riconoscesse dadaista. Forse l’ultimo, vicino a Tzara, fu proprio Picabia, che con il famoso film Entr’acte, realizzato con René Clair, aveva pur dato al passaggio al surrealismo più d’un valido aiuto. Il caso, il gioco, l’ironia, la contestazione della distinzione tra arte e vita, l’ happening (come poi sarebbe stato chiamato), insomma il messaggio di libertà creativa dell’invenzione artistica saranno il lascito più forte del dadaismo: parte essenziale di tutta l’arte successiva. Ma non va dimenticato che a questi aspetti si accompagnò nel dadaismo una esigenza di rigore che sembra contraddire queste premesse. Il rigore sta nella forte ‘concettualizzazione’ dell’arte dadaista che si scontrava al proprio interno con spinte vitalistiche, alle quali la lezione di Nietzsche, ben più avvertibile nel Dada che nel Futurismo, non era certo estranea. In questo senso va letto ad esempio il ricorso al ready-made, frutto dell'idea che un oggetto d’uso corrente possa diventare ‘artistico’ solo perché l'artista per sua scelta e volontà lo dichiara tale. Dada nello stesso spirito contestò la ‘preziosità’ dell’opera d’arte producendo ‘opere di scarto’ realizzate con materiali disparati sovente tratti dall’immondizia; e Duchamp produsse opere la cui realtà materiale confermava e ridicolizzava il senso del titolo, come Aria di Parigi (un casuale recipiente d'aria) o Tazza da caffè (una tazza con pelliccia all’interno). Gli scritti di Hugo Ball e soprattutto la sua importante corrispondenza sono ancora in parte in attesa di traduzione italiana (4), mentre comincia appena a chiarirsi l’importanza che anche in Italia, malgrado il dominio futurista, e grazie ad autori (o meglio alla ‘stagione’ Dada di alcuni Autori) come Savinio e come Prampolini ebbe il Dadaismo (5). L’Almanacco Dada, il Dada Almanach che la ‘Biblioteca delle Avanguardie’ ha ripubblicato nel 2007 per la prima volta dopo l’unica edizione di Berlino del 1920, rappresentò l’estremo tentativo di mantenere unito il movimento che dopo il trasferimento a Parigi di Tzara e di alcuni esponenti di spicco, e il contemporaneo trasferimento a Monaco e a Berlino di altri, minacciava di sfaldarsi: come in un paio d’anni in effetti avvenne. Il gruppo parigino trovò attorno a Breton e

Argon, all’interesse generale e comune per la psicoanalisi, la scrittura ‘automatica’, l’indagine linguistica, un motivo di aggregazione: persistendo invece il gruppo che lavorava in Germania in certo anarchismo parodistico e provocatore. A partire dal 1923 il gruppo parigino confluì nel Surrealismo dopo aver pubblicamente contestato gli ultimi tentativi di Tzara, che si ritirò sdegnosamente dalla scena dedicandosi a studi di linguista e filologia (6). Hugo Ball morì nel 1927, ma già da tempo aveva abbandonato i temi e toni ‘rivoluzionari’ del Cabaret Voltaire; nel quale tuttavia era avvenuto (primavera del 1917) l’incontro dell’avanguardia musicale con Ferruccio Busoni, l’olimpico, ‘neoclassico’ grande interprete e teorico musicale. Che fu anche il primo acquirente di Boccioni futurista, e il soggetto dell’ultimo suo grande quadro. Gianni Eugenio Viola

----------------------------Note: 1) H.B.Chipp, Theories of Modern Art: A Sourcebook by Artists and Critics, Univ. of California Press, 1973, p.391. 2) Cfr. quanto giustamente osservava C. Simic, in Making it new, ‘The New York Review of Books’, 10.8.2006, pp. 10-13. 3) The Dada Peinters and Poets, a c. di R. Motherwell, Harvard University Press, 2005. 4) Ed. orig: Die Flucht aus der Zeit / von Hugo Ball - Munchen und Leipzig, 1927. In italiano: Nel flusso del tempo, e Flametti o del dandismo dei poveri, etrambe le opere a c. di P. Taino, Udine 2006; in tedesco sono significative in particolare: Zur Kritik der deutschen Intelligenz, Berna 1919; e: Briefe 1911-1927, Einsiedeln, Zurich, Koln, 1957. 5) Se ne veda una rassegna nei saggi raccolti nel catalogo della mostra Dada, l’arte della negazione, a c. di E. Torelli, Roma De Luca 1994. 6) Poco prima della morte pubblicò un importante contributo su François Villon dimostrando che alcune delle liriche del maggior poeta del Quattrocento francese erano crittografate.

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