Israele tra paranoia e utopia

July 3, 2017 | Autor: Anna Di Giusto | Categoria: Israel/Palestine, Medio Oriente
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ISRAELE TRA PARANOIA E UTOPIA

di Anna Di Giusto

“Non angustiate lo straniero, voi ben conoscete l'animo dello straniero, poiché stranieri siete stati in terra d'Egitto”. Così è scritto in Esodo 23, 9. Questo precetto non solo descrive la condizione nomade degli ebrei prima dell'era cristiana, ma si potrebbe dire che abbia profetizzato il destino del popolo di Israele degli ultimi due millenni. Dopo che nel 135 d.C. l'imperatore romano Adriano costrinse gli ebrei a una seconda e definita diaspora 1, il Popolo eletto non ha più fatto ritorno alla Terra Santa se non all'inizio del XX secolo, a seguito della nascita del movimento sionista 2. Nei quasi duemila anni intercorsi tra l'esilio coatto e il rientro in Palestina, gli ebrei si sono stabiliti in varie parti d'Europa, principalmente divisi tra i sefarditi a Occidente e gli ashkenaziti in Europa centro-orientale, portando con sé uno spirito unico che Slezkine, ne Il secolo ebraico, definisce come “mercuriano”: solo l'ebreo è stato per secoli un individuo mobile, colto, ricco per merito e non per nascita, e perciò radicalmente moderno, avendo quegli attributi oggi richiesti dalla globalizzazione, di cui gli ebrei si possono quindi considerare i precursori3. Privati dalle autorità religiose della possibilità di acquistare beni fondiari, fin dal Medioevo si sono dedicati ai commerci e in particolare alle pratiche bancarie e finanziarie, precluse ai cristiani; il frequente caso di arricchimento degli ebrei è quindi stato spesso oggetto di invida, tanto che, dalle crociate in poi, sono stati ricorrenti nella storia europea sia l'emarginazione che i massacri delle comunità ebraiche, dalla costituzione dei ghetti ai pogrom russi, fino alla tragedia della Shoah 4. Se si prova ora, alla luce di quanto brevemente scritto, a riflettere sul fatto che gli ebrei nel

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1948, con la nascita di Israele, hanno intrecciato uno stretto legame tra i concetti di popolo, nazionalità e Stato, si deve però considerare che questo evento accadde in un'epoca, il secondo dopoguerra, che iniziò a essere come non mai prima radicalmente “mercuriana”, cioè instabile e soggetta a grandi flussi di migrazioni da ogni parte del globo 5. Nel momento in cui la Seconda guerra mondiale aveva dimostrato tutti i limiti e le aggressività insite nel concetto di stato-nazione, esasperato dal nazismo in particolare a scapito della minoranza ebraica in Europa, ecco che prese vita il progetto sionista di Theodor Herzel, intellettuale austriaco che alla fine dell'800 aveva avvertito più di altri la necessità di trovare per il popolo ebraico uno stato capace di offrire un rifugio per tutti gli ebrei dispersi nel mondo, o, come disse lui, una terra senza popolo per un popolo senza terra6. Il carattere contraddittorio del sionismo è però evidente fin dalla lettura dell'Antico Testamento, dove Israele non viene definito come terra-madre, ma come terra-sposa, in un rapporto che impedisce a chiunque di sentirsi autoctono, ma impone a tutti la condizione di “stranieri residenti”7. Se l'antica Palestina è da sempre stata una terra refrattaria ai confini, quantomeno dall'epoca della seconda diaspora e durante i lunghi secoli di occupazione araba, oggi la studiosa Donatella di Di Cesare invita semmai lo Stato israeliano a farsi portavoce ed esempio di una nuova forma di sovranità, perché, come sostiene il filosofo Lévinas, lo spirito ebraico si è sempre trovato in tensione tra identità e alterità, a metà strada fra terra e cielo 8. Gli ebrei israeliani non hanno avuto in sorte un destino di stato-nazione vincolato a un lungo processo di unificazione, come è accaduto per l'Italia e la Germania, o di guerra contro lo straniero per definire la propria identità, come nel caso della Spagna e della Francia 9. Se oggi quindi la stessa globalizzazione mette in crisi il concetto di Stato (come anche però quello di Unione europea, sommatoria di stati in perenne discussione e dissidio tra loro, incapaci di 5 6 7 8 9

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dare voce a uno sguardo davvero sovranazionale), Israele dovrebbe farsi carico di smascherare la falsità della difesa identitaria e dei confini chiusi per tutti coloro che non possono vantare l'appartenenza a una nazione di serie A, come Lampedusa è sempre pronta a ricordarci. E così a Israele, proprio per la sua natura recente e anomala, sarebbe offerta la possibilità di aprire un nuovo capitolo nella storia della convivenza pacifica mondiale 10. Invece Israele sembra oggi più che mai ingabbiato nel concetto di identità nazionale, al punto da presentarsi ogni giorno di più come uno stato religioso, al cui interno l'appartenenza al credo veterotestamentario non riguarda la sfera privata, come in qualunque paese laico è accaduto a seguito della secolarizzazione iniziata con la Rivoluzione francese; ma diviene lo stigma imprescindibile dell'appartenenza al novero degli “eletti”, che ai giorni nostri e in quei luoghi comporta il diritto a non sottostare a una numerosa serie di violazione di diritti fondamentali, come il diritto allo spostamento, all'arresto solo in seguito a un giusto processo, allo sfruttamento delle risorse idriche della propria terra e via discorrendo 11. La vocazione teologico-politica di Israele sovrappone, in nome dell'appartenenza etnica, il popolo alla religione, privando così -secondo lo storico ebraico Enzo Traverso- il mondo ebraico del ruolo di coscienza critica del Vecchio continente; se l'Europa aveva sempre rifiutato agli ebrei la piena cittadinanza, questa condizione di esclusi aveva favorito in loro l'assunzione del ruolo di cosmopoliti perennemente alla ricerca dei difetti della nazione di riferimento. In questo modo, con la nascita di Israele, «del mondo occidentale, l’ebraismo diasporico ha rappresentato la coscienza critica, mentre Israele sopravvive come un suo dispositivo di dominio» 12. Perché è avvenuto ciò? Quale cambiamento antropologico ha subito il popolo dell'”ebreo errante”, che durante il genocidio armeno prese immediatamente posizione contro una tale violenza inaudita13? Dobbiamo accettare che oggi questo popolo si sia inevitabilmente trasformato nella 10 D. di Cesare, Israele, cit. 11 I. Pappe, La pulizia etnica della Palestina, a cura di L. Corbetta e A. Tradardi, Fazi Editore, Roma 2008. 12 E. Traverso, La fine della modernità ebraica. Dalla critica al potere, trad. di D. Guzzi, Feltrinelli, Milano 2013, p. 13. 13 Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno, a cura di F. Cortese e F. Berti, Giuntina, Firenze 2015.

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figura dell'intellettuale al servizio dell'eurocentrismo e dell'atlantismo, ben rappresentato da Henry Kissinger, campione di Realpolitik14? Forse un approccio psicologico potrebbe aiutarci a tentare di offrire una risposta a questo interrogativo. Cosa è successo nella mente delle vittime della Shoah? Cosa le ha spinte a condannare i palestinesi a vivere -secondo l'espressione del palestinese Edward Said- “la tragedia di essere le vittime delle vittime”, condizione che costituisce l'essenza della questione palestinese 15? Se si insiste, come ancora oggi fanno entrambe le parti, a sottolineare le colpe storiche, antiche o recenti, dall'imperatore Adriano a Hitler, dalla Guerra dei sei giorni ai bombardamenti dell'estate 2014, si rischia di non uscire dalla logica delle vittimizzazione, secondo la quale non si possono ignorare le rivendicazioni fatte da chi ha subito i torti maggiori: in questo modo il conflitto risulta a somma zero, perché non porta a nessuna possibilità di uscita dal vicolo cieco 16. Più utile può semmai risultare l'analisi della sindrome da accerchiamento in cui si trovano oggi entrambe le parti in causa: se Israele è circondato da paesi arabi coi quali ha combattuto o potrebbe ancora intraprendere delle guerre, dall'altro lato lo stesso Stato israeliano ha trasformato la striscia Gaza, oggi roccaforte di Hamas, in una prigione a cielo aperto, rendendo i palestinesi i sequestrati dei sequestrati. Ma così Israele si condanna al ruolo infernale di guardia perenne dei suoi prigionieri17. Secondo lo psicologo Salvadorini, questa condizione crea negli israeliani uno stato d'animo di paura perenne, per alimentare la quale è necessario il ruolo di spettatore della Comunità internazionale: l'osservatore esterno, infatti, svolge la funzione di colui che, ascoltando entrambe le versioni paranoiche, quella israeliana e quella palestinese, allevia così un'angoscia altrimenti insostenibile. Entrambe le parti in cause descrivono il conflitto con una conseguenza non voluta ma a cui sono entrambi costretti -Israele a bombardare o addirittura entrare a Gaza con l'esercito, come

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durante l'operazione Piombo fuso del 2008-09, Hamas a lanciare razzi contro l'ingombrante vicino18. Un tale clima di tensione, però, può infiammarsi non appena si presenti un caso di violenza che colpisca anche solo pochi individui: il 12 giugno del 2014 tre ragazzi ebrei scompaiono dopo aver fatto l'autostop in Cisgiordania, in un insediamento illegale; solo il 26 giugno si avrà la certezza della loro morte, ma in questo arco di tempo Israele arresta 560 palestinesi e di notte lancia raid sulle città palestinesi. Sempre in questo periodo, la pagina Facebook “Il popolo di Israele chiede vendetta” raccoglie 35.000 adesioni in poco tempo; gli ebrei scendono in strada per farsi giustizia da soli e il 2 luglio un ragazzo palestinese viene catturato e bruciato vivo 19. L'escalation di violenza militare che ne è seguita ha quindi trovato la sua giustificazione nell'azione del nemico, visto come colui che, agendo per primo o con maggior violenza, merita quello scontro che, comunque, dall'inizio del '900 è l'unico linguaggio considerato vincente da entrambe le parti. Si stima che l'ultima guerra, Operazione Margine di Protezione, dall'8 luglio al 26 agosto abbia causato 72 morti e 530 feriti sul fronte israeliano, mentre su quello palestinese le cifre salgono a 2.100 per i morti e 11.000 i feriti 20. Anche sui numeri reali, in particolare su quelli forniti da Hamas per Gaza, ci sono dibattiti in corso per il sospetto di una loro strumentalizzazione; se anche però non si trattasse esattamente di queste cifre, rimane indiscutibile il fatto che si tratti di numeri spaventosi; ma ancora di più dovrebbe preoccupare il fatto che si possa discutere sulla legittimità di questi dati, invece di riflettere sul motivo scatenante, ovvero la morte di tre giovani ebrei e un ragazzo palestinese come origine dell'immane strage 21. Il fine ultimo di queste cifre, invece di rendere manifesta l'assurdità di una situazione del tutto paranoica, è quello di autorizzare entrambe le parti nel processo di inarrestabile radicalizzazione del conflitto, poiché il sentimento dell'accerchiamento cresce di pari passo per israeliani e palestinesi, costringendo entrambi i popoli a

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R. Salvadorini, Dentro il conflitto, in «Mente & Cervello», Le scienze, 09/2014. http://www.lettera43.it/cronaca/israele-gaza-piu-che-informazione-e-propaganda_43675136213.htm http://www.amnesty.it/crisi-gaza-2014 http://www.voltairenet.org/article184986.html

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vivere in una dimensione in cui il prossimo può essere soltanto un amico o un nemico, senza possibilità di uscita dall'impasse 22. A fronte di tutto ciò, la Comunità internazionale dovrebbe farsi portatrice di una legittima richiesta di giustizia, mentre fino a oggi si è mostrata sempre troppo timorosa nel condannare in modo esplicito e perentorio l'esasperata violenza armata di Israele; d'altro lato, l'Onu ma soprattutto l'Unione europea agiscono nei confronti di Hamas con una sorta di cattiva coscienza, per cui, impossibilitati a difendere a livello internazionale la questione palestinese, non richiedono nemmeno un attento controllo sull'uso delle ingenti risorse affidate ad Hamas 23, né, tantomeno, monitorano il sistema di pulizia interna di eventuali o supposte spie di Israele -come ben dimostra il film di Hany Abu-Assa, Omar, candidato all'Oscar nel 2013. Ci si deve allora chiedere quale può essere la soluzione: senza cambiamenti rilevanti, la situazione odierna condanna entrambi i Paesi a vivere sotto un terrore perenne, perché anche Israele, per quanto sia più forte sul piano militare, non può esimersi dal richiedere ai suoi abitanti di sottostare a tutta una serie di regole di sicurezza che rende pesantissima l'esistenza degli ebrei 24. Dal punto di vista palestinese, mentre la Cisgiordania continua a essere impoverita dalla costruzione di colonie ebree -molto spesso illegali, ma sempre tollerate dalle autorità- e del muro che dovrebbe proteggerle, Gaza si ritrova a vivere in una situazione paradossale e ciclica di edificazione, distruzione e ricostruzione continua, con un numero di morti e feriti sempre maggiore 25. Forse la Comunità internazionale potrebbe appoggiare quei singoli individui che si dimostrano ormai da tempo insofferenti di questo clima, in modo da indebolire la contrapposizione tra i due nemici: ad esempio, importanti sono in questo contesto i soldati israeliani che si sono ribellati decidendo di testimoniare la brutalità esercitata nei Territori palestinesi occupati. La norma è rappresentata da abusi, furti, razzie e distruzione della proprietà, per non parlare della violenza 22 Carlo Galli, Lo sguardo di Giano. Saggi su Carl Schmitt, il Mulino, Bologna 2008. 23 Noam Chomsky, Ilan Pappé, Ultima fermata Gaza. Dove ci porta la guerra di Israele contro i palestinesi, trad. di M. Manganelli, Ponte Alle Grazie, Milano 2010. 24 http://www.huffingtonpost.it/manuela-dviri/sirene-pausa-angoscia-tel-aviv_b_5590502.html 25 http://www.oxfamitalia.org/eventi/cento-anni-per-ricostruire-gaza

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fisica e psicologica esercita sui bambini, nonostante i media si astengano dall'informare la popolazione civile di questa situazione o, ancora peggio nel caso dei coloni stessi, vi sia un totale rifiuto di riconoscere l'immoralità di simili azioni 26. Come spiega anche l'interessante documentario The Gatekeepers di Dror Moreh (2013), anche per alcuni ex-capi dello Shin Bet, l'agenzia di intelligence israeliana, solo abbandonando una logica di contrapposizione frontale e di esclusione dell'altro si arriverebbe a permettere a entrambe le realtà di uscire da questo vicolo cieco. Forse si potrebbe pensare a una forma nuova di Stato, superiore al concetto ormai antiquato di nazione, così da trasformare Israele in una realtà politica nuova che si presenti come un modello anche per altri paesi -europei ma non solo- da tempo in crisi, scissi al loro interno da differenze culturali vissute come un motivo di inconciliabilità, o addirittura di guerra, e non di ricchezza 27. In questi termini, meritoria e notevole appare l'opera del Maestro Daniel Barenboim che, forte della sua cittadinanza israeliana e palestinese, oltre che argentina, spagnola e russa, nel 1999 ha fondato insieme allo scrittore Edward Said la West Eastern Divan Orchestra, i cui musicisti professionisti provengono da Israele, Palestina, Egitto, Giordania, Siria e Libano. Lo scopo che si prefiggono i due intellettuali è evidentemente quello di favorire il dialogo tra la cultura ebraica e quella araba, anche grazie a una scuola di musica per bambini aperta a Ramallah, nella consapevolezza che l'arte sia uno dei ponti più forti per superare barriere e muri 28. Analogo intento anima l'orchestra fondata da Ramzi Aburedwan, oggi affermato musicista, ma assurto alla fama già all'età di otto anni per essere stato fotografato mentre lanciava pietre durante la prima Intifada. Un destino che pareva già segnato da emarginazione e futuri soggiorni nelle carceri israeliane ha invece subito una svolta decisa quando il ragazzo, sostenuto dai suoi insegnanti, ha deciso di studiare musica, soggiornando anche all'estero, ma per poi tornare in Cisgiordania con l'intenzione di offrire a quanti più ragazzi possibili un'altra possibilità di vita grazie alla musica, 26 http://www.infopal.it/inviato-onu-palestinese-denuncia-gli-abusi-di-israele-sui-bambini 27 Francesco Remotti, L'ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010. 28 http://www.culturaldiplomacy.org/pdf/case-studies/bridging-the-green-line--the-west-eastern-divan-orchestra.pdf

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come è accaduto a lui. La sua orchestra, a differenza di quella di Barenboim, è divenuta celebre per i luoghi scelti in cui suonare: check-point, con le estenuanti code di arabi cui è difficilmente concesso di entrare in Israele, oppure lungo la linea ferroviaria il cui uso è vietato ai palestinesi, o altre situazioni ritenute evidenti dimostrazioni di ingiustizia. Molti famosi musicisti e direttori d'orchestra si prestano per alcuni mesi all'iniziativa di Ramzi, dimostrando in questo modo il sostengo dell'arte internazionale al processo di pace 29. Bisogna iniziare a concepire la pace non come la semplice sospensione della guerra, ma come una condizione stabile di dialogo e ricerca continua delle soluzioni ai problemi, secondo una prospettiva forse utopica, ma di cui si sente sempre più il bisogno. Magari si potrebbe cominciare dall'Esodo, ricordandosi sempre il precetto: “Non angustiare lo straniero”.

29 http://www.theguardian.com/world/2015/jul/19/one-mans-search-for-harmony-on-the-west-bank

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E SITOGRAFICI

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