La drammaturgia italiana contemporanea tra vecchio e nuovo millennio

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LA DRAMMATURGIA ITALIANA CONTEMPORANEA TRA I DUE SECOLI di Enrico Bernard

Sta per uscire il quarto aggiornamento dal 1992 al 2012del volume di Enrico Bernard "Autori e drammaturgie" la prima enciclopedia del teatro italiano contemporaneo. Come molti ricordano si tratta di un'opera fondamentale, adottata in diversi centri di ricerca nel mondo e che per le tre edizioni (1988-1990-1992) rappresentò un vero miracolo e successo editoriale. L'autore Enrico Bernard sulla base di quella esperienza rilancia la discussione sulla drammaturgia contemporanea con una divertita polemica sul numero degli autori e sulle loro scelte e visioni drammaturgiche. L'articolo è uscito nel numero 5/6 settembre dicembre 2004 del mensile della Siae Vivaverdi p. 104. L'avventura della drammaturgia italiana del '900 si apre e si chiude con due eventi straordinari: i premi Nobel per la letteratura a Luigi Pirandello, 1934, e a Dario Fo, 1997. Se a questi due "mostri sacri" del teatro italiano si aggiunge un grande personaggio che avrebbe senza dubbio meritato un altro Nobel, mi riferisco ovviamente a Eduardo, ci si può facilmente rendere conto della supremazia della drammaturgia contemporanea italiana (e della poesia che annovera altri due premi Nobel, Quasimodo e Montale) sulla narrativa che non ha avuto lo stesso "ritorno".So di lanciare una provocazione al mondo letterario italiano che annovera comunque nomi ed opere di rilievo. Tuttavia - ora che è storicamente possibile fare un bilancio completo del XX secolo - ritengo giusto riaffermare la grandezza della drammaturgia italiana che, dal Teatro della Commedia dell'Arte a Dario Fo, da Goldoni a Pirandello, da Machiavelli e Giordano Bruno a Eduardo, costituisce un settore fondamentale della letteratura italiana. Ma perché questa polemica? Perché in Italia il teatro è 1

stranamente considerato come un genere secondario rispetto alla narrativa. Antologie e manuali scolastici, ad esempio, riescono raramente a rendere l'idea del teatro che non viene trattato - come altrimenti avviene nelle altre letterature europee - alla stregua di una componente essenziale della letteratura nazionale. Perfino il Pirandello teatrale viene citato un po' laconicamente, prediligendo senz'altro il narratore sul drammaturgo. Il premio Nobel Dario Fo è quasi ignorato mentre di Eduardo non c'è traccia. Betti, Chiarelli o Rosso di San Secondo non sono mai esistiti per le antologie: figuriamoci i nuovi autori che non hanno alcun riscontro rispetto ai colleghi narratori che invece godono di ben altra considerazione e attenzione.Invece, ecco il motivo della mia lamentela, la drammaturgia italiana della seconda metà del '900 è molto feconda e ricca di nomi, idee, esperienze: in "Autori e drammaturgie", la prima enciclopedia del teatro italiano contemporaneo, da me curata nel 1993, sono stati catalogati ben 600 autori professionalmente rappresentati tra il 1950 e il 1990. Molte le sorprese, tra cui un giovane Roberto Benigni in veste di coautore di un monologo che porta la firma del poeta Giuseppe Bertolucci (Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, rappresentato al teatro Alberichino di Roma nel 1975). Considerando i due Premi Nobel ottenuti da drammaturghi italiani, la grande figura di Eduardo, i battesimi teatrali di un futuro Oscar come Benigni, viene spontaneo domandarsi: come mai il teatro di autore italiano contemporaneo non viene preso seriamente in considerazione e non trova lo spazio e il rispetto che si è guadagnato sul campo? Prima di imbarcarmi nella risposta ad un interrogativo così complesso, voglio pormi un altro problema, la cui soluzione forse mi aiuterà ad individuare le ragioni dell'isolamento del teatro dalla letteratura nazionale: chi sono e che cosa vogliono questi 600 (o forse più) autori del teatro italiano contemporaneo? Tra i romanzieri che si sono dedicati anche al teatro, ci sono: Moravia, Pasolini, Bernari, Berto, Dacia Maraini (nata veramente come autrice teatrale poi passata alla narrativa), Domenico Rea, Savinio, Sciascia, Siciliano, Silone, Starnone, Tabucchi, Tomizza, Zavattini, Flaiano, Alvaro, Arpino, Soldati, Bacchelli, Bontempelli, Brancati, Bufalino, Buzzati, Calvino, Cambria, Camilleri, Campanile, Cassieri, Compagnone, Consolo, Cuomo, Dessì, Gadda, Natalia Ginzburg, Joppolo, Jovine, La Capria, Lagorio, Landolfi, Levi, Malaparte, Manganelli, Nigro, Ottieri, Parise, Sanvitale, Savinio, Patti, Pirro, Pomilio, Benni, Baricco, Rodari e Umberto Eco, Elsa Morante e Alba de Cespedes. Ai narratori vanno aggiunti i poeti, anche autori di teatro, tra i quali spiccano alcuni nomi: Luzi, Sanguineti, Ripellino, Zeichen, Buttitta, De Libero, Gatto, Doplicher, Testori, Pecora, Porta, Bertolucci, Balestrini, Ceronetti, Bianca Maria Frabotta, Patrizia Valduga. Non pochi copioni portano la firma di cineasti come: Soldati, Lizzani, Wertmüller, Antonioni, Brusati, Squitieri, Cerami, Fiastri, Vasile, Sollima, Pinelli, Biraghi, Festa Campanile, Piscicelli e, tra i più giovani, Reali e Winspeare, nonché Cristina Comencini. Troviamo poi altri autori di teatro nel mondo dell'informazione e della televisione: Costanzo, Augias, Biagi, Montanelli, Angelini, Freni, Tesei, Di Mattia, Storelli, Guardamagna, Veller, Giagni, Ronsisvalle, Santanelli. Interessante il testo "Vecchi vuoti" a rendere di Costanzo, validissimi - ma sono solo esempi - "I confessori" di Di Mattia e "Uscita d'emergenza" di Santanelli. Anche numerosi attori sono stati tentati dalla scrittura teatrale: Tofano, Buazzelli, Gassmann, Manfredi, Foà, Raf Vallone, Albertazzi, Trieste, Franca Valeri, Satta Flores, Giancarlo Sbragia, Salemme, Bellei, Fiore, Silvestri, Mauri, Benvenuti, Bigagli, Branciaroli, Cinieri, Molé, Moscato, Quartullo. Ci sono poi i registi-autori come Patroni Griffi, Sepe, Squarzina, Fersen, Missiroli, Enriquez, De Simone, Cobelli, Chiesa, Castri, Calenda, Pressburger, Scabia, Scandurra, Syxty, Camerini, Zucchi, Gregoretti. Esiste inoltre un teatro dei critici: Apollonio, Boggio, De Monticelli, De Chiara, Jacobbi, Pandolfi, Massarese, Favari, Cordelli, Garrone, Soddu, Taffon, Prosperi, Crovi, Terron, Cappelletti, Romeo, Codignola, Moscati, Pensa, Ciullo, Cirio, Verdone, Lunetta, Ippaso, Soddu, Garrone, Vallauri, Cimnaghi e Puppa. Per il teatro hanno poi scritto pittori (Salvatore Fiume e Domenico Purificato), figli d'arte (Stefano Landi Pirandello, Vittorio Viviani, Alessandro Fo, Mario Prosperi, Mattia Sbragia, Antonello Riva figlio di Mario, Maria Antonietta Bertoli figlia di Pier Benedetto, Alexandra La Capria, Luigi De Filippo figlio di Peppino, nonché lo stesso Eduardo, figlio di Scarpetta), fratelli e 2

sorelle d'arte (Luca Archibugi fratello di Francesca, Peppino De Filippo, Titina Carloni De Filippo, Lucia e Paolo Poli), madri e figli d'arte (Luisa e Mario Santella), mogli d'arte (Paola Riccora moglie dell'autore Ettore Capriolo), compagne d'arte (Rossella Or per anni vicina a Carmelo Bene), padri d'arte (Roberto Mazzucco padre di Melania, Nico Garrone padre del cineasta Matteo), nipoti d'arte (Giorgio Serafini nipote di Giorgio Prosperi), produttori teatrali (Fabbri, Chiti, Chirico, Galdieri, Chiocchio, Lunari, Moretti, Franchini, Petrini), notai (Siri), ancora giornalisti (Altomonte, Barzini, Gotta), saggisti (Almansi, Celli), imprenditori (Aceto, Bassetti), editori (Longanesi, Bompiani, Curcio, Lerici, Giorgetti), ingegneri (Adorisio), operai (D'onghia), avvocati (Betti, Faggi, Carsana, Conti, Morante, Marino), artigiani orologiai (Contarino), funzionari (Familiari), sindacalisti (Trigona Occhipinti), medici (Giordano, Spagnolo, Talarico), pubblicitari (Tosto), traduttori (Frassineti, Dallagiacoma, Groppali), sceneggiatori televisivi (Zardi), doppiatori (Sanna), bibliotecari (Aufiero), autori di radiodrammi (Franchi, Bruck, Codecasa, Fayad), psicanalisti (Musatti, Gozzi), direttori di accademie d'arte drammatica (Musati, Salveti), insegnanti (Roberta Sandias), compositori (Menotti), germanisti-scrittori (Magris), germanisti-docenti (Saito, Fratti, Meldolesi), germanisti-critici (Chiusano), storici (Sani), politologicostituzionalisti (Negri), vittime della mafia (Fava), nonché un politico-giornalistaseneggiatore-regista-autoreteatrale-editore-deputato-scrittore come Guglielmo Giannini, il fondatore del partito UQ (l'Uomo Qualunque) che, nato nel 1881 e morto a Roma nel 1968, ha scritto una ventina di testi teatrali tra la prima e la seconda metà del '900 sintetizzando nella sua opera e nella sua stessa esistenza l'estrema, forse eccessiva fertilità del teatro italiano del XX secolo. Finiti? No, potrei aggiungere i dimenticati (Wilcock, Federici, Cappelli), i disillusi, cioè quelli che hanno smesso di scrivere per protesta contro il superficiale mondo letterario italiano (Pistilli), gli scomparsi più o meno giovani (Ruccello, Bertoli, Veller), i plurirappresentati (Manfridi, Cavosi, Sarti)... eccetera eccetera. Ma non sono un po' troppi? Certo è che questo stravagante (e travolgente) elenco di autori per fasce professionali o per DNA familiare documenta, quanto meno, il fatto che il teatro italiano nella seconda metà del XX secolo - e non ho citato che meno della metà degli autori che andrebbero presi in considerazione - sia comunque da sempre un banco di prova per tutte le arti letterarie e figurative del nostro tempo: dal cinema alla narrativa, dalla poesia alla musica, dalla pittura alla saggistica, addirittura anche dalla politica alla lotta alla mafia.

A questo punto, però, potrebbe insinuarsi il dubbio che il pregio della ricchezza del teatro italiano comporti un rovescio della medaglia, ossia rappresenti anche il suo limite: scrivere per il teatro sembrerebbe essere diventata, nella seconda metà del '900 una moda, una specialità nazionale. Si scrive per passatempo, per farsi scoprire, perché si aspetta che succeda qualcosa, per far soldi, per combattere la mafia, per fare letteratura, tra una sceneggiatura e l'altra, tra un reportage e l'altro, quando non addirittura nelle pause di una causa civile o penale, nelle attese di un consulto medico, visto che giornalisti, medici e avvocati hanno una vena teatrale sempre aperta! La Siae, che ho appena interpellato, ha perso il conto delle opere di prosa sotto tutela dal 1950 ad oggi. Ho chiesto: diecimila? Risposta eloquente: molte di più. Siamo, insomma, noi italiani, tutti autori teatrali?Non voglio naturalmente sostenere che non vi siano numerose "chicche" drammaturgiche, in tanta abbondanza di materiali. Ma il troppo storpia, soprattutto quando dietro a tanto impegno non si manifesta sempre un'idea strutturale sul teatro, quando cioè l'autore non elabora una "propria" visione della scena, una filosofia della drammaturgia. Il dubbio è lecito: è tanto necessario questo fondamento teorico alla drammaturgia? Il teatro non nasce forse dalla rappresentazione del reale, senza tanti preamboli astratti? Voglio concedermi un breve, laconico resumé utile solo a fissare alcune tappe del discorso circa essenza e significato della drammaturgia. Fin dalla notte dei tempi, il teatro è stato il volano del pensiero filosofico attraverso la drammaturgia: nel teatro di Eschilo, Sofocle, Euripide, la scena è il luogo dove il drammaturgo trasforma la rappresentazione religiosa 3

primordiale in dialogo, cioè interrogativo e riflessione umana sul divino e sul significato dell'esistenza. E anche quando il teatro si è successivamente trasformato in intrattenimento la commedia nasce con Aristofane e Plauto - è rimasto pur sempre una forma di divertimento, dove di-vertire significa letteralmente uscire dal quotidiano per entrare nel paradosso, quindi ancora una volta nella filosofia. La Commedia dell'Arte che si fonda sul lazzo e sulla risata, scaturisce dall'esigenza - come mostra Dario Fo - di rivolgersi a Dio o ad un Ideale di giustizia "bypassando" i potenti che diventano oggetto di scherno in chiave ideologica. Machiavelli e Giordano Bruno con la Mandragola e il Candelaio hanno dato vita ad un teatro sponsor del pensiero filosofico. E il successivo teatro di Goldoni si fonda sulla riforma del teatro italiano, cioè sulla caduta della maschera, affinché i personaggi della commedia mostrino il loro vero volto e l'umana sofferenza delle loro comiche peripezie (Truffaldino e la sua cronica quanto rivoluzionaria fame). Pirandello ha poi ribaltato i termini del discorso riproponendo la maschera sul volto degli attori, nell'intuizione che la società borghese del primo '900 avesse trasformato la vita in finzione e la realtà in apparenza esteriore. Ma c'è di più: Pirandello ha posto a fondamento della sua drammaturgia un concetto teorico come l'Umorismo, derivandolo senza molte variazioni dall'Ironie del movimento romantico tedesco: una forma di dissociazione dal reale-apparente che comporta il disincanto e la percezione della propria vera essenza. Eduardo, che di umorismo ed ironia ne ha da vendere, ha incarnato sul suo viso la maschera stessa della sofferenza plasmandola, sulle orme della grande lezione del teatro napoletano di Viviani, di Petito e di suo padre Scarpetta, sui personaggi di un popolo, quello napoletano, sempre alla ricerca di un espediente per sopravvivere e dare un senso alla propria esistenza. Eduardo ha altresì elaborato una metafisica del quotidiano, fin dai titoli delle sue maggiori opere: Natale in casa Cupiello (si noti l'esplicito rimando escatologico), Questi fantasmi, La grande magia ecc.

Insomma, senza filosofia e senza ideologia non ci sarebbe il Teatro della Commedia dell'arte e Dario Fo, non ci sarebbero Goldoni, Pirandello, Eduardo, così come non esisterebbe il teatro di Eschilo e Sofocle, Aristofane e Plauto. Come si fa a concepire il teatro senza la drammaturgia, la drammaturgia senza filosofia e la filosofia senza un'idea, una logica d'Autore (che significa Creatore Unico) nell'ambito della propria creazione?Qualcuno si domanderà: ma perché è necessaria una premessa drammaturgica? In fondo il teatro è drammaturgia di per sé! Risponderò con un esempio: in architettura la forma precede la costruzione, il progetto non si elabora mano a mano che il palazzo viene su, non è insomma intrinseco alla costruzione, ma la anticipa. Lo stesso avviene nell'arte, nella pittura ad esempio, dove la tecnica e la teoria, devono essere messe a disposizione dell'intuizione artistica. Tanto più ciò è necessario in un'arte come il teatro che - per antonomasia, cioè lo dice il nome stesso - non è riproduzione del reale, ma rappresentazione della realtà che si trasforma in realtà rappresentata. Come interviene allora la drammaturgia in questo processo, in quanto bagaglio tecnico dell'autore? Ebbene la drammaturgia dà il "marchio di fabbrica" o, se vogliamo usare una parola più appropriata, lo stile che, a sua volta, produce la riconoscibilità dell'autore stesso: il suo DNA. È attraverso la dramma-turgia di Pirandello, il cosiddetto "pirandellismo", per esempio, che riusciamo a riconoscere un testo di Pirandello da un'opera di un altro autore che, qualora dovesse riprodurre lo stile "pirandelliano", non sarebbe per nulla originale. L'importanza della tecnica ai fini della forma, quindi dell'opera drammaturgica, è affermata da Pirandello nel saggio Soggettivismo e oggettivismo: «Chi concepisce la tecnica come alcunché d'esteriore, cade precisamente nello stesso errore di chi concepisce come alcunché di esteriore la forma. Chi imita una tecnica, imita una forma, e non fa arte, ma copia, o artificio meccanico.» Questo è il punto: senza una originale elaborazione drammaturgica, avremo a che fare con testi di teatro più o meno ben scritti, attuali o magari di successo. Ma non potremo 4

riconoscere subito l'autore, né accorgerci della novità del testo che ci sembrerà un "artificio" come dice Pirandello, cioè non arte, - ché per essere tale deve risultare innovativa, - ma riproduzione. È quello che accade al teatro italiano della seconda metà del '900, a parte alcune eccezioni, tra cui naturalmente Eduardo e Dario Fo. Gli autori più giovani - a differenza della generazione precedente, per intenderci Pasolini col suo Manifesto per un Nuovo Teatro, Luzi e Testori col "Teatro di Poesia" - non si danno molto da fare da un punto di vista teorico: raramente elaborano nuove tecniche, nuove forme. Basti pensare che il mensile di teatro "Ridotto" lanciò nel 1993 un'inchiesta tra gli autori cercando di pubblicare interventi sulle rispettive "poetiche". Ebbene a quell'inchiesta intervenni solo io col Manifesto del Teatro S-naturalista. Ma nessun drammaturgo italiano si è aggiunto alla mia proposta, neanche per contrastarla con un'altra idea di drammaturgia. Il Manifesto del Teatro Snaturalista è diventato così l'ultima concezione teorica del teatro italiano in un secolo, il XX, che sul finire ha mantenuto solo in parte le promesse iniziali (Pirandello, Antonelli, Chiarelli, Rosso di Sansecondo ecc.). Non starò qui ad analizzare i motivi di un simile fenomeno nell'ambito della drammaturgia italiana contemporanea, motivi che sono svariati e forse dipendenti dal dominio dello spettacolo televisivo e dalla pigrizia intellettuale che sembra sempre più colpire gli artisti. Fatto sta, però, che con tanti autori in circolazione, sia mancata, e manchi, non solo una vera e propria drammaturgia nazionale, ma addirittura - come dicevo - un'idea innovativa di drammaturgia. Al punto che, negli anni '60-'70, a prevalere in campo drammaturgico, salvi i casi di Eduardo e Dario Fo, è stata la Sperimentazione; la quale ha però respinto al mittente il testo scritto dal romanziere, dal medico o dal notaio o dall'avvocato, per tuffarsi nella ricerca dell'essenzialità e del senso originale del teatro. Sul piedistallo della grande drammaturgia italiana della seconda metà del '900, accanto ad Eduardo e Fo, va collocato allora un drammaturgo-attore che ha fatto del rifiuto della drammaturgia testuale soprattutto altrui - la sua originale drammaturgia contro il teatro dei commediografi: Carmelo Bene.

Tra i molti nomi che non ho menzionato ve ne è uno che ho lasciato volutamente da parte, poiché rappresenta un chiaro esempio della grandezza e dei limiti dell'autore italiano contemporaneo che produce commedie senza produrre drammaturgia, cioè pensiero sul teatro: Aldo Nicolaj, che può essere considerato paradossalmente un grande commediografo e un drammaturgo non eccelso (riprendo distinzione da Luigi Pirandello che in Teatro vecchio e nuovo, un saggio del '22, parla del "commediografo del mestiere" con scarso "estro" drammaturgico).L'opera di Aldo Nicolaj ha avuto il pregio (e la fortuna) di attraversare interamente il cinquantennio che va dalla fine della seconda guerra mondiale alle soglie del XXI secolo. Nicolaj, che debutta in teatro nel 1948 con Teresina e che scrive oltre 50 opere fino al 2001 quando è costretto a smettere per motivi di salute, rappresenta la versatilità e un po' anche, purtroppo, la volatilità del teatro italiano di questo scorcio di secolo. Mi spiego: Nicolaj è un maestro, un artigiano del teatro e, insieme, un uomo di cultura. Le sue frequentazioni artistiche e letterarie gli consentono di cogliere al volo le atmosfere e le novità culturali delle idee e delle tendenze che, in un'Europa affrancatasi dal nazifascismo, cominciano a circolare liberamente. Ciò gli permette, data anche la sua creatività e l'abilità di dialoghista, di costruire un teatro sempre attuale: leggero, surrealista, simbolista, realista, drammatico, farsesco, comico, esistenzialista, kafkiano, minimalista, epico, sociale ecc. In altre parole il teatro di Nicolaj, geniale per la sua versatilità, duttilità e la sua attualità nella scelta del genere, presta tuttavia il fianco alle critiche che gli provengono ad esempio da un uomo di teatro come Ruggero Jacobbi. Il quale scorge in Nicolaj il vuoto e l'inutilità di un teatro che fa divertire senza troppi pensieri e contemporaneamente, se pone problemi , lo fa senza essere aggressivo, graffiante: in una parola, innovativo da un punto di vista formale. In effetti il teatro di Aldo Nicolaj sembra sfuggire ad una definizione precisa, ad una identificazione originale: leggero, evanescente, 5

come minimizza Jacobbi, ma anche pensante ed esistenziale, come l'ottimo dramma Classe di Ferro - storia di vecchiaia e solitudine -, o ricco di colpi di scena come l'esilarante piéce Amleto in salsa piccante, o patinato e debenedettiano come Ricci di mare: insomma, il teatro di Nicolaj resta "minore" rispetto a Fo e ad Eduardo proprio per la mancanza di un'idea filosofica o ideologica "portante" sul teatro che sta alla base di ogni esperienza drammaturgica. Alcuni autori della generazione nata dopo la prima metà degli anni '50 (Marino, Reali, Longoni, Sala, De Bei) hanno dato vita, a partire dagli anni '80, ad un teatro generazionale minimalista, anche sulle mode letterarie del tempo. Questi "nuovi autori" hanno preferito la semplicità della descrizione del quotidiano di una generazione smarrita e svuotata dal riflusso del post '68, alla quale non resta che guardare e riguardare in televisione (vedi la commedia di Marino Italia Germania 4-3”, l'epica semifinale dei Mondiali di calcio in Messico di cui hanno tanto sentito parlare). Sulla falsa riga de Il grande freddo di Lawrance Kasdan, film che ottenne all'epoca grande successo in Italia, i personaggi di Marino & C. danno indubbiamente voce ad un certo disagio esistenziale. Ma il vero dramma - a differenza del capolavoro di Kasdan dove è sempre presente il bergmaniano spettro della morte in epoca di pre-aids - resta appena accennato, cosicché il disagio esistenziale si esprime attraverso superficiali attriti familiari o alla rappresentazione dei difficili rapporti di coppia (vedi ad esempio Uomini senza donne di Longoni del 1993). Si tratta di un teatro apparentemente impegnato che solo raramente (come nel caso del bel testo dello stesso Umberto Marino, "La stazione") esce dai canoni di un realismo fotografico, privo della necessaria forza di metafora teatrale. Un'altra tendenza della drammaturgia contemporanea si riallaccia al teatro di impegno morale di Fabbri e di impegno civile di Betti.Il teatro morale o "di coscienza" di Fabbri trova forti corrispondenze in Testori sul tema della religiosità, mentre in autori come Vincenzo Di Mattia (I confessori del 1983) e Renzo Rosso (Esercizi spirituali del 1978) si fa sentire la problematica della coscienza e del rapporto tra etica ed individuo. È un teatro di contenuti, insomma, in cui l'aspetto "formale" (vedi il "formalismo" pirandelliano) passa in secondo piano. Così avviene che quando il contenuto, storicamente datato, perde di attualità, il dramma si intende "superato": prova ne sia che il teatro di Fabbri, che aveva tutte le caratteristiche ideologiche e spirituali per trasformarsi nel Teatro Nazionale della borghesia cattolica, in realtà è oggi considerato poco più di un interessante reperto archeologico.Il teatro di impegno civile di Betti (Frana allo scalo nord del 1936 e il sempre attuale Corruzione a Palazzo di Giustizia del 1949) ha sicuramente in Giuseppe Fava - assassinato nel 1984 dalla mafia durante la rappresentazione della sua opera più polemica e significativa L'ultima violenza - uno degli autori di maggior spicco. Tuttavia, il grande merito di Betti è stato il superamento del Teatro Civile (o sociale come si diceva allora) grazie alle atmosfere kafkiane, surreali, capaci di trasformare il dramma sociologico in una situazione escatologica, filosofica e quindi fortemente teatrale, al di là del "documento". Tuttavia, anche qui, la natura provvisoria e non prevalente del "mestiere" di drammaturgo (Betti era un grande giurista) ha per certi versi limitato la vocazione dell'autore ad una ricerca drammaturgica non certo "anima e corpo", bensì sporadica e quindi strutturalmente lacunosa,. Al filone dell'impegno civile e sociale possono essere ascritti alcuni lavori di Maricla Boggio, "Mamma eroina" del 1983 o "Schegge-vite di quartiere" del 1986. Maricla Boggio, da sempre politicamente impegnata sul fronte femminista, co-autrice di molte esperienze teatrali nell'ambito del teatro de La Maddalena, insieme a Dacia Maraini, è riuscita senz'altro a sedimentare intorno a sé un "movimento" di teatro-donna, (Luciana Luppi, Valeria Moretti ed altre). Si tratta di un teatro scritto da donne e incentrato sulle problematiche del mondo femminile, teatro che ha avuto in Franca Rame un'esponente molto significativa e di maggior spicco insieme alla Maraini. Per Franca Rame naturalmente vale però il discorso fatto per Dario Fo, che rappresenta ai miei occhi con Eduardo un grande esempio di dedizione non solo al teatro, ma alla "drammaturgia" intesa come ricerca 6

filosofica e ideologica. In un articolo (Ridotto Nr. 7/8 luglio /agosto 2003, pag. 2) Maricla Boggio rivendica il ruolo morale dell'autore, dimostrando la volontà di pervenire ad una concezione drammaturgica su cui fondare, eticamente, l'opera, il testo teatrale. Risponderei che l'autore teatrale è vincolato ad una forma di intrattenimento, conseguentemente deve saper sviluppare le sue problematiche drammaturgicamente, cioè senza trasformarsi in storico, saggista o giornalista, come invece accade al sindacalista-autore Alessandro Trigona Occhipinti nel lavoro "Segue comunicato" (1999) che sembra sovrapporsi al testo di Alberto Bassetti La tana (1995) sul tema un po' moralistico di ex- terroristi alla deriva storica, familiare e psicologica.

Del resto, alcune forme di teatro come il "Teatro Documento" (Sani), il "Teatro della Memoria" (Chiti) o il "Teatro di Denuncia" (Paolini) sono variazioni sul tema del teatro dell'impegno civile e, proprio per il fatto di essere più dirette, immediate, cioè senza la presunzione dell'autore di fare "grande" teatro, arte, vengono apprezzate dal pubblico. Un ottimo esempio di "Teatro di Denuncia" è offerto dai monologhi teatrali di Paolini (Ustica, Vajont, Bhopal) imperniati sulle grandi tragedie della recente storia. Bisogna oltretutto registrare il grande successo di pubblico, in teatro come in televisione, ottenuto da Paolini, anche per il forte impatto emozionale con vicende che coinvolgono l'opinione pubblica. Sennonché questo genere teatrale rinuncia sostanzialmente alla drammaturgia, optando per una soluzione di palcoscenico limitata al documento e all'intrinseca tragicità dell'evento storico evocato e ancora toccante. Non è visibile insomma la strategia dell'autore. Ma mentre Paolini fa della rinuncia alla drammaturgia il punto di forza della sua drammaturgia "nascosta" - che in realtà, per sottrazione e sintesi, diventa pirandellianamente pura forma teatrale -, gli altri autori da me citati non riescono ad elaborare una nuova forma di drammaturgia. È quanto succede ad esempio al teatro di Maricla Boggio, ora storico (Abelardo ed Eloisa, D'annunzio), ora commedia (Doppiaggio), ora esistenzialista (Ritratto di Sartre da giovane), ora, come dicevo poco fa, socialmente impegnato, ma poco innovativo sul piano della forma. Insomma, Maricla Boggio utilizza la scena non per l'intrattenimento ma per la riflessione sulla realtà, sulla storia, sulle problematiche del mondo contemporaneo. Tuttavia il grande apporto contenutistico, lo dice Brecht, può andare a scapito della forma che non riesce ad essere, appunto, proprio per il peso contenutistico che è certo un pregio, ma che alla lunga rischia di "datare", condizionare, impastare l'opera col . Maricla Boggio è assai brava a gestire una drammaturgia che rasenta il documento e la cronaca, ma a liberarsi nella forma teatrale dalle pastoie di cui parla Calvino quando tratta della . Ma in altri casi questo tipo di teatro, che diventa pedissequo del e dell'attualità, rischia di appiccicarsi addosso una . Semmai, allora vedo in Ascanio Celestini una geniale forma di commistione contenuto/intrattenimento che sicuramente funziona sulla scena, ma la cui "originalità" (ricordiamoci di Paolini) e tenuta drammaturgica nel tempo è piuttosto debole. Lo stesso Celestini in una recente intervista al Corriere della Sera se ne rende conto affermando che il suo teatro non è fatto per la posterità, ossia per durare. Molto interessanti da un punto di vista drammaturgico/formale mi sembrano i lavori di Mario Prosperi che, da "Produzione de' Cerasis" e "Mussolini" e il suo doppio al suo più recente testo Una corruzione perfettamente normale, rappresenta con una forte vena di sarcasmo, senza inutili moralismi, una galleria di personaggi che incarnano la mediocrità di una certa "Italietta". Certo, anche Mario Prosperi, peraltro uomo di teatro a tutto tondo, tenta qualche volta di confondere le acque della sua drammaturgia passando meno agilmente dal teatro dell'assurdo di "Zio Mario" ad un'opera di impianto naturalistico come "Biografie non vissute", rappresentato a Roma nel 2002, dove il protagonista è un ex repubblichino di Salò, collaboratore dei nazisti, che, per autopunirsi ed espiare, passa il resto della vita a pulire e difendere le tombe di un cimitero ebraico. Beninteso, ogni autore passa da un genere 7

all'altro per mettersi alla prova, sperimentare nuove strade ecc. Tuttavia mi sembra che la parte più originale del lavoro di Prosperi sia quella più grottesca, surreale: tanto surreale da trasformarsi in paradosso della realtà attraverso un arguto e nuovo utilizzo della satira. Gli autori nati tra il 1954 e il 1964, tra cui Ruccello (scomparso a soli 37 anni), Manfridi e Cavosi, sembrano interessati al recupero della tragedia o del dramma in senso ora classico, ora barocco, ora borghese. Si tratta beninteso di ottimi autori che sono però passati,anch'essi vittime del "Grande Vizio" del teatro italiano contemporaneo di sottovalutare l'aspetto teorico, - con risultati alterni da una forma drammaturgica all'altra, senza in definitiva elaborare - almeno fino a questo momento, e mi sarà gradito essere smentito - una loro filosofia o visione complessiva del teatro. Anzi, chissà che questa mia critica, - che vorranno accettare amichevolmente e costruttivamente, - non li induca a nuove riflessioni! Devo aggiungere che Manfridi, al quale ho posto questo problema come editore della sua Opera Omnia, ha genialmente ribaltato il "difetto di forma" che gli imputavo, in pregio, cioè in eccesso di forma, coniando un termine per il suo teatro: "Teatro dell'Anarchia". La molteplicità delle forme e delle drammaturgie è diventata quindi con Giuseppe Manfridi una caratteristica d'autore. Il che, riprendendo il discorso fatto per Nicolaj, è senz'altro un merito di professionalità, ma può diventare alla lunga anche un limite. Insisto su questo argomento che mi sta particolarmente a cuore. Ho più volte ribadito che Eduardo e Dario Fo sono assurti a "mostri sacri" del teatro italiano di tutti i tempi, soprattutto per la rigorosità della loro ricerca drammaturgica e dialettica, cioè filosofica ed ideologica. Aggiungo anche che due grandi autori del teatro italiano come Chiarelli e Rosso di San Secondo sono, fin dai titoli delle loro opere (Il volto e la maschera di Chiarelli, Vestiti che ballano e Marionette, che passione! di Rosso), gioielli di drammaturgia teorica.Invece, come si può sintetizzare il significato della drammaturgia di Manfridi che passa dal dramma storico in versi Beatrice Cenci alla ricostruzione biografica di "Paolina di Casa Leopardi", dalla commedia psicologica "Anima bianca" al realistico "Teppisti", dal minimalismo in versi de "La partitella" al teatro dell'assurdo de "La cena", fino al surrealismo di "Zozos in cui assistiamo alle esilaranti gesta di una coppia di amanti che non riescono più a "staccarsi dopo un amplesso anale? In quale testo si nasconde il vero Manfridi? Non si tratta solo di versatilità: non è infatti in discussione il valore dell'autore, che non mi sogno neppure mettere in discussione tale è comunque la mia ammirazione. Mi riferisco piuttosto al presupposto drammaturgico latente: ad un progetto complessivo che rivela, eccome!, il valido commediografo, ma che finora ha celato il drammaturgo il quale deve dirci e farci capire "perché scrive". E non basta rispondere: per rappresentare la realtà o per fare arte, perché lo scrittore dovrebbe scrivere solo per "cambiare il mondo", non per "rappresentarlo". Lo stesso discorso fatto per Manfridi vale per Roberto Cavosi (classe 1964), che non sembra esente dalla critica di una carenza, un deficit di teoria e di idee sul teatro meta-testuale, cioè di una fase che precede e presuppone la scrittura. Cosa interessa Cavosi? Il dramma dell'amore gay in tempi di Aids (Viale Europa del '92)? Il dramma storico (Lauben del 1988)? Il provincialismo italico degli anni '50 (Rosanero del 1995)? La piéce noir a sfondo erotico "Bentornata Maria"? Insomma, non sembra proprio che queste opere rientrino nel quadro di un pensiero globale sul teatro, di una drammaturgia di cui il testo diventi espressione artistica, cioè forma teatrale. Il risultato è che poi, da un punto di vista stilistico, i lavori di questi autori si confondono persino nei titoli: "Ti amo Maria" di Manfridi diventa "Bentornata Maria" di Cavosi. Preciso che lo scopo del mio intervento è la difesa della drammaturgia italiana. Ma una rivalutazione della drammaturgia italiana contemporanea non ha senso se prima non si fa chiarezza. Come dice Pirandello: «Basterebbe forse che questi tali (i commediografi senza idee proprie) non s'indispettissero tanto allorché qualcuno fa loro notare pacatamente che nessuno vieta, è vero, l'esercizio di fare e rifare un teatro già fatto, ma che proprio questo esercizio significa che non si hanno occhiali propri.»

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Un altro esempio di "vuoto drammaturgico da riempire" che posso citare, perché la lista è infinita, è Gianni Clementi, classe 1956. Le sue opere teatrali infatti, cito testualmente dalla sua autobiografia, «sono state anche base di partenza per produzioni cinematografiche». Dicevo poco fa che The big chill di Kasdan, in Italia è stato fin troppo imitato non solo nel cinema minimalista-generazionale, ma anche in teatro. Gianni Clementi non fa eccezione: la critica parla di «uno Strindberg light all'italiana», definizione che peraltro mi lascia un po' perplesso perché non mi suona molto positiva. "La strategia del gatto" del 2000, è infatti una piccola sceneggiatura minimalista: si tratta della resa dei conti tra due calciatori ex compagni di squadra che hanno amato la stessa donna e che (cito dalle critiche) «sullo sfondo di divergenze private, e in un secondo momento anche professionali, si trasformarono da amici in accaniti avversari». Insomma, uno Strindberg appunto light e, per giunta, all'italiana! Perché all'italiana? Ma perché questi temi sono scontati! Cito solo "Uomini senza donn"e di Angelo Longoni. Guarda caso due atti unici di Clementi e Longoni sono stati rappresentati insieme a Roma qualche tempo fa: e sembrano scritti dalla stessa mano! Il che ripropone con forza la problematica dello stile e del DNA drammaturgico dell'autore.

Vediamo ora se il "nuovo" può venire dalla tradizione teatrale napoletana del cosiddetto post-Eduardo. Il napoletano Annibale Ruccello, nato a Napoli nel 1956 e scomparso nel 1984, non ha avuto purtroppo il tempo di perfezionare la sua drammaturgia, peraltro molto promettente ed intrigante che si compone di un dramma decadente e morboso come Ferdinando del 1985, e alcuni atti unici altrettanto trasgressivi: "Le cinque rose di Jenniffer", "Weekend" e "Notturno di donna con ospiti" scritti tra il 1980 e il 1984. A Ruccello va il merito di aver inaugurato e vitalizzato una nuova drammaturgia napoletana post-Eduardo, drammaturgia a cui vanno iscritti Silvestri, Calvino e, soprattutto, "Rasoi" (1991) di Enzo Moscato. Notte, peccato e delitto sono gli elementi centrali della drammaturgia di Rasoi, in cui "La Signora", una prostituta o un travestito, cerca un riscatto alla propria vita passata a battere i marciapiedi di Napoli. Da quando il ribrezzo l'ha indotta a farla finita con gli uomini, "La Signora" si occupa della manipolazione (lei la chiama "educazione") dei bambini pescati nei bassi o nei vichi più miseri, affinché pervengano alla perfetta bellezza degli angeli. Non insozzati dal sesso, ma puri come lei stessa vorrebbe essere: è il dramma dell'irraggiungibilità della bellezza e della purezza su uno sfondo di miseria e torbide sopraffazioni.Bello, ma - mi domando - l'opera di Moscato è distinguibile da quella di Ruccello? Perché questi due autori finiscono per sovrapporsi, tanto da rendere necessaria per la loro opera una definizione più ampia e, al contempo, restrittiva, quella di "drammaturgia napoletana"? Cos'é questa definizione se non un calderone, o un ghetto, in cui tutte le vacche (gli autori) sono bige? E poi, che vuol dire "drammaturgia napoletana"? Goldoni era forse esponente di una scuola veneziana? Moliere di quella parigina? Consentitemi pure di levare una voce contraria alla tendenza critica che cerca di individuare una linea diretta da Viviani-Scarpetta-Petito, attraverso Eduardo, ai nuovi autori napoletani che vengono ingabbiati in un riduttivo genere di "nuova drammaturgia napoletana". Premetto che a mio avviso non si può parlare di drammaturgia italiana, né europea, ma di semplice drammaturgia, distinguendola eventualmente solo con l'attributo di contemporanea. O è drammaturgia, comunque, o non è: così come Moliere non appartiene né alla drammaturgia "parigina" né a quella francese ma alla letteratura mondiale - e lo stesso dicasi ad esempio per Goldoni e Pirandello -, anche Ruccello e Moscato non possono essere ridotti, per il loro valore artistico, ad una superficiale etichetta regionalistica. Mi si dirà: il dialetto! La lingua! Ma Pasolini, che usa il romano, può essere inserito nella letteratura "romana"? Camilleri che pure usa un dialetto "inventato", "contaminato", in quella sicula? E Pirandello che scrive anche in dialetto, rientra forse nella drammaturgia di Girgenti? Proprio qui voglio difendere l'originalità e completa autonomia di Ruccello e Moscato, che semmai si sovrappongono ed influenzano tra loro. Anzitutto la loro lingua non è quella dei loro predecessori. Tra il dialetto di Viviani e l'uso dialettale (che diventa lingua nazionale) del dialetto napoletano di Eduardo c'è una differenza come tra la lingua di Eduardo e il 9

veneziano di Goldoni. Ma tra Eduardo e Ruccello, la differenza è ancora più abissale: sono due lingue, due codici differenti, antitetici. Si parla tanto di continuità tra Eduardo e la nuova drammaturgia cosiddetta napoletana: io non vedo continuità e neppure rottura di una tradizione: siamo su pianeti differenti per cultura, lingua, tematica, personalità, scopi artistici, formazione eccetera. A guardare bene le cose, bisogna anche dire che Eduardo muore nel 1984 ed assiste alla parabola di Ruccello senza documentare un passaggio di consegne. Mi si dirà: lo sfondo della città! Napoli come metafora. Scherziamo? La Napoli di Ruccello e di Moscato è più vicina alla Roma pasoliniana che alla Napoli di Eduardo. L'angoscia di Ruccello e Moscato non è sociale, politica, storica, ma sessuale (qui sta l'originalità del loro lavoro). Che ci azzecca il "Sindaco del Rione Sanità" con "Rasoi"? Che ci azzecca "Natale in casa Cupiello" con "Ferdinando" in cui piuttosto, per quanto Ruccello stesso ci fa sapere, si parla di "trasformazione" culturale dell'Unità d'Italia come metafora della "trasformazione" che avrebbe magari qualcosa in comune col Gattopardo. Insomma! Il termine di "nuova drammaturgia napoletana", in cui paradossalmente si aggiungono autori assolutamente di altre generazioni e artisticamente diversissimi (come De Simone e Santanelli nati nel 1933 e 1938), oltre ad essere ghettizzante per Ruccello, Moscato & C., che bisognerebbe invece lasciar stare in pace nella loro ricerca di autonomia (ahimè, nel caso di Ruccello interrotta dalla morte), è forzato e fuorviante. Per paradosso, potremmo seriamente parlare di una "nuova drammaturgia romana" che partendo da Petrolini e Campanile arrivi a Giuseppe Manfridi o a Pierpaolo Palladino? La verità è che quella di Ruccello e Moscato è una drammaturgia purtroppo interrotta, che si può ammirare e considerare per lampi di genio ma che non ha un retroterra - come invece si vuole per forza affermare, - né per il momento prospettive definite. Silvestri? Calvino? Cigliano? Sono autori di valore, ma ripeto che non basta scrivere testi discreti per "fare testo" drammaturgicamente parlando. Magari, nel risveglio di una presunta drammaturgia napoletana, rientra anche l'opera più eduardiana, quindi più nel solco della tradizione, di Manlio Santanelli, "Uscita di emergenza" del 1980: si tratta di un dramma beckettiano nella Napoli del terremoto, protagonisti un maestro di musica senza lavoro e un diseredato. Dopo l'interessante debutto, Santanelli ha preso faticosamente le distanze dallo stile e dalla drammaturgia di Eduardo con "Regina madre" del 1984, per passare a una commedia barocca ("L'isola di Sancho" del 1985) e ad un affresco rosselliniano (Pulcinella del 1988). Chiude il repertorio di Santanelli una serie di testi rappresentati tra il 1988 e il 1999 che ricordano anche nei titoli (L'aberrazione delle stelle fisse, Vita natural durante, Disturbi di memoria, Tanto per animare la serata) il teatro borghese degli anni '70 di Patroni Griffi o di Brusati. Naturalmente non posso citare tutti gli autori che mi interessano (Erba, Paradivino, e soprattutto l'ottimo Spiro Scimone di "Ba"r del 2001) - che cito sinteticamente non per lasciarli in fondo o in disparte, ma perché devo necessariamente concludere. Negli ultimi due decenni del XX secolo il panorama della drammaturgia italiana contemporanea si è arricchito di due nuove esperienze che riportano l'attenzione sul piano drammaturgico esprimendo l'esigenza di una "teoria" del teatro. Mi riferisco in primo luogo al Teatro Patologico. Da circa 20 anni Dario D'ambrosi, sulla tradizione del teatro dell'Assurdo e della Crudeltà di Artaud e delle prime rappresentazioni in manicomio di Aspettando Godot, sviluppa una forma di drammaturgia in cui il teatro è inteso come forma disalienante: nella pirandelliana scissione tra essere e personaggio, l'uomo emerge dalla "finzione" della follia e ritrova se stesso. D'Ambrosi (nato a Milano nel 1958) debutta nel 1982 con I giorni di Antonio contemporaneamente ad un mio lavoro Mille e non più mille da cui scaturisce la mia concezione del Teatro S-naturalista .Il Teatro S-naturalista si sviluppa negli anni '80 con alcuni miei lavori rappresentati a Roma (Da cosa nasce Cosa, Autori si nasce, Prigioniero della sua proprietà, Magnetic Theater Play, Display, Un mostro di nome Lila). Come non scorgere un singolare e significativo parallelismo - se non altro temporale col Teatro Patologico di D'Ambrosi che, tra il 1982 e il 1990, scrive e rappresenta altrettanti testi (La trota, Volare, Allucinazioni da psicofarmaci, Casa da pazzi)? Dal momento che non 10

credo alle coincidenze, ma alla forza dello spirito del tempo che ad un certo punto ha reso necessario e indispensabile il ritorno alla drammaturgia per la sopravvivenza stessa del teatro, scorgo in questo fenomeno che chiamerei della "Nuova Sperimentazione", la vera novità dell'ultimo scorcio del XX secolo. Concludo scusandomi nuovamente con tutti gli autori che non ho citato ma che non ho voluto escludere per un pre-giudizio sulla loro opera. Anzi, il fatto che ancora tanti esclusi ci siano da citare, conferma la mia ipotesi secondo cui l'eccesso di "Strindberg light all'italiana" sia certo un beneficio per la statistica, ma non un buon servizio al successo della drammaturgia italiana che risulterà tanto più importante quanto più filosoficamente fondata e "originale". E allora chiudo con la velenosa domanda che Pirandello riprende provocatoriamente da Lessing concludendo il suo saggio sul "Teatro vecchio e nuovo": «O autori della mia Nazione, devo esprimermi più chiaramente?».

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