Il posto che spetta a Calvino, Anuario de Estudios Filológicos, 1987 (riproposta estemporanea)

August 15, 2017 | Autor: M. MuÑiz MuÑiz | Categoria: Italian Literature, Italo Calvino, Contemporary Italian Literature
Share Embed


Descrição do Produto

IL POSTO CHE SPETTA A CALVINO

Chi l'avrebbe mai detto, proprio Calvino, con la sua limpidezza razionale, col suo spirito didattico spinto al punto da fiancheggiare senza sosta le pagine creative con prefazioni, postfazioni e interventi teorici di vario tipo miranti a chiarire il giá detto o a progettare lucidamente il da fare, stenta a trovare un posto nella letteratura italiana, una definizione, un accordo di massima. Basta confrontare alcuni fra i giudizi critici (pur spesso illuminanti se presi a sé), ed ecco disporsi su versanti contrapposti un Calvino formalista, cerebrale, persino «rondista» e «neo-arcadico», a un Calvino fantastico-surreale, elegiaco, addirittura inconsciamente «viscerale»; oppure al Calvino «illuminista» (ma anche leibzniano!), riformista e impegnato, il Calvino scettico, pessimistico, quasi distruttivo; e ancora (ma non pretendo di esaurire tutte le possibili combinazioni binarie) al Calvino complesso e labirintico, 11 Calvino ingenuo, schematico, «all'italiana» che laddove sembra spingersi fino al vuoto della semiologia e della metafisica, retrocede per salvare «in extremis» tutto il salvabile: il romanzo, la religione, la societá, il significato... Beninteso tali dicotomie non corrispondono necessariamente a uno schieramento bipolare dei critici: anzi, spesso, coesistono all'interno di una stessa lettura dell'opera calviniana, vista come spazio di contraddizioni, di ambiguitá, di compromessi, oppure come evoluzione diacronica ora regressiva, ora piŭ o meno discontinuamente progressiva. Ed ecco allora profilarsi all'interno del suo iter punte alte e depressioni, risalite e ricadute, che, a seconda degli interpreti, coincidono con questa o con quell'opera (particolarmente controverso il caso di Se una notte d'inverno un viaggiatore: gioco fine a se stesso per alcuni, metafora dell'alienazione per altri, uno dei romanzi piŭ intelligenti degli anni settanta oppure la modesta —anche se seriamente condotta— ripetizione di un modello giá sperimentato dai vari Roussel, Borges, Robbe-Grillet 2) ma anche, grosso modo, con la trilogia «araldica», o con quella impegnata (La formica argentina, La nuvola di mong, La speculazione edilizia), con i racconti cosmici o con quelli metaletterari, e cosí via 3. I R. Luporini, 11 Novecento, Loescher, Torino, 1981, p. 764. 2 R. Barilli, «11 Giorno», 22 giugno 1979. 3 Lanfranco Caretti trova addirittura un filone da contrapporre all'«involuzione favolistica», che collegherebbe La speculazione edilizia al Sentiero dei nidi di ragno (cfr. Sul Novecento, Nistrilischi,

246



IL POSTO CHE SPETTA A CALVINO

Un vero e proprio groviglio, insomma, dietro il quale l'opera calviniana incomincia a rivelare una natura elusiva ed oscillante, quasi quasi informe e priva di identitá. Si capisce, e come, la sana diffidenza dello scrittore nei confronti della bibliografia critica, da esso definita come una «cortina fumogena» destinata a nascondere ció che iI testo ha da dire (Perché leggere i classici, «L'Espresso», 1981). Certo, le interpretazioni, anche quelle pi ŭ azzeccate, rappresentano sempre, quanto meno, una riduzione, una scelta restrittiva all'interno di un insieme di possibilitá piŭ o meno aperte; interpretare significa chiudere un discorso, «metterci una pietra sopra»: proprio il contrario di ció che fa il testo, fondamentalmente generoso, disponible, prolifico. Ma qui, nel caso di Calvino,16 scarto fra critica e testo nasce forse da una perplessitá di fondo non giá quanto alle caratteristiche dell'opera (quanto cioé alla sua descrizione), bensi quanto alla sua collocazione; si tratta ancora insomma di decidere non come sia Calvino, ma chi esso sia, vale a dire se significhi qualcosa di irrinunciabile o meno qui e oggi, ma anche (che poi é una questione strettamente connessa) nel «continuum» della letteratura italiana ed europea. Sarebbe chiedere troppo ai suoi contemporanei un giudizio cosi impegnativo? Eppure le sorti critiche di un Novecento ormai tanto inoltrato meritano uno sforzo di sintesi piŭ grande di quanto non sia stato —credo— finora tentato. Dopotutto lo stesso Calvino ci si é ostinatamente provato e ci ha offerto non pochi tentativi di autoinquadramento. Ecco, ad esempio: non si é egli dichiarato rigorosamente contemporaneo, contemporaneo cioé nel senso di qualcuno che ha «la coscienza di vivere tra Buchenwald e la bomba H» (Il midollo del leone, 1955)? Non ha forse detto che in tali nuove condizioni la letteratura doveva partire dall uomo disumano di Beckett e dal «groviglio conoscitivo» di Gadda, al di lá quindi del realismo, dell'umanismo psicologico, della fiducia nel linguaggio? Non dovrebbe essere dunque tanto difficile trovare —su questa base— un terreno comune sul quale costruire poi ipotesi, analisi e descrizioni quanto si voglia divergenti, ma non (come oggi si rischia di fare) giudizi tanto contraddittori da sfiorare l'aporia. Ed é lo stesso Calvino a venirci ancora una volta incontro fornendoci alcune fondamentali conseguenze estetiche derivate dalle proprie premesse: a) la letteratura contemporanea deve essere «cosmica» («Vogliamo della letteratura un'immagine cosmica», La sfida al labirinto, 1962), e insieme rigorosamente «conoscitiva» (cfr. l'intervista apparsa su «L'Approdo Letterario», n. 41. 1968, in cui traccia la linea di forza Dante-Galileo-Calvino), b) la moderna cosmogonia deve allargare all'infinito i confini della propria prospettiva e risalire alle cause delle cause per spiegare il pi ŭ banale degli eventi presenti («Raccontare le cose come stanno —leggo a un certo punto in Ti con zero— vuol dire racconPisa, 1976). Ma sull'inesistenza di tale «involuzione» si era tempestivamente pronunciato Giorgio Bárberi Squarotti in Poesia e narrativa del secondo Novecento, Mursia, Milano, 1961, pp. 313-314 e poi in La narrativa italiana del dopoguerra, Cappelli, Bologna, 1965.

MAKA DE LAS NIEVES MUÑIZ MUÑIZ



247

tarle da principio», ed ecco spiegata, almeno parzialmente, la scelta della fiaba). Sono tutti approdi della poetica (e della visione del mondo) calviniana da cui non si puó rifuggire: niente dunque realismo (o storicismo), e niente evasione favolistica. Mettiamoci anche noi una pietra sopra. E ancora, il cosmo post-einsteniano che Calvino non perde mai di vista (che fissa anzi ostinatamente per poter meglio vedere la terra su cui cammina) esclude qualsiasi approccio conoscitivo univoco e assolutizzante, mentre invece esige (e qua rischio di diventar pleonastica) che la prospettiva dell'osservatore venga inclusa nel fenomeno osservato, il che (ecco un'altra affermazione lapalissiana) rende a sua volta imprescindibile allo scrittore lo sperimentalismo e la metaletteratura, non giá per sfociare in una sorta di gioco fine a se stesso, in un atteggiamento narcisistico e neo-estetizzante (ché allora la metaletteratura sarebbe proprio meno di niente), ma appunto per «alzare continuamente la posta» (Per una letteratura che chieda di piŭ, 1968), per spostare cioé continuamente in avanti la prospettiva alfine di mantenere una capacitá vergine di visione del niondo (ed é pure di Calvino l'affermazione secondo cui «La letteratura deve rivoluzionare ogni momento il modo di vedere le cose», e quindi deve rivoluzionare «ogni momento» se stessa onde sfuggire al rischio di convertirsi in «idolatria»). Tan'é vero che lungo la sua traiettoria di scrittore egli ha cambiato programmaticamente rotta (dal romanzo di guerra «neorealistico» al racconto fantastico e poi a quello cosmico e cosi via per poter continuare a mettere il dito sulla stessa piaga; e ha finito, «pour cause», con lo scrivere un libro —Palomar— che é un vero e proprio antiromanzo dopo aver tentato il poliromanzo con Se una notte d'inverno un viaggiatore, venendo cosí a chiudere la sua parabola con un ossimoro ma anche con una summa nella misura in cui il tutto e il niente, l'addizione e la sottrazione tendono parimenti alla mappa totale dello scibile 4. E giá che ci siamo: qual é la piaga su cui punta il dito Calvino? Ecco qua: la possibilitá stessa di conoscere e di mantenere in piedi (grazie a uno sforzo spasmodico, della volontá, grazie cioé a quel moto perpetuo di cui tanto giustamente ha parlato Cesare Cases a proposito del Barone rampante 5) il rapporto dell'uomo con la natura, definito —leopardinamente— come «un rapporto d'interrogazione» (Natŭra e storia nel romanzo, 1958). 4 Una prova ulteriore della serietá (quando non della tragicitá) del gioco combinatorio calviniano, teso a ricostruire una mappa del mondo che immancabilmente sfocia in un labirinto e si dilegua nel nulla (di «scatola vuota... che sta dietro ogni progettata utopia» parla giustamente Anna Dolfi a proposito delle cronache di Collezione di sabbia, in «L'albero», n. 70, 1983, p. 205) la offre la serie incompiuta di racconti pubblicata postuma col titolo Sotto il sole giaguaro (Garzanti, Milano 1986). Fa quindi piacere che nella edizione riveduta della sua Attiviter letteraria in Italia (Palumbo, Bari, 1987) Giuseppe Petronio abbia saputo individuare la pregnanza conoscitiva dei cosiddetti giochi linguisticoletterari di Calvino: «sono state la linguistica e lo strutturalismo ad aiutarlo a trasferire il tema della casualitá e arbitrarietá dei destini umani dal piano dei contenuti a quello delle strutture narrative»; «in lui il gioco combinatorio é non divertimento e estetismo, ma ricerca a trovare per questo mondo di oggi modi consoni alla sua nuova particolare natura», p. 922. $ C. Cases, pathos della distanza, «Quaderni piacentini», n. 50, 1973, ora in Patrie lettere, Padova, Liviana, 1974.

248

IL POSTRO CHE SPETTA A CALVINO

Finalmente é saltato fuori il nome che tenevo in mente sin dall'inizio: Leopardi (ne ho tanti altri in mente, ma sono stati fatti pi ŭ spesso dalla critica). Non lo nascondo: credo a un radicale leopardismo del Nostro. Senonché la fedeltá a una tradizione —quand'é vera— comporta un salto di qualitá ai limiti della rivoluzione (tale sarebbe poi il meccanismo della storia letteraria, o della storia tout court, se lo si potesse osservare allo stato puro). Mi accingo ad ascoltare dunque l'inesausto interrogare la natura di Leopardi (L'esistenza é per l'esistente? Perché la ragione ci rende infelici? Perché la natura diventa ragione? Come conciliare l'Essere e il non Essere? Quale é il principio delle cose?), e pongo l'orecchio alla voce insistente di Calvino: Esiste la realtá? La realtá é dicibile? Come conciliare l'ordine e il caos? Quali sono i limiti della ragione? In quale rapporto stanno l'io e il mondo?, e cosí via. Non bisogna smarrirsi fra questi elenchi apparentemente aperti di domande, in parte sovrapponibili in parte no: il problema é sempre e solo uno: la conoscenza del mondo é per entrambi gli scrittori, paradossalmente, tragicamente, nello stesso tempo la vittoria e lo scacco dell'uomo: Leopardi chiama questo scacco infelicitá; Calvino, labirinto; Leopardi se ne consola in limine col canto (transformandolo addirittura in «ultrafilosofia» allorché l'occultamento del vero rischia di convertire la consolazione in mistificazione retorica), Calvino vede ormai la letteratura come facente parte della conoscenza, come «diaframma» che si frappone tra il mondo (la vita, l'essere che é contento di sé ma non si conosce) e l'io (e allora lo scrittore —come ebbe a dire nell'introduzione del '64 al Sentiero dei nidi di ragno— «é il piŭ povero degli uomini»), eppure, in quanto tensione erotica verso il mondo (e la veritá), in quanto impossibile ma eroico tentativo di dire l'indicibile (particolarmente illustrative sono a questo proposito le conclucioni su Ulisse e il canto delle sirene nel saggio sui Livelli della realtú in letteratura del 1978), forse la sola ricchezza dell'uomo. Questa risposta ambivalente —tra ottimismo e pessimismo— di Calvino é peró tutt'altro che compromissoria: il dubbio (in questo discretissimo autore portato a minimizzare la propria tragicitá) rappresenta anzi la pi ŭ dura, la piŭ lucida deIle conquiste non giá del sentimento, ma della ragione (dopotutto, non ha egli stesso chiario i limiti del suo «illuminismo» —chisciottesco— ponendo come limite della razionalitá voltairiana gli abissi di Pascal?, Prefacione a Candide del '74). Calvino appartiene alla tradizione stoica della letteratura italiana: egli ha bisogno di raggiungere una certezza residuale solo dopo aver attraversato l'inferno del negativo senza battere ciglio (ecco perché, nonostante le riserve, Manzoni gli é sempre parso —insieme alla sua apparente antitesi: Leopardi —un capisaldo della tradizione a lui pi ŭ congeniale: «Per entrambi— scrive appunto nel saggio dedicato ai Promessi sposi—, solo partendo da un'esatta cognizione delle forze contro cui deve scontrarsi, l'azione umana a un senso»). Ecco, io ho detto la mia: un posto forse l'avrei trovato per Calvino, e non é un caso che questi suoi due compagni di viaggio appartengano alla schiera degli eccentrici, degli spostati (un po'classici e un po'romantici, e tanto tragicamente «illuministi»), di coloro che —in mancanza di una tradizione europea e italiana sulla quale adagiarsi comodamente— la tradizione se la devono (e se la possono) creare da sé.



249

MARíA DE LAS NIEVES MUÑIZ MUÑIZ

Post scriptum. Le pagine qui riprodotte erano destinate al numero che la redazione di Sigma intendeva dedicare a Italo Calvino e che, a causa della morte improvvisa dell'editore della rivista, non ha poi visto la luce. mio scritto riflette dunque il particolare «taglio» —sintetico, vivace, lievemente polemico— della sua destinazione originaria, un taglio che affida all'intelligenza del lettore una dose non piccola di implicazioni e di presupposizioni, di «nuances» solo accennate, di spunti per un dicorso molto pi ŭ ampio ed articolado. D'altronde, l'intento polemico della mia riflessione comportava la necessitá di caricare le tinte su certi tratti sotterrani (o sotterati) dell'opera calviniana a scapito di altri che mi sembravano troppo evidenti e troppo spesso evidenziati dalla critica (il fantastico-fiabesco, la semiologia, l'ars combinatoria, ecc.). col conseguente impianto un po sfocante e paradossale dell'insieme. Tuttavia mi é parso ancora utile pubblicare senza rimaneggiamenti questo «pamphlet» per riproporne con la stessa forza la tesi centrale: vale a dire la necessitá di inserire Calvino in un grosso filone della letteratura italiana (senza con ció voler ingrandirne per forza e in proporzione la figura artistica) che si riallaccia a certi «antenati» ottocenteschi non meno di quanto non si riagganci ad alcune delle tendenze piŭ avanguardistiche del nostro secolo, le quali prendono vero rilievo se viste sullo sfondo di un'ereditá «forte». É infatti nel rapporto dialettico coi propri padri —cioé, per rifarmi alla terminologia di Harold Bloom e al suo concetto di influenza, coi «precursori [pi ŭ] forti» 6-, che la presenza di Calvino acquista pertinenza storiografica, e perde quel carattere fluttuante, decorativo e un po' «straniero» tanto spesso assegnatogli dalla critica. In questo senso l'invito a sovrapporre le domande che l'autore di Palomar e quello del Canto notturno rivolgono alla natura mi pare un buon punto di partenza per aprire piŭ vasti orizzonti. Naturalmente, una simile tesi implica la revisione dei rapporti fra otto e novecento —troppo stretti e troppo profondi per potercene sbrigare con transizioni crepuscolani e decadentistiche o con qualche influsso isolato e tardivo— ed é a mio avviso un traguardo (non ancora raggiunto) indispensabile se si vuole —come nel caso dell'opera calviniana— trovare un posto, che é quanto a dire una genealogia, ai nostri contemporanei. MARIA DE LAS NIEVES MUÑIZ MUÑIZ

6 H. Bloom, The Anxiety of Influence, Oxford University Press, 1973, trad. it., L' Angoscia dell'influenza, Feltrinelli, Milano, 1983: «La storia della poesia... dev'essere considerata indistinguibile dall'influenza poetica, poiché i poeti forti costruiscono tale storia travisandosi l'un l'antro, in modo da liberare un nuovo spazio alla propria immaginazione», p. 13. Senonché la storia dei travisamenti non é solo una questione privata fra poeti, ma la conseguenza di uno svolgimento collettivo delle coscienze letterarie e non letteratie. Ma questo é un problema che ci porterebbe davvero troppo lontano.

250



IL POSTO CHE SPETTA A CALVINO

«IL POSTO CHE SPETTA A CALVINO». Maria de las Nieves Muñiz Muñiz. An overall view of Italo Calvino's literary works allows the correction of the most widespread common places of his criticism, which, so far, has tended to pigeonhole the author and label him in both contradictory (fantasy writer, illuminist writer, 'á la page Barthesian, etc.) and biased ways. However, in this article the integration of Calvinos work within the Italian literary tradition is proposed, talking as one of the possible reference points, Leopardi's model of facing Nature inquisitively and bearing stoically the lack of answer.

Lihat lebih banyak...

Comentários

Copyright © 2017 DADOSPDF Inc.