Il rapporto mente-mondo in Descartes e Putnam

June 24, 2017 | Autor: F. Fornari | Categoria: René Descartes, Descartes, Pontificia Università Gregoriana
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Pontificia Università Gregoriana Facoltà di Filosofia

MENTE E MONDO Un confronto tra Descartes e Putnam

Elaborato Finale (FE1A00)

Direttore: Prof. ROBERTO PRESILLA Studente: FRANCESCO GIUSEPPE FORNARI (158650)

ROMA 2010

INTRODUZIONE

In questo elaborato abbiamo scelto di trattare la questione del rapporto tra la mente e il mondo non solo perché crediamo che sia di primaria importanza filosofica, ma anche perché da essa è piuttosto facile far emergere importanti conseguenze pratiche e, osiamo aggiungere, esistenziali. Una metafisica che voglia parlare con coscienza di categorie come verità, realtà, oggetto, deve tenere conto della relazione che intercorre tra chi ne parla e l’universo in cui si trova. In proposito, la riflessione di Putnam, che si muove dal problema del riferimento, ci invita a riconsiderare l’immagine che abbiamo di questa relazione (immagine che abbiamo inconsciamente assorbita da ‘certe’ tradizioni filosofiche), e ci mostrando che l’uso ingenuo che spesso facciamo di termini quali ‘realtà’, ‘mondo’, ‘oggettività’ ci fa pensare in modo problematico il nostro stesso stare nel mondo. In questo contesto, abbiamo ritenuto importante considerare anche la riflessione di Descartes per due motivi principali: perché essa – come lo stesso Putnam ha evidenziato – è stata determinante nella formazione di una mentalità con la quale ci confrontiamo tutt’oggi, e perché probabilmente proprio Cartesio ha saputo, forse in modo preterintenzionale, impostare il problema della mente e del mondo in maniera chiara e sistematica (per quel che ci risulta, egli non ha mai esplicitato il problema con la sistematicità che troviamo in Putnam1, né lo ha espresso in maniera diretta, tuttavia crediamo che sia possibile leggere le sue Meditazioni Metafisiche un vero e proprio trattato sui rapporti tra la mente e il mondo). Il nostro percorso prende quindi come punti di riferimento tre ipotesi che Descartes e Putnam ci hanno proposto; si tratta di ipotesi non molto differenti, per la sostanza, le une dalle altre, ma che ci permettono di andare 1

Cartesio, infatti, considera il problema particolarmente dalla prospettiva epistemologica.

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rapidamente al cuore del problema, e ci offrono spunti interessanti per una modesta riflessione. A partire da queste, cercheremo di inquadrare il problema nelle prospettive di Descartes prima, e Putnam poi. Un simile lavoro ci permetterà di azzardare un confronto tra i due filosofi, e soprattutto di accogliere criticamente il patrimonio e gli stimoli che essi ci hanno lasciato. Nei suoi risvolti pratici non è per noi indifferente pensare un mondo indipendente da noi, oppure un mondo che noi costruiamo. Una volta scelta una prospettiva, le conseguenze etiche, sociali, esistenziali sono tutt’altro che relative.

CAPITOLO I

Descartes

Se ci vogliamo interrogare sul rapporto che intercorre tra la mente e il mondo nel pensiero di Descartes, è piuttosto rappresentativo il percorso che il filosofo svolge nelle Meditazioni metafisiche, e in particolare le due ipotesi che egli formula nella prima meditazione: quella comunemente chiamata del «sogno», e quella del «genio maligno». Per capire quale valore queste due ipotesi assumano, è bene prima chiarire il contesto in cui esse sono formulate. 1. Il contesto Le Meditazioni metafisiche rivestono nel pensiero di Cartesio un ruolo fondamentale; il filosofo, con la loro pubblicazione, si pone come uno scienziato che, fatte una serie di scoperte importanti1, giunge a riconoscere che per convalidarle è necessario ritornare ad interrogarsi sulle condizioni stesse di possibilità della conoscenza. È dunque necessaria una seria indagine filosofica, nella quale abbandonare tutti i «pregiudizi» e trovare principi, chiari ed evidenti, da cui dedurre una «nuova» filosofia, e fondare una conoscenza definitivamente certa. Già da questo programma si evince la sostanziale novità della metafisica di Cartesio: anche Aristotele nella sua 1

Al momento della stesura delle Meditazioni Metafisiche, Cartesio aveva già terminato l’Algebra (contenente la geometria analitica in cui troviamo il «piano cartesiano»), costruito buona parte della sua fisica, e formulato altre teorie. Tuttavia era convinto che se non fosse andato alle radici della conoscenza non avrebbe potuto costruire niente che potesse stare al livello della matematica, anzi, anche ciò che fino a quel momento aveva fatto, non aveva alcun senso. Cfr. S. LANDUCCI, introduzione a Meditazioni metafisiche, VI.

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metafisica, sostiene l’irrinunciabilità di alcuni principi per la conoscenza, principi che devono essere certi2, questi si presentano, perlopiù come criteri logici del ragionamento (vedi il principio di non contraddizione, terzo escluso, ecc.). Cartesio, ovviamente, li ritiene validi (sono tra quelli «manifesti per lume naturale»), ma è convinto che solo aggiungendo a quelli i suoi nuovi principi primi, è possibile sostenere la conoscenza strutturalmente e ontologicamente. Nella lettera in cui presenta l’opera al suo amico Mersenne3, Cartesio dice: «Vi dirò, in confidenza che queste sei meditazioni contengono tutti i fondamenti della mia fisica». E infatti, le Meditazioni, assicureranno che «ciò che la mente conosce come costitutivo dell’essenza della materia, ne costituisce, effettivamente la natura. Garantiranno così la verità della conoscenza umana»4. Cartesio, d'altra parte, non per niente teneva al primo titolo che aveva dato all’opera: «credo che [questo scritto] si potrà chiamare […] Meditazioni sulla filosofia prima, perché io non vi tratto soltanto di Dio e dell’anima, ma, in generale, di tutte le prime cose che si possono conoscere filosofando con ordine». Ora, non si può parlare di conoscenza se non c’è un soggetto che conosce, né se non esiste ciò che è conosciuto. Non c’è conoscenza, d’altra parte, se pure ciò che il soggetto percepisce come chiaro e distinto è falso. Per questo «i veri principi primi» che Cartesio propone sono l’esistenza del pensiero (il cogito) e Dio, autore di tutto, fonte di ogni verità e garante del buon funzionamento dell'intelletto umano. Tali principi sono necessari per la conoscenza delle cose. La metafisica è dunque un passaggio obbligato, che pone i principi senza i quali è impossibile sperare di avere una conoscenza certa. E quando dice certa, Cartesio ha in mente una conoscenza sulla quale non ci sia più nulla da discutere. Questo vuol dire che il carattere fondazionale della metafisica oltre ad essere ontologico (giacché si ricerca il principio dell’essere in quanto essere), è soprattutto gnoseologico (posta l’anima umana, come è possibile la conoscenza che essa ha del mondo): solo su una tale metafisica Cartesio potrà far riposare tutte le scienze: quelle a cui lui stesso si è dedicato, e quelle dei posteri. Fatte queste osservazioni, ci possiamo allora domandare: perché l'ipotesi del sogno, e ancora di più quella del genio maligno, sono così importanti se vogliamo riflettere sul rapporto tra la mente e il mondo? Una prima risposta 2

«Il principio che deve possedere chi voglia conoscere qualsivoglia cosa non può essere ipotetico». ARISTOTELE, Metafisica, III, 3. 3 Cfr. S. LANDUCCI, XI. 4 E. SCRIBANO, Guida, 9.

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può essere che esse servono a Descartes per costruire il più solidamente possibile il suo edificio del sapere: quelle ipotesi pongono radicalmente il problema dello scetticismo e quindi, se ben risolte, ristabiliscono un nuovo rapporto, più solido, dalla mente al mondo. Ma osservando il modo in cui il filosofo francese risolve il problema gnoseologico, e facendo alcune considerazioni sul suo ideale di scienza, forse potremo trovare una risposta più profonda. 2. Le ipotesi Nella prima meditazione, Cartesio presenta il metodo con cui intende inoltrarsi nella ricerca: il dubbio. Il filosofo chiarisce fin dai primi passi a che cosa mira: si tratta di costruire una conoscenza certa, «stabilire qualcosa di fermo e durevole»5. A questo scopo, il dubbio svolge due funzioni principali: «liberare la mente dai pregiudizi ed eliminare la possibilità di dubitare ulteriormente di quel che resisterà ai suoi assalti, poiché non sono accettabili le conoscenze probabili, fondate sull’abitudine, o sulla verosimiglianza»6. Cartesio richiede, dunque, che la semplice dubitabilità di ogni opinione sia sufficiente per un giudizio di falsità (è questo il «dubbio iperbolico»), e si accinge a «buttare all’aria» le opinioni che considera essere alla base della conoscenza. La «critica radicale di tutto il sapere»7 si concretizza, poi, in quattro dubbi principali8, che vanno ad inficiare il pregiudizio originario «che sia vero per eccellenza ciò di cui siamo informati dai sensi», la realtà corporea stessa, le idee matematiche, e infine Dio. Come si vede, si tratta di elementi che stavano alla base di ogni epistemologia, spesso accettati acriticamente. Una volta messi in dubbio questi, Cartesio scopre che «non c’è niente di cui non sia lecito dubitare», e ciò «per ragioni valide e meditate»9. È in questo lavoro di decostruzione che intervengono le due ipotesi introdotte sopra. Quella del sogno serve a Descartes a mettere da parte l'assunzione empirica fondamentale per cui tutta la nostra conoscenza inizia con i sensi10, e a farci dubitare fortemente dell'esistenza stessa del nostro corpo e 5

R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche , 17. E. SCRIBANO, «Descartes», 2710. 7 N. ABBAGNANO, 200. 8 Cfr. S. LANDUCCI, XXI. 9 R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 35. 10 «Il progetto cartesiano mira, in primo luogo, a mettere in discussione, per 6

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più in generale della realtà materiale: «è vero che ora mi sembra che non è con occhi addormentati che io guardo questa carta, che questa testa che io muovo non è punto assopita […]; ma pensandoci attentamente, mi ricordo d'essere stato spesso ingannato, mentre dormivo, da simili illusioni. E arrestandomi su questo pensiero, vedo così manifestamente che non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno […]; il mio stupore è tale da essere quasi capace di persuadermi che io dormo»11.

Come si vede, l'analogia dell'esperienza anche più prossima con i sogni, e l'incapacità di distinguerle, fa dell'ipotesi del sogno un argomento così forte da costringere Cartesio a cancellare – per coerenza al dubbio iperbolico – l'intera realtà: nemmeno le esperienze sensibili più vicine e più chiare sono in grado di attestare l'esistenza di qualcosa di esterno alla mente. Sono dunque da sospendere tutti i giudizi basati sull'esperienza, giacché essi presumono l'esistenza fuori della mente degli enti esperiti. «L'ipotesi del sogno è devastante – conclude la Scribano – perché essa lascia aperta la possibilità che tutta l'esperienza sia una costruzione mentale»12. Eppure la capacità distruttiva del sogno vale solo per tutto ciò che è soggettivo: essa si deve fermare di fronte alle «caratteristiche primitive dei corpi esterni». L'argomento del sogno lascia, infatti, intatta la struttura matematica dell'esperienza sensibile, e la riprova che l'ipotesi del sogno è impotente è che le operazioni della matematica con le quali si descrivono le essenze delle cose rimangono vere sia nel sogno, sia nella veglia: la capacità distruttiva del dubbio basato sull'ipotesi del sogno trova il suo limite nella tenuta di alcune caratteristiche primitive dei corpi esterni, che – anche nell'ipotesi del sogno, mantengono la loro indipendenza dall'attività della mente, altrimenti il sogno stesso sarebbe impossibile. Questa prima risposta mostra il fatto che non tutto ciò che si credeva indipendente dalla mente nella relazione con il mondo è puramente soggettivo: sono emerse già ora delle «nature semplici», che si rivelano essere le essenze delle cose materiali, quegli elementi primi che saranno il vero oggetto della scienza cartesiana13. Cartesio mostra chiaramente che di fronte a queste distruggerla, ogni scienza che, come quella aristotelica, sia costruita sulla generalizzazione dei dati sensibili», E. SCRIBANO, Guida, 23. 11 R. CARTESIO, Meditazioni Metafisiche, 18-19. 12 E. SCRIBANO, Guida, 23. 13 Cfr. Ibidem, 24.

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proposizioni della matematica e della geometria, alla mente umana è impossibile dubitare14, e ciò perchè esse sono intuite così direttamente e chiaramente nella loro essenza: esse sono i primi esempi di quelle idee chiare e distinte, delle quali la caratteristica principale è proprio l'impossibilità per la mente di dubitarne. È qui che interviene la seconda ipotesi, quella del genio maligno, l'unica in grado di destabilizzare anche queste idee così convincenti. Essa suppone che «ciò che appare vero alla mente umana, e di cui la mente umana non riesce a dubitare, potrebbe apparire falso a qualche altra mente»15. E questa altra mente, superirore a quella umana, potrebbe, sapendo come stanno le cose, essere in grado di spingermi così fortemente a dare l'assenso a delle proposizioni false facendomele apparire assolutamente evidenti. Per dirlo con le parole di Cartesio: «È da lungo tempo che ho nel mio spirito una certa opinione, secondo la quale vi è un Dio che può tutto […]. Può essere che egli abbia voluto che io m’inganni tutte le volte che fo l'addizione di due e di tre [...], o che giudico di qualche altra cosa ancora più facile di questa, se può immaginarsi cosa più facile di questa. Ma forse Dio non ha voluto che fossi ingannato di tal guisa, perché di lui si dice che è sovranamente buono. […] Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte di sovrana verità, ma un certo cattivo genio [genium aliquem malignum], non meno astuto e ingannatore che possente, che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l'aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità»16.

Questo dubbio, ispirato ad una vetus opinio17, è il più radicale, l'ultimo pensabile: è infatti piuttosto raffinato e lontano dal senso comune. È un dubbio molto più profondo della classica ipotesi scettica: nel caso delle percezioni, è stato possibile smascherare l'inganno scomponendo la percezione e arrivando al livello più stabile delle nature semplici; ma se anche queste fossero apparenza, non avremmo alcuna possibilità di scomporle per ricondurla a qualcos'altro, né avremmo la possibilità di correggere l'errore delle scienze: ci possiamo ingannare ogni volta che 14

«Il segno che manifesta la presenza alla mente di una conoscenza chiara e distinta è l'incapacità di dubitare della sua verità». E. SCRIBANO, Guida, 59. 15 E. SCRIBANO, Guida, 27. 16 R. CARTESIO, Meditazioni Metafisiche, 20- 21. 17 L'ipotesi del genio maligno è un richiamo delle discussioni scolastiche sull'onnipotenza di Dio. Cfr. E. SCRIBANO, Guida, 32.

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eseguiamo operazioni matematiche, esattamente come potremmo ingannarci tutte le volte che giudichiamo la relatà esterna dei corpi, ma in quest'ultimo caso non avremmo alcuno strumento per comprendere la logica dell'inganno18. Se con le proposizioni matematiche siamo davanti a proposizioni psicologicamente indubitabili, l'indubitabilità dell'evidenza che ci fanno presente non può più bastare a provarne la verità. Con questo dubbio così profondo, Cartesio ci porta a reali profondità filosofiche, mostrandoci la necessità dell'impegno metafisico nella sua scienza, che richiede che ci si occupi dell'esistenza e della veracità divina. 3. La ricostruzione Con queste riflessioni non abbiamo coperto che il contenuto della prima meditazione: la restante parte dell'opera è una progressione di argomenti che sbroglia lentamente quella matassa intricata – e apparentemente informe – di dubbi posti nelle prime pagine19. L'obiettivo è dimostrare che ciò che appare indubitabile alla mente umana (le idee chiare e distinte) non può apparire falso a nessun'altra mente: solo allora l'indubitabile potrà essere chiamato vero, e la scienza potrà essere fondata come assolutamente vera, e non vera solo per la mente umana20. Giusto per avere un quadro dell'argomentazione cartesiana, percorriamo ora molto sinteticamente le Meditazioni, per soffermarci solo in un secondo momento su alcuni passaggi cruciali della dimostrazione. Nella seconda meditazione Descartes trova il fondamento, o meglio, la condizione di possibilità nonché il principale protagonista della conoscenza: il soggetto. Tutto questo dubitare – che sembra aver escluso la possibilità di qualsiasi esistenza – richiede, infatti, come condizione necessaria un soggetto che ne permetta l’attuazione21. L'indubitabilità del cogito è di ben altra natura di quella sopra menzionata nel caso delle idee della matematica; essa non è solo psicologica, ma anche normativa (non vi è alcun motivo di dubbio possibile)22. Già da questa meditazione, il cui obiettivo è parlare «della natura dello spirito umano», e mostrare come la 18

Cfr. E. SCRIBANO, Guida, 27-28. Cfr. Ibidem, 96. 20 Cfr. Ibidem, 28. 21 «Non vi è dubbio che io esisto se [l'ingannatore potentissimo e astutissimo] mi inganna; mi inganni finché vorrà, egli non saprà mai fare che io non esista, fintanto che penso di essere qualcosa». R. CARTESIO, Meditazioni Metafisiche, 24. 22 Cfr. E. SCRIBANO, Guida, 35. 19

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sua conoscenza sia più facile di quella dei corpi, Cartesio esclude che qualunque relazione la mente intrattenga con il corpo possa essere giudicata essenziale alla natura della mente. Esclude, di conseguenza, che la natura dell'io sia costituita dalla corporeità, che la mente sia un modo del corpo e che il corpo sia un modo della mente. Ciò è funzionale alla dimostrazione (che sarà completata solo nella sesta meditazione) della distinzione reale delle due sostanze. «Guadagnare l’esistenza di qualche altro ente [a partire da] l’esistenza dell’io pensante e dai contenuti del pensiero»23 è l'obiettivo della terza meditazione: per fare ciò Cartesio vede necessario mostrare che quel genio maligno, prima ipotizzato, non sia, e che anzi Dio esista, e sia, come sempre ci è stato detto, onnipotente e verace. Ma questa dimostrazione, per essere coerente, deve passare assolutamente per il cogito e per le idee, l'unica cosa della cui esistenza si è certi. Coerentemente, Cartesio fa sì che la dimostrazione consista nel mostrare la necessaria verità dell'idea chiara e distinta di quel Dio come ce ne hanno parlato, verità che, come vedremo, richiede che il suo contenuto esista realmente. E «tutta la forza dell’argomento sta nel fatto che riconosco che non potrebbe accadere che io esista di tal natura quale sono, e cioè con l’idea di Dio presente in me, se anche Dio non esistesse effettivamente»24. Le due dimostrazioni che troviamo nella terza meditazione considerano l'io in possesso dell'idea di Dio25: l’io ha l’idea di Dio, e l’idea di Dio è tale che se il suo contenuto non esistesse, l’io sarebbe contraddittorio. Affermare il cogito, quindi, è affermare simultaneamente Dio. E affermare Dio è affermare un Ente Perfettissimo, e in particolare onnipotente e verace. È la veracità divina che assicura che tutto ciò che io riconosco chiaramente e distintamente appartenere ad una cosa, le appartiene in effetti. E siccome le idee chiare e distinte si riferiscono a cose, esse mi parlano veramente della realtà26. La validità delle idee chiare e distinte è garantita da Cartesio nella quarta meditazione, dove si conciliano l'onnipotenza e la bontà di Dio con l'errore umano. È solo nella quinta e nella sesta meditazione che Cartesio conclude la distinzione reale tra mente e corpo, e conferma definitivamente la validità della conoscenza che il cogito, sostanza pensante, ha del mondo. Nell'ultima meditazione, poi, è finalmente dimostrata l'esistenza dei corpi 23

E. SCRIBANO, Guida, 61. R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 49. 25 Per la precisione, la prima prova fa leva sulla causa del contenuto delle idee; la seconda sulla causa dell'io in possesso dell'idea di Dio (e si può dire che in conclusione l'io è la stessa idea di Dio). Entrambe sono a posteriori. Cfr. E. SCRIBANO, Guida, 81. 26 Cfr. E. SCRIBANO, Guida, 102. 24

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materiali: questa, dunque, è subordinata alla validazione di tutto il piano metafisico di Cartesio, più che essere importante per se stessa. 4. Alcune considerazioni 4.1 Il ruolo di Dio Tutte le realtà che Cartesio dimostra nelle Meditazioni rimarcano l’importanza di Dio (per verificarlo basterebbe guardare ai titoli delle singole meditazioni, prima ancora che il loro contenuto). Nella quinta meditazione, ad esempio, Dio è il presupposto su cui si fonda l’essenza delle cose materiali, nella sesta, è ciò per cui si dimostra la loro esistenza e quella del corpo. È necessario fondare in Dio persino il cogito, il primo dei principi nell’ordine della scoperta, intuito come assolutamente indubitabile malgrado la potenza dell’ipotetico genio ingannatore (e anzi, quello su cui, dal punto di vista logico, s’impianta la dimostrazione stessa di Dio). Senza Dio, lo stesso cogito è impensabile. 4.1.1 La teoria delle idee È importantissimo, dunque, vedere più a fondo come si svolge la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Essa si basa sulla teoria cartesiana delle idee. Chiedendosi come si possano spiegare le idee, Cartesio le distingue innanzitutto secondo la loro origne: sembra che ci siano idee innate, avventizie e fattizie; ma dopo i dubbi della prima meditazione, le idee avventizie, con il loro riferirsi ad un eventuale mondo esterno, non sono sufficienti a dimostrarne l'esitenza27. Bisogna quindi guardare le idee da un'altra angolatura che le consideri anche secondo il loro contenuto rappresentativo. È bene innanzitutto chiarire che Cartesio con il termine ‘idea’ intende ogni evento mentale, ogni atto del pensiero (come il cogito è il pensiero in senso ampio, così le idee esprimono ogni sua attività) 28. «Nelle meditazioni 27

Non sono queste «ragioni abbastanza forti e convincenti», R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 37. 28 Il cogito è definito come pensiero in modo esteso: raccoglie in se le azioni di dubitare, intendere, affermare, negare, desiderare, volere, immaginare, e sentire. Tali azioni, ovviamente sono intese come fenomeni puramente mentali, nel senso che le sensazioni, come pure le immaginazioni, sono pensieri in quanto l’io ne è consapevole, ed esistono nella mente pur se dubitando dell’esistenza delle cose esterne; è stato il dubbio a far emergere la psichicità dei fenomeni sensibili. Cfr. R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 47.

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– afferma la Scribano – è centrale l'accezione di idea come stato rappresentativo»29. Con la distinzione della «realtà oggettiva» dell'idea (dalla scolastica, questo termine designa il tipo di realtà che compete ad un ente in quanto è oggetto del pensiero) dalla sua «realtà formale» (il suo essere pensata)30, si evidenziano nell'idea due aspetti: il suo essere un atto del pensare, e il suo rappresentare qualcosa. È secondo il contenuto rappresentativo che Descartes trova la via per dimostrare l'esistenza di Dio. Vediamo come. Tutte le idee, secondo Cartesio, rappresentano qualcosa, e ogni idea, per sua natura, attribuisce una possibile esistenza extra-mentale al suo ideato. Tuttavia, non a tutto quel che viene rappresentato compete una esistenza reale o possibile fuori dalla mente: l'esistere spetta soltanto a quel contenuto rappresentativo compreso nell'essere reale. L'essere reale (uno dei tanti concetti per cui Descartes è debitore alla scolastica) comprende solo ciò che ha una essenza vera e che, per questo, esiste (oppure, pur non esistendo attualmente, può esistere fuori dalla mente)31. Esistono quindi idee che rappresentano qualcosa che, in sé, è «un mero niente», e che quindi non esiste, né può esistere fuori dalla mente; ma poichè la mente, per poter pensare, attribuisce sempre ai propri contenuti un esistenza almeno possibile, quel mero niente viene rappresentato come se fosse qualcosa. Tali idee, che inducono un giudizio di esistenza falso, sono dette «materialmente false»; sono idee «oscure e confuse», e di esse fanno parte non solo le negazioni e le privazioni (come voleva la scolastica), ma anche le qualità sensibili degli oggetti32. «Per contrasto, materialmente vere sono tutte quelle idee chiare e distinte che rappresentano enti che esistono o possono esistere fuori dalla mente, e la cui realtà oggettiva, dunque, è costituita da enti che fanno parte dell'essere reale. Esempi privilegiati di queste idee sono le idee delle essenze della matematica, cui compete una 29

E. SCRIBANO, Guida, 63. Secondo la realtà formale, in quanto pensate, le idee sono tutte uguali. E infatti «se noi consideriamo le idee solo in se stesse, esse non possono, a parlare propriamente, essere false». R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 35. 31 Diventerà quindi importantissimo risolvere la difficoltà di distinguere le idee degli enti cui corrisponde una vera essenza, e che quindi possono esistere, dalle entità fittizie. Se a Suarez bastava la non contraddittorietà della definizione, Descartes aggiunge che, affinchè un idea rappresenti un ente reale, deve risultare impossibile negare un qualche suo aspetto (pena la contraddizione), e deve essere possibile scoprire nuovi aspetti non inclusi nella percezione originaria. Cfr. E. SCRIBANO, Guida, 101. 32 Cfr. E. SCRIBANO, Guida, 62-65. 30

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esistenza possibile, e l'idea di Dio, cui compete un esistenza necessaria»33. 4.1.2 L'esistenza di Dio Di fronte al contenuto delle idee, il filosofo constata che «considerandole come immagini, di cui una rappresenta una cosa, e le altre un'altra, è evidente che esse sono differentissime le une dalle altre». E così l’idea di «un Dio sovrano, eterno, infinito, immutabile, onnisciente, onnipotente e creatore universale di tutte le cose che sono fuori di lui, quell'idea, ha certamente in sé più realtà oggettiva di tutte quelle da cui mi sono rappresentate le sostanze finite»34. A questo punto Cartesio afferma che «affinché un'idea contenga una certa realtà oggettiva piuttosto che un'altra, dovrà, senza dubbio, riceverla da qualche causa, nella quale si trovi perlomeno tanta realtà formale, quanta realtà oggettiva contiene quest'idea»35. C'è una gerarchia ontologica degli enti rappresentati, e bisogna dare conto della diversità delle rappresentazioni: se l'io, in quanto sostanza pensante finita, ha sufficiente realtà per poter essere la causa formale delle idee delle sostanze finite, non ne ha abbastanza per esserlo nei confronti dell'idea di Dio, sostanza infinita. Come si vede la dimostrazione dell'esistenza di Dio poggia fortemente sul principio di causalità36. Cartesio ha scoperto così l'idea di Dio (e quella dell'infinito) come idea innata, di cui possiamo avere una conoscenza positiva37: dell'idea dell'infinito, e dell'idea di Dio, abbiamo un’idea chiara e distinta; concepiamo con chiarezza e distinzione, infatti, di non poter comprendere l'infinito. «Basta che io comprenda questo [...] perché l'idea che ne ho sia la più vera, la più chiara e distinta di tutte quelle che sono nel mio spirito»38. Per questo tale idea non è materialmente falsa39. L'ipotesi del genio 33

«Descartes propone quindi una triangolazione di questo tipo: idee chiare e distinte = idee vere = idee che rappresentano qualcosa». E. SCRIBANO, Guida, 66. 34 R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 38. 35 R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 39-40. 36 Cartesio lo riformula cosi: «È una cosa manifesta per luce naturale, che deve esserci per lo meno tanto di realtà nella causa efficiente e totale, quanto nel suo effetto». R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 38. 37 È un'affermazione ardita questa, con cui il filosofo si pone contro tutta la scolastica. Cfr. E. SCRIBANO, 68-71. 38 R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 44. 39 In proposito, sono state rivolte a Cartesio critiche di circolarità, ma la Scribano osserva che «è vero che la garanzia delle idee indubitabili avviene sul loro stesso piano, sull'idea chiara e distinta di Dio, ma ciò che questa rappresenta la distingue da tutte le

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maligno è così eliminata da un’idea chiara e distinta di Dio, ma Descartes potrà dire di averla conquistata solo alla fine dell'intero percorso delle meditazioni40. Il fatto che tale dubbio sia revocato da un’idea, mostra lo spirito profondamente razionalista di Cartesio: fondare la scienza è raggiungere l'idea chiara e distinta, la perfettissima coerenza41. 4.2 Tornando al mondo: la scienza di Descartes Grazie alla veracità divina, e nel contesto della teoria dell'innatismo, Descartes può assicurare che la scienza che si fondi su idee chiare e distinte sia vera e che parli della realtà, e che ciò che è conosciuto come l'essenza delle cose materiali, lo sia in effetti42. Le idee innate, infatti, si distinguono dalle altre perché esse non si presentano alla mente in modo involontario (al contrario delle idee avventizie), il loro contenuto s’impone alla mente come immodificabile e necessario (al contrario delle idee fattizie): un’idea è innata quando è impossibile negare uno qualunque degli elementi che la compongono senza cadere in contraddizione, e quando di essa si possono scoprire proprietà che erano ignorate al momento della sua prima percezione. Esse, dunque, descrivono realtà indipendenti dal pensiero. È la resistenza del loro contenuto all'attività della mente che impone di ipotizzare che esse denotino essenze immutabili ed eterne. Tra esse, quindi, troviamo quelle che corrispondono alle essenze delle cose (quei contenuti semplici emersi già nella riduzione delle cose materiali a delle proprietà che neanche l'ipotesi del sogno poteva mettere in dubbio), indipendenti sia dalla loro esemplificazione, sia dalla libera attività del pensiero. Le essenze delle cose, infatti, fanno evidentemente parte dell'essere reale (sono necessarie ed immutabili)43. La matematica, poi, che è l'esempio per eccellenza di conoscenza chiara e distinta, è costituita interamente sulle

altre: questa idea e solo questa idea pretende con ragione di non avere ulteriore necessità di garanzia». E. SCRIBANO, Guida, 117. 40 Non si accontenta, infatti, delle prime due prove dell'esistenza di Dio. Dio dovrà essere assolutamente scagionato dall'accusa di essere responsabile dell'errore umano perché la scienza di Cartesio, che ha, come detto, in Dio la sua garanzia, possa dirsi fondata. 41 Cfr. E. SCRIBANO, Guida, 32-33. 42 Cartesio parla della veracità divina dicendo che essa garantisce che tutto ciò che io riconosco chiaramente e distintamente appartenere ad una cosa, le appartiene in effetti. Cfr. E. SCRIBANO, Guida, 102. 43 Cfr. E. SCRIBANO, Guida, 97-99.

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idee innate44; essa ci mostra in atto come lavorano le idee chiare e distinte: la mente intuisce e scopre aspetti nuovi, e si trova obbligata a determinate conclusioni. È così che la teoria cartesiana della verità si precisa come adeguazione del pensiero alla cosa conosciuta: «se Dio è verace, le essenze geometrico - matematiche non possono essere difformi da come il mio intelletto le intende. Essere vere, nel caso delle idee chiare e distinte, implica già corrispondenza del pensiero alla cosa, anche se le cose stesse conosciute non fossero esemplificate in natura»45. Fatte queste considerazioni, è evidente che importantissima quanto l'ipotesi del sogno (e forse di più) è quella del dio onnipotente e ingannatore. L'ipotesi dell'inganno del dio onnipotente e il ruolo della veracità divina, infatti, assumono il loro pieno siginificato proprio alla luce della teoria innatista: se le idee innate denotano essenze che non dipendono dalla mente, ma da Dio, egli, grazie alla sua onnipotenza avrebbe potuto far sì che non vi fosse corrispondenza tra le idee e le essenze. Solo la veracità divina può garantire che le idee innate descrivano adeguatamente quelle essenze. Per questo mi dicono come è veramente il mondo – non semplicemente come io lo conosca – si riferiscono a cose, parlano della realtà. Sempre grazie alla veracità divina (che garantisce che ciò che si concepisce chiaramente e distintamente in un modo, lo è in effetti), si dimostrano l'esistenza del proprio corpo, e quella delle cose materiali. L'esistenza dei corpi è dimostrata attraverso le idee fattizie della sensazione. La sola immaginazione, infatti, non ci dà la certezza dell'esistenza dei corpi: l'oggetto dell'attività immaginativa può dipendere strettamente dalla pura intellezione. Il contenuto della sensazione (anche combinato da immaginazione e memoria), invece, è di sicura origine immateriale46. La passività della sensazione, infatti, implica la presenza di una potenza attiva che causi le sensazioni, e questa potenza – che non può appartenere all'io in quanto sostanza pensante – non può neanche essere in Dio: poiché siamo fortemente (e invincibilmente) propensi a credere nell'esistenza dei corpi come causa delle idee avventizie, ciò è sufficiente. La causa deve essere nelle cose materiali, che quindi esistono. La veracità 44

Cfr. Ibidem, 101. E. SCRIBANO, Guida, 101-102. 46 Il Dio verace, oltretutto, ha garantito che ciò che concepisco chiaramente e distintamente come natura dell'io lo è veramente, e poiché niente si svolge nel pensiero di cui l'io non sia cosciente, se l'io avesse una facoltà in grado di produrre l'oggetto delle idee confuse, essa non gli sarebbe nascosta. Cfr. E. SCRIBANO, Guida, 123. 45

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divina fornisce ancora una volta un discrimine tra dubbi non più attuali (che fanno supporre una facoltà nascosta) e dubbi legittimi. Per questa propensione forte, garantita dalla veracità di Dio, Descartes dichiara superato anche il dubbio sollevato con l'argomento del sogno. Esistono segni certi che distinguono la veglia dal sogno: la coerenza e la costanza delle immagini della veglia rispetto alla rapsodicità delle immagini oniriche, e nuovamente, Dio mi ingannerebbe se a questa evidente differenza nelle percezioni non corrispondesse una differenza nella realtà. 4.3 Il mondo e la scienza Sulla questione della scienza di Cartesio potrebbe essere scritto un intero volume. In questo luogo intendiamo solo portare all'evidenza qualche spunto. Come abbiamo visto, al filosofo non serve dimostrare l'esistenza di oggetti esterni per fare scienza (la conoscenza delle essenze delle cose, prima della conferma della loro esistenza, è già valida). Una conferma di ciò la possiamo avere prendendo in considerazione l'ampio utilizzo degli esperimenti mentali, anche in ambito naturale: «Il mondo», l'opera in cui troviamo la fisica di Descartes, non è altro che un grande esperimento mentale, che pretende di poter dar ragione di tutti i fenomeni fisici (dati per assunti solo la materia creata da Dio47, e il movimento regolato da leggi)48. Con una posizione simile49 Cartesio ha rovesciato i fondamenti dell'empirismo (quindi quelli della scienza aristotelico - tomista, per cui ogni conoscenza inizia dai sensi) dichiarandosi profondamente antiempirista: «anche se i corpi non esistessero, la mente potrebbe acquisire le 47

Come confida Cartesio all’amico Mersenne, anche le leggi della natura ne «Il Mondo» sono fondate sulla natura di Dio e sul rapporto che Dio intrattiene con il mondo (siccome Dio è immutabile, la quantità di moto impressa inizialmente al mondo rimane invariata). La conoscenza della natura di Dio è indispensabile per stabilire una parte rilevante del contenuto della scienza fisica: «Questo è il primo livello del ruolo fondazionale che la metafisica svolge nei confronti della fisica». Cfr. E. SCRIBANO, Guida, 8. 48 Non per niente Descartes dimostra l'esistenza delle cose materiali (nella sesta meditazione) solo dopo aver parlato della loro essenza nella quinta meditazione. «Per Descartes è estremamente importante saggiare la possibilità di conoscenza indipendente dall'esistenza dei corpi». E. SCRIBANO, Guida, 42. 49 La Scribano riassume bene questa posizione dicendo che «la scienza di Descartes prescinda dall'esistenza di ciò di cui fa scienza». E. SCRIBANO, Guida, 26.

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verità fondamentali su se stessa e anche sulla materia: potrebbe conoscere veracemente la natura e le proprietà». Oltretutto, non è inutile sottolineare che Descartes ci avrebbe potuto descrivere la descrizione della struttura del mondo già prima di aver terminato di distruggere la vecchia scienza (senza quindi neanche curarsi della sua esistenza). Il fatto che la capacità distruttiva del sogno valesse solo per le percezioni faceva sì che essa si dovese fermare di fronte alle «caratteristiche primitive dei corpi esterni». Dava quindi per scontato, come sottolineerà Putnam, che gli «elementi primi» siano caratteristiche intriseche dei corpi. Invece, la percezione (che è tutto quanto Cartesio considera soggettivo) e più in generale «l'esperienza sensibile, è sempre una costruzione della mente»50. D'altra parte la conoscenza dell'anima è dichiarata essere più facile che quella dei corpi nella seconda meditazione proprio perché «i corpi sono conosciuti attraverso proprietà che non provengono per astrazione dai corpi stessi, ma attraverso idee, per così dire, a priori, dell'intelletto, o del pensiero puro»51. Ma ciò non vuol dire che la scienza è soggettiva: essa è pur sempre scienza delle essenze delle cose52. In questo ordine di idee il dubbio del sogno è arrivato al cuore della scienza Cartesiana: esso ha messo in evidenza che l'esperienza sensibile è qualcosa di puramente soggettivo, e che quel che di oggettivo (ossia indipendente dal soggetto percipiente) si riscontra in essa sono alcuni elementi primi, le sue strutture matematiche e geometriche, non esprimibili direttamente, ma conoscibili col solo intelletto. La nostra visione quotidiana del mondo è un miscuglio di proprietà oggettive, reali, e qualità da noi proiettate, e quindi soggettive53. E la scienza che ci viene proposta vuole separare questi due aspetti. In conclusione, dopo aver ribaltate le tesi empiriche di Aristotele, Cartesio ci dice che l'esperienza sensibile è sempre una costruzione mentale54. Essa infatti si riduce ad elementi di origine puramente mentale: 50

E. SCRIBANO, Guida, 53. Si arriva alla conclusione suddetta in forza del principio, ammesso anche dagli empiristi, per cui la conoscenza della condizione è più facile di quella del condizionato. Cfr. E. SCRIBANO, Guida, 55. 52 Ciò cui fa riferimento non è il cogito, bensì l’oggettiva indubitabilità delle proposizioni matematiche. 53 Il dualismo dell'anima e del corpo, è anche quello del mondo nella sua essenza matematica (le essenze delle cose, sono le idee che sono conosciute chiaramente e distintamente) e la sua materialità. 54 Cfr. E. SCRIBANO, Guida, 53. 51

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le idee innate (quali l'estensione). Questo non ci deve stranire molto: la Scribano sostiene che una tesi simile non è altro che l'embrione di quella che sarà sostenuta da Hume, e poi sviluppata da Kant, secondo la quale, per trovare ciò che rende possibile l'esperienza, si deve cercare nella mente, essendo l'esperienza tutta intessuta di elementi non desumibili dai soli dati empirici. Quando parliamo di conoscenza, dunque, è sempre conoscenza intellettuale. Essa può essere oscura e confusa (quando il contenuto del giudizio è dato solo dal materiale e dalla sensibilità) oppure chiara e distinta. Si ha conoscenza chiara e distinta del dato empirico solo quando scavando all'interno di esso si saranno rintracciate quelle nature semplici della matematica e della geometria che non sono mai esperite direttamente, e che tuttavia sono implicate in ogni esperienza perché ne sono la condizione stessa. Con una simile analisi si saranno ritrovati gli elementi intellettuali dell'esperienza sensibile.

CAPITOLO II

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«Cervelli in una vasca» è il titolo del primo capitolo del libro Ragione, verità e storia pubblicato da Putnam nel 1981. Il problema che viene riproposto nelle prime pagine del volume, è quello del riferimento: la celebre ipotesi dei cervelli in una vasca, infatti, è introdotta e contestualizzata, da un'altra immagine. «Una formica cammina su una spiaggia di sabbia, e camminando traccia una linea... »1 tale da divenire una caricatura riconoscibile di Winston Churchill. Putnam ci chiede se quella formica abbia voluto rappresentare Churchill, o se quella linea che ha tracciato lo rappresenti. Al filosofo piace, a quanto vedremo, giocare con l'immaginazione; ma questa immagine pone, come le successive, una domanda precisa: «Come è possibile che una qualsiasi cosa possa riferirsi2 ad un altra?». È questo – ed è bene tenerlo presente – il punto da cui Putnam prende le mosse. Quindi, l'ipotesi (e l'argomento) dei cervelli in una vasca – che normalmente potrebbe essere uno spunto per trattare il problema epistemologico dello scetticismo – in un tale contesto è «modo utile per sollevare il problema dei rapporti tra la mente e il mondo»3: l'argomento che segue dimostra sì l'esistenza di quel mondo che, secondo il «senso comune», pensiamo di conoscere (e lo trova necessario per 1

Queste le prime parole del volume (se si esclude la prefazione). H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 7. 2 Putnam chiarisce in una nota all'inizio di questo capitolo, il primo del suo libro, che in esso «i termini “rappresentazione” e “riferimento” si riferiscono sempre ad una relazione tra una parola (o un altro tipo di segno, simbolo o rappresentazione) e qualche cosa che realmente esiste (ossia non soltanto un “oggetto del pensiero”)». Allo stesso modo precisa che il termine «esistere» è usato per indicare esistenza passata presente o futura; ci si può dunque «riferire», ad esempio, persone non più in vita, giacché esse «esistono» nel passato. Cfr. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, nota 1, 7. 3 H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 12.

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l'esistenza e l'uso che facciamo del linguaggio) ma lo fa da una prospettiva particolare e forse inusuale. Ma andiamo con ordine. 1. Il contesto; i significati non sono nelle cose Sull'immagine tracciata dalla formica, il filosofo osserva semplicemente che la linea non è in «se stessa» una rappresentazione di una cosa piuttosto che di qualsiasi altra. Per rappresentare qualcosa, d'altra parte, la somiglianza non è neanche necessaria (si pensi al segno grafico della parole che designa una certa cosa). Siamo noi che possiamo vedere (o leggere) una rappresentazione come immagine di qualcosa. Potrà dunque sembrare che per rappresentare sia necessaria l'intenzione che una cosa qualsiasi ne rappresenti un'altra. E per l'intenzione di qualcosa è necessario, prima di tutto pensare quel qualcosa. Questo è il percorso che hanno seguito molti filosofi, che infine hanno ricondotto questo problema del riferimento al problema dell'intenzionalità: come il pensiero può percepire e afferrare ciò che è esterno? «I pensieri sono di natura intrinsecamente diversa da quella degli oggetti fisici. I pensieri hanno la caratteristica dell'intenzionalità, ossia si possono riferire a qualcos'altro: al contrario, niente di fisico ha intenzionalità, se non quella che le deriva da un qualche uso di quella data cosa fisica a opera della mente»4. A questa conclusione – osserva Putnam con una certa ironia – ci erano arrivati anche quei filosofi antichi che si erano convinti che la mente sia di natura essenzialmente non fisica. Per Putnam il ragionamento appena descritto va spiegato meglio: come è possibile l'intenzionalità? Il semplice postulare poteri misteriosi della mente non può essere accettato come spiegazione dell'intenzionalità e del riferimento. Una spiegazione simile è classificabile tra le «teorie magiche», teorie inconsistenti, perché, in fondo, pretendono che esista un legame (che per l'appunto, se non spiegato, deve essere per forza magico) tra il nome e il suo portatore e, in senso più ampio, tra immagini o rappresentazioni mentali e ciò che rappresentano. La tesi del filosofo americano vuole che il legame sia solo contestuale, contingente e convenzionale5: «le parole del pensiero e le figure mentali non rappresentano intrinsecamente ciò su cui vertono»6. E questa è «un'importante verità concettuale» che si tenterà di argomentare. A dimostrazione di essa, si può ipotizzare il caso estremo di una persona «che pensa delle parole che sono, in effetti, la descrizione – 4

H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 8. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 9. 6 H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 11. 5

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per esempio – di alberi in una qualche lingua e, al tempo stesso, ha le corrispondenti immagini mentali, ma né comprende il significato delle parole, né sa che cosa sia un albero». Ebbene, seppure «tutto ciò che si presenta alla mente di quella persona potrebbe essere qualitativamente identico a quello che potrebbe passare per la mente di un parlante quella lingua che pensasse realmente a alberi, niente di quello si riferirebbe a alberi»7. Quindi «la somiglianza qualitativa tra i pensieri […] non implica per nulla che i riferimenti siano gli stessi in entrambe i casi»8. Tuttavia il collegamento può sembrare non così immediato, la conclusione affrettata; quantomeno si tratta di un ragionamento lontano dal nostro modo comune di pensare. L'autore lo sa. Per questo si fa seguire dal lettore in una serie di esempi ed esperimenti mentali, che tentano di condurlo al cuore del problema. 2. L'ipotesi. «Questa è una possibilità fantascientifica discussa dai filosofi... ». Così ha inizio «il caso di cervelli in una vasca», il paragrafo in cui Hilary Putnam propone il celebre argomento9. Egli ci fa immaginare l'universo come un «macchinario automatico» che governi una vasca piena di cervelli e di sistemi nervosi; tale macchina è in grado da fornire ad essi una «allucinazione collettiva» che li convinca dell'esistenza del loro corpo e delle cose materiali, e di poter vivere normalmente, muoversi e dialogare10. Quella macchina è perfetta: non c'è occasione di dubitare che ciò cui ci riferiamo nella vita reale non esista; o meglio, ciò che fino ad ora abbiamo dato per scontato esistere, ed essere oggetto del riferimento delle nostre parole... Già, perché a questo punto il lettore – che con il suo modo di procedere Putnam ha interamente coinvolto nel gioco immaginativo – si trova improvvisamente catapultato in un dubbio inquietante: e ridendo nervosamente, magari, si dà dello sciocco per essersi pensato anche solo per un istante chiuso da sempre in una vasca, e «coltivato» da una 7

H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 11. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 20. 9 Tra i «filosofi» cui fa riferimento, possiamo sicuramente considerare Descartes, con la sua ipotesi del sogno, ma ancora di più, Malebranche, che è forse il pensatore che più ha raccolto da Descartes. In proposito, cfr. E. SCRIBANO, 142. 10 Se «sentiamo di parlarci» in questo caso siamo effettivamente in comunicazione tra di noi, osserva Putnam; e se ci sbagliamo credendo all'esistenza dei nostri corpi e del «mondo esterno», non ci sbagliamo sulle nostre reciproche esistenze. Il risultato di Descartes, dunque non è in dubbio. 8

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macchina, come ci ritrae quel recente film di fantascienza, per l'appunto ispirato all'argomento di Putnam. Ed è proprio il coinvolgimento in cui ci vuole l'autore, che, invitandoci a scendere a «reali profondità filosofiche» ci chiede: «saremmo in grado, se fossimo cervelli in una vasca nelle condizioni descritte, di dire o di pensare che lo siamo?»11. No, ci risponde subito: questa ipotesi si confuta da sola. «Se infatti possiamo considerare se essa sia vera o falsa, allora essa non è vera»; ossia, «le persone in quel mondo possibile non potrebbero riferirsi alle stesse cose cui possiamo riferirci noi. In particolare, essi non possono pensare o dire di essere cervelli in una vasca (anche quando pensano “siamo cervelli in una vasca”)»12. In queste poche righe ci viene abilmente sintetizzato il contenuto dell'argomento: siamo certi di non essere cervelli in una vasca per come usiamo le parole: l'uso stesso del riferimento testimonia l'esistenza di qualcosa di extra-linguistico. Ma poiché l'argomento ha uno sviluppo che lo stesso autore concede possa sembrare strano, lo fa precedere da ulteriori considerazioni preparatorie. Queste poche parole, infatti, oramai non bastano: rimaniamo con il dubbio che ciò cui riferiamo, forse, davvero non esista. 2.1 Il gioco delle imitazioni: i significati non sono nelle parole Prima di presentarci l'argomento, quindi, per farci capire la profondità e il peso che ha la questione del riferimento, Putnam ipotizza la validità di una eventuale «prova di Turing per il riferimento». Il logico inglese Alan Turing, aveva proposto un test per giudicare se una macchina potesse essere cosciente, e aveva stabilito che si può considerare «cosciente» un computer effettivamente in grado di superare una «prova dialogica di competenza»: sostenere una «conversazione intelligente» con qualcuno, esattamente come lo farebbe un altro essere umano, e in modo tale da poter confondere l'interlocutore. Ovviamente, il problema che ci viene qui suggerito, non è quale sia criterio per discernere la presenza o meno della coscienza (i filosofi, infatti, continuano a discutere se una tale prova sia definitiva per la coscienza): come la suddetta prova, questa nuovo esperimento mentale di Putnam vuole essere un test della «nozione di riferimento». Esso pretende di determinare – attraverso una ipotetica conversazione – l'esistenza o meno di un riferimento condiviso. 11 12

H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 13. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 14.

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Potremmo pensare, infatti, che per verificare se un cervello in una vasca usa le parole per riferirsi a qualcosa come facciamo noi, basti assicurarsi, in parole povere, che in un dialogo esso parli la nostra stessa lingua e si riferisca agli stessi tipi di oggetti come facciamo noi, e così via. Sebbene una prova simile sembri soddisfacente, Putnam stesso ci fa notare che essa non basta a darci la certezza del riferimento condiviso13; sul piano logico, infatti, sebbene sia improbabile che una macchina, per quanto complessa, ci inganni in quella maniera, non è impossibile che qualcuno o qualcosa possa passare tale prova senza riferirsi a nulla. Una macchina di Turing per il riferimento (cioè in grado di passare la prova e vincere «il gioco delle imitazioni» parlando esattamente come un essere umano) che non abbia organi sensoriali né motori, né apparati elettronici che svolgano funzioni analoghe (occhi e/o orecchie elettroniche), né mezzi per incorporare dati provenienti da tali organi sensoriali, o per controllare il corpo, sarebbe semplicemente un «congegno per la produzione di enunciati in risposta ad enunciati»; ma nessuno di quegli enunciati sono legati al mondo reale. Essa sarebbe in grado di fare un bel discorso su un paesaggio, ma non in grado di riconoscere gli oggetti; «...se si mettessero insieme due macchine di tale tipo, e si lasciasse loro fare il gioco di imitazione l'una con l'altra, esse potrebbero continuare a prendersi in giro a vicenda per sempre, anche se tutto il resto del mondo dovesse scomparire»14: esse sono assolutamente insensibili al fatto che quegli oggetti continuino ad esistere. I discorsi dei computer sulle mele, conclude Putnam, non si riferiscono alle mele reali più di quanto il disegno della formica (che non ha pensiero né tantomeno può aver mai visto Churchill) si riferisca a Churchill. I computer, con il loro semplice giocare con le parole, ci dimostrano che il riferimento non si può ridurre alle semplici parole. C'è, però, una differenza essenziale tra le «apparenti rappresentazioni» 13

Cfr. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia,15-16. Sembra che Putnam avesse qui in mente, non solo l'idea, ma le stesse parole usate da Malebranche ne «La ricerca della verità»: «supponendo che il mondo venisse annientato, e che Dio tuttavia producesse nel nostro cervello le stesse tracce, o piuttosto presentasse alla nostra mente le stesse idee che vi si producono alla presenza degli oggetti, noi vedremmo le stesse bellezze... ». La Scribano considera sorprendente questa somiglianza. Non ci stupisce se ci concentriamo – come tentiamo di fare in questo elaborato – sugli aspetti comuni delle diverse questioni che hanno saputo porre i due filosofi. Forse lo stesso Putnam ha letto queste righe ed ha, più o meno coscientemente, raccolto la sfida del filosofo francese. Cfr. E. SCRIBANO, 142. 14

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dei computer e quella della formica del primo esempio: la formica avrebbe potuto tracciare la medesima curva anche se Churchill non fosse mai esistito; i computer, invece, non avrebbero mai potuto parlare come noi di mele se le mele non fossero mai esistite: i programmatori non avrebbero potuto fornirgli un programma adeguato. Questo mostra che anche tra la macchina e gli oggetti del mondo reale da essa descritti, esiste «un certo legame causale che passa attraverso l'esperienza percettiva e le conoscenze dei programmatori». Il legame causale è un elemento importantissimo. E infatti, Putnam crede che quello che noi possiamo dire sulle cose è intimamente legato alle nostre «transazioni non verbali» con le cose, descrivibili da regole del linguaggio «di ingresso» e «di uscita»15. Il gioco che fanno le due ipotetiche macchine, è semplicemente un gioco sintattico, e per quanto assomigli moltissimo ad un discorso intelligente, è di fatto privo di ogni significato. 2.2 Cervelli nella vasca L'ipotesi dei cervelli è introdotta, allora, come ulteriore livello di dubbio, forse il più forte pensabile attualmente: i cervelli in questione sono cervelli funzionanti; ricevono gli impulsi trasmessi alle terminazioni nervose afferenti, e sono dotati di intelligenza e di coscienza (di cui il computer è privo, come Putnam, fra l'altro, ha appena mostrato16): le «transazioni di dati» di cui sopra, sono dunque garantite. Essi sono senza dubbio superiori alle macchine che abbiamo ipotizzato sopra. Il computer che li controlla – ci invita a supporre Putnam – si è prodotto per qualche coincidenza cosmica, non ha un ideatore intelligente; magari è sempre esistito (come il genio maligno di Descartes): è questa una forma di escludere ogni possibilità di un legame non verbale con eventuali oggetti esterni. Ora, «...se quei cervelli pensano o si riferiscono ad alberi o li rappresentano (alberi reali al di fuori della vasca), ciò deve essere senza dubbio mediante il modo in cui il “programma” lega il sistema di linguaggio ai “contenuti non verbali” che arrivano al cervello e che da esso sono prodotti. Tali contenuti [...], i “dati sensoriali” prodotti dalla macchina automatica, non rappresentano 15

«Esistono delle “regole di ingresso del linguaggio” che, dall'esperienza che abbiamo delle mele ci portano a pronunciare frasi del tipo “vedo una mela”, e delle “regole di uscita del linguaggio” che, da una decisione espressa in una forma linguistica ci permettono di passare ad azioni che non sono semplicemente di ordine verbale». H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 17. 16 La prova di Turing per il riferimento, infatti, si è dimostrata inconclusiva.

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alberi, anche quando assomigliano esattamente alle immagini che abbiamo noi 17 degli alberi» .

Come nel caso dei computers (anche se per loro non ci azzardavamo a parlare di pensieri), quindi, la somiglianza qualitativa tra i pensieri dei cervelli in una vasca e quelli di una persona del mondo reale non implica per nulla che i riferimenti siano gli stessi in entrambe i casi. Non è difficile, quindi, capire che non vi è alcun motivo di pensare che il cervello in una vasca si riferisca a cose esterne: «dato che il programma lega il linguaggio a dati sensoriali che non rappresentano gli alberi, come potrebbe l'intero sistema di rappresentazioni riferirsi o rappresentare effettivamente gli alberi?»18. Ma possiamo obiettare: se noi fossimo veramente cervelli in una vasca, la somiglianza di cui ci parlava Putnam sarebbe una proiezione, visto che «una persona del mondo reale» è un qualcosa di immaginario. Ci riferiremmo in quel caso, appunto, ad oggetti nell'immagine, variamente ricomposti dalla nostra capacità cerebrale, o dal programma. Potremmo parlare, allora, di riferimento, in virtù di quel programma che lega il linguaggio ai dati sensoriali, seppure il riferimento sia diretto agli oggetti della nostra immaginazione, allo stato mentale. È questa la posizione che possono difendere «alcune teorie», secondo le quali il cervello ha ragione quando pensa, ad esempio, «c'è un albero davanti a me»: il cervello, si potrebbe infatti riferire agli alberi nell'immagine, o agli impulsi elettronici che gli hanno fatto avere delle esperienze relative agli alberi, oppure a quelle caratteristiche del programma che sono responsabili di tali impulsi elettronici. Prendendo le parti del filosofo dell'intenzionalità, Putnam concede che «queste teorie non sono in contrasto con ciò che abbiamo spiegato» poiché il legame causale tra l'uso della parola «albero» nel linguaggio della vasca e la presenza degli alberi nell'immagine c'è, ed è forte19. Perché l'enunciato «c'è un albero davanti a me» sia vero, quindi, basta che un albero sia «davanti» al «me» in questione in un immagine mentale, che sia in funzione la macchina che la provoca. Lo stesso ragionamento possiamo farlo per le parole «vasca», e «liquido nutriente». Ma allora, osserva quasi fulmineamente Putnam, riprendendo la sua posizione, se noi fossimo realmente solo cervelli in una vasca, con 17

H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 19. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 20. 19 Cfr. Ibidem. 18

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l'affermazione «siamo cervelli in una vasca», intenderemmo, effettivamente, che siamo cervelli in una vasca nell'immagine. In tal caso, poiché parte dell'ipotesi secondo cui noi saremmo cervelli in una vasca è che noi non siamo cervelli in una vasca nell'immagine, affermare «siamo cervelli in una vasca» è necessariamente falso. 3. La critica all'intenzionalità: i significati non sono nella mente Che valore ha il fatto che il suddetto enunciato sia falso? Se l'obiettivo è ristabilire l'esistenza delle cose esterne, esso, di certo, non basta a porre, come il cogito di Descartes, un esistenza necessaria. È quanto direbbero certi filosofi: l'impossibilità concettuale del mondo che abbiamo immaginato, mostrata da una semplice «ricerca sul significato delle parole», non intacca la possibilità fisica. Ma, come abbiamo tentato di anticipare da qualche paragrafo, è qui che si nasconde la «profondità filosofica» che Putnam è riuscito a penetrare. Ciò a cui egli ci vuole portare, è «un analisi delle precondizioni del pensare, rappresentare, riferirsi a qualche cosa»20, un'analisi trascendentale, dunque. Per metterla in atto, non siamo certo partiti – come credono quei filosofi – interrogandoci sul significato delle parole (come avrebbe fatto un linguista), ma da un ragionamento a priori nel senso di «indagine su che cosa sia ragionevolmente possibile assumendo certe premesse generali, o facendo certe assunzioni teoriche molto ampie». Tale procedura (che Putnam riconosce essere non infallibile21!) dipende da assunzioni empiriche22 in stretto rapporto con un indagine trascendentale. Putnam, dopo averci coinvolto in un'ipotesi così devastante, e così apparentemente ardua da smontare, da buon logico, si rivolge subito alle sue assunzioni. Perché – si chiede – l'ipotesi sembra avere un senso?23 Perché poggia su due errori: essa prende troppo sul serio le possibilità fisiche (e infatti, già di per sé, l'ipotesi è altissimamente improbabile, e quindi non ragionevole), e si basa, inconsciamente, su una «teoria magica del riferimento», su cui già abbiamo fatto qualche osservazione 20

H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 22. Cfr. Ibidem. 22 Quelle che chiama «premesse generali»: ad es. quella secondo cui la mente non ha alcun accesso a cose esterne o proprietà se non a quello che le proviene dai sensi. Cfr. Ibidem. 23 Con questa domanda, Putnam ci vuole chiarire anche perché ai filosofi che sostengono «la teoria della verità come copia» sembri tanto strano lo sviluppo del suo argomento. Cfr. H. Putnam, Ragione, verità e storia,4. 21

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preliminare. Per questo, «l'impalcatura dell'argomento» putnamiano, espresso sinteticamente sopra, poggia su due premesse24, che scopriamo collegate strettamente l'una all'altra. La prima è che le teorie magiche del riferimento sono errate (sia per le rappresentazioni mentali che per quelle fisiche); la seconda, invece, vuole che non ci si possa riferire a certi generi di cose senza aver avuto una interazione causale con essi, o con altre cose che potrebbero servire per descriverli. Per «teoria magica del riferimento», come abbiamo detto, s'intende quella teoria che attribuisce «alla mente una capacità, l'intenzionalità, che le permetterebbe di riferirsi a qualcosa»25. Secondo Putnam, il problema di questi filosofi è che essi non hanno mai negato, in fondo, la conoscenza come rappresentazione26: «se esistono rappresentazioni mentali che si riferiscono necessariamente (a cose esterne), esse devono essere della medesima natura dei concetti, e non di quella delle immagini»27. Quei filosofi, quindi, hanno solo spostato nominalmente il riferimento (con ciò che esso comporta) dalle immagini ai concetti, ma senza spiegarlo. Il fatto è – sostiene il filosofo – che neanche i concetti sono «presentazioni mentali che si riferiscono intrinsecamente a oggetti esterni» (come ci fa pensare, ad esempio, Brentano). Il fatto che non si possa ridurre il riferimento al semplice «stato psicologico», ci conferma, in altre parole, che «i significati non sono nella mente»28. L'errore dell'intenzionalità è pensare di poter spiegare anche il riferimento con una fenomenologia del pensiero: ciò è impossibile proprio perché la descrizione dell'espressione interna del pensiero non è la comprensione di quel pensiero29! Cosa sono, dunque, i concetti? Essi sono molto di più che semplici «segni», «presentazioni mentali», «stati psicologici»: «il segno stesso, infatti, indipendentemente dal suo impiego non è il concetto»30. La differenza tra immagini e concetti, quindi, sta nella capacità di impiegare enunciati in modi situazionalmente appropriati31, 24

H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 23. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 23. 26 «These philosophers did not claim that we can think about external things or properties without using representations at all»; H. PUTNAM, Reason, truth and history, 17. 27 H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 23. 28 H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 24. 29 H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 26. 30 H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 24. 31 L'appropriatezza situazionale poi, è determinata da fattori non solo linguistici. Cfr. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 25. 25

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nella pratica, nella capacità di saper distinguere ed indicare un albero, se richiesto32. «...si potrebbe possedere qualsiasi sistema di immagini vi piaccia e non possedere la capacità di impiegare enunciati in modi situazionalmente diversi. […] Una persona potrà persino avere l'immagine di ciò che deve fare e al tempo stesso no sapere che cosa deve fare: infatti, se non le corrisponde la capacità di agire in una certa maniera, l'immagine è una semplice figura, e agire in accordo a una figura è di per se stessa una capacità che uno può avere o non avere»33.

Lo stesso capire una frase del tipo «indicami un albero», quindi, richiede una capacità di applicare enunciati in determinate situazioni. Si pensi, ad esempio, alla possibilità che abbiamo di porre la stessa domanda nel mezzo di una pineta, come anche guardando un album di foto di paesaggi: capiamo la domanda e agiamo di conseguenza in contesti diversi, e con riferimenti completamente diversi. Saremmo coscienti, infatti, nel secondo caso, di riferirci semplicemente a un immagine di un albero. Un criterio per decidere se si possiede veramente un concetto, quindi, può essere la capacità di usare certi enunciati34. Che i significati non siano nella mente, tuttavia, può risultare ancora una conclusione «fastidiosa», anche di più di quella cui siamo pervenuti precedentemente. Siamo infatti abituati, per la grande influenza delle teorie dell'intenzionalità, oltre che per un pizzico di ingenuità, a pensare il contrario. Per farsi capire allora, Putnam ci propone un altro esempio: «...è veramente credibile – ad esempio – che la differenza tra quello a cui si riferisce la parola “olmo” e quello a cui si riferisce invece la parola “faggio” abbia origine in una differenza dei concetti che abbiamo di

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«Concepts are not mental presentations that intrinsically refer to external objects for the very decisive reason that they are not mental presentation at all. Concepts are signs used in a certain way; the signs may be public or private, mental entities or physical entities, but even when the signs are “mental” and “private”, the sign itself apart from its use is not the concept. And signs do not themselves intrinsically refer» (corsivo mio); H. PUTNAM, Reason, truth and history, 18. 33 H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 25. 34 «Qualunque sia il tipo di fenomeno interno che consideriamo come un'espressione possibile del pensiero, non sono i fenomeni stessi che costituiscono la comprensione, ma piuttosto lo è la capacità del pensante di impiegare questi fenomeni, di usare il fenomeno giusto nelle circostanze giuste». H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 26.

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essi?»35. Valutiamo il problema logicamente: se proviamo a supporre un mondo esattamente gemello al nostro, tranne per il fatto che olmi e faggi si siano scambiati i rispettivi nomi, un mio doppione perfetto su quel mondo, potrebbe avere i medesimi pensieri verbalizzati, gli stessi dati sensoriali e le stesse disposizioni che ho io: egli avrebbe necessariamente il mio stesso stato psicologico, eppure la sua parola olmo rappresenta un «faggio». In ogni caso il solo ipotizzare che il mio doppione possa avere la mia stessa configurazione mentale è qualcosa che accetterebbe solo un dualista: come mostrerà Putnam il pensiero dipende causalmente dalle sensazioni. È qui che interviene la seconda premessa dell'impalcatura dell'argomento putnamiano36: non ci si può riferire a certi generi di cose senza aver avuto una interazione causale con essi, o con altre cose che potrebbero servire per descriverli. Questo è quanto la teoria tradizionale del significato37 non ha preso seriamente in considerazione: essa non ha mai illustrato in maniera soddisfacente che cosa in realtà sia l'intensione. In parole povere essa, ritenendo i concetti un qualcosa di mentale, riduce i significati a entità mentali, per cui comprendere una parola è solo questione di trovarsi in un certo stato psicologico. Il problema di questa teoria è nel ridurre il problema del significato a ciò che avviene a livello cerebrale. Putnam evidenzia come non solo questa riduzione è sbagliata, distinguendo stati cerebrali da stati mentali, ma anche che il significato è qualcosa che riguarda l'intera comunità in costante esperienza. La sua teoria causale del significato, infatti, affermando «la divisione del lavoro linguistico», scarica il singolo dal compito inutile oltre che vano di acquisire una conoscenza totale sull'intero universo di discorso (al parlante basterà acquisire degli «stereotipi», informazioni minimali sul referente putativo del termine in questione: per il resto c'è sempre, in una comunità, la possibilità di rivolgersi ad «esperti»), e spiega il fissarsi del riferimento (e l'estensione, che poi si configura come la parte principale del significato, senza esaurirlo38) di una parola attraverso una connessione causale con l'oggetto empirico. «L'oggetto e il parlante producono l'uno nell'altro delle reazioni, 35

H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 24. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 23. 37 Secondo questa teoria, una volta chiarito che cosa si debba intendere per l'intensione di un certo termine, e stabilito tramite questa qual è l'insieme di oggetti a cui esso si riferisce – l'estensione –, si è fatto tutto il necessario per esplicitare il significato di quel termine stesso. 38 Cfr. M. DELL'UTRI, Le vie del realismo, 86. 36

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dove tra gli effetti prodotti dall'oggetto c'è anche quello di muovere il parlate a usare un certo nome per identificarlo»39. Cambiando il mondo, quindi, cambia la comunità e quindi le estensioni. La possibilità all'interno della società di ricorrere ad esperti in grado di distinguere effettivamente i significati di diverse parole, gli olmi dai faggi, è un dato di fatto; di certo, poi, non ci siamo mai immaginati questi esperti come portatori di concetti mentali: se sanno distinguere tra un olmo e un faggio, è perché ne hanno studiato le differenze sul campo. La critica dell'intenzionalità, dunque, ne evidenzia la povertà della spiegazione del fenomeno della comprensione: comprendere qualcosa non è assolutamente spiegabile con una coscienza intenzionale, intesa come fenomeno psicologico. Una simile interpretazione riduce la comprensione ad una qualità introspettiva. Ma abbiamo ampiamente dimostrato che chi abbia quella qualità introspettiva può benissimo non comprendere; e, dall'altro lato, per comprendere qualcosa non è necessario avere quella data qualità; pertanto «nessun insieme di eventi mentali – immagini o altri avvenimenti o qualità mentali più «astratte» – costituisce il comprendere e nessun insieme di eventi mentali è necessario per comprendere. In particolare i concetti non possono essere identici a oggetti mentali di alcun genere»40. L'intenzionalità pensa di poter spiegare anche il riferimento con una fenomenologia del pensiero: ammette la connessione causale, ma sbaglia attribuendo la capacità del significato alla mente. Tirando le somme, Putnam ha mostrato che esiste necessariamente un legame tra le nostre parole e le cose cui esse si riferiscono, ma che questo legame non è necessario41, non è univoco (per questo Aristotele diceva che l'essere si dice in molti modi). Di fatto deve esserci un’interazione causale, altrimenti non sapremmo usare certe parole per riferirci a certi oggetti; le 39

M. DELL'UTRI, 82-83. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 27. A conferma di queste affermazioni, Putnam propone l’esempio, assolutamente possibile, di una persona che non abbia alcun monologo interiore; dal testo originale, «...this man seems perfectly imaginable. No one would hesitate to say that he was conscious, disliked rock and roll (if he frequently expressed a strong aversion to rock and roll), etc., just because he did not think conscious thoughts except when speaking out loud»; H. PUTNAM, Reason, truth and history, 20. 41 È necessario riconoscere il legame tra le parole e le cose cui si riferiscono e richiedere una causa estrinseca alle parole; questo è il contrario di pretendere che quel legame tra la parola e la cosa sia necessario, nel senso che si spiega come proprietà intrinseca della parola. 40

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parole stesse sono la testimonianza di una compenetrazione reciproca di mente e mondo: proprio per il fatto che sappiamo usarle in modi diversi, situazionalmente appropriati, i concetti – intesi come oggetti mentali speciali che abbiano un legame necessario con ciò cui si riferiscono – non esistono. Possiamo ora capire perché la falsità dell'enunciato «siamo cervelli in una vasca» non si limita al piano logico. Il nucleo dell'argomento di Putnam è mostrare che gli abitanti del mondo costituito da cervelli in una vasca non potrebbero riferirsi a nulla di esterno perché le loro parole non possiedono alcun riferimento determinato. 4. Alcune considerazioni Potremmo ancora pensare che sia comunque possibile che i cervelli nell'ipotesi possano riferirsi a qualcosa: come abbiamo già accennato, anche se i concetti non sono immagini né stati mentali, possiamo comunque ritenere un cervello in una vasca in grado di usare quei fenomeni interni e riferirvisi in contesti situazionalmente diversi. Anche Dell'Utri osserva che «il modo in cui Putnam impiega nel suo argomento le due premesse lo porta ad affermare che tutto ciò a cui le parole o i pensieri dei cervelli nella vasca possono legarsi referenzialmente non è nient'altro che quelle immagini di oggetti reali che il computer gli fa apparire, non gli oggetti stessi»42. Eppure tutto ciò non è che il frutto di un eccessiva libertà di immaginazione: Putnam aveva osservato fin da subito che una delle premesse per nulla scontate dell'ipotesi era proprio il fatto che esso prende troppo sul serio le possibilità fisiche: un mondo possibile dal punto di vista fisico non è altro che una «descrizione di uno stato di cose compatibile con le leggi della fisica». Ma una descrizione del mondo come quella dell’ipotesi è veramente irragionevole (torneremo su questo punto), e pertanto inaccettabile. È qui che Putnam si mostra più che semplice logico o linguista: è la filosofia che può escludere, secondo certi criteri di ragionevolezza, che una certa possibilità fisica possa essere reale. D'altra parte, Dell'Utri osserva che l'opzione metafisica che sottostà all'ipotesi è chiaramente realista: l'ipotesi dei cervelli in una vasca non mette in discussione l'esistenza del mondo, solleva semplicemente dubbi sul fatto che il mondo che noi conosciamo sia il mondo che effettivamente c'è43. Alla fin dei conti, infatti, quel che lo scettico nega è un uso 42 43

M. DELL'UTRI, 114. M. DELL'UTRI, 112.

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referenziale del linguaggio: per conoscere il mondo noi dobbiamo usare il linguaggio, e tra mondo e linguaggio ci deve essere una relazione di riferimento affinché sia possibile esprimere quella conoscenza; se il valore di verità delle nostre teorie travalica irrimediabilmente la nostra capacità di accertarlo, ogni conoscenza ci è preclusa. Non potremmo quindi scoprire di essere Cervelli in una vasca perché tra le nostre facoltà conoscitive e il mondo esiste una tale incompatibilità da impedire ogni rapporto. Da queste osservazioni, lo stesso Dell'Utri si chiede se la riflessione di Putnam non valida solo contro uno scetticismo radicalmente non epistemico44. È lo stesso Putnam a riconoscere fin dall'inizio che le premesse del suo argomento possono considerarsi empiriche, e che pertanto il suo argomento non è un argomento a priori in senso assoluto45: esso, quindi, può considerarsi fallibile46. Non afferma, tra l'altro, che quelle da lui chiamate «teorie magiche del riferimento» sono sbagliate a priori, ma si limita a dichiararlo partendo da un presupposto generale del tipo: «la mente non ha alcun accesso a cose o proprietà esterne a parte quello fornito dai sensi»47. Una conclusione simile è spiazzante: ci troviamo forse davanti al primo filosofo che esplicitamente non pretende di avere incontestabilmente ragione (potrebbe comunque darsi che siamo cervelli in una vasca!). Il suo unico obiettivo sembra volerci far riflettere sul qualcosa che diamo troppo per scontato: il rapporto tra la mente e il mondo. «Se una possibilità di questo tipo viene citata nel corso di una lezione sulla Teoria della conoscenza, lo scopo è, naturalmente, quello di porre in un modo moderno il classico problema dello scetticismo (come fai a sapere che non ti trovi realmente in questa situazione?), ma questa situazione è anche un modo utile per sollevare il problema dei rapporti tra la mente e il mondo»48.

Finora abbiamo quasi dato per scontato la mente, sia dell'uomo reale, sia di un cervello in una vasca, subisca gli stimoli fisici (dati sensoriali) del 44

M. DELL'UTRI, 113. Qualche pagina dopo, lo stesso afferma che l'argomento è un circolo vizioso: «alla messa in questione della conoscibilità del mondo da parte dello scettico, Putnam risponde assumendo la conoscibilità». Pertanto, esso non può essere, come vorrebbe il suo formulatore, «una libera e stringente contromossa» allo scetticismo. Cfr. Ibidem, 117. 45 D'altra parte, Putnam ha già maturato la sua critica ai concetti di a-priori e necessità assoluti. Cfr. M. DELL'UTRI, 114. 46 Cfr. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 22. 47 H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 22. Cfr. M. DELL'UTRI, 116. 48 H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 12.

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mondo. Riflettere in termini di «dati sensoriali» ci può far pensare ad una mente che riceve passivamente l'oggettività del mondo; ciò cui Putnam ci vuole portare a vedere è che la mente entra profondamente nel mondo, mente e mondo si compenetrano reciprocamente in profondità: con la conoscenza non possiamo far a meno di «contaminare» il mondo che conosciamo: il linguaggio è insieme la testimonianza ed il frutto della nostra intima (ci si conceda il termine) unione con il mondo.

CAPITOLO III

Descartes e Putnam

Un analisi – per quanto breve e imprecisa – del pensiero di questi due filosofi su ciò che concerne il rapporto tra mente e mondo è occasione di innumerevoli spunti per ulteriori riflessioni e confronti, tanto che è difficile elencarli in ordine di importanza senza prima soffermarsi in una lenta elaborazione. In questo luogo intendiamo solo accennare qualche problematica, scegliendo perlopiù la prospettiva di Putnam, quantomeno per la sua posizione privilegiata: da pensatore del Novecento, anzi, oramai del XXI secolo, ha potuto usufruire dei tre secoli di critica che lo distanziano dal filosofo francese (non vogliamo con ciò escludere che il suo pensiero non presenti caratteri originali). Lo stesso Putnam, oltretutto, ha criticato la mentalità scientifica (ma sarebbe meglio dire scientista) moderna, mentalità che egli fa risalire proprio al pensatore di LeHaye. 1. Cartesio contra Putnam Se è scontato osservare che Putnam ha su Descartes un oggettivo vantaggio storico – e dando per scontato che egli abbia letto Descartes – bisogna sempre considerare la possibilità di una interpretazione non fedele al pensiero dell'autore delle Meditazioni. Osserviamo, innanzitutto, che la riflessione sul rapporto tra la mente e il mondo in Cartesio e in Putnam sono completamente diverse. Il motivo può essere il semplice fatto che essi incarnano la sensibilità filosofica del loro tempo: gli stimoli da cui partono e i fini che si pongono sono differenti (anche per questo abbiamo scelto di contestualizzare – almeno minimamente – i loro ragionamenti). Nel dettaglio, il fine esplicito di Descartes è la fondazione di un sapere certo, tanto che abbiamo osservato

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che la sua metafisica può sembrare subordinata all'epistemologia; Putnam invece, colloca l'ipotesi dei «cervelli in una vasca» e il problema del riferimento in un progetto di ben più ampio respiro: è necessaria una riflessione che mostri l'intima unione tra la mente e il mondo (cosa che va considerata prima di riflettere sulla conoscenza), una relazione che non può essere concettualizzata attraverso dicotomie; tale riflessione fa sue istanze che sono prima di tutto metafisiche, e allo stesso tempo insieme epistemologiche, ontologiche, nonché etiche. Il monito di Putnam potrebbe essere così espresso: dobbiamo sempre tenere conto della nostra condizione di uomini – non siamo indipendenti dal mondo in cui viviamo – quando vogliamo riflettere sul mondo come quando vogliamo rivolgerci a noi stessi. Alla luce di Putnam, dunque, il sistema Cartesiano (che nella misura in cui viene approfondito mostra la sua solidità) è un magnifico castello di carte: esso poggia su una serie di presupposti sbagliati. Anche se la soluzione di Putnam al problema del riferimento (la constatazione che non potremmo dire niente di sensato senza una interazione causale con le cose cui ci riferiamo, da cui si conclude che il riferimento è nell'intima unione di mente e mondo, in cui la mente sa usare segni stereotipati in contesti situazionalmente diversi) non fosse definitiva – ed è ciò che sembra essere – il progetto di Descartes dovrebbe comunque farci i conti. In particolare, se vale la soluzione del filosofo americano, poiché le idee (che per Cartesio non sono altro che stati mentali) non possono essere i portatori del riferimento, e visto che ad esse il francese affida un ruolo fondamentale nella dimostrazione, il suo percorso potrebbe terminare prima ancora dell'inizio. D'altra parte, leggendo con il dubbio metodico di Descartes l'analisi del riferimento di Putnam, sarebbe difficile uscire dall'ipotesi dei cervelli in una vasca: come abbiamo osservato, una volta entrati, per ritornare con i piedi per terra, non possiamo che constatare l'irragionevolezza (addirittura ridicola) della stessa, ma non si può per questo escludere la sua possibilità logica. Sembra dunque che mettendo insieme le osservazioni dei due filosofi, si cade in una brutta trappola: leggendo Putnam con Descartes, dobbiamo (metodologicamente) convincerci di essere cervelli in una vasca; leggendo Descartes con Putnam non possiamo andare lontano. Da questo banale accostamento possiamo trarre qualche conclusione importante. Se nel confronto immediato si provoca questo «corto circuito», è perché

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stiamo mettendo insieme due metodi diversi, senza neanche tener conto dei differenti punti di vista; magari non sembrerà di fare cosa grave, eppure sembra che sia sempre bene considerare il contesto in cui determinate riflessioni vengono fatte, almeno per non svalutare l'importanza dei problemi che i filosofi hanno saputo proporci. A questo punto, poi, si può capire meglio perché Putnam ci parli di ragionevolezza, mostrandoci che essa trae la sua forza anche dalla dimensione storica che viviamo: l'ipotesi dei cervelli in una vasca ci sembra assolutamente ridicola per il semplice fatto che la sua possibilità logica (che sembra sussistere), e quella fisica (piuttosto discutibile), si scontrano con un impossibilità che non è solo concettuale1. I cervelli in una vasca, per usare le parole e il riferimento esattamente come facciamo noi, si dovrebbero riferire ad immagini frutto di stimoli assolutamente casuali (la macchina che li produce è il risultato di uno straordinario «caso cosmico»2), che però dovrebbero rispettare una improbabile (ma è meglio dire impossibile) costanza e, per così dire, una «coerenza naturale». Come si potrebbe fissare, con una permanenza che sia accettabile, il riferimento? Ogni volta che vediamo un albero, infatti, siamo convinti di averne di fronte uno, e la nozione che ne abbiamo è strettamente legata al nostro vissuto: guardando un abete, potrò usare tutte i dettagli che ho raccolto arrampicandomici da bambino, mentre un biologo sarà in grado di far riferimento a tutto il bagaglio d’informazioni che ha saputo accumulare non solo con il lavoro suo personale, ma anche studiando ciò che altri hanno scoperto. Se fossimo cervelli in una vasca – supponendo che avremmo comunque la memoria, considerata come capacità intrinseca del cervello – tutto ciò (e ciò che noi possiamo collegarvi: la «visione» dell'albero, l'esperienza di salirci e appendersi ai suoi rami, la lettura di libri di botanica, la trasmissione orale delle informazioni, la storia di una foresta, quella di una vita, le ere geologiche...) dovrebbe essere il semplice risultato di una stimolazione chimico-fisica perfettamente casuale, che sopra abbiamo accettato come qualcosa di molto scarsamente probabile. Possiamo pensare che tutto questo (un’ipotesi che ci sembra ancora più crudele – e forse anche più insensata – del genio maligno cartesiano) sia veramente possibile3? 1

H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 22. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 19. 3 Possiamo dire che se anche Putnam non approfondisce direttamente l'istanza strettamente epistemologico – e cioè: come posso sapere che ciò che conosco è così com'è – fornisce comunque buone ragioni per stare tranquilli in proposito: nel contesto in cui conosciamo una cosa, e quindi, in cui la esperiamo, la viviamo, così la 2

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Non lo è. Il solo uso delle parole richiede, per essere spiegato ragionevolmente, una teoria causale del riferimento che postuli la necessaria esistenza delle cose cui ci riferiamo, e la nostra intima (ci si conceda il termine) interazione con esse. Accettata questa conclusione, non è necessario prendere la strada di Cartesio, scomodando Dio per fini poco più che epistemologici. Se qualcuno poi non volesse accettarla, forse solo il Dio cartesiano potrebbe restituirci alla vita quotidiana in questo mondo. 2. Cartesio & Putnam Vogliamo comunque porre l’accento sul fatto che nel suo ragionamento Putnam non può che essere partito dal panorama lasciato da Descartes. Descartes ci ha lasciati in un mondo che il cogito può conoscere anche prescindendo dalla sua (del mondo) stessa esistenza: dimostrare la realtà delle cose materiali, infatti, è solo l'ultimo dei passaggi del percorso del francese, e, a quanto ci sembra, d’importanza piuttosto relativa4. Al termine della decostruzione effettuata dal dubbio, se non si tira in ballo Dio, ciò che rimane è il solo cogito, il pensiero, le idee, che per Cartesio si potrebbero spiegare (formalmente) tali e quali sono – non fosse per le idee di Dio e di infinito – con il solo cogito5. Mutatis mutandis, la situazione è analoga a quella in cui ci lascia Putnam con l'ipotesi dei cervelli (che di certo non dubita dell'esistenza dell'io). Da queste considerazioni possiamo cogliere qualche analogia nel modo di procedere dei due. L'unico strumento che Descartes ha per uscire dall'io è ciò che è rimasto dalla distruzione di tutte le opinioni: il cogito e le idee. Il modo in cui ne esce è considerando l'origine delle idee nella loro realtà oggettiva (dal punto di vista formale, esse sono tutte uguali, e possono essere tutte scaturite dall'io, nell'atto inevitabile di pensare); e secondo il contenuto rappresentativo, come detto, l'unica idea inspiegabile è quella di Dio, che conosciamo, e determiniamo la nostra conoscenza. 4 Ne è un esempio il solo tono dell'incipit della sesta meditazione: «non mi resta più ormai che esaminare se vi siano delle cose materiali: e, certo, almeno so già che ve ne possono essere, in quanto le consideriamo come l'oggetto delle dimostrazioni geometriche, visto che in questa maniera le concepisco molto chiaramente e distintamente...». R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 67. 5 In quanto sostanza sussistente e immateriale, il cogito può essere causa formale di tutte le idee chiare e distinte, escluse quella di Dio e di infinito. Cfr. R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 41-42.

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permette poi il ritorno al mondo6. In modo analogo, ma sicuramente più maturo (abbiamo già detto che le idee come stati mentali non possono riferirsi a niente)7 e più radicale Putnam si chiede come sia possibile la rappresentazione stessa, il riferimento; è mostrandoci la complessità del problema, che il filosofo americano mostra che è necessario aver presupposto l'esistenza del mondo. Di certo, fondamentale per entrambe è il principio di causalità; e non si deve intendere in nessuno dei due casi una causalità meccanica, o semplicemente materiale. Si tratta di tentare di trovare una ragione sufficiente – e da buoni filosofi essi sembrano aver chiaro che il loro compito è dare ragione di ciò che dicono – a spiegare determinate situazioni, come delle posizioni o delle assunzioni che si fanno. Cartesio ha «guadagnato» l'esistenza di altri enti oltre all'io utilizzando un principio che dice «manifesto per lume naturale»8: «affinché un'idea contenga una certa realtà oggettiva piuttosto che un'altra, dovrà, senza dubbio, riceverla da qualche causa, nella quale si trovi per lo meno tanta realtà formale, quanta realtà oggettiva contiene questa idea»9. In altri termini: come dare ragione del contenuto di un’idea? Considerando il contenuto oggettivo delle idee, è necessario individuarne una causa formale. Dalle sue parole, potremmo pensare che Descartes aggiri coscientemente il problema di Putnam: se ci deve essere una causa effettiva e reale del contenuto del riferimento – il problema cui ci riporta l'americano – questa la si può trovare nella semplice attività della mente, sostanza che può vantare una certa consistenza ontologica. Che poi quelle cose cui la mente crede di riferirsi non esistano anche se siamo convinti del contrario per l'illusione che ci dà un certo genio maligno, è un altro problema, che 6

L'esistenza e la veridicità di Dio è l'unica realtà in grado di far saltare le idee dal ruolo di mere immagini che non implicano necessariamente un oggetto rappresentato, a rappresentazioni riferite ad una realtà. 7 Di certo le idee come stati mentali non si riferiscono a nulla. Ma si può difendere, sulla base delle affermazioni di Cartesio che ci danno la sua nozione di idea, un interpretazione del concetto di idea come azione consapevole dell'io; in tal caso si può discutere la possibilità della mente di riferirsi a qualche immagine mentale, e ci si potrebbe chiedere allora se si possa applicare l'argomento di Putnam alle idee avventizie di Cartesio. Molto probabilmente Cartesio non distingue queste due interpretazioni del termine, raccogliendole insieme nel concetto di idea, che, in senso proprio, è da un lato un atto del pensare (considerata nella sua realtà formale), dall’altro rappresenta qualcosa (realtà oggettiva). 8 Cfr. R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 38. 9 R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 40.

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abbiamo affrontato altrove (come anche la problematicità di un riferimento attribuito alle idee, questione che abbiamo già analizzato). Nel suo argomento Putnam in diverse battute ci riporta alla necessità di dare ragione di un fenomeno come quello del riferimento come lo viviamo noi – forse troppo inconsciamente – nella vita di ogni giorno; anche il fatto che siamo in grado di utilizzare gli stessi concetti in modo più o meno vago, e in situazioni completamente diversi ci mostra la necessità dell'esistenza delle cose come concause (insieme con noi, che le esperiamo) del riferimento. Entrambe i filosofi, quindi, considerando la relazione tra la mente e il mondo (Cartesio sotto una precisa prospettiva epistemologica), partono dal riferimento – più o meno coscientemente – come problema, e si preoccupano di dare ragione causalmente delle uniche cose di cui non possono dubitare: l'esistenza del soggetto pensate, le idee (per Cartesio) e il linguaggio (per Putnam). Si deve rendere merito a Descartes che ha impostato ante litteram il problema del riferimento pur avendo vissuto molto prima che esso subisse una trattazione approfondita come nell'età contemporanea. 3. La verità: considerazioni conclusive Avendo scelto di interrogarci sul rapporto tra la mente e il mondo, crediamo sia bene ora fermarci a raccogliere le idee di mente e di mondo dei due filosofi, e a trarre qualche conseguenza. Per quanto abbiamo inteso nel corso della trattazione di Descartes, la scienza potrebbe prescindere dall'esistenza del suo oggetto. La preoccupazione del filosofo è strettamente epistemologica: le meditazioni, come confida al traduttore, contengono i fondamenti di tutto il sapere. È per questo che la funzione delle meditazioni è fortemente anti-scettica: deve stabilire che ciò che la mente conosce dei corpi è vero, corrisponde alla loro essenza reale, e ri-convalidare la validità del rapporto tra la mente e il mondo. Tuttavia una metafisica che si limiti a preoccuparsi della verità in questi termini rischia di farci perdere di vista qualche parametro importante. Vediamo di capire il perché. La ricerca della verità è il valore morale cui Descartes dedicati interamente gli «esercizi spirituali» delle sue meditazioni. Ognuno sa per esperienza che una verità, se c'è, va ricercata con sforzo. E tante volte, l'incapacità di venire a capo di tante discussioni ci fa disperare di raggiungerla. Per questo Descartes si vuole assicurare che le sue conclusioni siano innegabilmente vere, ed era convinto di poter

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raggiungere questo risultato10: l'ipotesi del genio maligno è l’esempio del fatto che non si accontentasse di un'indubitabilità psicologica per provare la verità. Solo la verità dell'idea chiara e distinta di Dio può essere il centro del progetto cartesiano11: «riconosco chiarissimamente che la certezza e la verità di ogni scienza dipende dalla sola conoscenza del vero Dio»12. Dio rende la scienza non solo vera, ma anche stabile: anche se dimentico le fondamenta, sapere che Dio è garante delle mie intuizioni chiare e distinte, mi permette di andare avanti13, affidandosi d'ora in poi a intuizioni riconosciute come tendenze naturali; si scopre così che la propensione che porta a credere che sussista la somiglianza dei corpi alle sensazioni che li rappresentano, è solo un pregiudizio assunto nel tempo e non una tendenza naturale14. Pertanto, sotto questa prospettiva, a Descartes interessa poco la verità della corrispondenza tra le idee con cui vediamo il mondo ogni giorno (le idee avventizie) e il mondo stesso: la realtà intesa in questo senso è pura immaginazione, niente di consistente15! Il mondo «che conta» è quello di cui parlo attraverso essenze; lo posso conoscere con sicurezza perché esso è indipendente da me. Le essenze, sono allora delle «isole di verità», individuate grazie alla garanzia divina, nel caos oscuro e confuso delle propensioni naturali. La verità, quindi, rimane l'adaequatio tommasiana del pensiero con la cosa, con la differenza sostanziale che la cosa non è altro che la sua 10

«Dopo che le ragioni per mezzo delle quali io provo che vi è un Dio e che l'anima umana differisce dal corpo, saranno state condotte fino a tal punto di chiarezza e di evidenza, ed io son certo che vi si può condurle, che dovranno essere ritenute esattissime dimostrazioni, se vorrete dichiarar tutto ciò e testimoniarlo pubblicamente, io non dubito che tutti gli errori e le false opinioni, che sono mai esistiti riguardo a queste due questioni saranno bentosto cancellati dallo spirito umano. Poiché la verità farà si che tutti i dotti e gli uomini d'ingegno sottoscriveranno il [vostro] giudizio», corsivo mio. R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 7. 11 Non entriamo qui nel merito delle accuse di petitio principi rivolte a Cartesio su questo punto, rimandando, se la questione destasse interesse, alle osservazioni di E. Scribano, 117. 12 R. DESCARTES, Meditazioni Metafisiche, 65. 13 Anche per questo, Cartesio si preoccupa di mostrare che l'indubitabilità del cogito e dell'idea di Dio non è semplicemente psicologica: essa è anche, e soprattutto normativa. Cfr. E. SCRIBANO, 35. 14 Tanto è vero che per Cartesio esiste già una facoltà deputata alla conoscenza vera della natura dei corpi: l'intelletto puro. 15 Sulla stessa linea di idee, ricordiamo il fatto che per Cartesio il rapporto tra la mente e il corpo non è essenziale a nessuna delle due sostanze.

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essenza. Per salvare la verità (e quindi per ristabilire il rapporto tra la mente e il mondo) Cartesio è stato paradossalmente costretto a frammentare e, di fatto, impoverire il rapporto tra la mente e il mondo: la mente, confusa dalle idee oscure provenienti dalle sensazioni, deve intuire le informazioni oggettive che costituiscono le essenze dei corpi per poter costruire una teoria che copi con verità l'oggettività del mondo. Criticando l’atteggiamento che da una simile visione è scaturito, Putnam ha denunciato il quadro del mondo e della verità lasciatoci da Descartes: egli ha osservato come nella nostra cultura si tenda a considerare la possibilità fisica come punto di riferimento per qualsiasi ipotesi; «secondo tale atteggiamento, la verità non è che la verità fisica, la possibilità non è che la possibilità fisica, e la necessità non è che la necessità fisica»16. Il filosofo americano riconduce quell’atteggiamento alla filosofia del XVII secolo, per l’esattezza a Galileo e allo stesso Descartes: essi ci hanno tramandato un’immagine di un mondo costituito dalle sole proprietà geometrico - matematiche, per cui tutte le caratteristiche qualitative dei corpi, percepite attraverso i sensi non hanno alcuna oggettività, né alcuna consistenza reale. E così i rumori, i sapori, i colori esistono solo nella mente del soggetto percipiente. Putnam ha anche individuato il presupposto problematico che si nasconde dietro quest’atteggiamento e che è responsabile di una mentalità distorta con cui ancora oggi ci confrontiamo. Si tratta del presupposto secondo il quale, se vogliamo parlare di realtà con verità, è fondamentale adottare il criterio dell’oggettività. Ma cosa è oggettivo? A partire da questa impostazione, si è sviluppato quel tutto un filone di pensiero – che Putnam chiama «Realismo Metafisico» – che nel tempo si è arrogato l’esclusiva sulla verità, vantandosi di poter essere l'unico a poter proporre una teoria che sia vera, in forza dell’oggettività di ogni sua affermazione. Parlare di realtà, dunque, sembra essere un privilegio della scienza fisica, ed è per questo che per Putnam la verità ha perso il suo fascino, ed oggi è un argomento «arido». La radice di quest’atteggiamento, come dicevano, va ricercata nell'età moderna, dove si è diffusa l’idea di mondo esterno come mondo dell’oggettività in contrapposizione ad un mondo interno di proiezioni e sentimenti. Sono proprio i cosiddetti «dati sensoriali», il frutto della nostra percezione di disposizioni degli oggetti a stimolarci in un certo modo a parità di condizioni, le campanelle di allarme, i sintomi del disastro di questa teoria: 16

H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 22.

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di essi non abbiamo saputo trovare spiegazione completa nella scienza fisica. Poiché era paradossale sostenere che fossero mere proiezioni (essi sembrano, infatti, essere proprio la via di mezzo, l’intersezione tra il mondo e la mente) essi sono stati messi da parte come «sensazioni grezze», in attesa di una debita spiegazione all’interno della scienza fondamentale. È ovvio, ormai, che una spiegazione simile non potrà mai arrivare17. Per queste ragioni, Putnam dimostra che è assurdo parlare di soggettività e di oggettività in termini di dicotomie: un'impostazione simile non lascia scelta tra una teoria della verità «come copia» e il suicidio intellettuale del relativismo. La prima possibilità, l'oggettivismo ci costringe a sottometterci all'oggettività della verità che essa predica (e si parla di quella scientifica) e la sua teoria della verità ci restituisce un'immagine della verità alienata e responsabile – secondo Putnam – anche della famosa dicotomia fatto/valore18. Se non si accettano le sue condizioni, ci si deve arrendere alla soggettività degli schemi di pensiero: ecco il relativismo (espressione del soggettivismo), per cui tutti i sistemi di pensiero, perfino le teorie scientifiche, sono soggettivi, e quindi non conclusivi. Porsi il problema del riferimento, dunque, è significato per Putnam riconsiderare completamente non solo la metafisica (e quindi le categorie di verità, realtà e razionalità che abbiamo in mente) che – più o meno esplicitamente – inevitabilmente «usiamo» – e con essa la logica che la regola – ma il nostro stesso modo di stare al mondo. Una simile riflessione, secondo Putnam, può allora farci riscoprire il fascino della verità, termine che non può essere dominio esclusivo della scienza. La tesi del filosofo americano in proposito è che la verità unisca componenti soggettive ed oggettive, e che essa sia strettamente legata alla nostra razionalità: «esiste un nesso molto stretto tra le nozioni di verità e di razionalità e – generalizzando – l'unico criterio per decidere che cosa sia un fatto è quanto è razionale accettare»19. Per questo possiamo dire che «la mente non copia semplicemente un mondo che può essere descritto da una teoria vera» e che neppure «costruisce il mondo»; «Volendo usare un linguaggio metaforico, diremmo che la mente e il mondo costruiscono insieme la mente e il mondo»20. Una simile conclusione ci fa ripensare seriamente al nostro 17

Cfr. H. PUTNAM, La sfida del realismo, 11-34. Cfr. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 3. 19 Cfr. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 4. 20 Corsivo mio; H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 7. 18

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modo di stare al mondo. Infatti, la razionalità (che Aristotele aveva individuato come nostra differenza specifica), che esprime questa nostra condizione nell’universo, consiste nei «principi metodologici intrecciati con la nostra visione del mondo, in cui è inclusa la nostra concezione di noi stessi come parte del mondo; tali principi cambiano nel tempo»21. «La nostra nozione di razionalità non è, in fondo, che una parte della nostra concezione della fioritura umana, ossia della nostra idea del bene. La verità dipende profondamente da quelli che recentemente sono stati chiamati valori»22. La visione del mondo che ci dà Putnam è quindi un continuo in cui reale, vero, buono si richiamano a vicenda; un continuo che non è bene spezzare, pena la nostra stessa alienazione. Affermazioni simili possono sicuramente costituire l’inizio di nuovi capitoli di riflessione, ma noi basta concludere che è questo il significato e il senso profondo dell'unione della mente e del mondo.

21 22

H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 4. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 7.

CONCLUSIONE

Al termine di questo percorso, non possiamo che raccogliere gli stimoli e le sfide che questi due grandi filosofi hanno saputo lanciare. Seguire l’esempio di Descartes è riconoscere che la verità è un valore per cui lottare, al quale è bene dedicare ogni sforzo. Tuttavia egli con il suo sistema ci lascia un’idea del mondo per cui quello che conta è la sua essenza matematica; ciò può portare alle disastrosa convinzione che ci sia un unico modo di vedere seriamente la realtà. La stessa verità perderebbe così tutto il suo valore: è come se avessimo un’immagine di un rubino, invece del rubino stesso. Per questo motivo non possiamo, nella nostra ricerca della verità, dimenticare la nostra condizione di esseri finiti nel mondo, che non ci consente di guardare l'universo da un unica prospettiva. La verità è qualcosa che troviamo nel nostro rapportarci al mondo nei tanti diversi modi che ci sono possibili (ciò non vuol dire, poi, che una verità escluda l’altra).Ovviamente non si può ridurre Cartesio a queste poche parole: anche se, assorbito dalle sue ricerche, egli si era convinto (ed aveva anche creduto di dimostrare) che perfino la relazione tra la mente e il corpo non è essenziale a nessuna delle due sostanze, non è un caso che proprio ispirandosi al suo concetto di infinito Levinàs abbia formulato la sua opposizione ad ogni sistema che pretenda di essere totale, facendoci pensare a qualcosa di analogo alla relatività concettuale1 di Putnam. A quest’ultimo dedichiamo le ultime parole di questo elaborato: la sua riflessione sul riferimento ci ha fatto capire l’importanza della tema che abbiamo trattato. È fondamentale pensare a come guardiamo al mondo e al posto che noi crediamo di occupare in esso: il mondo non è e non può essere letto come pura oggettività, come territorio «privato» dalla scienza; 1

Ci permettiamo qui di fare riferimento ad un concetto che Putnam introdurrà più avanti nel suo sistema (che prenderà il nome di realismo interno). La relatività concettuale – da non confondere con il relativismo, in cui il filosofo americano non vuole certo cadere – è la constatazione che possiamo osservare il mondo da diverse prospettive. Cfr. H. PUTNAM, La sfida del realismo, 11-34.

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CONCLUSIONE

noi non siamo semplici macchine capaci di mettere insieme parole, né tantomeno poveri cervelli illusi di stare nel mondo, ma semplicemente chiusi in una vasca e condannati a vivere in una realtà virtuale. Riprendere il nostro posto nel mondo significa riconoscere che esso non è indipendente da noi: le nostre stesse parole lo testimoniano. Il nostro ruolo nella realtà, quindi, non è (e non può essere) quello di semplici spettatori: come con le nostre scelte diamo un’impronta alla conoscenza che abbiamo del mondo, con esse noi diamo ogni volta una nuova direzione alla storia; la nostra e quella del mondo.

BIBLIOGRAFIA

ABBAGNANO, N., «Descartes», in Storia della filosofia, II, Torino 1993, 193-219. DELL'UTRI, M., Le vie del realismo, Milano 1992. DESCARTES, R., I principi della filosofia, in Opere filosofiche, I, Roma 200911. ————, Meditazioni Metafisiche, in Opere filosofiche, II, Roma 200911. ————, Meditazioni Metafisiche, a cura di S. Landucci, Bari 20034. ————, Discorso sul Metodo, Milano 1997. SCRIBANO, E., «Descartes», Enciclopedia filosofica, III, Milano 2006, 27012720. ————, Guida alla lettura delle Meditazioni metafisiche, Bari 20033. PUTNAM, R., Ragione, verità e storia, a cura di S. Veca, Milano 1985. ————, La sfida del realismo, a cura di N. Guicciardini, 1991.

INDICE GENERALE

INTRODUZIONE ....................................................................................................... 3 CAPITOLO I: Descartes ........................................................................................... 5 1. 2. 3. 4.

Il contesto........................................................................................................ 5 Le ipotesi......................................................................................................... 7 La ricostruzione ............................................................................................ 10 Alcune considerazioni .................................................................................. 12 4.1 Il ruolo di Dio ........................................................................................ 12 4.1.1 La teoria delle idee......................................................................... 12 4.1.2 L'esistenza di Dio........................................................................... 14 4.2 Tornando al mondo: la scienza di Descartes ......................................... 15 4.3 Il mondo e la scienza ............................................................................. 17

CAPITOLO II: Putnam .......................................................................................... 21 1. 2.

Il contesto; i significati non sono nelle cose................................................. 22 L'ipotesi......................................................................................................... 23 2.1 Il gioco delle imitazioni: i significati non sono nelle parole ................. 24 2.2 Cervelli nella vasca ............................................................................... 26 3. La critica all'intenzionalità: i significati non sono nella mente .................... 28 4. Alcune considerazioni .................................................................................. 33

CAPITOLO III: Descartes e Putnam................................................................................. 37

1. 2. 3.

Cartesio contra Putnam ................................................................................ 37 Cartesio & Putnam........................................................................................ 40 La verità: considerazioni conclusive ............................................................ 42

CONCLUSIONE....................................................................................................... 47 BIBLIOGRAFIA....................................................................................................... 49 INDICE GENERALE ................................................................................................ 51

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