Inadempimento e danno da ritardo tra diritto comune e diritto privato europeo

July 8, 2017 | Autor: Nicola Rizzo | Categoria: Law, Civil Law, Diritto Civile, Diritto Privato
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ISSN 0035-6093

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CEDA CEDAM - CASA EDITRICE DOTT. ANTONIO MILANI PADOVA Pubbl. bimestrale - Tariffa R.O.C.: Poste Italiane S.p.a. - Sped. in abb. post. - D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano

Nicola Rizzo Ricercatore nell’Università di Pavia

INADEMPIMENTO E DANNO DA RITARDO TRA DIRITTO COMUNE E DIRITTO PRIVATO EUROPEO Sommario: 1. Violazione del termine e inadempimento: il danno da ritardo. — 2. Il passaggio del rischio come effetto della costituzione in mora. — 3. La costituzione in mora e le obbligazioni senza termine. — 4. Segue: le obbligazioni che derivano da un fatto illecito. — 5. La costituzione in mora e l’impossibilità della prestazione. — 6. La costituzione in mora e l’obbligazione degli interessi. — 7. Le conferme del diritto privato europeo.

1. — Il primo problema di cui mi occupo è quello di rispondere all’interrogativo se il ritardo semplice possa considerarsi un inadempimento dell’obbligazione rilevante ai fini dell’attivazione della tutela risarcitoria. Per ritardo semplice deve intendersi il mancato rispetto del termine di adempimento indicato nel titolo che fonda il rapporto obbligatorio, in mancanza della costituzione in mora del debitore. Si tratta, quindi, di stabilire se la mora del debitore sia un elemento essenziale della fattispecie di risarcibilità del danno da ritardo ovvero se questo possa essere compensato anche laddove il debitore non sia stato costituito in mora, integrando la violazione del termine di esecuzione della prestazione un inadempimento già rilevante di per sé, ai fini del risarcimento. L’art. 1219, comma 2o, c.c. stabilisce i casi in cui non è necessaria l’intimazione o la richiesta di adempimento fatta per iscritto (mora automatica), portando ad argomentare, a contrario, che, negli altri casi, la costituzione in mora è condizione necessaria perché si producano le conseguenze previste dalla legge in caso di ritardo. Il mancato rispetto del termine costituirebbe un inadempimento (rilevante) esclusivamente nelle fattispecie descritte dal comma 2o dell’art. 1219, altrimenti non sarebbe sufficiente a dar corpo ad una violazione del vincolo obbligatorio capace di azionare la tutela risarcitoria. D’altra parte, per l’art. 1218 c.c., il debitore risarcisce il danno dovuto all’inadempimento o al ritardo; e al ritardo guarda anche l’art. 1223 c.c., quando individua le voci di danno risarcibile. Le norme che in via generale regolano, rispettivamente, il fondamento della responsabilità per inadempimento e la determinazione del danno risarcibile affermano la responsabilità del debitore per il ritardo e la risarcibilità del danno che ne è conseguenza. Si apre, così, una duplice prospettiva in cui cogliere questo riferimento al ritardo: da una parte si può ritenere che per ritardo si debba intendere, semplicemente, la violazione della modalità temporale di esecuzione della prestazione; dall’altra, invece, il significato del termine ritardo, impiegato dagli artt.

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1218 e 1223, potrebbe essere precisato solo sulla scorta dell’art. 1219. Il mancato rispetto del termine sarebbe ritardo (giuridicamente rilevante ai fini del risarcimento) solo nel caso di cui all’art. 1219, comma 2o, n. 3; nelle altre ipotesi, per considerarlo tale, sarebbe invece necessario che ad esso si accompagni il compimento, da parte del creditore, di un atto rivestito da una forma determinata (1). Guardando agli argomenti che motivano la tesi secondo cui il semplice ritardo non costituirebbe un inadempimento (rilevante), quello principale è costruito sulla distinzione delle obbligazioni in base al luogo dell’adempimento: il domicilio del debitore ovvero del creditore. L’art. 1219, comma 2o, n. 3, stabilisce che, quando il termine è scaduto e la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore, non è necessaria la costituzione in mora. Da tale disposizione si evincerebbe che laddove, al contrario, luogo di esecuzione sia il domicilio del debitore, la costituzione in mora sia necessaria. Si sostiene che, se luogo dell’adempimento è il domicilio del debitore, affinché la prestazione venga eseguita è necessario un atto di cooperazione del creditore, ulteriore rispetto alle ipotesi in cui la prestazione deve essere eseguita al domicilio di quest’ultimo. Mentre in questo caso, infatti, al creditore è richiesto soltanto di accettare la prestazione, salvo che quanto prestato non corrisponda a quanto promesso o che comunque vi sia un motivo legittimo di rifiuto, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del debitore, invece, non è sufficiente che il creditore la accetti ma è necessario che, presentandosi al domicilio del debitore, ne faccia anche richiesta. Nell’ipotesi in cui ciò non avvenga, il debitore non avrebbe neppure la possibilità di adempiere e potrebbe, legittimamente, interpretare la mancata collaborazione del creditore come una manifestazione di disinteresse, in quel momento, all’esecuzione della prestazione, cioè come tolleranza del ritardo. Addossare, pertanto, al debitore il risarcimento del danno che il creditore abbia, eventualmente, subìto a causa della mancata prestazione alla scadenza del termine, equivarrebbe, in mancanza della costituzione in mora, ad affermare una responsabilità in una fattispecie in cui sia mancata, per il debitore, la concreta possibilità di adempiere (2). ( 1 ) Sostengono questa tesi: A. Ravazzoni, La costituzione in mora del debitore, Milano 1957, p. 8 ss.; F. Benatti, La costituzione in mora del debitore, Milano 1968, pp. 58 ss. e 198 ss.; Giorgianni, L’inadempimento, Milano 1975, p. 119 ss.; C.M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma 1979, in particolare p. 189 ss.; G. Visintini, Inadempimento e mora del debitore, in Comm. Busnelli, Milano 2006, p. 479 ss.; G. Villa, Danno e risarcimento contrattuale, in Tratt. Roppo, V, t. 2, Rimedi, Milano 2006, p. 751 ss., in particolare p. 837 ss. ( 2 ) V. App. Napoli 7 gennaio 2008, n. 35, in Il merito, 2008, 7-8, p. 32 ss., secondo cui « con riguardo ai debiti pecuniari della p.a., per i quali le norme sulla contabilità pubblica stabiliscono, in deroga al principio di cui all’art. 1182, comma 3o, c.c. (secondo cui l’obbligazione deve essere adempiuta al domicilio che il creditore ha al tempo della sua scadenza) che i pagamenti si effettuano presso gli uffici di tesoreria dell’amministrazione debitrice, la natura “quérables” dell’obbligazione comporta che il ritardo del pagamento non determini

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La non esecuzione della prestazione non concretizzerebbe un inadempimento (rilevante, nel senso che si è precisato) anche perché, secondo questa tesi, sarebbe la costituzione in mora, come manifestazione della volontà del creditore di ottenere l’adempimento, a rendere attuale l’obbligo di eseguire la prestazione, evitando, tra l’altro, che il debitore possa essere colto di sorpresa da un’improvvisa richiesta del creditore (3). È facile notare come, così interpretando, il termine per l’adempimento verrebbe a coincidere con il momento della costituzione in mora e non sarebbe, perciò, quello definito dall’accordo delle parti. In questo modo, però, si carica la mora di funzioni che non le sono proprie: l’esigibilità della prestazione, così come l’attualità del dovere di eseguirla, è data dalla scadenza del termine cui la stessa è sottoposta. L’art. 1183 c.c. stabilisce che, se non è determinato il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita, il creditore può esigerla immediatamente. Ciò significa che, se alla prestazione è apposto un termine, il creditore può esigerla allo spirare di quel termine. Esigere la prestazione è attuazione di un diritto (di credito) e, proprio perché tale, non può che corrispondere ad un obbligo (del debitore) di porre in essere il comportamento dovuto, obbligo che, come il diritto corrispondente, diviene attuale con la scadenza del termine (4). Ciò detto, rimane il fatto che, senza la cooperazione del creditore, è impossibile per il debitore dare puntuale esecuzione all’impegno assunto. Più precisamente, non può il debitore adempiere se il creditore non si reca al suo domicilio facendo richiesta di quanto atteso ed offrendo di compiere l’attività necessaria affinché l’esecuzione della prestazione possa avere luogo. L’affermazione secondo cui, nelle obbligazioni che devono essere eseguite presso il domicilio del debitore, l’adempimento presupponga necessariamente questo tipo di cooperazione del creditore coglie nel segno, sennonché tale attività è, al contempo, qualcosa di meno e qualcosa di più della costituzione in mora. Qualcosa di più perché non si tratta semplicemente di richiedere la prestazione (attività che potrebbe ridursi all’invio di una raccomandata), ma di recarsi, fisicamente, al domicilio del debitore; qualcosa di meno perché le formalità di cui deve essere rivestito l’atto di costituzione in mora appaiono affatto inconferenti con l’obbiettivo di permettere al debitore di liberarsi dal vincolo obbligatorio. Pensiamo all’ipotesi in cui il creditore, alla scadenza del termine, senza automaticamente gli effetti della mora, occorrendo, invece, affinché sorga la responsabilità da tardivo adempimento, con conseguente obbligo di corresponsione degli interessi moratori e di risarcimento dell’eventuale maggior danno, la costituzione in mora mediante apposita intimazione scritta »; Cass. 3 ottobre 2005, n. 19320, in Rep. F. it., 2006, voce Obbligazioni in genere, 4500, n. 46; Cass. 25 maggio 2005, n. 11016, in Rep. F. it., 2005, voce Contratti della p.a., 1730, n. 720. ( 3 ) V. Bianca, op. cit., p. 195. ( 4 ) Cfr. A. Di Majo, Dell’adempimento in generale, in Comm. Scialoja-Branca, sub artt. 1177-1200, Bologna-Roma 1994, p. 191 ss.

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recarsi al domicilio del debitore, lo costituisca in mora, ovvero, all’opposto, al caso in cui il creditore si presenti al domicilio del debitore per chiedere l’adempimento, ma non ponga in essere alcun atto dotato dei requisiti di forma di cui all’art. 1219, comma 1o. Nella prima ipotesi, l’esigibilità della prestazione accompagnata dall’intimazione produrrebbe la costituzione in mora, nonostante la quale, però, per il debitore rimarrebbe comunque impossibile eseguire la prestazione, per la mancanza di quella cooperazione del creditore di cui si è detto. Se volesse, a questo punto, evitare le conseguenze della mora, al debitore, proprio perché già in mora, non gioverebbe neppure prodigarsi nell’offrire la prestazione a norma dell’art. 1220 c.c. L’unica possibilità che gli rimarrebbe di paralizzare una richiesta di risarcimento del danno da ritardo, sarebbe quella di opporre la contrarietà del comportamento del creditore alla regola della correttezza. Nella seconda ipotesi, in cui, invece, la parte attiva del rapporto si è recata al domicilio del debitore e, con la richiesta della prestazione ed offrendo la propria collaborazione, ha reso possibile l’adempimento, la mancanza della costituzione in mora, secondo la tesi che si sta criticando, impedirebbe al creditore di vedersi risarcito l’eventuale danno subìto per la mancata esecuzione della prestazione, fino a che non ponga in essere l’intimazione o la richiesta di adempimento fatta per iscritto, che, peraltro, una volta effettuate, renderebbero giuridicamente rilevante solo il danno prodottosi successivamente al loro compimento. Questo esempio dimostra, chiaramente, come la questione posta dalle obbligazioni quérables sia quella della concreta possibilità per il debitore di eseguire la prestazione, problema rispetto al quale, come si vede, l’intimazione ad adempiere del creditore sicuramente non rappresenta la soluzione. Considerare inadempimento il semplice ritardo sarebbe certo contrario alla regola della correttezza, in mancanza di un’attività del creditore volta a consentire al debitore, pronto all’esecuzione della prestazione, di liberarsi. Specularmente, in presenza della richiesta cooperazione della parte attiva del rapporto, negare, per il difetto della costituzione in mora, che la mancata esecuzione della prestazione costituisca una violazione dell’obbligazione, e, conseguentemente, addossare al creditore il costo della non attuazione (temporanea) del rapporto, darebbe forma ad un’interpretazione in contrasto con i principi sulla responsabilità per inadempimento e, specificamente, con gli artt. 1218 e 1183 ss. (5). In letteratura (6) si nota, peraltro, come far dipendere l’efficacia della ri( 5 ) Cfr. Cass. 10 giugno 1982, n. 3523, in Rep. F. it., 1982, voce Contratto in genere, c. 615, n. 265, secondo cui « la non essenzialità del termine contrattuale di adempimento non equivale a mancanza di termine, e quindi non obbliga il creditore a porre in mora il debitore (specialmente se, addirittura, sono stati previsti gli interessi moratori), né, tanto meno, implica l’irrilevanza di qualsiasi ritardo ai fini della gravità dell’inadempimento, poiché, al contrario, proprio siffatta non essenzialità impone la valutazione della gravità del ritardo, che, invece, è in re ipsa quando il termine è essenziale ». ( 6 ) U. Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, v. IV, Milano 1964, p. 151. Cfr.

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chiesta di adempimento dal rispetto delle prescrizioni dell’art. 1219, comma 1o, equivalga a subordinare l’esercizio del diritto di credito ad un vincolo di forma. 2. — Se quanto detto fin qui è vero, se è la cooperazione del creditore e non la costituzione in mora a qualificare come inadempimento (rilevante) la violazione del termine, nelle obbligazioni da adempiere al domicilio del debitore, se il danno da ritardo è, quindi, risarcibile a prescindere dalla mora (7), la domanda cui si deve una risposta è quale sia, a questo punto, la funzione della costituzione in mora. Natoli ritiene che la costituzione in mora del debitore sia necessaria non per considerare il ritardo come una forma di inadempimento (rilevante), rendendo risarcibile il danno che ne sia conseguenza, bensì perché si producano altri effetti: il passaggio del rischio (art. 1221 c.c.), la nascita dell’obbligazione di prestare gli interessi moratori (art. 1224 c.c.) e l’interruzione della prescrizione (art. 2943 c.c.) (8). Tralasciando, per ora, i problemi posti dagli interessi di cui all’art. 1224 (9), la tesi sembra persuasiva, anche se abbisogna di un ulteriore sforzo di argomentazione, rimanendo, nelle pagine di chi l’ha formulata, sostanzialmente indimostrata. Perché questa tesi sia convincente si deve dimostrare che la costituzione in mora, mentre non serve a qualificare come inadempimento (rilevante) il mancato rispetto del termine, è, al contrario, necessaria, perché si produca il passaggio del rischio di cui all’art. 1221. L’art. 1221 stabilisce che, se il debitore è in mora, non è liberato per la sopravvenuta impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. Ora, ciò che ci interessa è capire se questa attribuzione di responsabilità al debitore possa essere considerata un normale svolgimento delle regole sulla responsabilità per inadempimento ovvero se, al contrario, essa si ponga in contrasto con il sistema della responsabilità che chiamiamo contrattuale. Ad un primo sguardo, sembra di poter senz’altro ritenere che la regola di cui all’art. 1221 rappresenti un’eccezione al regime generale di allocazione del Cass. 17 aprile 1970, n. 1109, in F. it., 1970, I, c. 1911 ss., che, su questa linea, precisa: « Il ritardo colpevole (inesatto adempimento) e la costituzione in mora sono due situazioni concettualmente distinte e producono effetti differenti. La seconda — se può ricorrere contemporaneamente alla prima, col conseguente verificarsi, in aggiunta a quelli dell’inadempimento, degli effetti che le sono propri (perpetuatio obligationis, decorrenza di interessi moratori, interruzione della prescrizione) — non deve necessariamente coincidere con essa [...] ». ( 7 ) Cfr., in questo senso, l’ampio ed argomentato studio di F. Piraino, Adempimento e responsabilità contrattuale, Napoli 2011, p. 126 ss.; C.A. Cannata, L’inadempimento delle obbligazioni, Padova 2008, p. 86 ss.; U. Breccia, Le obbligazioni, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano 1991, p. 690 ss.; A. Magazzù, Mora del debitore, in Enc. dir., v. XXVI, Milano 1976, p. 934 ss. ( 8 ) Natoli, op. cit., p. 147 ss.; U. Natoli-L. Bigliazzi Geri, Mora accipiendi e mora debendi, Milano 1975, in particolare p. 229 ss. ( 9 ) V. infra par. 6.

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danno da inadempimento. Sappiamo, dall’interpretazione dell’art. 1218, che il limite della responsabilità del debitore coincide con il limite dell’obbligazione, rappresentato da quell’impossibilità della prestazione, non imputabile al soggetto passivo del rapporto, che causa l’estinzione dell’obbligazione. Nella fattispecie dell’art. 1221, nonostante l’impossibilità della prestazione non gli sia imputabile, il peso della mancata attuazione del rapporto grava, comunque, sul debitore. Bianca sostiene che la soluzione dell’art. 1221 non costituisce un’eccezione alle regole sulla responsabilità per inadempimento: se è vero, infatti, che il debitore, sebbene l’impossibilità della prestazione non gli sia imputabile, si trova a risarcire il danno derivato dalla mancata attuazione del rapporto obbligatorio, è anche vero che, se l’adempimento fosse stato puntuale, il creditore avrebbe ricevuto la prestazione attesa e l’obbligazione si sarebbe, conseguentemente, estinta (10). Secondo questo modo di vedere, quindi, l’impossibilità stessa della prestazione sarebbe causata dalla mora del debitore, in mancanza della quale l’impossibilità non si sarebbe verificata e l’interesse del creditore sarebbe stato soddisfatto. Così la locuzione « sopravvenuta impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile », usata dal legislatore nell’art. 1221, non sarebbe esatta, poiché la sopravvenuta impossibilità sarebbe proprio da imputare al debitore e, precisamente, alla sua mora. La non imputabilità della causa dell’impossibilità andrebbe letta, perciò, come una non imputabilità dell’impossibilità ad una colpa (del debitore) diversa dalla mora (11). Alla base di questa tesi vi è, certamente, un presupposto che non può essere discusso: il fatto che, laddove il debitore avesse prestato puntualmente, l’obbligazione si sarebbe estinta con la soddisfazione del diritto di credito. Su questa premessa si sviluppa un ragionamento che considera poli del giudizio causale non gli eventi tra cui, nella fattispecie, è utile affermare o negare la sussistenza di un nesso eziologico, cioè la condotta del debitore e l’impossibilità della prestazione, ma delle costruzioni giuridiche: l’esatto adempimento avrebbe estinto l’obbligazione e, con ciò, evitato che la prestazione potesse divenire impossibile; la mora, in luogo del puntuale adempimento, ha impedito l’estinzione dell’obbligazione, e, per questa via, ha creato l’occasione che la prestazione divenga impossibile; ergo la mora ha causato l’impossibilità della prestazione. Ora, certamente si può dire che in assenza del ritardo il creditore avrebbe ricevuto la prestazione, ma con altrettanta sicurezza si deve aggiungere che, verificatosi il ritardo, l’impossibilità della prestazione, e con essa la definitiva mancata attuazione del diritto di credito, non si sarebbe prodotta senza l’azione di un evento ulteriore, causa diretta dell’impossibilità, non imputabile al debitore nella fattispecie costruita dall’art. 1221. ( 10 ) Bianca, op. cit., p. 232 ss. ( 11 ) Bianca, op. cit., p. 233 ss.

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D’altra parte, è lo stesso art. 1221 che si incarica di smentire la tesi che stiamo discutendo, quando consente al debitore di liberarsi dimostrando che l’oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore. Infatti, se si giustifica la regola del passaggio del rischio con l’argomento che la mora del debitore, impedendo l’estinzione dell’obbligazione, ha creato l’occasione per il verificarsi dell’impossibilità della prestazione, di cui, quindi, sarebbe causa, il fatto che tale impossibilità si sarebbe prodotta ugualmente, anche con una puntuale esecuzione, dovrebbe essere privo di rilievo ai fini dell’esonero da responsabilità del debitore. Se veramente la condotta del debitore ha causato l’inadempimento definitivo dell’obbligazione, una volta provata, da parte del creditore, la situazione di mora, al debitore non dovrebbe essere accordata altra possibilità, per liberarsi, che quella di provare che il ritardo non gli è imputabile, per un’impossibilità temporanea di esecuzione della prestazione a lui non addebitabile. Il fatto che si consenta al debitore di liberarsi provando che l’oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore, significa che la regola sul passaggio del rischio ha un fondamento diverso dal preteso nesso eziologico tra la mora e l’impossibilità della prestazione. Per essere ancora più chiari, il fatto che la prestazione sarebbe divenuta impossibile anche nell’ipotesi di un’esecuzione puntuale non dovrebbe eliminare la realtà che, concretamente, l’impossibilità si è prodotta per una causa diversa, la mora del debitore secondo la tesi in esame, e non dovrebbe quindi comportare la sua liberazione dalla responsabilità per l’inadempimento. A Bianca certo non sfugge questa possibile obiezione, tanto che spiega la prova liberatoria di cui all’art. 1221 non nel quadro della responsabilità per l’inadempimento da mora, bensì quale riflesso di una regola generale sulla quantificazione del danno risarcibile: il danno deve essere determinato in relazione al tempo della sentenza e non al momento in cui lo stesso si produce (12). Se il danno deve essere determinato in relazione al momento della sentenza, è in riferimento a quel tempo che va valutata l’eventuale differenza patrimoniale negativa prodottasi a causa dell’evento dannoso. Si deve cioè considerare, in relazione a quel momento, la consistenza del patrimonio del danneggiato, e confrontarla con quella che il medesimo patrimonio avrebbe avuto, sempre al tempo della sentenza, nell’ipotesi in cui l’evento dannoso non avesse avuto luogo. Corollario dell’individuazione del tempo della sentenza quale momento della determinazione del danno, è il riconoscimento della rilevanza delle cause alternative ipotetiche nel processo di quantificazione del danno risarcibile. Così, se il danno si fosse prodotto comunque per l’azione di una causa diversa da quella che, concretamente, lo ha causato, si dovrebbe constatare che, al tempo della sentenza, il patrimonio del danneggiato avrebbe avuto la stessa consistenza anche se non si fosse verificato l’evento dannoso ( 12 ) Bianca, op. cit., pp. 237 e 238.

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oggetto del giudizio di responsabilità. Infatti, il patrimonio del danneggiato avrebbe fatto registrare una diminuzione in ogni caso, anche se per l’operare di una causa diversa. La rilevanza accordata all’operare di una causa alternativa ipotetica, conseguenza dell’individuazione del tempo della sentenza quale momento della determinazione del danno, farebbe sì che, al danneggiato, non debba essere attribuita alcuna compensazione per il nocumento subìto. Così, si spiegherebbe il senso della prova liberatoria concessa al debitore dall’art. 1221. Se, in caso di puntuale esecuzione, la prestazione sarebbe divenuta comunque impossibile anche presso il creditore, per l’azione di una causa diversa, al danneggiato non dovrebbe essere concesso il risarcimento di un danno che avrebbe patito anche se l’inadempimento non avesse avuto luogo. La prova liberatoria di cui all’art. 1221 sarebbe, quindi, il portato della rilevanza riconosciuta dall’ordinamento all’operare di una causa alternativa ipotetica, conseguenza dell’individuazione del tempo della pronuncia giudiziale quale momento di determinazione del danno. A parere di chi scrive, il danno deve essere determinato in relazione al momento in cui lo stesso si è prodotto. Non essendo questa la sede per analizzare il problema dell’individuazione del momento della determinazione del danno, mi limiterò soltanto a richiamare le conclusioni cui sono giunto in uno studio dedicato a questo tema (13). I principi e le regole tanto della responsabilità da inadempimento quanto di quella extracontrattuale impongono la scelta del momento della produzione del danno quale punto di riferimento per la valutazione dello stesso. Non contrastano con questa soluzione né il fatto che il nostro ordinamento accolga una concezione patrimoniale del danno e la teoria della differenza come modello della quantificazione, né il confronto con la tutela assicurata al danneggiato dall’adempimento in natura e, per il pregiudizio extracontrattuale, dal risarcimento in forma specifica. Dal momento in cui il danno si produce nasce l’obbligo di risarcirlo (14), ed il tempo che intercorre tra il sorgere dell’obbligazione risarcitoria ed il suo adempimento dà corpo al ritardo nell’esecuzione della prestazione del risarcimento. Accanto, perciò, all’obbligazione di risarcire il danno principale sorge un’obbligazione di risarcire il danno conseguenza del ritardo nella riparazione del danno principale. Il danno da ritardo sarà quantificato guardando alle perdite e al mancato guadagno che il creditore dell’obbligo (principale) di risarcimento avrà subìto per non aver potuto disporre della somma dovutagli come compensazione del pregiudizio. Scegliere il tempo della sentenza quale momento della determinazione del danno implica che si seguano, fino alla pronuncia giudiziale, le variazioni ( 13 ) N. Rizzo, Momento della determinazione del danno e mora del debitore, in questa Rivista, 2010, pp. 245 ss. ( 14 ) V. infra par. 4 e 5.

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di valore dell’interesse leso. Sennonché, assieme al risarcimento del danno principale, al danneggiato sarà attribuita anche la compensazione per il danno secondario (quello da ritardo), quantificata stimando quale sarebbe stato l’utilizzo che il creditore avrebbe fatto della somma dovutagli, a titolo di risarcimento, qualora ne avesse potuto disporre. Seguire le variazioni di valore dell’interesse leso e, al contempo, risarcire il danneggiato per non aver potuto disporre dell’equivalente pecuniario dell’utilità perduta con l’inadempimento, significa dar vita ad una quantificazione del risarcimento costruita sul presupposto, intrinsecamente contraddittorio, che il creditore avrebbe potuto contare tanto sull’utilità perduta a causa dell’inadempimento quanto sul risarcimento dovutogli proprio per il fatto dell’inadempimento (15). Quantificare la riparazione del danno in relazione al momento in cui lo stesso si produce non è altro che un’applicazione del principio dell’integrale riparazione del pregiudizio. Guardando al momento in cui il danno si produce, dovranno essere valutate la perdita subìta e il mancato guadagno conseguenza dell’inadempimento, la cui stima, razionalmente, non dovrà sovrapporsi a quella del danno da ritardo nell’adempimento dell’obbligazione risarcitoria. La determinazione di questo danno dovrà essere effettuata sempre in relazione al momento in cui lo stesso si produce, cioè quello dell’adempimento dell’obbligazione risarcitoria da parte del debitore danneggiante. Compiendo la valutazione del danno in relazione al momento in cui lo stesso si produce, il creditore danneggiato non godrà dell’incremento di valore che l’interesse leso faccia, eventualmente, registrare durante il processo. Parallelamente, però, non subirà il decremento di quel valore, ugualmente possibile; così come non soggiacerà al rischio di vedersi negare la compensazione del pregiudizio subìto, sulla base dell’argomento che la diminuzione del suo patrimonio si sarebbe verificata anche a prescindere dall’evento lesivo oggetto del giudizio di responsabilità, per l’operare di una causa che avrebbe, comunque, provocato il danno, anche laddove quell’evento non avesse avuto luogo. Non trovando spiegazione nelle regole generali sulla determinazione del danno, il significato della prova liberatoria di cui all’art. 1221 si radica nel sottosistema della responsabilità per l’inadempimento da ritardo. L’art. 1221 ridistribuisce il rischio dell’impossibilità della prestazione sulla base del nuovo assetto degli interessi delle parti, prodotto dal ritardo del debitore nell’adempimento dell’obbligazione (16). Nell’ipotesi fisiologica della puntuale esecuzione della prestazione, incombe sul creditore il rischio che la stessa divenga impossibile (per una causa non imputabile al debitore) tanto prima quanto dopo l’adempimento. In pendenza del termine per l’esecuzione, nonostante la prestazione sia nella disponibilità materiale e giuridica del debitore e sia, pertanto, sottoposta ai pericoli che possono minacciare questa ( 15 ) Cfr. Rizzo, op. cit., p. 268 ss. ( 16 ) Cfr. P. Trimarchi, Causalità e danno, Milano 1967, pp. 189 e 190; Villa, op. cit., p. 860 ss.

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sfera, il rischio del venir meno dell’utilità attesa dal rapporto di obbligazione grava sul creditore, perché la scansione temporale dell’attuazione del rapporto corrisponde al programma delle parti. Dopo la scadenza del termine, se l’adempimento ha avuto luogo, l’obbligazione si estingue, quindi è chiaro che il creditore debba fronteggiare l’eventualità di non poter trarre un beneficio da quanto ricevuto, per il verificarsi di eventi che non sono sotto il suo controllo. Il ritardo, al contrario, mantiene la prestazione nella disponibilità del debitore oltre il periodo definito dalle parti, assoggettandola così, ulteriormente, alle minacce che investono questa sfera. Quindi, mancato l’adempimento allo spirare del termine, trasferire il rischio del perimento dell’oggetto della prestazione sul creditore significherebbe esporlo ai pericoli di danno che incombono su una dimensione materiale e giuridica che non ha la possibilità di controllare, non corrispondendo, tra l’altro, alla soggezione al pericolo la disponibilità della prestazione ed il potere di trarne i vantaggi sperati. Guardando, poi, alla capacità delle regole di orientare i comportamenti, mantenere la distribuzione del rischio pensata per la fisiologia del rapporto obbligatorio, anche nell’ipotesi di violazione del termine di adempimento, si tradurrebbe, per il debitore, in un incentivo a ritardare la prestazione di quanto dovuto. Per queste chiare ragioni, l’art. 1221 sposta su chi ha violato l’obbligazione il rischio che, dopo la scadenza del termine, la prestazione divenga impossibile. Al contempo, però, consente al debitore di liberarsi provando che l’oggetto della prestazione sarebbe ugualmente perito presso il creditore. La legge, così, vuole evitare tanto che il creditore subisca una perdita al rischio della quale non avrebbe dovuto essere esposto, quanto che lo stesso goda, per effetto di questa tutela, di un vantaggio ingiustificato. Da una parte, quindi, il creditore non sarà soggetto al rischio che la prestazione divenga impossibile mentre è ancora nella disponibilità del debitore; dall’altra, l’impossibilità rimarrà a carico del creditore nell’ipotesi in cui la prestazione sarebbe venuta meno anche se si fosse trovata nella sua disponibilità, perché colpita dal medesimo evento dannoso ovvero da un evento differente. Pertanto, se un fornitore è tenuto a prestare della merce al suo cliente entro una certa data, trascorso invano il periodo della consegna, se la merce perisce per l’incendio del magazzino, in cui era contenuta, causato dalla caduta di un fulmine, il debitore inadempiente dovrà compensare il creditore con una somma equivalente al valore della merce e al guadagno che la controparte avrebbe tratto qualora ne avesse potuto disporre; al contrario, se, una volta spirato il termine per l’esecuzione, il Ministero della Salute emettesse un regolamento in cui si vieta la commercializzazione di prodotti fabbricati con l’utilizzo di una certa sostanza, impiegata anche nella produzione della merce del nostro esempio, non nascerebbe a carico del fornitore un’obbligazione di risarcire al cliente un danno che questi, anche in caso di puntuale adempimento, avrebbe comunque subìto.

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Quanto detto ci consente di tornare al punto da cui avevamo preso le mosse, cioè alla questione se la conseguenza di cui all’art. 1221 costituisca un’applicazione delle regole sulla responsabilità per inadempimento ovvero si atteggi come un’eccezione nell’ambito del sistema. Si rilevava come il passaggio del rischio, estendendo la responsabilità del debitore oltre il limite dell’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, implichi la formulazione di un’eccezione nel sistema della responsabilità per inadempimento. Si può precisare, ora, che a fare della regola dell’art. 1221 un’eccezione è il fatto che, ponendo sul debitore l’obbligo di risarcire il danno subìto dal creditore per il venir meno della prestazione, si afferma una responsabilità in difetto di un nesso che leghi, in un rapporto di causa ad effetto, la condotta del responsabile all’evento dannoso. Se si guarda alla fattispecie con le lenti della teoria condizionalistica si può dire, in relazione a quasi tutte le possibili ipotesi, che il ritardo del debitore, avendo mantenuto la prestazione nella sfera materiale e giuridica dello stesso, è condizione necessaria del danno rappresentato dal venir meno della prestazione, per l’azione di una causa che agisce sull’oggetto dell’obbligazione in quanto questo sia nella sfera del debitore. Se però, individuate le possibili condizioni necessarie di un certo evento dannoso attraverso questa teoria, si passa ad analizzare se l’antecedente causale così prescelto è anche, normalmente, in grado di produrre un risultato dannoso come quello che concretamente ha avuto luogo, allora si deve concludere che, nella fattispecie in esame, il ritardo del debitore non può essere considerato causa dell’impossibilità della prestazione. Con maggior precisione: se, messo in atto il processo di eliminazione mentale tipico della teoria condizionalistica (in cui si considera se, fingendo che il ritardo non avesse avuto luogo, l’impossibilità della prestazione si sarebbe comunque verificata), si procede valutando se l’impossibilità possa considerarsi una conseguenza normale del ritardo nell’esecuzione, la conclusione sarà positiva rispetto al primo quesito ma negativa rispetto al secondo. Infatti, senza l’azione di una causa, diversa ed ulteriore rispetto alla condotta del debitore, il perimento dell’oggetto della prestazione non avrebbe avuto luogo. Constatato che, nella responsabilità di diritto civile, il giudizio causale contempera sia la teoria condizionalistica che quella della causalità adeguata (17), quale temperamento della prima, non si può che prendere atto di come la disciplina sul passaggio del rischio costituisca un’eccezione alle regole sul giudizio di causalità e, più in generale, sulla responsabilità per inadempi( 17 ) V. A. Belvedere, Il nesso di causalità, in Tratt. Rodotà-Zatti, La responsabilità in medicina, a cura di Belvedere e Riondato, Milano 2011, p. 229 ss.; R. Pucella, La causalità « incerta », Torino 2007, p. 250; C. Salvi, La responsabilità civile, in Tratt. Iudica-Zatti, 2a ed., Milano 2005, p. 227 ss.; M. Capecchi, Il nesso di causalità, 2a ed., Padova 2005, p. 94 ss. In giurisprudenza, v. Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 584, in F. it., 2008, I, c. 469 ss.

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mento. Infatti, trasferendo sul debitore il rischio dell’impossibilità si supera il limite logico-giuridico dell’obbligazione, dato dall’impossibilità non imputabile della prestazione, e si rende il debitore responsabile di un danno che, alla luce delle regole sulla determinazione della sussistenza di un nesso eziologico, non può considerarsi causato dalla condotta del soggetto chiamato a rispondervi. All’inizio di queste considerazioni, dopo aver escluso che la costituzione in mora sia necessaria perché la violazione del termine di esecuzione della prestazione integri un inadempimento (rilevante), ci eravamo chiesti quale sia, allora, la funzione della costituzione in mora. Evocando la tesi di Natoli, si era detto che la costituzione in mora sarebbe necessaria per la produzione di effetti ulteriori come, appunto, il passaggio del rischio di cui all’art. 1221. Si era poi sottolineato che, per dare ragione a questa ricostruzione, sarebbe stato necessario spiegare la ragione per cui la regola di cui all’art. 1221 necessiti, per prodursi, che il creditore abbia intimato il debitore o che, comunque, gli abbia chiesto per iscritto l’adempimento. In caso contrario, da un’esclusione dell’utilità dell’intimazione nella fattispecie, risulterebbe evidente l’incapacità di questa ipotesi ricostruttiva di assegnare alla mora un ruolo nella responsabilità per inadempimento, con la conseguenza che la stessa conclusione circa la non necessità della mora per integrare un inadempimento (rilevante), nel caso di violazione del termine, sarebbe indebolita. L’argomentazione svolta fino a questo punto sembra fornire una soddisfacente spiegazione del perché la costituzione in mora sia necessaria perché avvenga il passaggio del rischio. Più precisamente, la costituzione in mora del debitore sarà necessaria perché si produca l’effetto disciplinato dall’art. 1221, quando l’obbligazione deve essere eseguita al domicilio del debitore. Laddove la prestazione debba, invece, essere eseguita al domicilio del creditore, ovvero il debitore abbia dichiarato per iscritto di non voler adempiere, il passaggio del rischio si produrrà egualmente anche in mancanza della costituzione in mora. Ora sappiamo che, con la regola del passaggio del rischio, si deroga a due principi cardine del sistema della responsabilità, con cui si definisce la nozione di inadempimento (art. 1218) ed il fondamento dell’attribuzione di responsabilità per i danni conseguenza dell’inadempimento (art. 1223). La formulazione di un’eccezione tanto vistosa nasce da una duplice esigenza: con il passaggio del rischio, ad un tempo, si realizza un’equa ripartizione dei costi della mancata attuazione del rapporto obbligatorio e si orientano i comportamenti dei debitori. La regola si giustifica, quindi, sotto il profilo dell’equità e della deterrenza. Nelle obbligazioni che devono essere eseguite al domicilio del debitore, è richiesta al creditore una cooperazione più intensa che nelle altre ipotesi. La mancata esecuzione della prestazione da parte del debitore si può definire inadempimento (rilevante) soltanto se è presente questa attività del creditore,

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in caso contrario non si può parlare di inadempimento (rilevante) ed una richiesta di risarcimento del danno da ritardo, da parte del creditore, sarebbe contraria alla buona fede: l’obbligazione di risarcire il pregiudizio conseguenza del ritardo sarebbe pertanto inesigibile. Si è sostenuto che, perché il mancato rispetto del termine di esecuzione integri un inadempimento, in questa ipotesi, la costituzione in mora del debitore rappresenti un elemento non necessario, in quanto non determinante nella soluzione del problema posto dalla fattispecie: costituire in mora il debitore non equivale ad una cooperazione all’adempimento. Tanto che si può avere questa cooperazione anche mancando la costituzione in mora, così come il debitore, seppure intimato di prestare quanto dovuto, può trovarsi nella materiale impossibilità di farlo. Perché, allora, la costituzione in mora dovrebbe essere necessaria per il prodursi dell’effetto del passaggio del rischio? Per la ragione che quella situazione di incertezza, che si dà in tutte le ipotesi in cui il comportamento del debitore non è sufficiente, da solo, a realizzare l’adempimento (18), deve essere risolta, con il grado massimo di chiarezza, perché si producano degli effetti come quelli disciplinati dalla fattispecie dell’art. 1221, proprio per la loro natura eccezionale rispetto al sistema della responsabilità. Perché si verifichi il passaggio del rischio, nelle obbligazioni che devono essere eseguite al domicilio del debitore, sarà pertanto necessario non solo che il creditore abbia, materialmente, dato al debitore, con la propria cooperazione, la possibilità di adempiere, ma anche che l’intenzione del creditore di ottenere l’adempimento, alla scadenza del termine, sia espressa attraverso un atto formale. A questo fine, lo strumento della costituzione in mora rivela la sua utilità, e l’ordinamento impone al creditore l’onere di farne uso. 3. — La funzione della costituzione in mora non si esaurisce, poi, al ruolo di elemento della fattispecie produttiva dell’effetto del passaggio del rischio, ma rappresenta una forma di esercizio del diritto di credito. Infatti, il creditore che vuole dimostrare il suo interesse, attuale, all’esecuzione del rapporto obbligatorio, impedendo la realizzazione della fattispecie estintiva del diritto per l’inerzia del suo titolare, potrà costituire in mora il debitore (art. 2943, comma 2o). L’interruzione della prescrizione non rappresenta, d’altra parte, l’unica ipotesi in cui emerge l’utilità della costituzione in mora come strumento di esercizio del diritto. Si deve considerare, infatti, anche il ruolo che la costituzione in mora può rivestire nei casi in cui le parti non abbiano definito l’attuazione del rapporto obbligatorio nel tempo, stabilendo un termine di esecuzione della prestazione. ( 18 ) V., in generale, su questo tema P. Schlesinger, Riflessioni sulla prestazione dovuta nel rapporto obbligatorio, in R. trim. d. proc. civ., 1959, p. 1273 ss., in particolare p. 1280 ss.

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Quando le parti non hanno apposto un termine all’esecuzione della prestazione il creditore, ex art. 1183, potrà esigerla immediatamente. All’esercizio, da parte del creditore, della facoltà di pretendere immediatamente la prestazione corrisponde il dovere del debitore di eseguirla. In altre parole, laddove il creditore non richieda l’adempimento, la mancata esecuzione della prestazione, da parte del debitore, non potrebbe considerarsi un inadempimento (19). Sul creditore incombe, quindi, l’onere di chiedere al debitore l’esecuzione della prestazione. In questo caso la legge rimette al creditore la scelta del tempo in cui pretendere la prestazione, concedendogli anche di esigerla immediatamente. Contraltare della facoltà concessa, sarà l’onere di cui è gravato di evitare ogni incertezza, per il debitore, circa il momento in cui la prestazione dovrà trovare esecuzione. Laddove, poi, sia necessario che intercorra un tempo ragionevole tra la nascita dell’obbligazione ed il suo adempimento, per gli usi che si applicano in quel determinato settore dell’attività economica ovvero per la natura della prestazione o il modo ed il luogo dell’esecuzione (art. 1183), il creditore dovrà esigere l’adempimento solo dopo che, sulla base di una valutazione talora improntata anche alla regola della correttezza, ritenga che sia trascorso un tempo sufficiente affinché il debitore sia pronto per l’esecuzione. Il codice civile del 1865 pretendeva che questo onere fosse soddisfatto per mezzo del compimento di un atto che avesse forma scritta: l’intimazione od altro atto equivalente. L’art. 1223, comma 3o, c.c. 1865, stabiliva, infatti, che « se nella convenzione non è stabilito alcun termine, il debitore non è costituito in mora che mediante un’intimazione od altro atto equivalente ». Il codice del ’42 non condiziona al rispetto di un requisito di forma l’efficace esercizio del diritto di credito nella fattispecie dell’obbligazione senza termine. Il creditore potrà richiedere l’adempimento nelle forme che ritiene più utili, fra le quali, certamente, lo strumento della costituzione in mora consente al titolare del diritto di escludere ogni incertezza sull’intenzione di darvi attuazione. 4. — Tra i casi in cui la prestazione non è sottoposta ad un termine di esecuzione, i più importanti sono certamente rappresentati dalle obbligazioni di risarcimento del danno extracontrattuale o da inadempimento. Riguardo all’obbligazione di risarcimento del danno extracontrattuale, il legislatore risolve espressamente la questione della definizione del momento in cui diviene attuale l’obbligo di prestare il risarcimento, con la disposizione dell’art. 1219, comma 2o, n. 1. Come si è accennato precedentemente, il problema del momento in cui diviene attuale l’obbligo di risarcire il danno porta con sé un interrogativo ( 19 ) V., in generale sul tema dell’obbligazione cui non sia stato apposto dalle parti un termine per l’adempimento, Di Majo, op. cit., p. 194 ss.

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sulla stessa determinazione del contenuto della riparazione (20). L’alternativa è tra il tenere in considerazione, durante il periodo del processo, l’evoluzione del valore dell’interesse leso e, più in generale, il tenere conto di quale sarebbe stata la consistenza del patrimonio del danneggiato, nel medesimo periodo, se l’evento dannoso non avesse avuto luogo, ovvero ritenere dovuto il risarcimento del danno sin dal momento in cui lo stesso si è prodotto e attribuire al danneggiato un ulteriore risarcimento per non aver potuto disporre, da quel tempo, della somma valutata come equivalente al valore del pregiudizio subìto. Il legislatore, con l’art. 1219, comma 2o, n. 1, opta per questa seconda soluzione. La dottrina prevalente ritiene che il fatto illecito di cui all’art. 1219, comma 2o, n. 1, sia semplicemente quello che lede un interesse meritevole di protezione al di fuori del rapporto obbligatorio (illecito extracontrattuale), e non anche l’illecito rappresentato dall’inadempimento (21). Questa tesi, che valorizza l’intenzione del legislatore storico (22), non può essere condivisa. Si sostiene che la mora non potrebbe essere automatica, per l’obbligazione di risarcimento di un danno da inadempimento, perché questa interpretazione porterebbe a svuotare di significato la norma del comma 1o dell’art. 1219 (23). Questa argomentazione non sembra distinguere tra l’obbligazione inadempiuta e l’obbligazione che trova fonte nell’inadempimento dannoso. Anche laddove si ritenesse, a differenza di quanto si è cercato di dimostrare in queste pagine, che il danno da ritardo sia risarcibile esclusivamente nell’ipotesi in cui il debitore sia stato costituito in mora, questa conclusione non impedirebbe di sostenere che sul creditore non grava l’onere di costituire in mora il debitore anche rispetto all’obbligazione di risarcire il danno da ritardo. ( 20 ) V. supra par. 2. ( 21 ) A. Ravazzoni, voce Mora del debitore, in Nov. D., X, Torino 1964, p. 904 ss., in particolare p. 907; Id., voce Mora del debitore, in Enc. giur. Treccani, XXIII, Roma 1990, p. 2, secondo cui l’art. 1219, n. 1, può applicarsi all’obbligazione di risarcimento del danno da inadempimento « solo al di fuori della fattispecie del ritardo, con riferimento all’ipotesi di inadempimento verificatosi sin dall’inizio, in modo definitivo ed irrevocabile »; Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, cit., pp. 167 e 168; G. Visintini-L. Cabella Pisu, L’inadempimento delle obbligazioni, in Tratt. Rescigno, IX, t. 1, Torino 1999, p. 242 ss.; Visintini, Inadempimento e mora del debitore, cit., p. 497 ss. ( 22 ) V. Relazione al libro delle obbligazioni, n. 569, Roma 1940. ( 23 ) S. Mazzarese, voce Mora del debitore, in Dig. disc. priv. - sez. civ., XI, Torino 1994, p. 443 ss., ritiene che: « il semplice riferimento di tale regola al “fatto illecito”, non altrimenti qualificato né individuato mediante esplicito richiamo all’art. 2043 c.c., va ancorato unicamente all’illecito extracontrattuale o aquiliano; se si interpretasse anche nel senso di quello contrattuale o inadempimento dell’obbligazione, si vanificherebbe la regola immediatamente precedente, e contestuale nel medesimo articolo, della costituzione in mora mediante intimazione o richiesta scritta », p. 448.

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Ancora più chiaramente, affermare che il debitore è, automaticamente (art. 1219, comma 2o, n. 1), in mora nell’adempimento dell’obbligo di risarcire il danno da ritardo, in nulla cambia la questione se per integrare la fattispecie dell’inadempimento da ritardo, in relazione all’obbligazione principale, sia o meno necessaria la costituzione in mora. Questo problema può essere risolto o nel senso che si è qui sostenuto, affermando che la semplice violazione del termine costituisce già un inadempimento capace di attivare la tutela risarcitoria, ovvero ritenendo che, mancata la prestazione allo spirare del termine, il creditore abbia l’onere dell’intimazione del debitore, per rendere il ritardo giuridicamente rilevante. Affermare che il fatto illecito dell’art. 1219, comma 2o, n. 1, sia tanto quello extracontrattuale che l’inadempimento, nulla ha a che fare e nulla aggiunge alla contrapposizione di tesi appena descritta, per la ragione che la fattispecie cui si applica l’art. 1219, comma 2o, n. 1, è quella dell’inadempimento dell’obbligazione di risarcimento, mentre quella a cui si dovrebbe applicare o meno, a seconda della posizione prescelta, l’art. 1219, comma 1o, è la fattispecie d’inadempimento dell’obbligazione contrattuale. Al contrario, è rispetto all’obbligazione secondaria che è rilevante sapere se sia o meno necessaria la costituzione in mora in relazione all’obbligazione principale, perché nel primo caso, in mancanza dell’intimazione, l’obbligazione risarcitoria non nascerà neppure, mentre nel secondo basterà la semplice scadenza del termine dell’obbligazione primaria per rendere il ritardo giuridicamente rilevante, e quindi perché nasca l’obbligazione secondaria (24). ( 24 ) È interessante notare le oscillazioni della giurisprudenza sul punto. Cass. 27 gennaio 1996, n. 637, in Danno e resp., 1996, p. 345 ss., con nota di G. Valcavi, afferma: « Il principio secondo cui gli interessi sulle somme di denaro liquidate a titolo risarcitorio decorrono dalla data in cui il danno si è verificato è applicabile solo in tema di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito in quanto, ai sensi dell’art. 1219, comma 2o, c.c., il debitore del risarcimento del danno è in mora (mora ex re) dal giorno della consumazione dell’illecito; invece, se l’obbligazione risarcitoria deriva da inadempimento contrattuale, gli interessi decorrono dalla domanda giudiziale, che è l’atto idoneo a porre in mora il debitore, giacché la sentenza costitutiva che pronuncia la risoluzione produce i suoi effetti retroattivamente (ex tunc) dal momento di proposizione di detta domanda ». Recentemente, però, la giurisprudenza della Cassazione sembra propendere per una soluzione differente, che Cass. 9 febbraio 2005, n. 2654, in Rep. F. it., 2005, voce Danni civili, 2020, n. 403, così motiva: « Vero è, infatti, che l’art. 1219, comma 2o, n. 1, c.c. prevede che non è necessaria la costituzione in mora (che si attua mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto) quando il debito deriva da fatto illecito. [...] Il punto è che non è concettualmente conciliabile l’accertamento dell’inadempimento con effetti risarcitori ad una certa data (altrimenti non si potrebbe risarcire il danno derivatone al creditore rivalutando da quella data la somma costituente, in allora, l’equivalente del danno) con la decorrenza da una data successiva degli interessi “compensativi” da ritardo nell’adempimento del debito risarcitorio [...]. Ritenere che il danno da lucro cessante di un medesimo fatto dannoso (inadempimento) possa decorrere da data successiva a quella rispetto alla quale si apprezza il danno emergente solo perché esso (il lucro cessante) viene liquidato facendo ricorso al meccanismo degli interessi (che è una modalità liquidatoria del danno da ritardo) significa ricondurre alla disciplina dei debiti di valuta la liquidazione di un debito di valore ». Decodificando l’argomentazione

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Dopo queste precisazioni, si vede che non è l’interpretazione sulla mora nell’obbligazione secondaria a svuotare di significato l’art. 1219, comma 1o, né ad influenzare in alcun modo il destino dell’obbligazione principale, mentre, viceversa, è l’interpretazione sostenuta, in relazione all’obbligazione principale, che incide sul nascere dell’obbligazione secondaria. La fattispecie può rivelarsi di difficile comprensione, trattandosi dell’inadempimento dell’obbligazione di risarcire un danno da inadempimento. Ciò nonostante, una volta chiariti i termini della questione, si comprende come la sussistenza del primo inadempimento è condizione essenziale perché possa discutersi del secondo, mentre i modi in cui il secondo si produce (necessaria o meno che sia la costituzione in mora del debitore del risarcimento) in alcun modo influenzano il primo. Pertanto il significato da attribuire alla locuzione fatto illecito di cui all’art. 1219, comma 2o, n. 1, è del tutto irrilevante al fine dell’interpretazione dell’art. 1219, comma 1o. Sembra, quindi, cadere l’unico ostacolo che, solitamente, viene opposto alla tesi secondo cui, in relazione al debito che deriva da un inadempimento contrattuale, la mora è automatica (25). 5. — Per confermare questa conclusione, serve, ora, interrogarsi circa l’ipotesi in cui l’inadempimento non consista nel mancato rispetto della modalità temporale di esecuzione della prestazione, non si tratti cioè della fattispecie del ritardo nell’adempimento, ma di un inadempimento cosiddetto definitivo, determinato dal sopravvenire di un’impossibilità della prestazione imputabile al debitore. Benatti sostiene che, in questo caso, ci troveremmo di fronte ad una fattispecie in tutto simile a quella dell’obbligo cui le parti non hanno apposto un termine per l’adempimento. Secondo questa tesi, nel difetto di una regola pattizia sul tempo di esecuzione della prestazione, il dovere di eseguirla diverrebbe attuale solo con la costituzione in mora del debitore. Allo stesso modo, con riguardo al risarcimento del danno da inadempimento definitivo, l’obblidella Cassazione, si possono trarre le seguenti conclusioni: l’obbligazione di risarcimento del danno da inadempimento è un debito di valore, che deve essere stimato in relazione al momento in cui il danno si produce e rivalutato sempre a partire dal tempo del suo verificarsi. Gli interessi che il debitore dovrà prestare per compensare il creditore del ritardo con cui l’obbligazione risarcitoria viene adempiuta, devono, anch’essi, essere calcolati sulla somma stimata equivalente al valore del danno, ed oggetto di progressiva rivalutazione, sempre a partire dal momento in cui il danno si è prodotto. In buona sostanza, quindi, la Cassazione applica l’art. 1219, n. 1, anche all’obbligazione di risarcimento del danno da inadempimento. Le difficoltà nell’argomentare questa soluzione, di per sé così chiara, sono dovute all’artificiosa bipartizione delle obbligazioni pecuniarie tra debiti di valuta e debiti di valore. Sul fondamento di questa contrapposizione e sulla necessità di un suo superamento sia consentito rinviare a N. Rizzo, Il problema dei debiti di valore, Padova 2010, in particolare p. 75 ss. ( 25 ) Cfr. Bianca, op. cit., p. 209, ad avviso del quale deve « negarsi l’esattezza di una interpretazione intesa a limitare l’ambito della norma all’illecito aquiliano escludendo quello contrattuale ».

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gazione sarebbe esigibile solo a seguito di un’intimazione o di una richiesta di adempimento fatta per iscritto da parte del creditore (26). Per concretizzare questo ragionamento, facciamo il caso dell’accordo con cui Tizio, noto pittore, e Caio, mercante d’arte, decidono che il primo realizzerà un quadro composto dalle proprie opere incompiute più apprezzate dal secondo, che dovrà prestare il corrispettivo entro trenta giorni dalla consegna del dipinto. Le parti non hanno stabilito un termine per l’esecuzione della prestazione, quindi il creditore avrebbe la facoltà di esigerla immediatamente. D’altra parte, la natura stessa della prestazione implica che al debitore sia lasciato un tempo ragionevole per adempiere. Nella fattispecie in esame, la mancata consegna dell’opera non integrerà un inadempimento prima che Caio abbia fatto valere, trascorso un tempo congruo dal momento della conclusione del contratto, la sua pretesa all’esecuzione della prestazione dovuta, tanto più che, dal momento dell’adempimento, sorgerà in capo al creditore l’obbligo di eseguire la controprestazione, ragione per la quale questi potrebbe decidere di esigere la consegna dell’opera anche in un tempo successivo a quello che presumibilmente, considerato il costume dell’artista, possa ritenersi necessario per il compimento della stessa. Riguardo alla forma della richiesta dell’adempimento, non si comprende perché questa dovrebbe essere espressa attraverso la costituzione in mora del debitore, dal momento che l’art. 1183 non subordina l’esercizio del diritto di credito al rispetto di una forma determinata, a differenza di quanto faceva il comma 3o dell’art. 1223 del codice civile del 1865. Figuriamoci, ora, l’ipotesi in cui, realizzato questo particolare patchwork, il pittore, in preda ad una crisi di creatività, squarci la tela appena ultimata. Distruggendo le proprie precedenti opere, oggetto della composizione, egli rende impossibile la realizzazione di un’opera che soddisfi l’interesse del creditore. Secondo l’opinione in esame, l’obbligazione del debitore di risarcire il danno da inadempimento (definitivo) sarebbe esigibile solo a seguito del compimento, da parte del creditore, di un atto di costituzione in mora. Solo dal momento dell’intimazione, quindi, la mancata esecuzione della prestazione del risarcimento integrerebbe un inadempimento, solo da quel tempo si determinerebbe la risarcibilità del danno (causato dal ritardo nell’adempimento dell’obbligazione risarcitoria). Se, in preda a questa crisi esistenziale, il nostro artista, negli stessi giorni ( 26 ) Benatti, op. cit., p. 157. Giunge alla medesima conclusione, anche se la giustifica in modo diverso, Villa, op. cit., p. 856 secondo cui se il danno da ritardo « è risarcibile solo dal momento in cui il creditore manifesta il proprio interesse alla prestazione, sarebbe incongruo accordare un ristoro per la ritardata corresponsione di quanto dovuto per equivalente quando, divenuta impossibile la prestazione originariamente pattuita per causa imputabile al debitore, il creditore non abbia manifestato la volontà né di ottenere la prestazione originaria, né di avere quella sostitutiva ».

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in cui ha squarciato la propria tela, distruggesse anche l’opera di un collega esposta in una galleria, in questo caso, trattandosi di un debito di risarcimento di un danno extracontrattuale, egli sarebbe automaticamente costituito in mora dal momento dell’illecito, con la conseguenza che, da quel tempo, la mancata prestazione del risarcimento configurerebbe un inadempimento da ritardo, ed in relazione alla somma dovuta a titolo di riparazione nascerebbe l’obbligo di prestare gli interessi legali. Come si giustifica il differente trattamento giuridico della seconda fattispecie rispetto alla prima? Per quale ragione l’obbligo di risarcire il danno extracontrattuale diviene attuale già dal tempo del verificarsi dell’illecito mentre quello che ha ad oggetto la compensazione del danno da inadempimento (definitivo) sarebbe tale solo con la costituzione in mora? L’impossibilità di fornire una risposta adeguata a queste domande, di giustificare la discriminazione tra creditore e creditore, quello del risarcimento del danno contrattuale e quello danneggiato al di fuori del contratto, rappresenta una ragione sufficiente per ritenere che, anche quando il debito deriva dall’inadempimento, la costituzione in mora non sia necessaria. Del resto, è proprio il confronto con la fattispecie dell’obbligazione contrattuale, in cui le parti non hanno stabilito un termine per l’adempimento, che rafforza, se ce ne fosse ancora bisogno, questa conclusione. Mentre, infatti, in quel caso, non avendo le parti regolato la modalità temporale di attuazione del rapporto obbligatorio, la mancata richiesta dell’adempimento può essere interpretata come la conseguenza di un disinteresse del creditore all’esecuzione della prestazione in quel momento, nell’ipotesi in cui la prestazione diviene impossibile per causa imputabile al debitore, al contrario, l’attualità del dovere di porre riparo al danno cagionato con l’inadempimento non può essere messa in dubbio. In dottrina, recentemente, una tesi, partendo dal presupposto che la costituzione in mora non sia necessaria per rendere inadempimento la mancata esecuzione della prestazione alla scadenza del termine, ha sottolineato il ruolo centrale che, malgrado ciò, la mora rivestirebbe nel sistema della responsabilità per inadempimento (27). Secondo questa ricostruzione, la funzione della mora si potrebbe apprezzare non tanto nell’ambito della responsabilità per l’inadempimento da ritardo quanto con riferimento alle condizioni della risarcibilità del danno da inadempimento definitivo. La fattispecie sarebbe quella del ritardo che si protrae, intollerabilmente, dopo la scadenza del termine tanto da far venir meno l’interesse del creditore ad un adempimento ritardato. In questa ipotesi, il creditore sarebbe titolato a chiedere il risarcimento integrale del danno soltanto qualora, mancata l’esecuzione della prestazione alla scadenza del termine, abbia costituito in mora il debitore e questi, dopo l’intimazione, abbia ( 27 ) V. G. Grisi, La mora debendi nel sistema della responsabilità per inadempimento, in questa Rivista, 2010, I, p. 69 ss.

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perseverato nella violazione dell’obbligazione, omettendo di prestare quanto dovuto (28). La rilevanza della costituzione in mora non si giocherebbe, quindi, nella fattispecie dell’adempimento ritardato ma in quella dell’inadempimento da ritardo, reso inadempimento definitivo dall’intollerabile protrarsi della mancata esecuzione della prestazione. Secondo la tesi in esame, nell’ipotesi del ritardo intollerabile, perché sia integrata la fattispecie dell’inadempimento (definitivo) sarebbe, quindi, necessario il compimento, da parte del creditore, della costituzione in mora. Conseguenza di questa impostazione sarebbe che, mancando l’intimazione, il rifiuto opposto dal creditore all’eventuale offerta del debitore di adempiere, pur effettuata con un ritardo irragionevole, sarebbe illegittimo (art. 1206 c.c.). Questa conclusione non è condivisibile: non è la costituzione in mora a trasformare l’inadempimento da ritardo in un inadempimento definitivo. Il mutamento nel grado della violazione del vincolo obbligatorio dipende dal fatto che il ritardo perduri fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il creditore non abbia più l’interesse a conseguire la prestazione (art. 1256, comma 2o, c.c.) (29). Il ritardo, quindi, deve essere tale da far ritenere la realizzazione dell’interesse dedotto nel rapporto obbligatorio ormai impossibile da attuare. Se, ora, si considera l’ipotesi che l’obbligazione inadempiuta trovi la propria fonte in un contratto a prestazioni corrispettive, si può osservare che la funzione attribuita, nella ricostruzione in esame, alla costituzione in mora riecheggia quella della diffida ad adempiere, con cui il contraente fedele intima la controparte ad adempiere in un congruo termine, dichiarando che, in caso contrario, il contratto si intenderà risoluto di diritto (art. 1454 c.c.). La costituzione in mora, così come la diffida, equivale certamente ad una richiesta di adempimento, ma, tralasciando anche che elemento essenziale della diffida è ( 28 ) Cfr. Grisi, op. cit., p. 78 ss. ( 29 ) Cfr. Cass., sez. un., 6 giugno 1997, n. 5086, in F. it., 1997, I, c. 2446 ss.; in Corr. giur., 1997, p. 768 ss., con nota di V. Carbone, Il creditore può rifiutare il tardivo adempimento?; secondo cui « in caso di inadempimento di una delle parti di un contratto a prestazioni sinallagmatiche, per essere inutilmente decorso il previsto termine non essenziale, l’altra parte, che non abbia ancora proposto domanda giudiziale di risoluzione del contratto, può non di meno rifiutare legittimamente l’adempimento tardivo quando — tenuto conto della non scarsa importanza dell’inadempimento in relazione alle posizioni delle parti, suscettibile di verifica ad opera del giudice — sia venuto meno l’interesse della parte non inadempiente a che il contratto abbia esecuzione, e pertanto può, anche dopo l’offerta di adempimento tardivo, agire in giudizio per la risoluzione del vincolo contrattuale »; Cass. 8 maggio 1996, n. 4260, in Rep. F. it., 1996, voce Contratto in genere: Rescissione e risoluzione, 758, n. 416, che afferma: « Nei contratti con prestazioni corrispettive (nella specie, promessa di vendita di cosa altrui), l’adempimento tardivo di una parte può essere legittimamente rifiutato dall’altra anche quando il termine di adempimento non sia essenziale ed indipendentemente dal previo esperimento della azione di risoluzione, purché il ritardo non sia di scarsa importanza per la creditrice ».

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l’indicazione di un congruo termine per l’esecuzione, e che lo stesso può mancare e solitamente non si ritrova nell’intimazione, la funzione della diffida ad adempiere guarda al regime del contratto fonte dell’obbligazione inadempiuta, per produrne l’inefficacia nell’ipotesi in cui si protragga la mancata esecuzione del programma negoziale, mentre la costituzione in mora, secondo l’opinione in esame, sarebbe necessaria per produrre la trasformazione dell’inadempimento da ritardo in inadempimento definitivo. Neppure si potrebbe obiettare che la diffida, rendendo legittimo il rifiuto dell’adempimento tardivo offerto dal debitore, cambi la natura dell’inadempimento (30). Se l’inadempimento è di scarsa importanza, infatti, la diffida ha la sola efficacia di una richiesta di adempimento; al contrario, se si tratta di un inadempimento grave (31), la mancata esecuzione della prestazione entro il termine della diffida risolve il contratto e fa venir meno la stessa questione della natura (definitiva o meno) dell’inadempimento, in quanto l’obbligazione si estingue. D’altra parte, ormai unanimemente, tanto la dottrina quanto la giurisprudenza ritengono non necessaria la costituzione in mora del contraente infedele perché il giudice pronunci la risoluzione del contratto per inadempimento (32). Si osserva, giustamente, che lo scioglimento del contratto è subordinato, semplicemente, alla non scarsa importanza dell’inadempimento allegato dall’attore (33). Laddove la fattispecie sia quella dell’inadempimento da ritardo, quindi, sarà la gravità dello stesso a portare a considerare la violazione del vincolo obbligatorio come un inadempimento (definitivo) capace di azionare il rimedio della risoluzione (34). ( 30 ) In questa direzione sembra muoversi G. Sicchiero, La risoluzione per inadempimento artt. 1453-1459, in Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano 2007, p. 584 ss. ( 31 ) Cass. 5 settembre 2006, n. 19074, in questa Rivista, 2007, II, p. 509 ss., commentata da M. Dellacasa, Offerta tardiva della prestazione e rifiuto del creditore: vantaggi e inconvenienti di una risoluzione « atipica », precisa che « in un contratto a prestazioni corrispettive, ciascuna delle parti può rifiutare di ricevere la prestazione tardiva e di eseguire la controprestazione solo se il ritardo maturato al momento dell’offerta è grave. Se invece il ritardo è lieve, la prestazione non può essere rifiutata: il contraente che subisce il rifiuto può ottenere la risoluzione del contratto e la condanna della controparte al risarcimento del danno ». ( 32 ) V. U. Carnevali, in A. Luminoso-U. Carnevali-M. Costanza, Della risoluzione per inadempimento, sub art. 1453 c.c., in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma 1990, p. 63 ss.; C. Granelli, Risoluzione per inadempimento e « mora del debitore », in Contratti, 1993, p. 715; R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, t. II, Torino 2004, p. 627 ss.; M. Dellacasa, Inattuazione e risoluzione: i rimedi, in Trattato del contratto, cit., v. V, t. II, Rimedi - 2, Milano 2006, p. 243 ss. V., per l’opinione tradizionale in senso contrario, D. Rubino, Costituzione in mora e risoluzione per inadempimento, in R. d. comm., 1947, I, p. 55 ss.; A.C. Pelosi, « Mora debendi » e risoluzione giudiziale del contratto per inadempimento, in G. it., 1964, I, p. 1223. ( 33 ) V. Cass. 23 dicembre 2011, n. 28647, online in De Jure; Cass. 28 ottobre 1995, n. 11279, in Rep. F. it., 1995, voce Contratto in genere: Invalidità, 809, n. 453; Cass. 9 febbraio 1993, n. 1595, in Rep. F. it., 1993, voce Contratto in genere, 638, n. 457. ( 34 ) Cfr., tra gli altri, G. Iorio, Ritardo nell’adempimento e risoluzione del contratto, Milano 2012, in particolare pp. 49 ss. e 153 ss.; L. Nanni, Della risoluzione per inadempi-

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6. — Abbiamo visto che l’altra conseguenza del ritardo nell’adempimento, per il cui prodursi sarebbe necessario che il debitore sia stato costituito in mora, è il sorgere dell’obbligazione degli interessi legali di cui all’art. 1224. Questa norma dispone che, dal giorno della mora, sono dovuti gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente ed anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno. Identificare la produzione degli interessi legali come conseguenza della costituzione in mora del debitore è, sia dal punto di vista della disciplina del diritto delle obbligazioni, che in un’ottica funzionale, improprio. Come, altrove, ho cercato di dimostrare (35), la norma generale sulla fattispecie degli interessi legali è posta, dal nostro ordinamento, nell’art. 1282 c.c., secondo cui i crediti liquidi ed esigibili di somme di danaro producono interessi di pieno diritto. L’obbligo di prestare gli interessi legali nasce a carico di chi dispone di una somma che altri può esigere, come corrispettivo, in una logica di mercato, del vantaggio di cui gode, rispetto al creditore, chi può usare della somma. Il vantaggio del debitore, come del resto il sacrificio del creditore, è considerato dal legislatore in astratto, cioè oggettivamente, senza che vi sia né la necessità né la possibilità di dimostrare che chi dispone della somma non se n’è avvantaggiato o che chi non può farvi conto non ne ha risentito sacrificio. La fattispecie degli interessi legali dell’art. 1282 non richiede, poi, di interrogarsi sulla ragione della disponibilità della somma, cioè se sia dovuta o meno ad un inadempimento. L’art. 1224, comma 1o, riproduce, con poche variazioni, questa norma, collocandola, però, in un differente contesto sistematico. La regola sulla produzione degli interessi legali porta con sé, oltre che la struttura, anche la propria funzione, che è quella di attribuire al creditore un corrispettivo per la disponibilità, da parte del debitore, di una somma che egli può esigere. Il fatto, poi, che il debitore goda della somma perché inadempiente nulla cambia per quanto riguarda la ragione per cui è tenuto a prestare quegli interessi, considerato che, anche in questo caso, il creditore non ha alcun onere di provare di aver subìto un danno (36). Ciò che cambia, quando la disponibilità della somma è il risultato di un inadempimento, è che il creditore, se insoddisfatto dall’attribuzione degli interessi legali, potrà ottenere, secondo le regole generali (artt. 1224, comma 2o, e 1223), il risarcimento del pregiudizio subìto, oppure la prestazione di una penale, nella forma di un tasso d’interesse diverso da quello legale, nell’ipotemento, t. I, 2, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma 2007, p. 22 ss.; M. Tamponi, La risoluzione per inadempimento, in I contratti in generale, a cura di Gabrielli, t. 2, 2a ed., Torino 2006, p. 1724 ss. ( 35 ) Sia consentito rinviare a N. Rizzo, Interessi corrispettivi e risarcimento del danno da mora, in Nuova g. civ. comm., 2009, II, p. 26 ss. ( 36 ) V., su questi problemi, il recente studio di T. Dalla Massara, Obbligazioni pecuniarie. Struttura e disciplina dei debiti di valuta, Padova 2012, in particolare pp. 319 ss. e 341 ss.

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si in cui le parti l’abbiano pattuita proprio in previsione di un ritardo nell’adempimento. Pertanto, assegnare alla costituzione in mora la funzione di elemento della fattispecie che regola la produzione degli interessi legali è errato, sia se si guarda allo scopo dell’obbligazione degli interessi, la cui spiegazione si ritrova nell’art. 1282, sia se si considerano le ipotesi in cui la prestazione degli interessi è, concretamente, subordinata alla costituzione in mora del debitore. Infatti, anche se l’art. 1224 stabilisce che gli interessi legali sono dovuti dal giorno della mora (prima variante rispetto alla formulazione dell’art. 1282), secondo l’art. 1219, comma 2o, n. 3, la costituzione in mora non è necessaria, quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore, e l’art. 1182, comma 3o, stabilisce che le obbligazioni pecuniarie devono essere adempiute al domicilio del creditore. Senza contare che, anche laddove le parti abbiano previsto che la somma debba essere prestata al domicilio del debitore, gli interessi legali sono già dovuti sulla base della norma generale dell’art. 1282. A ben guardare, quindi, l’unico caso in cui la costituzione in mora si rivela necessaria perché nasca l’obbligo degli interessi è quello in cui la prestazione, al contempo, sia illiquida (vero punto di differenziazione tra l’art. 1224 e l’art. 1282) e debba essere eseguita al domicilio del debitore. In conclusione, non resta che constatare la rarità delle ipotesi in cui, senza la costituzione in mora, il creditore non avrà diritto alla prestazione degli interessi legali. La necessità della costituzione in mora in quest’unica ipotesi, non solo non giustifica la conclusione che la produzione degli interessi legali sia un effetto della mora, ma crea una discriminazione tra creditori del tutto irragionevole. 7. — Quanto detto ci permette, ora, di tratteggiare una descrizione della natura e della funzione dell’atto di costituzione in mora. La costituzione in mora rappresenta un modo di esercizio del diritto di credito, che ha la funzione di manifestare l’interesse del creditore all’adempimento, rendendo tale interesse attuale nelle ipotesi in cui risulti incerta o la stessa intenzione del titolare di esercitare il diritto, o il tempo nel quale si concretizzerà l’attuazione del rapporto obbligatorio. In questi casi, la costituzione in mora è lo strumento con cui il creditore può porre fine all’inerzia facendo valere il suo diritto di credito, o può esigere l’adempimento dell’obbligazione quando le parti non abbiano determinato il tempo in cui la prestazione dovrà essere eseguita. La costituzione in mora è, inoltre, il mezzo attraverso cui il creditore dichiara, senza possibilità di equivoci, l’intenzione di ottenere l’esecuzione della prestazione e, con essa, constata il mancato adempimento del debitore, creando le condizioni per il prodursi dell’effetto del passaggio del rischio, conseguenza eccezionale nel sistema di reazione all’inadempimento (37). ( 37 ) Cfr. Cass. 23 dicembre 2011, n. 28647, cit.

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Questa lettura della funzione della costituzione in mora e, più in generale, del sistema delle conseguenze del ritardo nell’adempimento trova, del resto, un proprio riferimento nella storia del diritto, precisamente nel cosiddetto principio « dies interpellat pro homine », sancito nella Glossa (38). Contrapposto al principio enunciato dalla Glossa è il modello fatto proprio dal Code civil, che, con l’art. 1139, stabilisce che la semplice pattuizione del termine di esecuzione della prestazione non dispensa il creditore dall’onere di costituire in mora il debitore, salvo nell’ipotesi in cui le parti abbiano, espressamente, previsto che il debitore debba considerarsi in mora per effetto della scadenza del termine convenuto. La dialettica tra la soluzione della Glossa ed il modello francese è alla base dell’ondivaga scelta del codice italiano nella materia delle conseguenze del ritardo nell’adempimento. L’art. 1219 rappresenta, infatti, nell’intenzione del legislatore del ‘42, un compromesso tra la soluzione francese e quella di matrice italica. Nell’ordinamento italiano, prima dell’emanazione del codice del ‘42, questa dialettica si è polarizzata nell’elaborazione di due norme, opposte per quanto riguarda il loro contenuto: l’art. 1223 del codice civile del 1865 e l’art. 95 del Progetto di Codice italo-francese delle obbligazioni e dei contratti. Per l’art. 1223, se l’obbligazione consiste nel dare o nel fare, il debitore è costituito in mora per la sola scadenza del termine stabilito nella convenzione. Come si vede, il legislatore del 1865, con il comma 1o dell’art. 1223, fa proprio il principio « dies interpellat pro homine ». Al comma 3o, invece, la disposizione citata segue l’esempio francese di imporre al creditore un vincolo di forma per far valere la sua pretesa all’adempimento: « se nella convenzione non è stabilito alcun termine, il debitore non è costituito in mora che mediante un’intimazione od altro atto equivalente » (39). La dottrina legata al modello francese contesta l’accoglimento del principio « dies interpellat pro homine », da parte del codice del ’65. Gli argomenti opposti alla regola della mora automatica fanno leva, da una parte, sulla necessità di tutelare il debitore, dall’altra sulle possibili incertezze che l’applicazione dell’art. 1223, comma 1o, avrebbe potuto determinare tutte le volte in cui il termine di esecuzione della prestazione fosse stato stabilito da un atto diverso dal contratto (40). Non sembra utile, ora, entrare nel dibattito sviluppatosi nei decenni successivi all’emanazione del codice del 1865. È sufficiente notare come, in maggioranza, la dottrina ritenesse auspicabile l’adozione di una regola che, previsto o meno che fosse un termine per l’adempimento, imponesse al creditore di ( 38 ) Secondo A. Montel, La mora del debitore. Requisiti nel diritto romano e nel diritto italiano, Padova 1930, in particolare p. 25 ss., il principio « dies interpellat pro homine » risale già al diritto romano. ( 39 ) V. la ricostruzione storica di Benatti, op. cit., p. 185 ss. ( 40 ) Cfr. le critiche rivolte a queste argomentazioni da Montel, op. cit., p. 119 ss.

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esercitare il suo diritto alla prestazione attraverso l’utilizzo di una forma determinata. La necessità che il diritto di credito fosse esercitato per mezzo della costituzione in mora era particolarmente avvertita nell’ipotesi in cui l’obbligazione dovesse essere adempiuta al domicilio del debitore (41). Le ragioni in base alle quali si sosteneva che la fattispecie dell’obbligazione quérable richiedesse l’intimazione del debitore, perché il ritardo potesse considerarsi un inadempimento giuridicamente rilevante al fine del risarcimento del danno, sono le stesse oggetto delle argomentazioni di alcuni autori contemporanei. L’equivoco sulla funzione della costituzione in mora nelle obbligazioni quérables, che ho analizzato all’inizio di questa trattazione, nasce, infatti, già nei commenti all’art. 1223 del codice civile del 1865. La linea interpretativa propugnata dalla dottrina fedele al modello francese ebbe un’affermazione nella stesura del Progetto italo francese di Codice delle obbligazioni, il cui art. 95 ricalcava l’art. 1139 del Code civile, così come nella redazione del Progetto del libro delle obbligazioni del 1936, il quale anch’esso recava una disposizione ispirata al medesimo sistema di regolazione (42). Si sono così descritti i dati del contesto che il legislatore del ’42 trova di fronte a sé: gli elementi normativi, le interpretazioni e le proposte di riforma. Manca, però, a completare il quadro, l’analisi della struttura del sistema economico su cui avrebbe inciso il regolatore. Da questo punto di vista, la domanda che pone un’economia sempre più fondata sull’industria è quella di una tutela maggiormente efficace del credito, pertanto di una disciplina della fattispecie del ritardo nell’adempimento forgiata dagli obbiettivi della semplicità e della speditezza, a dispetto delle stantie invocazioni dottrinali per una maggiore protezione del debitore (43). La soluzione elaborata dal legislatore del ’42 tiene conto di questa domanda quando fa riferimento al risarcimento del danno da ritardo negli artt. 1218 e 1223, e quando all’art. 1219, comma 2o, n. 3, afferma la regola « dies interpellat pro homine », dettata in via generale dall’art. 1223 c.c. del 1865, per le fattispecie in cui l’obbligazione debba essere adempiuta al domicilio del creditore. Al contrario, l’esclusivo riferimento dell’art. 1219, comma 2o, n. 3, alle obbligazioni portables, così come l’inclusione della mora tra gli elementi della fattispecie della produzione degli interessi dell’art. 1224, rappresentando un cedimento alla dottrina del favor debitoris, rendono ambigua la scelta compiuta dal legislatore nella materia delle conseguenze del ritardo nell’adempimento. Di questo dato normativo ambiguo ho proposto un’interpretazione che è in linea con la politica del diritto delle obbligazioni che, ormai, contraddistin( 41 ) Cfr. Montel, op. cit., p. 127 ss. ( 42 ) V. Benatti, op. cit., p. 194 ss. ( 43 ) V. Relazione al libro delle obbligazioni, cit., nn. 9 e 10.

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gue il nostro ordinamento, e che si traduce nel superamento del principio tradizionale del favor debitoris (44). Una disciplina del diritto delle obbligazioni ispirata ad una direttiva di protezione del debitore, in quanto soggetto debole del rapporto obbligatorio, trovava nell’istituto della costituzione in mora uno strumento essenziale per il perseguimento dell’obbiettivo, perché capace di risolvere, a favore del debitore, qualunque possibile incertezza circa l’interesse del creditore all’esecuzione della prestazione dovuta, addossando a quest’ultimo un onere per l’esercizio del diritto. Riguardo alle obbligazioni pecuniarie, poi, la finalità di tutela del soggetto passivo del rapporto risultava ulteriormente rafforzata, combinandosi con il tradizionale sfavore per la prestazione degli interessi. Nella realtà attuale si può osservare come la posizione del debitore (del corrispettivo in denaro) sia spesso rivestita dalle grandi imprese (committenti) mentre il creditore è un’impresa medio piccola (subfornitrice), così come debitrici sono anche le pubbliche amministrazioni che spesso, negli appalti di lavori pubblici o di servizi, hanno come controparte un’impresa con scarso potere di mercato. Al contempo le piccole e medie imprese sono, però, debitrici delle banche così come il conduttore, nella locazione, è debitore del canone verso il proprietario dell’immobile. Questi brevi cenni sono sufficienti a constatare la varietà dei soggetti che, nelle fattispecie concrete, possono essere qualificati come debitori, il cui insieme non si presta più ad una descrizione unificante, che costituisca quella dei debitori in una categoria sociale, e tanto meno che le assegni il ruolo di parte debole del rapporto obbligatorio. Su queste premesse, l’interprete deve leggere la disciplina del diritto delle obbligazioni come un insieme di regole che hanno quali destinatari soggetti da considerare, reciprocamente, in posizione di parità. È, invece, il legislatore che, guardando ai singoli settori della vita economica, una volta analizzati i rapporti di forza tra le parti, può farsi autore di una disciplina caratterizzata, rispetto alle regole del diritto comune, dalla maggiore tutela accordata a chi, nella fattispecie, rivesta la posizione di debitore o di creditore. In questo senso, un recente esempio ci è fornito dal diritto privato di matrice europea, segnatamente dal d. legisl. n. 231 del 2002, attuazione della direttiva comunitaria n. 35 del 2000, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali (45). ( 44 ) V., sul superamento del principio del favor debitoris nella codificazione del ’42, Benatti, op. cit., p. 217 ss. ( 45 ) Per un’analisi della direttiva e della sua attuazione nell’ordinamento italiano v. L. Mengoni, La direttiva 2000/35/CE in tema di mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, in Europ. d. priv., 2001, p. 73 ss; A. Zaccaria, La direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Studium Iuris, 2001, p. 259 ss.; G. Fauceglia, Direttiva 2000/35/CE in materia di lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2001, p. 307 ss.; A. Frignani-O. Cagnasso,

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Oggetto della regolazione sono i contratti tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, fonti, in via esclusiva o prevalente, di obbligazioni di consegnare merce o di prestare servizi, contro un corrispettivo in denaro (art. 2, lett. a del decreto). Il legislatore sovranazionale, così come, di riflesso, quello nazionale, individua nel creditore del corrispettivo il soggetto debole del rapporto, la cui tutela dovrebbe consentire il raggiungimento di obbiettivi di politica economica, quali il rafforzamento della posizione sul mercato delle piccole e medie imprese creditrici, e l’omogeneizzazione delle prassi contrattuali, all’interno del mercato unico, riguardo ai tempi dell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie che trovano fonte nelle cosiddette transazioni commerciali. Dal punto di vista del diritto delle obbligazioni, gli strumenti che il legislatore usa sono quelli della disciplina della fattispecie del mancato rispetto del termine dell’adempimento (art. 4, comma 1o); della fissazione del tasso degli interessi che il debitore deve prestare se viola il termine convenzionale o legale (art. 5); della predisposizione di norme dispositive per il caso in cui le parti non abbiano regolato il tempo dell’esecuzione della prestazione (art. 4, comma 2o). (46) Per il nostro ragionamento è di particolare interesse il primo di questi strumenti. L’art. 4, comma 1o, prevede che gli interessi decorrano, automaticamente, dal giorno successivo alla scadenza del termine per il pagamento. Il legislatore considera l’inesecuzione della prestazione allo spirare del termine, stabilito convenzionalmente dalle parti, un inadempimento dell’obbligazione, a prescindere dalla costituzione in mora del debitore, e ciò senza distinguere a seconda del luogo di esecuzione della prestazione, tra obbligazioni che devono essere adempiute al domicilio del creditore e obbligazioni che, al contrario, devono essere adempiute al domicilio del debitore (47). L’attuazione della direttiva sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2003, p. 307 ss.; A.M. Benedetti-P. Canepa-M. Grondona, I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Profili sostanziali e processuali, a cura di Benedetti, Torino 2003; G. De Nova-S. De Nova, I ritardi di pagamento nei contratti commerciali, Milano 2003; E. Russo, La nuova disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratto e impr., 2003, p. 445 ss.; G. De Cristofaro (a cura di), La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Nuove l. civ. comm., 2004, p. 461 ss. ( 46 ) I medesimi strumenti vengono impiegati dalla nuova direttiva contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Si tratta della direttiva n. 7 del 16 febbraio 2011, che dovrà trovare attuazione, nei differenti ordinamenti degli Stati che compongono l’Unione, entro il marzo del 2013. La direttiva del 2011 non introduce novità significative, ai fini di questa trattazione. Di grande interesse è la nuova disciplina, invece, in relazione alle regole sul tempo dell’adempimento nei contratti tra le imprese e la pubblica amministrazione. ( 47 ) Il legislatore tedesco ha dato attuazione alla direttiva n. 35 del 2000 nell’ambito della Modernisierung del diritto delle obbligazioni realizzata nel 2001. Le soluzioni elaborate dal legislatore comunitario sono state impiegate per disciplinare la fattispecie dell’inadempimento di un’obbligazione pecuniaria, a prescindere da quale ne sia la fonte (con un’attenuazione, però, della reazione all’inadempimento nell’ipotesi in cui il debitore sia un

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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 4/2013

La stessa regola è prevista per il caso in cui nel contratto non sia previsto un termine per l’esecuzione. In queste ipotesi, l’adempimento dovrà avere luogo entro trenta giorni dal verificarsi di uno degli eventi previsti dalla legge: il ricevimento della fattura o di una richiesta di pagamento di contenuto equivalente; la consegna delle merci o la prestazione dei servizi; l’accettazione o la verifica della conformità della merce o dei servizi alle previsioni contrattuali. Mancato l’adempimento, entro il termine previsto dalla legge, sorgerà a carico del debitore, senza che sia necessaria la costituzione in mora, l’obbligo di prestare gli interessi calcolati in base al tasso previsto dall’art. 5 del decreto. Senza entrare nel dettaglio della determinazione di questo tasso, il saggio prescelto porta ad una quantificazione dell’obbligazione di interessi particolarmente elevata. In una logica di corrispettività tra la prestazione degli interessi e la disponibilità, da parte del debitore, di una somma esigibile dal creditore, si fa fatica ad immaginare che il creditore avrebbe potuto trarre dalla somma, laddove fosse stata puntualmente prestata, un rendimento così alto, come, allo stesso modo, è difficile ipotizzare che sia stato così rilevante il guadagno che il debitore ha tratto dall’uso della somma, nel periodo in cui il termine era scaduto. La stessa conclusione si ripropone ragionando in una logica risarcitoria, la cui funzione essenzialmente compensativa (48) non sembra impronti il modo di quantificazione della prestazione degli interessi scelto dal legislatore comunitario (per quanto sia confermata la possibilità per il creditore di provare di aver subìto un danno maggiore). Il tasso prescelto per il calcolo degli interessi legali attribuisce, chiaramente, alla prestazione una funzione di strumento di deterrenza rispetto al ritardo nell’adempimento (49). La scelta di dissuadere il debitore dalla violazioconsumatore: § 286, 3o comma, e § 288, 1o comma). Cfr. P. Kindler, Gli effetti della Schuldrechtsreform sulla mora debitoris, in questa Rivista, 2003, I, p. 691 ss.; A.C. Ciacchi, L’attuazione della direttiva sui ritardi nei pagamenti. B) Germania, in Europ. d. priv., 2004, p. 197 ss. Le medesime soluzioni ispirano anche l’art. 8:406 degli Acquis Principles (v. I « Princìpi » del diritto comunitario dei contratti, a cura di De Cristofaro, Torino 2009, p. 653 ss.; e, on line, www.acquis-group.org), che regola i presupposti del sorgere dell’obbligazione degli interessi nei contratti commerciali. Ai fini del ragionamento che ci ha impegnato è, probabilmente, ancor più utile portare l’attenzione sull’art. 8:404 dei Principi, che disciplina, in via generale, gli interessi nel caso di ritardo nel pagamento di somme di denaro, stabilendo che: in caso di ritardo nel pagamento di una somma di denaro, a prescindere dalla circostanza che il mancato tempestivo pagamento sia o meno scusabile, il creditore ha diritto alla prestazione degli interessi a decorrere dalla data in cui la somma avrebbe dovuto essere corrisposta e fino al momento in cui essa venga effettivamente pagata. V. il commento di A. Finessi, Ritardo nel pagamento di debiti pecuniari e interessi moratori, in I « Princìpi » del diritto comunitario dei contratti, cit., p. 559 ss. ( 48 ) Cfr. C. Castronovo, Del non risarcibile aquiliano: danno meramente patrimoniale, c.d. perdita di chance, danni punitivi, danno c.d. esistenziale, in Europ. d. priv., 2008, p. 315 ss. ( 49 ) In dottrina si ritiene che l’obbligo degli interessi abbia, in quest’ipotesi, una funzio-

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ne del termine di esecuzione, attraverso la previsione di una conseguenza per lui sfavorevole, congegnata al di fuori del classico modello, risarcitorio, di reazione all’inadempimento, non è nuova. La regola del passaggio del rischio di cui all’art. 1221 condivide, in parte, questa medesima funzione, ma a differenza della misura disciplinata dall’art. 5 del decreto presuppone che il debitore sia stato costituito in mora.

ne schiettamente sanzionatoria, per il rilevante sacrificio economico che impone al debitore inadempiente. Cfr. G. Di Martino, Interessi moratori e punitivi tra risarcimento e sanzione, Napoli 2010, in particolare pp. 232 ss. e 266 ss.; M. Costanza, Interessi « punitivi » troppo punitivi, in Studi in onore di C.M. Bianca, t. IV, Milano 2006, p. 57 ss.; A. Finessi, La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, sub art. 5, in Nuove l. civ. comm., 2004, p. 549 ss., in particolare p. 553; E. Russo, La nuova disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratto e impr., 2003, p. 445 ss., in particolare p. 494.

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