Jean Vilar o l\'estetica del nascondimento. La mort de Danton (1948, 1953) e Thomas More (1963) a confronto

June 2, 2017 | Autor: Fabio Raffo | Categoria: Jean Vilar, Sir Thomas More, Théâtre Populaire, Danton
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ISSN: 0547-2121 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’ORIENTALE” Dipartimento di Studi Letterari, Linguistici e Comparati ANNALI SEZIONE ROMANZA Direttore: Augusto Guarino Comitato scientifico: Yves Bonnefoy, Maria Teresa Cabré, Anne J. Cruz, Giovanni Battista De Cesare, Marco Modenesi, Amedeo Quondam, Augustin Redondo, Raffaele Sirri, Claudio Vicentini, Maria Teresa Zanola Comitato di redazione: Giovannella Fusco Girard, Paola Gorla, Lorenzo Mango, Teresa Gil Mendes, Salvatore Luongo, Encarnación Sánchez García, Carlo Vecce Segreteria: Jana Altmanova, Giovanni Rotiroti LVI, 2 Luglio 2014

Tutti i contributi sono sottoposti alla doppia revisione anonima tra pari (double blind peer review). Gli studiosi che intendano proporre contributi per l’eventuale pubblicazione sulla Rivista possono inviarli all’indirizzo: [email protected]. Per ulteriori informazioni si invita a consultare il sito: www.annaliromanza.unior.it.

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’ORIENTALE ”

ANNALI SEZIONE ROMANZA LVI, 2

NAPOLI 2014

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SAGGI: FABIO RAFFO, Jean Vilar o l’estetica del nascondimento. La mort de Danton (1948, 1953) e Thomas More (1963) a confronto GABRIELLA CARPINELLI, Sensualità e peccato nelle Histoires magiques: elogio del casto erotismo FABIO RODRÍGUEZ AMAYA, Gotico tropical: las apuestas de Mutis VERONICA BERNARDINI, Entremés Famoso del Sacristán Soguijo. Edición, introducción y notas CIPRIAN VӐLCAN, Cioran e la follia GIOVANNI ROTIROTI, Tradurre l’intraducibile. Intorno all’ombra della poesia romena di Paul Celan FRANCESCA DE CESARE, Il dibattito sulla proposta di legge di Gallardón nella stampa spagnola ROSARIA MINERVINI, La variación lingüística venezolana en la enseñanza del español como LE a través de la prensa y del DRAE NOTE: GUIA M. BONI, Tradurre la sensualità, o elogio dell’infedeltà: Gabriela, Cravo e Canela in Italia e in Francia IRMA CARANNANTE, Riflessioni filosofiche su una civiltà in declino. A proposito del volume di Emil Cioran, Sulla Francia RECENSIONI: Vincenzo Galluzzi, D’amore e non solo. Raccolta di poesie. Presentazione di Flavia Weisghizzi, Roma, Gruppo Albatros Il Filo, Collana Le Piume. Nuove Voci, 2014, 58 pp. (Amalia Cecere) Yves Bonnefoy, Orlando furioso, guarito. De l’Arioste à Shakespeare, Paris, Mercure de France, 2013, 151 pp. (Giovannella Fusco Girard)

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Carlos Gorostiza, El puente, edición de Javier Huerta Calvo, Madrid, Cátedra, 2014, 280 pp. (Andrea Pezzè) Michele Costagliola d’Abele, L’Oulipo e Italo Calvino, Bern, Peter Lang SA, coll. Liminaires-Passages interculturels, 2014, 251 pp. (Sarah Pinto) Bruna di Sabato e Antonio Perri (a cura di), I confini della traduzione, Padova, Libreriauniversitaria.it Edizioni, 2014, 232 pp. (Rosalina Nigro) Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, introduzione e note a cura di Francisco Rico, traduzione di Angelo Valastro Canale, testo spagnolo a fronte a cura di Francisco Rico, Milano, Bompiani, 2012, 2166 pp. (Daniela Agrillo) Hernández Isabel y Sánchez Paloma (eds), Los cuentos de los hermanos Grimm en el mundo. Recepción y traducción, Madrid, Editorial Síntesis, 2014, 275 pp. (Ivana Calceglia) Jana Altmanova, Du nom déposé au nom commun. Lexicologie et néologie en discours, Milano, EduCatt, 2013, 126 pp. (Silvia Domenica Zollo) Patrick Modiano, Pour que tu ne te perdes pas dans le quartier, Paris, Gallimard, 2014, 146 pp. (Serafina Germano)

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FABIO RAFFO JEAN VILAR O L’ESTETICA DEL NASCONDIMENTO LA MORT DE DANTON (1948, 1953) E THOMAS MORE (1963) A CONFRONTO

Figura fondamentale nel milieu culturale e teatrale del secondo dopoguerra francese, Jean Vilar (25 marzo 1912 – 28 maggio 1971)1, regista e attore, è passato alla storia per aver fondato il festival di Avignone (1947), attualmente una delle più importanti vetrine del teatro contemporaneo internazionale, e per aver diretto, tra il 1951 e il 1963, la compagnia del Théâtre National Populaire (T.N.P.), con la quale allestì numerosi spettacoli in Francia e all’estero, ottenendo una notevole fama. Nella sua intensa attività a capo di queste due istituzioni, Vilar volle ridare linfa al teatro francese, investendolo di una missione non solo sociale, ma anche profondamente morale: il teatro doveva essere infatti concepito dallo spettatore-citoyen2 come un “genere di prima necessità”, un servizio pubblico.

Per quanto riguarda la bibliografia francese su Jean Vilar, cfr. per le monografie relativamente recenti Emmanuelle Loyer, Le théâtre citoyen de Jean Vilar: une utopie d’après guerre, Paris, PUF, 1997, oppure l’ormai piuttosto datato Philippa Wehle, Le théâtre populaire selon Jean Vilar, Arles, Actes Sud, 1991 (trattasi di riedizione). Per una bibliografia più approfondita, rimando al catalogo della biblioteca della Maison Jean Vilar di Avignone, curato e aggiornato costantemente. L’istituzione custodisce gran parte dei documenti e testi che riguardano il regista: colgo qui l’occasione per ringraziare il personale che mi ha agevolato nella consultazione del materiale necessario alla stesura di questo articolo. In Italia l’unica monografia su Vilar resta ancora Gianni Poli, Scena francese nel secondo Novecento . I . Jean Vilar – Jean-Louis Barrault, Genova, Il Melangolo, 2007. 2 Il termine non è casuale perché Vilar sembra volersi ispirare a quella concezione di teatro popolare che era apparsa già nelle leggi promulgate a questo proposito durante la rivoluzione francese. A questo proposito troviamo un’efficace sintesi in Jean-Jacques Roubine, che può riferirsi sia a quel periodo storico, sia indirettamente all’idea sociale di teatro espressa dallo stesso Vilar: “[une triple mission] est assignée au théâtre: éclairer, c'est-à-dire amener le spectateur-citoyen à une prise de conscience (de ses intérêts, de ses valeurs, de ses aspirations, etc.); 1

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L’accesso allo spettacolo doveva essere garantito economicamente e intellettualmente a tutti. Il teatro doveva essere, in una parola, “popolare”: Le T.N.P est donc, au premier chef, un service public. Tout comme le gaz, l’eau, l’électricité. Autre chose : privez le public […] de Molière, de Corneille, de Shakespeare : à n’en pas douter, une certaine qualité de l’âme en lui s’atténuera […]. L’art du théâtre populaire est donc une révolte permanente3.

A questo scopo, dal punto vista economico propose ad esempio formule innovative e vantaggiose (i weekend teatrali, les nuits del T.N.P., ecc.) che attrassero gli spettatori meno abbienti per la loro eccezionalità4. Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, ovvero l’obiettivo di facilitare l’accesso intellettuale del pubblico al suo teatro, Vilar forgiò uno stile estetico che doveva essere il più discreto possibile, risultare in pratica “invisibile”: E in effetti le sue regie – che peraltro nascevano da lunghe analisi a tavolino – erano, per così dire, invisibili […]. Una regia dunque che appare meramente esecutiva, cioè derivata direttamente dal testo, senza mediazioni. [...] Ma proprio in questo storicismo [...] si può scorgere il principio di una moderna interpretazione5.

célébrer, c’est-à-dire faire connaître et comprendre les grands événements qui scandent la vie de la nation ou les grands hommes qui se sont sacrifiés pour elle; structurer, c’est-à-dire forger l’unité nationale, développer le sentiment d’une identité collective, l’adhésion à un système de valeurs communs.” Jean-Jacques Roubine, Introduction aux grandes théories du Théâtre, Paris, Bordas, 1990, p. 113. 3 Melly Touzoul et Jacques Téphany (éds.), Mot pour mot/ Jean Vilar, Paris, Stock, 1972, p. 226. 4 In questo senso lo stesso festival di Avignone si configurò presto come un evento d’eccezione, un “grand pèlerinage annuel et estival du théâtre français”, Christophe Déshoulières, Le théâtre au XXe siècle, Paris, Bordas, 1989, p. 97. Per quanto riguarda la capacità o meno del T.N.P. di attirare la fascia sociale meno abbiente del pubblico non si può non ricordare come l’argomento abbia suscitato lunghi e accesi dibattiti (basti pensare alla famosa querelle Sartre-Vilar sull’effettiva presenza della classe operaia agli spettacoli del T.N.P.) e fiumi d’inchiostro che ancora oggi continuano a scorrere. Per la querelle Sartre-Vilar cfr. Vanda Monaco, Contro il teatro popolare (TNP e centres dramatiques), Jandi Sapi, Roma 1968, mentre per un’analisi sociologica del pubblico del festival di Avignone diretto da Vilar, cfr. Catherine Arlaud, Le Festival d’Avignon: 1947-1968, Avignon, Rullière-Libeccio, 1969. 5 Cesare Molinari, Teatro e antiteatro, Roma-Bari, Editori Laterza, 2007, pp. 66-68. -

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Certamente la “rivoluzione del teatro popolare” partiva sì da un imprinting sociale, perché intendeva abolire gli elementi scenici considerati causa dell’emarginazione del pubblico più svantaggiato: da qui il rifiuto teorico da parte di Vilar del teatro a palchetti, il classico teatro all’italiana, in favore dei luoghi all’aperto 6. Tuttavia è necessario ricordare come quest’imprinting sociale fosse legato alla strutturazione da parte del regista di “un’estetica del nascondimento” dell’elemento teatrale in quanto tale: per via di quest’estetica Vilar promuove ad esempio l’abolizione delle quinte e del sipario. La scelta vilariana di seguire le impronte dei “padri” artistici Jacques Copeau e Charles Dullin, adottando nelle proprie regie l’estetica del tréteau nu7, ha quindi come obiettivo primario quello di presentare uno spazio scenico apparentemente depurato da ogni segno teatrale e pronto ad essere occupato esclusivamente dalla predominante testuale. Non a caso anche quando quest’estetica del nascondimento viene riconosciuta dalle ricostruzioni storiche, essa viene analizzata all’interno di una visione della regia vilariana come mera interpretazione del testo. Risulta invece importante riconsiderare la dimensione dell’estetica vilariana in seno all’allestimento spettacolare. A questo proposito il critico e intellettuale Bernard Dort, pur sottolineando doverosamente l’importanza dell’interpretazione del testo in Vilar, invita a riflettere anche sul corpo dello spettacolo nel momento in cui lo considera rito d’incontro tra il teatro vilariano e il suo pubblico. Al fine di creare quest’incontro [...] il regista scompare. È lì, con questo nome, soltanto per disporre, sollecitare una confluenza, una scoperta. La sua regia prepara un evento. Lo rende possibile. Essa non domina incontrastata su lui. [...] Almeno secondo il sogno di Vilar8.

6 Cfr. J. Vilar, Un lieu théâtral: Avignon, in Denis Bablet et Jean Jacquot (éds.), Le lieu théâtral dans la société moderne, Paris, CNRS, 1963, pp. 153-161. Il rifiuto teorico di Vilar per i teatri all’italiana si esplicò nella pratica solo al festival di Avignone: il T.N.P. di Vilar aveva la sua sede nella sala al chiuso nel Palais de Chaillot a Parigi. 7 Per uno studio approfondito su Jacques Copeau e il tréteau nu, cfr. Fabrizio Cruciani, Jacques Copeau o le aporie del teatro moderno, Roma, Mario Bulzoni Editore, 1971. Riguardo all’eredità teatrale lasciata da Copeau e Charles Dullin a Vilar, cfr. France Anders, Jacques Copeau et le Cartel des Quatre, Paris, Nizet Editeur, 1959. 8 Bernard Dort, L’opera di Vilar: un’utopia necessaria, in «Biblioteca teatrale», n.s., n. 1, 1986, p. 9.

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Uno degli snodi più complessi per la ricezione storico-critica della figura di Vilar è stato determinato proprio dal fatto che il regista ha cercato di sminuire la propria immagine di artista per esaltare gli obiettivi sociali e politici portati avanti tramite l’ideologia del teatro popolare, che a posteriori ha rivelato le sue fragilità e contraddizioni 9. Come è possibile riscontrare nei suoi scritti10, l’utopia del teatro popolare spinge Vilar a cercare di elaborare una nuova immagine della propria attività: non più metteur en scène, ovvero regista, ma régisseur, che in italiano potremmo tradurre come “direttore della compagnia o del teatro”. Al fine di porre le basi di un “rapport d’immédiateté” 11 tra il teatro e il pubblico, Vilar struttura un’ingente operazione ideologica di maquillage basata sul postulato teorico del “rispetto” del testo allestito12 e tesa a celare l’estetica spettacolare. Tuttavia, sia nell’attività pratica che negli scritti vilariani, si può già ravvisare come l’attività registica fosse pienamente attiva innanzitutto da un punto di vista pedagogico nei confronti degli attori: un’attività in linea con il lascito dei padri fondatori del teatro del Novecento. I due fondamenti del teatro vilariano risultano infatti “le plateau nu et l’acteur, voilà les deux éléments de la vérité théâtrale”13. Il Da segnalare a tal proposito lo studio di Marco Consolini sulla rivista Théâtre populaire, costituitasi attorno all’operato di Vilar con la compagnia T.N.P., e sul diverso impegno di vari intellettuali dell’epoca – tra cui ad esempio Roland Barthes – nella costruzione del concetto di teatro popolare; cfr. Théâtre populaire, 1953-1964 Storia di una rivista militante, Roma, Bulzoni editore, 2002. 10 Cfr. ad esempio J. Vilar, Assassinat du metteur en scène, in Id, De la tradition théâtrale, Paris, Gallimard, 1955, pp. 21-36. 11 “Un mythe: le peuple réconcilié du théâtre antique, soudé par une culture unifiante et universelle établissant un rapport d’immédiateté avec la “nation”, la “cité” toute entière. Un discours: celui d’intellectuels refondant le mythe dans les conditions modernes qui sont les leurs, et qui interviennent publiquement pour éduquer un peuple qui a perdu cette immédiateté à la culture et au théâtre en particulier. Une histoire: celle de tentatives de rénovations théâtrales […]. Ainsi pourrait se résumer la manière française de poser les problèmes du théâtre populaire […]”, Emmanuelle Loyer, Le théâtre national populaire au temps de Jean Vilar, (1951-1963), in «Vingtième Siècle. Revue d'histoire», n. 57, gennaio-marzo 1998, pp. 90-91. 12 “Le metteur en scène n’est pas un être libre. L’œuvre qu’il va jouer ou faire jouer est la création d’autrui. Il met au monde les enfants des autres. Il est un maître accoucheur. Il remplit une fonction éternelle et secondaire à la fois. […] il serait bon, par conséquent, que tu t’en tiennes à plus de respect et à moins d’art (ou d’artifice)”, J. Vilar, De la tradition théâtrale, cit., pp. 74-75. 13 Mot pour mot/ Jean Vilar, cit., p. 169. 9

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plateau nu diventa pertanto espressione privilegiata dell’attore, che si ritrova il più delle volte a proporre una concezione titanica e romantica14 del protagonista, dell’eroe. Non è un caso infatti se la prima configurazione spaziale della Cour d’honneur, concepita da Camille Demangeat, all’interno del Palais des papes di Avignone, prevedeva uno spazio specifico per il monologo dell’eroe, spesso interpretato dallo stesso Vilar: Un plateau supplémentaire […] marque ce que nous appelons le Plan du Héros. C’est à cet endroit que, dans les mises en scène de Vilar, se tient le héros de la pièce lorsqu’il se trouve seul avec son destin […]15.

L’estetica vilariana aveva pertanto lo scopo di sostenere da una parte il testo, di cui il pubblico popolare doveva capire ed apprezzare le tematiche, spesso romantiche, ma dall’altra doveva anche esaltare la recitazione degli attori che andava a rinforzare la presentazione del testo stesso. Pertanto essa è stata coperta da un duplice strato: il primo e più superficiale, soprattutto in senso letterale, è quello che Vilar assunse come régisseur; una volta scoperto esso, fuoriesce la figura di Vilar come regista allenatore, abbagliando e nascondendo ancora meglio la dimensione estetica della sua attività registica. In altre parole, le critiche a lui contemporanee non hanno colto la dimensione dello stile “registico invisibile e spoglio” di Vilar 16, né la sapiente organizzazione scenica che vi era dietro alla presentazione di una vera e propria festa popolare, di luci, costumi, musiche e oggetti scenici17. L’estetica vilariana era letta in funzione o della missione socio-politica del suo teatro, oppure come appoggio delle qualità degli attori del T.N.P., presi piuttosto come singole eccezionalità e miti 18 e non in un 14 Cfr. Anne Ubersfeld, Vilar et le théâtre de l'histoire, in «Romantisme», n. 102, 1998, pp. 17-25. 15 Fascicolo critiche teatrali dell’edizione Festival 1953, p. 24. 16 C. Molinari, op. cit., p. 67. 17 Di festa parla anche Poli, ripendendo le parole di Vilar: “fête populaire et de plein air […] fête du théâtre et de la couleur”. Citato in G. Poli, op. cit., p. 74. 18 Basti pensare all’importanza che assunse l’entrata di Gérard Philipe nella compagnia, così come viene segnalata da vari studi: “La participation de Gérard Philipe au Ve Festival en 1951 marque la fin de l’étape d’aventure dans l’histoire du Festival et annonce le

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contesto di stile recitativo di gruppo scientemente strutturato da Vilar, grazie a cui il T.N.P. è entrato nella Storia. La dimensione del regista régisseur, del “regista pedagogo” e del regista allenatore19 hanno in fin dei conti nascosto bene la dimensione artistica e estetica di Vilar, forse la sua più intima e vera identità20: è stata essa ad aver influenzato anche indirettamente il percorso artistico di figure chiave del teatro del secondo Novecento. Non si può infatti non pensare alla concezione di Peter Brook dello spazio vuoto21, rispetto al tréteau nu, né dimenticare come Vilar debba essere inserito in una continuità storica di figure eclatanti nel panorama teatrale del secolo scorso, sia precedenti che posteriori a Vilar: tutti padri fondatori la cui dimensione artistica ed estetica è sempre risaltata in primo piano, a differenza del regista francese. Così nel panorama critico-storico la lettura in chiave prevalentemente socio-politica degli allestimenti di Vilar, favorita da egli stesso, ne ha di fatto relegato in secondo piano la dimensione estetica, e si è tuttalpiù concentrata sullo stile recitativo degli attori del T.N.P. o sull’analisi dell’interpretazione vilariana del testo. L’operato teatrale del regista è stato giudicato soprattutto sulla base dei suoi obiettivi politici, sia in termini positivi, ovvero favorendo l’immagine vilariana début d’une autre étape – celle de la tradition”, Antony Ibbotson, L’image publique du Festival d’Avignon: 1947-1971, Thèse: Lettres, Paris I, p. 197. Per un esempio eclatante di ricostruzione mitica della figura di Philipe, cfr. Claude Roy, Gérard Philipe, Paris, Gallimard, 1960. 19 Basti pensare rispettivamente alla figura per eccellenza del regista pedagogo del Novecento, ovvero Stanislavski, mentre invece più vicino a noi sia in termini temporali che nazionali è Eugenio Barba, cfr. Ferdinando Taviani (a cura di), Il libro dell’Odin: il teatro laboratorio di Eugenio Barba, Milano, Feltrinelli, 1981. Il termine regista pedagogo deriva da Fabrizio Cruciani, Teatro del novecento: registi pedagoghi e comunità teatrali nel 20° secolo, Firenze, Sansoni, 1985. 20 “On fait dire beaucoup de choses à la morale de Vilar […] mais il y avait le talent de Vilar et son art du théâtre d’abord. Il est plus facile de voir aujourd’hui le “message” culturel, politique et historique de Vilar, mais c’est la hauteur de son art qui a étayé son discours politique et non le contraire”, Jacques Théphany, Jean Vilar, Paris, L’Herne, 1995, p. 143. 21 Cfr. Peter Brook, Lo spazio vuoto, Roma, Bulzoni editore, 1998. A proposito di Brook, nessuno immagino si sognerebbe di negare la forte dimensione estetica del suo teatro, e il fatto che questa sia prepotentemente presente nel suo teatro non esclude che egli prediliga uno spazio da tréteau nu, ma è anzi proprio questo spazio e la concezione di esso a determinare l’estetica brookiana.

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di “grande uomo di teatro” piuttosto che grande artista e “grande regista”22, sia in termini negativi, considerandolo cioè come espressione del “teatro di regime”23. A questo proposito risulta emblematico il caso di La mort de Danton, basato sul dramma di Georg Büchner e messo in scena una prima volta nel 1948 e riallestito nel 1953: Una delle ultime polemiche si aprì [...] fra il TNP e i suoi presunti “alleati”, PCF e CGT. La ragione era la messa in scena de La Morte di Danton di Büchner, violentemente contestata – specie nella banlieue comunista di Saint-Denis – per aver dato un’immagine distorta e reazionaria della rivoluzione francese24.

Tra le critiche che si pongono sul “fronte PCF” si può senz’altro annoverare il giudizio di Martine Monod della messinscena25. Si tratta di un articolo datato, che risale alla seconda versione dello spettacolo allestita durante il festival di Avignone del 1953. A distanza di tempo il testo di Monod rivela vistosamente la sua impostazione prettamente politica, tuttavia proprio l’analisi di questo punto di vista, rispetto nello specifico al Danton, può rendere conto di una generale sottovaluta“Poiché non ha eluso nessuna delle domande essenziali che si pongono all’uomo di teatro contemporaneo, poiché ha perseverato nella missione che si è scelta, quella di un teatro accessibile a tutti, poiché ha sempre sottolineato la responsabilità sociale dell’artista e denunciato la tentazione del narcisismo, poiché ha modificato attraverso la sua azione la maniera di considerare l’esercizio del teatro in Francia, Vilar è, secondo noi, e malgrado le sue illusioni, un grande uomo di teatro, ciò che non significa che fu un grande regista. Ha riflettuto su tutti gli aspetti del fenomeno teatrale, e alle persone del suo mestiere ha proposto più di una dottrina: una morale”, Nicéphore Papandreu, Jean Vilar, in Enciclopedia del teatro del ‘900, a cura di Antonio Attisani, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 319-320. Cfr. anche Gian Renzo Morteo, Il teatro popolare in Francia (da Gémier a Vilar), Bologna, Cappelli, 1960. 23 Cfr. Franco Quadri, Il teatro del regime, Milano, Mazzotta, 1976. Luigi Squarzina offre una sintesi lucida di questa concezione di Vilar da una parte della critica militante (nella quale rientra Squarzina stesso) quale custode dell’ordine costituito, del “regime”: “Le accuse le conosciamo, paternalismo, impegno moralistico e non politico, tendenza a un democraticismo unanimista senza accento di classe, gestione dell’opposizione teatrale per integrarla al potere, erogazione socialdemocratica della cultura borghese per controllare e deformare in culla le (eventuali) insorgenze di una (autentica) cultura proletaria, eccetera”, Luigi Squarzina, Il romanzo della regia, Duecento anni di trionfi e sconfitte, Pisa, Pacini editore, 2005, p. 464. Cfr anche V. Monaco, op. cit. 24 M. Consolini, op. cit., p. 40. 25 Cfr. Martine Monod, Le théâtre, in «Europe», n. 31:90, giugno 1953, pp. 129-132. 22

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zione da parte dell’intellighenzia francese di quegli anni del “substrato” artistico nel lavoro di Vilar rispetto ai suoi utopici obiettivi sociali. Nell’articolo di Monod, la critica presenta l’opinione secondo la quale l’allestimento vilariano si allontana dall’idea di teatro popolare a causa dell’eccessiva esaltazione della figura di Danton, il protagonista del testo büchneriano. Per supportare tale ipotesi sottolinea il fatto che Vilar scelse di mettere in scena un adattamento di Arthur Adamov del testo di Büchner, e dimostra che questo adattamento era una riscrittura piuttosto distante dal testo originale: Adamov aveva infatti tagliato una scena fondamentale, in cui secondo la studiosa emerge con chiarezza l’effettivo tradimento di Danton nei confronti degli ideali della rivoluzione francese. Una riscrittura che Vilar segue, proponendo una visione del personaggio eroica, come osserva in modo fortemente critico Monod. La studiosa presuppone che questo sbaglio sia dovuto a un’eccessiva fiducia del regista nei confronti dell’adattamento fuorviante di Adamov: una supposizione da cui fuoriesce una visione del teatro vilariano artigianale, meritevole di attenzione unicamente per gli obiettivi sociali e politici portati avanti e che quindi debbono essere salvaguardati da possibili travisamenti. Non solo dunque la dimensione estetica dello spettacolo viene completamente trascurata ma la stessa attività di Vilar di interpretazione cosciente del testo di Büchner appare gravemente sminuita. Se si esaminano i materiali d’archivio della biblioteca Jean Vilar di Avignone emerge un’altra lettura. Risulta in effetti difficile supporre che Vilar non fosse al corrente delle modifiche di Adamov al testo, visto i continui contatti tra di loro. Nei documenti sul Danton del 1948 si trovano ad esempio tutta una serie di appunti scritti da Adamov in cui l’adattatore avverte Vilar e gli chiede consiglio riguardo alle modifiche al testo originale. Inoltre sempre Adamov non manca di criticare duramente l’impostazione vilariana di La mort de Danton in occasione della versione del 1953, soffermandosi soprattutto sull’immagine molto negativa del popolo della rivoluzione che secondo lui Vilar presentava allo spettatore: Il est absolument impossible de jouer devant un public populaire en laissant à toute la foule sans exception le caractère que vous lui avez donné […]. Certes, Büchner a montré le peuple sous un jour

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féroce. Mais cette férocité doit s’accompagner de ferveur. Et de cette ferveur, on ne voit rien […], pas plus que la misère. […] Gischia me dit, et je crois qu’il est temps encore, de modifier la foule (son comportement et son allure) avant la première représentation [...]. Bien plus, si nous devons trahir Büchner – toute traduction est éthymologiquement [sic!] trahison – que ce soit dans le sens opposé26.

Negli archivi della biblioteca la risposta del regista ad Adamov, se vi è stata, non è conservata. Tuttavia lo scritto di Vilar, con cui risponde alle critiche (non conservate nell’archivio) di Édouard Daladier, in quel periodo sindaco di Avignone e membro del partito radicale francese, può essere letta come risposta indiretta anche ad Adamov: Quand il y a cinq ans au Festival d’Avignon, j’ai monté Danton, j’ai entrevu qu’une partie du public accepterait mal les vérités cruelles que cette œuvre contient. […] La Révolution française est l’enfance des Révolutions. Et, comme l’enfance, anarchique, violente, difficilement gouvernable. […] Le héros ou l’un des héros de la pièce de Büchner (le peuple) est donc lui aussi ce monde contradictoire de violence, de générosité […] de courage mêlé de gouaille (oui, l’accusation de Danton). L’image du peuple dans cette pièce vous a déplu. Les mots me font défaut ici, car je voudrais vous ôter toute amertume. Mais quoi, il y a la Révolution et il y a le poète27.

In quest’affermazione Vilar, pur nascondendosi dietro alla parola del poeta, difende in realtà una propria forte visione artistica dell’allestimento. Se analizziamo questo lavoro solamente nella sua dimensione di interpretazione del testo di Büchner vediamo come al regista non interessi tanto sottolinearne un possibile messaggio politico, quanto piuttosto esaltarne le tematiche romantiche. Nelle sue dichiarazioni Vilar conferma infatti di voler celebrare la figura dell’eroe che si trova a dover lottare con il destino: in questo senso non solo reArthur Adamov, lettera del 19/04/1953, Fonds Jean Vilar, Maison Jean Vilar. E in effetti le critiche di Adamov sembrano essere confermate dalle indicazioni di Vilar agli attori che interpretavano il popolo, ai quali consigliava ad esempio di “couper les derniers mots de Danton, chaque fois”, J. Vilar, Notes de services, lettre aux acteurs et autres textes (1994-1967), Arles, Actes sud 2014, p. 53. 27 J. Vilar, lettera del giugno 1953, Fonds Jean Vilar, Maison Jean Vilar. 26

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cupera la concezione romantica nel personaggio di Danton che già si trova in Büchner, ma scegliendo di interpretare personalmente la figura controversa e ambigua di Robespierre, esalta l’importanza anche di questo ruolo, fino a farlo diventare l’anti-eroe dello spettacolo28. Non a caso anche per quest’allestimento le recensioni dell’epoca si concentrano soprattutto sulla recitazione degli attori, quasi mitizzando l’interpretazione di Jean Davy nel ruolo dell’eroe Danton29, e quella di Vilar nella parte dell’antagonista. Anche nelle recensioni la costruzione estetica dello spettacolo viene dunque praticamente ignorata o sminuita30, nascosta da una parte dall’importanza dell’utopia sociale vilariana, dall’altra dall’eccezionale qualità recitativa della compagnia del T.N.P., in primis Vilar stesso, e infine dalla preponderanza attribuita alla dimensione testuale. In realtà, come per tutto il suo repertorio spettacolare, anche in questo caso il regista adotta un’estetica precisa e importante. Nell’ottica della sua concezione spaziale depurata, i pochi oggetti scenici scelti (tra cui non si possono non citare i costumi, resi emblematici dal tocco artistico del fidato Léon Gischia) si ritrovano quanto mai a risultare significativi, allusivi in questo caso al contesto storico, all’atmosfera rivoluzionaria: si potrebbe paragonare il loro effetto alla figura retorica della sineddoche31. La stessa descrizione di Vilar dello spettacolo rivela in fondo in modo piuttosto lampante questa scelta poetica: 28 “Chez Robespierre, le romantisme se traduit par une sorte de conscience de la fatalité. Une force irrésistible, comme étrangère à lui-même, le pousse à faire exécuter Danton et Camille Desmoulins […]”, J. Vilar e J. Jaubert, La mort de Danton, in «Bref», n. 31, dicembre 1959, p. 3. 29 Cfr. ad esempio Marc Beigbeder, Danton-Jean Davy est mort avec éclat, in «Parisien Libéré», 17/07/1948. Jean Davy interpreta il protagonista nell’allestimento del 1948, mentre nella ripresa del 1953 verrà sostituito da Georges Wilson. Vilar stesso, nelle indicazioni di regia per la ripresa dello spettacolo nel 1953, dedica una parte importante di queste osservazioni alla recitazione degli attori; cfr. J. Vilar, Notes de services, cit., p. 52. 30 Tranne eccezioni significative; cfr. Marthe Robert, La mort de Danton marque la naissance d’une nouvelle esthétique du théâtre de plein air, in «L’Intransigeant», 18-19 luglio 1948. 31 Nella loro pregnanza sembrano avere nelle regie vilariane una funzione connotante più forte di quella abitualmente posseduta da un oggetto teatrale, di cui la semiotica ha sottolineato il suo essere di per sé segno e spesso segno di segno; cfr. Marco De Marinis, Capire il teatro: lineamenti di una nuova teatrologia, Roma, Bulzoni, 2003, pp. 37-42. A proposito della sineddoche risulta interessante anche il contributo di Gerardo Guccini rispetto a come questa figura retorica prettamente caratteristica dell’arte teatrale abbia subito una profon-

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En Avignon, nous avons donc joué, ainsi que pour Richard II, de Shakespeare, le jeu des tréteaux sans décors, sans rideaux, sans cadre de scène. De ce fait [….] nous n’avons pas dressé une guillotine sur la scène; mais projeté son ombre immense sur le mur de fond. Il fallait que le symbole de cette époque troublée dominât la conclusion de cette œuvre. Il ne fallait pas que sa présence trop réelle détruisit la portée poétique de l’œuvre de Büchner. […] D’autre part nous jouions notre partie de régisseur avec les moyens « primaires » de la scène: 1° le talent du comédien; 2° la fidélité à son emploi; 3° le choix et la bonne mise en place sur les tréteaux de quelques accessoires contemporains (piques, bonnets phrygiens, arbres de la liberté, lanternes, oriflammes tricolores à la mode du temps) […]32.

L’elenco continua, rivelando preziosi dettagli sulla regia dell’allestimento, per esempio l’impiego delle musiche, i tempi dell’azione, per la quale Vilar afferma esser necessario “le respect du rythme et de la cadence dans une œuvre où le Temps joue son rôle”33: una frase che dimostra come egli cercasse di esaltare anche a un livello estetico le tematiche romantiche ricavate dal testo. Nella lunga ma necessaria citazione del regista, vi è poi espressa appunto una preferenza per un uso simbolico, “sinnedochico” degli oggetti rivoluzionari (l’ombra della ghigliottina sul muro della Cour, il focus su alcuni oggetti significativi dell’epoca rivoluzionaria sul palco, ecc.). Anche in questa citazione è poi esplicitata la contraddizione emblematica di Vilar, che non solo opta per definirsi régisseur, e utilizza il plurale maiestatis per nascondere la sua autorità di regista sull’allestimento spettacolare, ma afferma nuovamente quanto le sue scelte siano adottate al fine di preservare la “portée poétique de l’œuvre de Büchner”. Fuoriesce sempre l’impostazione artistica vilariana: la regia per Vilar dovrebbe avere una funzione esclusivamente maieutica, ovvero di far emergere la verità e la poesia insite nel testo. Una visione prettamente

da evoluzione nel teatro contemporaneo, e soprattutto nel cosiddetto “teatro di narrazione”: cfr. Gerardo Guccini, Teatro/mondo: dalla scrittura scenica ai linguaggi di realtà, dall'imitazione alla sineddoche, in «Prove di Drammaturgia», n. 2/2011, pp. 4-6. 32 J. Vilar, Pourquoi j’ai monté “La mort de Danton”, in «Le monde illustré théâtral & littéraire», n. 35, 13 novembre 1948, p. 30. 33 Ibidem.

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utopica, in quanto l’artista non può non sopprimere la propria lettura critica del testo e la propria attività creativa nell’esito scenico. La mort de Danton dimostra dunque come la visione artistica di Vilar, sebbene egli stesso si proponesse di censurarla nei suoi propositi teorici, riemergeva poi in modo prepotente nella pratica teatrale: una contraddizione che sottolinea la fertile complessità del suo ego artistico. Passiamo a Thomas More, ou l’homme seul, allestito nel 1963: si tratta dell’ultimo spettacolo della carriera di Vilar come regista e direttore della compagnia del T.N.P., quando decide di non rinnovare il contratto firmato con lo stato francese per dedicarsi quasi esclusivamente a una radicale trasformazione dell’organizzazione del festival di Avignone. L’allestimento, tratto dal testo Thomas More, a Man for All Seasons di Robert Bolt, drammaturgo inglese contemporaneo, mostra la storia del martirio di Tommaso Moro, che rifiutò di abiurare la sua fede cattolica in disobbedienza a Enrico VIII. Come per La mort de Danton, anche in questo caso si assiste al dramma di un eroe illuminato che rifiuta di assoggettarsi al nuovo potere istituito e viene dunque sacrificato alle logiche statali. Risulta assai significativo sottolineare come un primo elemento di paragone tra i due allestimenti venga effettuato dallo stesso Vilar in relazione alla scelta di allestire il testo di Bolt, in quanto secondo il regista le indicazioni “spettacolari” di Bolt nelle didascalie sono influenzate dall’estetica del T.N.P.: Bolt a dû voir plusieurs de nos spectacles, comme La mort de Danton ou Richard II. Il y a sans doute une influence qui se manifeste dans les indications d’éclairage, dans l’absence de localisation de lieux scéniques34.

Con questa precisazione, nel caso di Tommaso Moro, Vilar sembra dunque addirittura ribaltare l’importanza tra scena e testo e pone in primo piano la sua estetica, di cui Bolt sarebbe secondo lui debitore. Un’affermazione forse eccessiva, ma che sottolinea il cambiamento di parametri che la regia vilariana assunse negli ultimi anni. Rispetto al

34 J. Vilar e J. Jaubert, La vie même de Thomas More avait la valeur d’un symbole, in «Bref», n. 65, aprile 1965, p. 9.

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Danton, ci troviamo infatti nel periodo culminante della carriera di Vilar come regista, nel quale l’artista è forse più consapevole della sua identità, o semplicemente ha capito che era inutile nascondere il proprio operato: […] il est sûr aussi que la mise en scène a aujourd’hui, […] un assez extraordinaire pouvoir sur les œuvres. C’est de la mise en scène que dépend aujourd’hui l’éclairage sous lequel on voit les œuvres au théâtre. Autrement dit, […] il est possible de présenter une œuvre traditionnelle dans une mise en scène éclairante et engagée à l’égard des problèmes de ce temps, de cette année même, problèmes qui nous concernent nous, vivants35.

Non a caso molti studiosi e critici vedono l’allestimento di Thomas More come il climax di una svolta iniziata negli anni Sessanta nella regia vilariana, in cui egli, dismessi i panni di umile régisseur, sostanzialmente “ressert, durcit, politise sa mise en scène” 36. In questa stessa direzione procedono varie recensioni dell’epoca di Thomas More, tese a suggerire quanto la scelta di Vilar di allestire questo testo come ultimo della sua carriera, e di recitare il ruolo eponimo, abbia avuto un preciso significato politico: On ne pouvait pas ne pas avoir confusément conscience qu’au travers de Thomas More, se murant dans son orgueilleux et juridique silence devant les exigences de son despotique maître Henry VIII, Vilar venait faire part à cette foule, qui avait exigé beaucoup de lui [...], de sa solitude et de son désenchantement37.

E anche alcuni studi storiografici interpretano l’allestimento in questo senso: Il segnale più chiaro di questo passaggio epocale è rappresentato dalla conclusione dell’esperienza di Vilar alla testa del TNP. L’improvviso annuncio delle sue dimissioni fu dato il 23 febbraio 1963 [...]. Dopo aver dimostrato di non essere affatto disposto a J. Vilar, Memorandum, in V. Monaco, op. cit., p. 139. Didier Plassard, Rejouir l’homme est une tâche douloureuse: Le T.N.P. de Jean Vilar et la presse (1951-1963), in «Revue d’Histoire du Théâtre», 4, 1998, p. 126. 37 Paul Abram, À propos de «Thomas More ou l’homme seul» au T.N.P., in «La Montagne», 22/05/1963. 35

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farsi assorbire dalla retorica gollista, egli si ritirava proprio nel momento in cui la politica teatrale della Va Repubblica si stava imponendo definitivamente. In un TNP creato “a sua immagine e somiglianza” la sua partenza assunse, dunque, il valore di un abbandono che poneva forti ipoteche sull’idea stessa di teatro pubblico. Il testo che fu scelto da Vilar per il suo spettacolo d’addio era del resto simbolico: Thomas More ou l’homme seul [Un uomo per tutte le stagioni], di Robert Bolt38.

Il rifiuto di Tommaso Moro di piegarsi alle logiche del potere viene dunque paragonato alla decisione di Vilar di non continuare a dirigere la compagnia del T.N.P. e concludere il suo contratto con lo stato. Risulta infatti necessario precisare che Vilar non si dimise affatto dalla direzione del T.N.P., come spesso viene riportato erroneamente dalla storiografia39, ma semplicemente decise, certo con un gesto inusuale per l’epoca, di non rinnovare una seconda volta il suo contratto con lo Stato. Il regista aveva infatti chiesto e ottenuto il rinnovo del contratto già nel 195740, ma non ripeté la domanda al momento della scadenza nel settembre del 1963, come conferma in un’intervista radiofonica del maggio di quell’anno: […] je trouve qu’au moment de renouveler mon contrat pour six ans, une des raisons qui m’ont fait […] aller vers le…le non renouvellement est que, mon Dieu, disons bien, moi encore vivant, je voulais voir, je crois qu’il est nécessaire que d’autres hommes plus jeunes que moi assument cette responsabilité […]41.

Parlare di dimissioni di Vilar dal T.N.P. significa pertanto deformare storicamente quel gesto e renderlo mitico: un “lapsus” che porta ad ingigantire i contrasti tra Vilar e lo stato francese, che certo esistevano, e a far loro quasi assumere i connotati di un’aperta ribellione del

M. Consolini, op. cit., p. 370 (corsivo mio). Cfr. anche G. Poli, op. cit., p. 104. 40 “Monsieur le Directeur, j’ai l’honneur de vous adresser, pour notification, une ampliation de l’arrêté du 6 mars 1957 renouvelant votre mandat de directeur du Théâtre National Populaire, jusqu’au Ier septembre 1963”. Lettera del 14 marzo 1957, Direction générale des arts et des lettres à Jean Vilar, Fond Jean Vilar, Maison Jean Vilar. 41 Trascrizione dell’intervista radiofonica di Moussa Abbadi a Jean Vilar, Fonds Jean Vilar, Maison Jean Vilar. 38 39

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regista nei confronti del potere costituito42. In questo caso il fascino romantico emanato dalla figura di Vilar porta a una considerazione appiattita e in chiave esclusivamente politica delle sue scelte registiche e professionali più in generale43, mentre per quanto riguardava il Danton la lettura politica dell’allestimento da parte di Monod aveva l’obiettivo di fungere da segnale a Vilar, visto sostanzialmente come un compagno che stava prendendo una strada sbagliata. In entrambi i casi, anche se in contesti e con punti di vista diametralmente diversi si assiste dunque al trascuramento della dimensione spettacolare vilariana, in funzione di un’ottica limitante dell’interpretazione del testo allestito. Ma nuovamente, come nel caso del Danton, oltre alla chiave di lettura politica, possiamo individuare in questo spettacolo anche altri elementi importanti44. Tra questi, risulta fondamentale sottolineare In quest’ottica non avrebbe senso il fatto che Vilar avesse deciso di dimettersi dal T.N.P., ma non dalla direzione del Festival di Avignone. A proposito dei motivi di questa svolta nella carriera vilariana risulta molto interessante la ricostruzione storica di Antoine De Baecque e Emmanuelle Loyer, che oltre a ricordare l’eccessiva rilevanza mediatica concessa alla decisione di Vilar, sintetizza in maniera esauriente tutti gli altri possibili motivi dietro alla scelta del regista, oltre a quello politico: “Malraux est accusé d’avoir accepté un peut trop vite et un peu trop facilement la défection de Vilar. […] ces allégations soupçonneuses sont reprises par la presse, qui souligne le capital de mécontentement accumulé par le pouvoir gaulliste à l’encontre du Vilar persifleur des dernières saisons. […] Lassitude face au TNP, lassitude peut-être face au personnage qu’il incarne trop aisément et à qui il voudrait parfois donner congé, désir de fuite, sentiment d’un devoir accompli, d’un œuvre achevée, d’une contradiction indépassable entre un théâtre du peuple et une société inégalitaire: tous ces scénarios se mêlent pour expliquer la décision de 1963”, Antoine De Baecque e Emmanuelle Loyer, Histoire du festival d’Avignon, Paris, Gallimard, 2007, pp. 168-170. 43 Ne è consapevole del resto lo stesso Consolini: “[...] la carriera di Vilar sembra inscindibile dal progetto di teatro pubblico, e difficile è addentrarsi nel vivo della sua produzione d’attore, di regista, di saggista, senza essere attratti nel vortice delle discussioni sul teatro popolare, che esaltano la sua magra silhouette d’eroe, ma amputano sistematicamente la sua identità d’artista”, Marco Consolini, Prefazione a G. Poli, op. cit., p. 9. 44 Ad esempio Robert Kanters, nella sua recensione a Thomas More, sembra sottolineare la preponderante tematica religiosa ricavata dal testo (rispetto alla tematica politica) e paragona l’atmosfera dell’allestimento a quella di Meurtre dans la cathédrale, spettacolo del 1945 che aveva portato la fama a Vilar: “ENTRE saint Thomas Becket il y a dix-sept ans et Saint Thomas More aujourd’hui, nous avons assisté à l’ascension de saint Jean Vilar. Le hasard veut, en effet, que la carrière de M. Vilar, depuis ses grands débuts au Vieux-Colombier dans “Meurtre dans la cathédrale” jusqu’à sa dernière mise en scène à Chaillot, soit comprise entre deux pièces anglaises, évoquant deux grands saints du ca42

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soprattutto, anche per questo allestimento, una predilezione per le tematiche romantiche. Per quanto riguarda la rilettura del testo originale risulta interessante entrare nel dettaglio di alcune modifiche di Vilar, perché ciò aiuta a definire l’esaltazione romantica dell’eroe già prefigurata nel Danton. Innanzitutto il titolo francese dello spettacolo, Thomas More ou l’homme seul, si differenzia da quello inglese, ovvero Thomas More, a Man for All Seasons. Si tratta di una modifica leggera e giustificata da esigenze di traduzione, tuttavia essa prefigura in quale direzione si orienti la visione artistica del regista: Littéralement, ce titre signifie un homme pour toutes les saisons, c’est-à-dire un homme qui sait faire face aux dangers de toutes les saisons, les grosses chaleurs de l’été aussi bien que les rigueurs de l’hiver, les troubles de l’automne et les folies du printemps. Le titre était donc délicat à traduire, en raison même de son sens précis en anglais. En français, on eût pu croire qu’il désignait un hommegirouette, un conformiste. Or, c’est le contraire45.

Certamente, questa dichiarazione chiarisce le necessità di una diversa traduzione del titolo in francese, tuttavia al contempo sottolinea il punto focale su cui si costruisce lo spettacolo di Vilar: il regista trova infatti importante far risaltare il ruolo di Thomas More fino a farlo diventare “homme seul”. Come ne La mort de Danton anche in questo caso egli propone una concezione romantica dell’eroe, solo di fronte a un destino ineluttabile, rispetto a un testo che per di più, differentemente da quello di Büchner, non è espressione del pieno Romanticismo, ma è a lui contemporaneo. Non è un caso infatti se lo stesso autore di Thomas More, Robert Bolt, sottolinea e critica proprio l’esaltazione dell’eroe, in una lettera scritta dopo aver assistito alle prove della compagnia, e inviata a Vilar tramite Pol Quentin, a cui il regista aveva affidato la traduzione del testo originale: [...] chaque fois que l’un de ces personnages, le roi, Alice, Chapuys, Ropper, Wolsey, et surtout Cromwell, sont en opposition avec lendrier catholique et traitant le même problème, celui des rapports entre le temporel et le spirituel, entre le pouvoir et la conscience. Mais est-ce seulement un hasard?”, Robert Kanters, Anti-Galilée et anti-Machiavel, in «L’Express», 16/05/1963. 45 Jean Vilar in Bientôt le XVIIème Festival d’Avignon, in «Le Méridional», 6/06/1963.

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More, il faut qu’ils aient tous les moyens de nous présenter à nous (le public) leur cas, leur point de vue, avec force, vérité, sincérité, raison ou charme, suivant leur caractère. More a toujours raison; il gagne dans toutes les discussions. Il se conduit impeccablement. Il est vital que chaque fois que quelqu’un s’oppose à lui nous sentions qu’il a là un réel antagoniste, une personne de morale concrète et cohérente, et non pas seulement des poupées qu’il peut faire tomber ou piétiner facilement46.

L’allestimento non sembra dunque suggerire tanto un messaggio politico. Appare invece costruito in modo tale che Vilar, interpretando il personaggio eponimo, possa ritagliarsi il ruolo centrale di colui che tira le fila della trama e s’impone sugli altri personaggi, tanto da arrivare al martirio quasi da vincitore, piuttosto che succube delle logiche schiaccianti del potere: vediamo di nuovo in campo l’esaltazione romantica dell’eroe. Tommaso Moro diventa pertanto emblema della solitudine dell’artista, che come nel caso del Danton, interviene nel testo e nello spettacolo con la propria visione critica per trasmettere questo suo sentimento al pubblico. Anche dal punto di vista della ricezione estetica, i pochi elementi ricavabili dalle recensioni confermano sostanzialmente quest’impressione: Tout autour, d’autres comédiens s’agitent. Ils ne comptent guère. Vilar, maître de son plateau, règne pour la dernière fois. C’est la victoire d’un homme seul47. [...] si Thomas More était seul, Jean Vilar l’est aussi. Toute la pièce se resserre en lui. Autour, il n’y a que des ombres. Des personnages à peine esquissés et placés là, semble-t-il, uniquement pour faire ressortir la figure centrale48.

È possibile confrontare queste recensioni con il frammento video dello spettacolo conservato nell’archivio della Maison Jean Vilar: pochi minuti di registrazione, che ci mostrano una scena di una replica a Chaillot, con il dialogo tra Thomas More e Thomas Cromwell (Pierre Tabard). In questo scambio Cromwell cerca di dimostrare il tradimenRobert Bolt, lettre du 11 avril 1963, Fonds Jean Vilar, Maison Jean Vilar. A. V., Fraternelle entente, in «Le Nouveau Candide», 16/05/1963 48 Pierre Marcabru, Jamais Vilar n’a été meilleur, in «Paris Presse», 12/05/1963. 46

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to di Moro a danno di re Enrico VIII e quindi di mettere con le spalle al muro il cancelliere: se Tabard interpreta con dignitosa semplicità la perfida ipocrisia di Cromwell, Vilar-Moro sostiene e guida con grande bravura l’agone, facendo risaltare l’incomparabile superiorità della propria morale e dei propri ideali. Questo confronto sembra dunque dar ragione alle critiche espresse da Bolt: la visione registica di Vilar, il suo ego artistico, si mostra in modo ancora più evidente in Thomas More rispetto al Danton, visto che in questo caso Vilar si ritrova ad incarnare direttamente l’eroe martire. Le scelte registiche compiute sul testo sembrano dunque andare proprio nella direzione dell’esaltazione dell’eroe, e quindi di sé stesso. Significativo a questo proposito anche il taglio del monologo finale del personaggio dell’Homme de la Rue. In questo modo le ultime parole dello spettacolo rimanevano infatti quelle di Thomas More-Vilar: Permettez à un de vos admirateurs, “petit intellectuel”, de vous exprimer l’amertume qu’il a éprouvée à l’audition de la belle soirée d’hier 25 juillet. J’avais lu la pièce de Robert Bolt. Elle débute et se termine par le monologue de l’homme de la rue. Pourquoi avoir supprimé le monologue terminal? J’attendais ce petit bonhomme, seul sur la scène, dépourvu de toute illusion, venir humblement, nous exprimer la morale de cette pièce49.

Anche l’estetica dello spettacolo non sembra discostarsi da quella già concepita in Danton, come conferma la somma tra documenti diretti (estratto video, fotografie, ecc.) e ricostruzioni indirette (recensioni dello spettacolo, e storiografie su Vilar). Vista l’esperienza critica generale di Bernard Dort, che lo ha portato più volte a rendere conto del percorso artistico del T.N.P., è possibile assumere come testimonianza-sintesi la sua recensione sullo spettacolo. Risulta tuttavia neM. Chevillon, manoscritto del 16/07/1963, Fonds Jean Vilar, Maison Jean Vilar. Si tratta di un monologo a cui per altro l’autore Robert Bolt teneva molto, secondo la testimonianza del traduttore Pol Quentin: “[...] la scène finale [...] est considérée par Bolt comme absolument indispensable puisqu’il a changé à la fois pour Londres et pour New-York la scène figurant à l’heure actuelle sur le texte des épreuves. Dans le manuscrit que je vous avais remis, celle de l’Homme de la Rue, clôt la pièce et c’est un point sur lequel Bolt est extrêmement ferme. Pouvons-nous donc la rétablir?”, Pol Quentin, dattiloscritto del 16/04/1963, Id. 49

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cessario aggiungere che in essa il critico deplora una certa stanchezza e poca innovatività nello stile della compagnia di Vilar, elemento che potrebbe peraltro suffragare l’impressione che, se vi era stata una vera svolta politica negli ultimi anni della regia vilariana, questa non si era concentrata più di tanto in un cambiamento radicale dell’estetica artistica: Reste un spectacle qui reprend sur le mode anthologique les procédés rhétoriques chers au T.N.P.: les rideaux noirs comme le Destin qui ne s’ouvrent que pour laisser passer le Roi ou la mort, les costumes signés Gischia (qui s’est légitimement souvenu d’Holbein), hauts en couleurs et d’une somptuosité de bon aloi, quelques accessoires de scène sang de bœuf… et des faisceaux de lumière précis comme le scalpel d’un chirurgien. Il n’y manque que les étendards50!

Tralasciando il giudizio negativo di Dort dell’effettivo valore artistico dell’allestimento, rimane comunque un’analisi lucida che sottolinea i “procédés rhétoriques” caratteristici e fondanti dell’estetica vilariana, che si ritrovano anche in quest’allestimento: il ruolo delle luci e la loro precisione segnica, l’influenza nella realizzazione dei costumi dei quadri di Holbein che ci rimandano una visione precisa del tempo di Enrico VIII, gli accessori scenici che mantengono quella dimensione sineddocchica già analizzata in La Mort de Danton. Eppure anche nel caso di Thomas More assistiamo a una preponderante lettura politica dell’allestimento, che ne trascura la concretezza scenica e mistifica inoltre la decisione di Vilar di lasciare il T.N.P. Questi due allestimenti dimostrano come una lettura esclusivamente politica dell’operato del regista, colto solo nella sua dimensione d’interpretazione del testo allestito, contiene un rischio di semplificazione della figura di Vilar, fino ad una sua mitizzazione. Un’ottica deformante che per certi versi si ritrova anche nella rilettura dell’episodio della contestazione sessantottina al festival di Avignone, criticato come “supermarché de la culture”51. In quell’occasione, infatti, ironia della sorte, Vilar si ritrovò 50 Bernard Dort, Thomas More ou l’homme seul, in «Théâtre populaire», n. 50, 2° trimestre 1963, p. 113. 51 Cfr. Jean-Jacques Lebel, Procès du festival d’Avignon, supermarché de la culture, Paris, Pierre Belfond, 1968.

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suo malgrado ad incarnare veramente la figura dell’eroe incompreso dalla massa. Così parte della storiografia sembra ricostruire quest’episodio: […] l’epilogo del sessantottesco dramma di Avignone, vedrà da un lato, Vilar, «auto crocefisso quale oscuro ruolo di custode dell’ordine costituito» e dall’altro gli attori del Living Theatre dimissionari da qualsiasi superstite ipotesi di rapporto con le istituzioni52.

Dopo il 1968, che può essere assunto a data simbolica della morte definitiva dell’utopia del teatro popolare, si assiste infatti a un processo di istituzionalizzazione della figura di Vilar come padre del teatro francese53. Allora risulta oggi più che mai necessario considerare la figura di Jean Vilar principalmente per i suoi risvolti artistici, sottolineandone le contraddizioni che lungi dallo sminuirlo fanno di lui l’interlocutore refrattario ma elettivo di un periodo di radicali svolte storiche e culturali.

52 Roberto Tessari, Sognando le Grandi Dionisie: il festival teatrale moderno in R. Alonge e G. D. Bonino, Storia del teatro moderno e contemporaneo, III, Torino, Einaudi, 2001, p. 1030. 53 Ancora oggi Vilar è considerato personaggio di riferimento imprescindibile dall’organizzazione del festival di Avignone, che di fatto, in questo processo di istituzionalizzazione, ha reso la sua figura monolitica. Il confronto con l’assenza di Vilar negli anni immediatamente successivi alla sua morte improvvisa si rivela non a caso particolarmente complicato per chi si è ritrovato a dover gestire l’eredità vilariana: “Avec les années, la crainte se dissipe, les souvenirs s’estompent, mais le fantôme du père reste indéniablement présent, son esprit est périodiquement invoqué par les publications de ses écrits, par de fréquentes cérémonies de la mémoire […]”, A. De Baecque e E. Loyer, cit., pp. 293-294.

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