L\'avventura dell\'America (1984, inedito)

May 31, 2017 | Autor: Franco Minganti | Categoria: American Studies, adventure (genre)
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Franco Minganti

L’avventura dell’America [1984]

Nell’aprile del 1984, l’Ufficio Cultura del Comune di Imola allestì una mostra fotografica all’interno di Palazzo Tozzoni, dedicata ai viaggi dell’imolese Francesco Giuseppe Tozzoni, imbarcato a fine Ottocento sulla Vettor Pisani, vascello della Marina Militare italiana. Nell’occasione, a corredo dell’iniziativa, ebbi modo di organizzare Invito al viaggio, una breve ma significativa rassegna di conferenze. Omar Calabrese parlò di mappe e cartografie dell’immaginario, dedicandosi in particolare a illustrare Hic Sunt Leones, la mitica mostra allestita a Roma da Umberto Eco & friends, ma mai aperta al pubblico e comunque documentata da un bel catalogo Electa; Gianni Celati e Luigi Ghirri vennero a raccontare di paesaggio e dei loro recenti viaggi letterari, fotografici e cinematografici in giro per l’Italia; Peter Greenaway sarebbe dovuto venire a proiettare il suo corto A Walk through H (1978), il ben curioso viaggio di un ornitologo all’interno dei quadri di una mostra… ma l’appuntamento saltò (conservo ancora, con piacere, le nostre corrispondenze). Quanto a me, dedicai la mia conferenza all’“avventura dell’America”, il cui testo originale – a tutt’oggi inedito – ritrovate qui, senza alcun intervento posteriore se non l’integrazione nel testo, accanto all’illustrazione originale in bianco&nero che avevo ritagliato dal Village Voice, del poster a colori che era stato distribuito all’epoca. Consideratelo un reperto di archeologia culturale. Buona lettura. Franco Minganti PS: Per la cronaca, una quindicina di anni più tardi, diari e foto di Tozzoni vennero raccolti nel volume Tra meridiani e paralleli. Viaggio intorno al mondo della Corvetta “Vettor Pisani” 1882-1885, per la cura di Alfredo Antonaros (Roma: Ed. Marina Militare Italiana, 1998).

L’America esiste ovviamente prima della propria scoperta, non tanto materialmente, quanto agli occhi di un’Europa medievale e rinascimentale che investiva non poche energie sull’occidente estremo, volta a volta identificato come Eden, come Isole Felici, poi come Eldorado o come quel Paese di Cuccagna alla cui base stava soprattutto certa geografia medievale, popolare e carnevalesca, che mescolava il suo sguardo “basso” (per dirlo con Michail Bachtin) con il sistema delle leggende che parlavano delle “meraviglie dell’India”. L’America nasce dunque come incidente di viaggio, allo stesso modo di mille altre scoperte fortuite, determinate da quelle uscite dai binari che provocano sorprendenti incontri con l’imprevisto. E’ un’idea, una griglia culturale, un grande vuoto che viene finalmente riempito per un inghippo sulla rotta per le Indie. Ed è anche un grande investimento per l’intera cultura occidentale che sull’America, quarta parte di un mondo rigorosamente tripartito con al centro Gerusalemme, giocherà la speranza – l’ultima, la migliore – dell’umanità.

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La conquista dell’America “annuncia e fonda la nostra identità presente”, come sostiene Tzvetan Todorov, ed è anche vero che si debba parlare piuttosto di una “invenzione” dell’America, come ha sottolineato una ventina di anni fa Edmund O’Gorman, ossia di una prevalenza dell’atto simbolico della scoperta: simbolicamente, infatti, il continente, il Nuovo Mondo, non è esistito fino a quando non è stato “inventato” dagli europei. Siamo dunque oltre la pura definizione geografica, insensibili ad ogni relativismo culturale e il significato del termine America trascende qualsiasi limite territoriale e diventa persino estensibile a qualsiasi cosa abbia i requisiti “giusti”, e la parola magica che consente ogni ulteriore estensione è un termine ben noto, usato e abusato, frontiera. Per la cultura americana si tratta di un termine interiorizzato ben nel profondo, che contiene in sé il senso positivo della mobilità, del movimento, del superamento dei confini e contemporaneamente quello dell’impossibilità o, meglio, pericolosità, di andare oltre. Siamo di fronte ad un evidente paradosso che ci si è sforzati di definire ogni volta che ci si è posti il problema di dare un contorno all’identità americana, al national character, e ci si è accorti che questa passava attraverso il punto cruciale del rapporto – del tutto inedito per l’europeo – con uno spazio enorme, vuoto, disponibile quanto misterioso, cui venne dato il nome di wilderness. Lo scontro e l’adattamento reciproco tra uomo e ambiente naturale costituiscono il nodo principale di varie definizioni usate per tracciare caratteristiche invarianti dello spirito americano, dall’American Dream all’“ordine semistabilito”, dalla Permanent Revolution all’Utopia realizzata. Tale reciprocità fa parte del grande disegno che i Puritani concepirono per se stessi, quello della missione di un popolo di eletti da Dio lanciati verso una terra promessa, una New Jerusalem. Le immagini più pregnanti di tale disegno sono la Errand into the Wilderness, la City upon a Hill e le frequenti metafore del “giardino”, residuo del mito edenico. Dunque l’America tende a definirsi sin dall’inizio come luogo umano, come disposizione mentale, come realtà spirituale prima che geografica e materiale. Si pone come una vera e propria metafisica della libertà, in virtù della sua metafora spaziale come Land of Opportunity e della sua 2

realtà spaziale di territorio aperto ad ogni emigrazione (Leslie Fiedler sostiene che ogni fuga non è che l’esilio da un altro esilio – outsider/emarginazione). E’ importante sottolineare come la posizione dell’uomo nello spazio dovesse (e debba) corrispondere al suo statuto morale: non sorprende che in un periodo in cui gli ideali social i erano visti come rappresentabili geograficamente – in cui dunque anche inferno e paradiso, due mitologie a loro modo complementari , venivano reificati, resi terreni, “climatizzati”, in qualche modo accessibili ai vivi – la Visible Sainthood dei Padri Pellegrini si fondi proprio come viaggio. Un lungo viaggio accresce la santità di chi lo compie e a provocarlo non è tanto il “desiderio”, la pulsione del piacere del viaggio stesso, quanto piuttosto la “necessità” di vedere premiata la virtù – e, ovviamente, punito il vizio. L’esito del viaggio, poi, sarà determinato unicamente dai meriti morali. E’ proprio in questo senso che si svolgerà poi tutta la colonizzazione del continente, idealmente rappresentabile come una frontiera in movimento da est a ovest – così almeno la teorizzò Frederick Jackson Turner, facendone l’asse portante dell’identità americana –, una linea parallela alle coste, fatta di gente in viaggio coast to coast, per cui l’America, per quanto vasta, non è che una strisciolina di terra tra due oceani. La presenza di abitatori aborigeni, la cui cultura stabiliva per altro un rapporto pacifico con l’ambiente, viene in qualche modo rimossa dal bianco colonizzatore. Pellerossa e natura sono una cosa sola, perlopiù fortemente demonizzata, e sul piano dell’immaginario culturale il romance alla Fiedler tra bianco e indiano determina comunque la sparizione di uno dei due partner mitologici, vuoi mediante processi rituali e simbolici (per emulazione, adozione, mai per incrocio di razze: anatema della miscegenation), vuoi attraverso l’impiego della forza (per conversione, castrazione, ghettizzazione in riserva, termination, genocidio), ossia attraverso quel processo di “regeneration through violence” messo a fuoco da Richard Slotkin, il cui mito diviene metafora strutturante dell’esperienza americana. E’ interessante vedere come i gradi di tale rimozione, dunque dell’“invisibilità” del nativo, siano diversi e ognuno sia un momento davvero cruciale in un’avventura “percettiva”: per il bianco, si va dal sogno senza corpo (invisibilità dell’indiano non ancora scoperto se non forse nei bestiari che accompagnavano le carte congetturali delle Terrae Incognitae) all’indifferenza verso un essere (un animale?) senz’anima, per arrivare all’ossessione e al terrore di essere visto (invisibilità dell’indiano-albero, dell’indiano-cavallo, dell’indiano-rumore della foresta), al fingere di non vedere (invisibilità dell’indiano e sua eufemistica “scomparsa” anche in senso storico – e si pensi anche a certe, tristissime, condizioni odierne), fino all’eventuale recupero di una mitologia spettacolare. Là dove l’indiano è capace di sparire nottetempo con un intero villaggio – magicamente, senza lasciare tracce – ritornando invisibile e indistinguibile dalla natura, il bianco procede segnando di sé lo spazio, “arredandolo” si direbbe oggi, fondandolo come propria home. E non appena si allenta un poco la dominante puritana – anche se non si allenta il senso di missione – è proprio il desiderio, la desiderabilità (di vivere in un certo luogo, ad esempio) a prevalere, insieme con un immaginario “erotico” suscitato dalla penetrazione in una Virgin Land, attraverso percorsi in qualche modo obbligati che si insinuano nei punti deboli, quelli di minima resistenza geografica (valli, laghi, fiumi), percorsi che non rinunciano comunque ai passaggi difficili (passi, gole, canyon, ma anche deserti), in cui il corpo a corpo ingaggiato dall’uomo con la wilderness si fa più stretto e intenso – tutto questo lo si può leggere nel corpus delle autobiografie dei pionieri, nelle loro mental maps... Esiste praticamente un rapporto deterministico tra uomini e ambiente, tanto che se facessimo una fotografia della situazione alla fine del ’700 e scegliessimo la razionalizzazione che Hector St. John de Crèvecoeur fa della frontiera, ci troveremmo di fronte a un modello spaziale di una certa sottigliezza e soprattutto dalle conseguenze non indifferenti. A seconda della dislocazione geografica sul territorio, ci sono tre tipi di americani: i primi sono quelli che abitano sulle coste dell’est, sono i più vicini all’Europa e alle sue influenze venefiche e subiscono i dati negativi del “progresso”, la città con tutti i suoi vizi, la civiltà con la sua perdita di identità 3

individuale (e la disumanizzazione). I terzi sono i frontiersmen che si lanciano ad ovest per puro spirito di iniziativa, certamente lodevoli, ma che vivono troppo a contatto con la wilderness e con gli animali di cui seguono le tracce, di cui praticano la violenza bestiale fino a confondersi con loro. Non hanno che rifugi provvisori, sono esseri senza casa e senza famiglia, spesso dediti all’alcol. I secondi, quelli topologicamente in mezzo, sono gli americani più veri e più degni, in ritardo forse sugli avventurieri, ma a modo loro anch’essi gente della frontiera, vivificati dal processo di disboscamento e creazione di terreni coltivabili, dall’avere casa e famiglia, dunque dall’essere depositari e portatori di una cultura – e sappiamo quanto nella cultura americana profonda la donna sia identificabile come depositaria dell’economia familiare. Simbolicamente, il solco dell’aratro è il segno che li lega alla terra vergine, un atto sacrale che ha un coté non meno importante, quello della proprietà privata che viene in tal modo santificata ed introdotta all’interno dei principi naturali dell’uomo occidentale. E’ proprio la “valorizzazione” del terreno – produzione di un surplus che non serve alla semplice sopravvivenza – la molla che consente al farmer, l’agricoltore proprietario e self-made man, di vendere e di procedere oltre secondo il classico motto del “Going Ahead”, ancora nel segno del paradosso stasi/movimento. Non c’è da stupirsi di questa digressione su di una valenza economica, legata forse anche all’etica puritana del lavoro: l’America è sempre stata anche – per non dire di più – un’impresa commerciale da raccontare, da “vendere” all’Europa, in diari, racconti e relazioni di viaggio, per assecondare e stuzzicare curiosità e pruriti già compiutamente e modernamente imprenditoriali e turistici. Tornando a Crèvecoeur, al di là di ogni possibile storicizzazione del fenomeno conosciuto come Agrarismo, non possiamo dimenticare come il Mid-West e l’eterna provincia agricola americana si sentano ancora oggi depositari di un’autenticità americana da “cuore del cuore del paese”, che guarda con sospetto alla California come ad un paese di matti e a New York come a un centro di pervertiti. Né si deve dimenticare come, prima della trasformazione del Western in romantica elegia cristallizzata per lo più in una sua Età dell’Oro collocabile intorno agli anni 1880-1890 (non a caso gli anni della “fine” dichiarata della frontiera storica), il cowboy inizia la sua “brillante carriera” con un’aura da marginale, semibarbaro quanto generoso (l’Uomo dell’ovest, il Westerner, è forse l’unico indiscutibile contributo americano alla mitologia mondiale: è una romantica incarnazione di libertà che si addentra nei boschi degli Appalachi come guerriero vestito di pelli di daino per affacciarsi sulle Grandi Pianure, un secolo più tardi, come cowboy). Il Washington Star del 1 gennaio 1878 scriveva: “quei nomadi di regioni ben lontane da ogni parvenza di vita morale se ne stanno senza far nulla per mesi interi e pagano le grazie di donne perdute”. Tipico man of leisure, oltre che “ultimo gentiluomo” e uomo d’onore, il cowboy si oppone tradizionalmente agli ideali e alle virtù del pioniere (progresso, successo, domesticità) e rinnova la figura dei good bad boys, tutti gli Huck Finn, i “cari ragazzi cattivi” della cultura americana. Siamo allora anche all’interno di un evidente mito adolescenziale che fa il paio con quello di un’America paese giovane ancora senza storia (se non altro in raffronto all’Europa) e senza radici, dunque dedito alla mobilità assoluta. Tuttavia, se è vero che “gli eroi son tutti giovani e belli”, clausola per la loro accettazione diventa la loro sparizione – prima che si arrivi a un moderno ed intellettualistico eroismo della normalità. Altri Vanishing Americans, americani che scompaiono, dunque: dopo la sparizione/genocidio dei pellerossa, viene il sospetto di dover ampliare il concetto originale del generale Custer: “l’unico Westerner buono è quello morto”. Come Billy the Kid, Jesse James e altri banditi-raddrizzatori di torti sopravvivono ai propri assassini, santificati nell’immaginario popolare e proliferati, moltiplicati nelle reliquie, così anche il cowboy “reale” deve sparire per lasciare spazio a tutte le sue controfigure fittizie, dai pulps al cinema. Non a caso, la cowboy song canta la poesia del sudore e del fango, la vita dura del vaccaro, tutta roba da fare finché si è giovani. 4

Il nostro slittamento, implicito, dalla frontiera all’Uomo della frontiera – per così dire, dal plot, dall’intreccio, all’eroe protagonista – non deve farci perdere di vista la produttività dell’idea e del discorso della frontiera: una volta dichiarata ufficialmente chiusa da Frederick Jackson Turner nel 1890, essa è stata ripescata, riadattata, riusata ogniqualvolta ha fatto comodo, spesso come appello all’americanità, proprio per il suo fortissimo impatto emotivo. Penso alla “frontiera urbana” del New Deal negli anni trenta, alla “frontiera proletaria” dello stesso periodo (ecco il “Go Left, young boy” di Mike Gold del 1929, che echeggiava il più celebre “Go West, young man” di Horace Greeley del 1865), alle “nuove frontiere” della conquista spaziale, alla “New Frontier” della politica kennediana, alle frontiere indocinesi del Vietnam, alla Reaganomics, presentata come nuova frontiera economica e istituzionale, e penso a Gary Hart candidato alla Presidenza che va a fare il lancio della scure tra i montanari del Wyoming in perfetta tenuta da boscaiolo. Ripenso anche a qualche film emblematico e ironico rispetto a un immaginario del genere: Midnight Cowboy (John Schlesinger, 1969) e le nuove frontiere del sesso, ovvero le imbarazzanti avventure omosessuali di Joe Buck/Jon Voight vestito da cowboy: sono bastati due giorni di Greyhound... oppure Lonesome Cowboys (1968), con gli hustlers di Andy Warhol, cowboy narcisisti e omosessuali del “Wild West of Sexual Outlaws”; oppure ancora Slim Pickens, comandante del bombardiere americano di Doctor Strangelove (Stanley Kubrick, 1964), impegnato nel suo personale rodeo a cavallo della bomba, indubbiamente apertura di una frontiera nuova quanto terribile e definitiva. Penso anche alle nuove frontiere della percezione e della poesia e del linguaggio, espanse dall’uso delle droghe da parte della psichedelia beat. E se un accenno come quest’ultimo implica un evidente recupero di ineluttabili mitologie del viaggio, non farà male ripetere che è proprio la dimensione del viaggio a caratterizzare una buona parte della cultura americana, sulla cui “superiorità” – proprio perché nomadica, rizomatica, senza radici né gerarchie simboliche – si è espresso Gilles Deleuze. Un tale viaggio è però sempre virato come fuga, contemporaneamente fuga dalla “sivilization” di Huck Finn, ovvero dalla donna come principio normalizzatore e dal suo amore uniformatore e impossibile a dirsi, e insieme esperienza di punta sostanzialmente individuale di tale stessa civiltà. Non starò ad elencare le occasioni letterarie e cinematografiche di un discorso di questa portata vastissima, né i luoghi comuni ad esso giustamente legati. Tuttavia mi preme aggiungere che What Was Literature (1982), a tutt’oggi l’ultimo uscito tra i libri di Fiedler, ci consegna anche il mito simmetrico del Nostos, del ritorno a casa, elemento forse indispensabile (dell’avventura?) per fare grande qualsiasi letteratura. Il Nostos mi è molto utile per introdurre brevemente e schematicamente la questione dell’“avventura”. Come genere letterario è un po’ un imbroglio: sotto tale abusata etichetta riusciremmo a far entrare qualsiasi cosa. A ben vedere, si tratta di una specie di super-genere, un po’ vampiro, un po’ ladro gentiluomo nei confronti degli altri generi formulaici; ma anche contemporaneamente un po’ linfa vitale e tessuto connettivo per gli stessi. Si situa infatti anche “prima” e “al di sotto” degli altri, come una sorta di “infra-genere”, archetipo della fantasia più semplice ed universale, coniugazione essenziale di mythos ed epos. L’avventura è insieme summa, miscela sapiente, insieme vuoto, dunque un flusso di energia potenziale, se è vero che lo stesso suo etimo ce lo suggerisce: è ciò che sarà, dunque ciò che non si dà mai completamente. Qualcosa resta sempre sul terreno, qualcosa resta sempre in sospeso: sono resti, scarti, differenze, cose perdute. Come nelle favole, queste mancanze “originarie” ed abissali (oppure gli oggetti come il Falco maltese o l’Arca perduta) determinano non solo gli scatti dell’intreccio e gli stimoli alla mobilità dell’eroe, ma anche – in un’interpretazione moderna dell’avventura – la struttura tendenzialmente modulare, seriale, funzionale al racconto a puntate (il cliffhanging) dell’avventura stessa: si pensi al feuilletton, al telefilm, al fumetto, al fotoromanzo. Ma le radici, lontanissime, sono in Omero (Ulisse, l’Odissea, come archetipo fondante l’intera, o quasi, narrativa – come sosteneva 5

Omar Calabrese in uno degli incontri di questa manifestazione), prima ancora sono nel racconto orale, perché si ritrovi il piacere dell’ascolto e magari quello di sentirsi raccontare più volte la stessa storia. E’ vero che è l’eroe, perlopiù quello bianco e occidentale, ad essere il centro focale dell’avventura, e non il villain, l’antagonista malvagio, e nemmeno la donna, ingredienti di contorno pur necessari a volte – lei, poi, è persino antagonista, non tanto dell’uomo, quanto del suo, di lui, idillio con l’avventura; oppure lo occupa solo nelle tappe, rafforzando una serie di luoghi comuni come: per il marinaio una donna in ogni porto, per l’hobo una donna in ogni città di stazione ferroviaria, per il turista una donna di ogni colore... ma basta un richiamo (la nave, il treno, l’aereo) e l’uomo riparte... e tutto finisce. Inoltre, è importante notare che abbiamo soprattutto a che fare con un eroe “spaesato”, inserito in scenari comunque alieni. Ogni avventura, a suo modo, si presenta “spaesata” geograficamente, esotica, financo “coloniale”: luoghi e itinerari fanno parte di una linea continua di trasformazione dell’immag inario che porta direttamente dalle geografie congetturali fino al “romantico” colonialismo inglese e al moderno turismo di massa. E’ lo spazio, esotico, ad essere erotizzato e non c’è sesso per l’avventura: è roba da uomini, non c’è posto per la donna, salvo che non sia una specie di tomboy, clandestina a bordo, un maschiaccio che segue au pair le peripezie degli uomini (Marion di Raiders of the Lost Ark, Karen Ross di Congo, la Tatum O’Neal di Paper Moon) e ne diventa compagna di viaggio, ma sexless, salvo essere usurpata nel proprio ruolo erotico-sentimentale dai buddies e dai maschi di colore delle coppie maschili, latentemente omoerotiche, dei grandi viaggi letterari americani (Huck-Jim, Ishmael-Queequeg, cowboy-indiano, hobo-punk, hard boiled detective-suo miglior amico). Ci troviamo di fronte a una specie di geografia potenziale allo stato puro che funziona per quei luoghi comuni accumulatisi in un vero e proprio repertorio di immaginario d’avventura, una specie di museo o di dizionario enciclopedico. Potremmo facilmente inventariare civiltà sepolte o inaccessibili, civiltà incomprensibili dunque pericolose, luoghi fortemente sacralizzati e negati per tabù all’eroe, luoghi in cui la norma occidentale è in qualche modo sospesa. Il senso rituale è sempre molto forte nell’avventura, tanto che spesso il fluire del tempo appare come sospeso, cristallizzato nell’illo tempore magico-mitico e la categoria-spazio arriva a sostituire funzionalmente la categoria-tempo, tanto che le tappe, i punti fermi dell’avventura legati ai singoli luoghi, diventano i momenti centrali dell’intreccio (oppure, in alternativa, l’avventura produce un suo tempo particolare). L’importanza delle mappe e degli spostamenti (cartine qualsiasi, vere mappe del tesoro e itinerari vari) è allora evidente: l’ambito è quello simbolico oltre che referenziale e le carte restano l’unico elemento di sutura, il filo per la nostra memoria, dell’estrema frammentazione della scansione del récit (si pensi anche alla “nominazione”, evocativa e suggestiva. (In altra sede, scherzosamente ma non troppo, avevo anche proposto come discriminante per l’appartenenza all’avventura, la presenza o il riferimento diretto alle mappe: pensate alle cartine-itinerario di Casablanca, Passaggio a Nord-Ovest, Marocco, I predatori dell’arca perduta, L’uomo che volle farsi re, e cento altri; o a romanzi come Le miniere di re Salomone, Congo, Il giro del mondo in ottanta giorni.) Ogni mossa entro queste geografie, reali o immaginarie che siano (resta infatti inteso che all’interno dell’avventura si gioca entro i poli della mimesis e della moral fantasy – si ricordi quanto detto a proposito dei Puritani) risulta essere un atto rituale, magari iniziatico, comunque miticoreligioso, forse perché grande importanza viene attribuita alle false piste e ai vicoli ciechi. La posta in gioco nell’avventura è sempre la più alta, avendosi a che fare – letteralmente e vicariamente – con l’opposizione primordiale vita/morte. Il senso di “fatalità” contenuto nell’avventura è rafforzato da un dato fondante l’avventura stessa, un qualcosa che mi piace chiamare “sindrome della seconda volta”: ovvero, se vogliamo sottrarre l’evento, l’impresa eclatante, dal regime della casualità, dovremo convenire che il suo esito dipende dalla perfetta coincidenza di tutti i 6

particolari (il posto giusto, al momento giusto, con le giuste condizioni). Si tratta infatti di un evento “unico”, irripetibile, perciò a suo modo magico (anche perché è quello scelto, “banalmente”). Ma è pur vero che “regolarmente” qualcuno prima dell’eroe è già stato lì in quel luogo e ha fatto le stesse cose, mancando forse in qualche particolare seppur minimo (nell’ambito del giallo, ad esempio, la fatalità “perversa” è segnata dal ritorno dell’assassino sul luogo del delitto – o dal rivivere lo stesso episodio delittuoso attraverso il “doppio” del racconto). Senza contare che l’azione dell’eroe si svolge come un doppio dei suoi percorsi mentali di conoscenza di tutto in anticipo: sua caratteristica, infatti (quella che gli specialisti chiamano tekhné), è quella di precorrere gli eventi, eludere i pericoli e, quale “uomo del kairos”, di saper misurare l’imprevedibile (magari mescolando l’azione con la passività, lasciandosi “agire” dalle cose quando le circostanze lo richiedano). Tutto ciò fa parte del gioco delle coincidenze fatali, giustificazione narrativa della fuga e dell’inseguimento, ossia della caccia primordiale, della quest (la ricerca), della detection, del mystery, quando spazio e tempo “giusti” non coincidono e appaiono l’ossessione di essere sempre preceduti e di arrivare troppo tardi, e quando le conseguenze sono dimensionalmente sproporzionate alla minuzie delle cause. Dopotutto, siamo alle radici dello spettacolo fatto di diastole e sistole di emozione e tensione. Se abbandoniamo frettolosamente il terreno dell’avventura, non ci resta che impostare il discorso sull’avventura dell’America, basato soprattutto sulla funzionalità dell’un termine rispetto all’altro. Una prima considerazione prende spunto proprio dalle ultime annotazioni a proposito dell’“evento secondo”, della “sindrome della seconda volta”. Comunque si veda la cosa, non solo l’America è prima idea poi coincidenza fortunata (magari anche voluta da Dio, ma in questi casi sempre di un Deus-ex-machina si tratterebbe) tra idea e sua realizzazione, ma sia per Cristoforo Colombo che per i Padri pellegrini, entrambi a loro modo “padri fondatori”, non si tratta certo di prime volte. Per il primo, se anche tralasciamo l’ormai accettata priorità vichinga, c’è sempre la vecchia storia del pilota, superstite di una precedente spedizione, che avrebbe raccontato a Colombo dell’esistenza del continente. Quanto al nome “America”, proviene comunque da un altro buon secondo, Amerigo Vespucci, non certo dal genovese-spagnolo-portoghese. Per i secondi, c’è da dire che i Pilgrim Fathers del mitico Mayflower non furono certo la prima colonia a stanziarsi nel New England. Sicuramente furono la più spettacolare, come spettacolare fu indubbiamente l’impresa di Colombo (non a caso restano due grandi feste, tra le poche del calendario americano: il Columbus Day e Thanksgiving). Furono entrambe occasioni il cui dato di esemplarità e, dunque, di funzionalità ad una trasformazione mitopoietica, costituirono la premessa insostituibile per la loro consacrazione. In realtà, la considerazione che più mi interessa per l’avventura dell’America è un’altra, il cui punto di partenza sta un po’ nell’avventura, un po’ nell’America e un po’ nelle caratteristiche di ogni storia di viaggio. Ricordo che un po’ di tempo fa Beniamino Placido scriveva, a proposito di Ulisse, che l’arrivo a Itaca, solo soletto, era in funzione del solo racconto, ossia del poter raccontare la propria storia, il proprio viaggio. Placido usava strumenti finemente ironici ma piuttosto seri per sostenere la sua tesi. Una tesi analoga la si trova nel già citato libro di Todorov, riferita a Colombo, il cui vero obbiettivo – al di là della vittoria universale del Cristianesimo e dell’assolvimento del voto religioso che lo spinge in cerca di oro per finanziare una nuova crociata – sarebbe proprio quello del racconto del viaggio. Pietra di paragone eccelsa con cui confrontarsi era, si sa, Il Milione di Marco Polo. D’altronde, giusto una settimana fa, Omar Calabrese ci ha ripetuto, “rubando” dichiaratamente da Paolo Fabbri, come la storia di viaggio sia in ultima analisi l’archetipo più originario di qualsiasi racconto. La funzionalità della cultura americana rispetto al racconto del Sé ha forme particolarmente efficaci e radici lontane nella logocrazia puritana, negli ossessivi rituali verbali che già abbiamo ricordato, la Errand into the Wilderness, la City upon a Hill, paradigmi verbali che erano innanzitutto parole d’ordine, forme di socializzazione, chiamate a raccolta, meccanismi primari e 7

modelli d’identità. E l’importanza concessa dal Protestantesimo alla parola e alle sue liturgie ci porta a considerare, attraverso l’immaginario biblico, lo sviluppo profetico di una cultura che affermava implicitamente che “in principio era il Verbo, la parola, che questa era con i ‘santi’ del New England e che tale parola divenne ‘America’”. Qualcuno sostiene si sia trattato di una vera e propria “Errand into Rhetoric” che col tempo ha dovuto fare i conti con diverse realtà, modificarsi e adattarsi. Tuttavia la formulazione piena potrebbe suonare: “in principio era la parola; la parola era America ed era nella Bibbia”; ovvero, i puritani presero possesso dell’America designandola come testo, poi interpretarono il testo come la profezia di se stessi. Nell’800, la grande pittura americana (il Luminismo) e la grande letteratura, operando nella formula la semplice sostituzione della scrittura con la natura come fonte della profezia (natura e scrittura sono viste come complementari), non fecero che rinforzare degli elementi già più che familiari. Sacvan Bercovitch, parafrasando ed espandendo il portato biblico, scrive che “all’inizio era la parola America e il suo significato sacro era manifesto nella terra vergine e nel ‘Giardino dell’Ovest’ ed anche nelle apparizioni fantasmatiche delle Leaves of Grass (i fili d’erba di Walt Whitman), nei geroglifici della fronte della balena bianca (Moby-Dick di Herman Melville), nella promessa nazionale ambiguamente iscritta nella stella del mattino che brilla sullo stagno di Walden (Thoreau) e nella lettera scarlatta su nel cielo (Hawthorne e la sua Scarlet Letter)”. Per la verità, non ci sarebbe bisogno di scomodare i grandi, nei quali pulsa comunque un notevole senso di avventure pure diverse tra loro, per provare l’immagine che di sé ha avuto la cultura americana: al di là di tutta la diaristica coloniale e puritana esiste lo sterminato corpus delle accumulazioni del folklore e dell’autobiografia western, materiale mitologico primario la cui chiave rimane sempre il tall tale, il racconto orale pieno di smargiassate e di esagerazioni per il quale, paradossalmente, il “meraviglioso” appartiene al racconto, il racconto alla realtà. Ossia, è la complicità tra racconto e ascolto, tra scrittura e lettura (il patto tra autore e lettore, che si fa patto autobiografico nella diaristica), a garantire la credibilità allo straordinario, attraverso una concezione eroica dell’umano: gli uomini della frontiera, come quelli dell’avventura, “possono” davvero miracoli e mirabilie. Naturalmente, se è questa categoria astratta della “pionierità” a garantire volta a volta ogni singola voce che sancisca la naturale vocazione epica e avventurosa del carattere americano, esisterà un debito altrettanto profondo anche nei confronti di uno statuto simbolico dei fatti, delle storie, dei luoghi, degli spostamenti sul territorio. Ciò è particolarmente chiaro nel rapporto/confronto tra uomo e paesaggio: la geografia – già legata, come abbiamo visto, alle “mental maps” e al principio del piacere e del desiderio (quanto alle “sproporzioni” dimensionali, Gaston Bachelard diceva che “il desiderio è la meraviglia in attesa”) – diviene una specie di “scienza del sogno” in cui l’oggettività dell’osservazione, in qualche modo “scientifica”, cede alla soggettività stupita e al suo linguaggio visionario. La parabola narrativa, l’America come discorso, arriva allora a costituirsi come modello, come avventura ripercorribile – magari turisticamente – proprio perché questo è già intaccato dalla sindrome della seconda volta: da un lato, infatti, c’è uno sguardo sul territorio che è un eccesso di percezione stereotipa, dunque alterata, il cui effetto-limite è la ricerca ossessiva di invisibili – perché stavolta non presenti – segni della presenza indiana (cadaveri insanguinati e quant’altro). Dall’altro, c’è spesso un paesaggio pieno, ipercodificato (si veda la visione dall’alto), che ci conferma in realtà una strategia del paesaggio sostanzialmente egocentrica, autodiretta, in funzione dell’eroe e della sua scrittura/narrazione, secondo un sapere, un modello, rispetto al quale la descrizione non è che luogo di riscrittura. Occorre anche registrare una pesante ipoteca romantica nel processo di “pittorializzazione” del paesaggio western, con la compresenza di elementi del misticismo trascendentalista, della cura illuministica per la notazione scientifica, del senso tutto americano del sacro e del meraviglioso. Il sublime, spesso associato a estasi e vertigine, emerge dunque per restituire al Self un’integrità immaginaria che si confronta con il valore morale del paesaggio e ad 8

esso si conforma – un po’ come nelle avventure letterarie. Poi, ancora, troviamo il senso della perfettibilità dell’eroe (insieme con quell’ansietà diffusa e generatrice di violenze nei confronti del “making it”, con un’enfasi costante sul bisogno del “doing it yourself/now”, con un’attenzione continua a doveri, piaceri, benefici, della self-realization), dunque dell’unicità di ogni avventura, evento secondo di strategie di fatalità che fa il paio con quel sottile senso di déjà vu che fa apparire una certa malinconia della perdita (perdita del rapporto con la wilderness), legata a quel fatalismo che ci fa pensare alla nostalgia come misura del tempo americano (quasi un aristocratico esorcismo nei confronti del mondo moderno e della incombente riproducibilità tecnica): la prima (seconda) volta è diversa e ogni volta successiva qualcosa va perduto (come in ogni avventura che si rispetti) – verso l’entropia... Si scopre allora di essere all’interno di un linguaggio altro, di essere parlati da un discorso che trasforma il soggetto e la soggettività in valore e in funzione. Funzione del viaggio mitico, del rapporto con la natura americana, della rappresentazione dell’eroe, funzione del discorso della frontiera. In fondo, si tratta anche del discorso implicito dello spettacolo, della spettacolarizzazione selvaggia che è ai nostri occhi l’America: “the show must go on” comunque e sempre (dannazione e obbligo dell’andare avanti, del going ahead). E’ una cultura dei valori più che delle identità, un’etica del successo che coniuga protagonismo e spettacolo: come contraddire Mark Twain quando si domanda “chi è valoroso senza un pubblico?”. Ovvio che l’avventura ne subisca le conseguenze, oltre ad averne fornito i presupposti e le forme: lo avevamo già detto, l’America, scenario pur grande, non è che una strisciolina di terra tra due oceani e solo qua è possibile pensare di attraversare le montagne e i deserti con le navi (si pensi a Uomo bianco va’ col tuo Dio, Passaggio a nord-ovest, e allo stesso Fitzcarraldo che pure parla dell’America aborigena). Nell’ambito dello spettacolo d’eccellenza – oggi probabilmente il cinema, con tutti i suoi generi e i vari crossovers inter-genere – il discorso della frontiera si estende fino a travalicare i confini terrestri nella fantascienza, si estende macluhaniamente ad altri continenti (l’Africa di Congo e altri film, l’Indocina di molti film recenti, Apocalypse Now in primis), si fa frontiera urbana nel giallo d’azione (l’hardboiled school di Chandler, Hammett ed epigoni) e guerra-fredda combattuta dovunque nella spy story, oppure si restringe fino ai confini del corpo in un altro genere hollywoodiano che oggi va per la maggiore, l’horror. Che l’avventura fornisca allora il macrotesto per il racconto della cultura e della scrittura dell’eccezionalismo americano pare abbastanza evidente. Un’ultimissima, futile, prova che mi pare ottima sintesi nella pervasività del discorso che abbiamo tracciato – se è vero che arriva in forma di pubblicità sulle pagine di un settimanale di larghissima diffusione come il Village Voice – è un annuncio fatto a libro, edito dalla American Library Association.

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La selettività dello sguardo impone delle gerarchie che fanno rivolgere l’attenzione alla figura di Indiana Jones e alla conferma dell’aggancio con il titolo RETURN (scritto con i medesimi caratteri delle locandine del primo film, in attesa dell’annunciato e non ancora uscito seguito, dalla serialità previsto col titolo Il ritorno dei predatori – poi mutato). La scritta intera è “Return the adventure”, rafforzata da un’altra scritta laterale “Share the thrills”: avventura, emozioni, tutte promesse confermate dall’immagine di Indiana Jones tra giungla e deserto, appeso ad una corda ultima via di fuga, minacciato da un cobra pronto all’attacco. L’ultima scritta, “Bring back your library books!” ci impone di rileggere il tutto: il “return the adventure” ci invita in realtà a restituire i libri della biblioteca – gli stessi che, ora lo notiamo bene, Indiana Jones ha sotto il braccio, e che sta portando in salvo – perché anche altri possano condividere con noi le emozioni della lettura (“share the thrills”). Non ci resta che notare come l’avventura promessa si riferisca alla lettura in generale, all’affascinante avventura della lettura. Il tutto unito all’invito al viaggio, altrettanto avventuroso, verso la biblioteca: “Looking for the library? Then follow this sign. It’s the new national library symbol. Use your library” – e non manca neppure un accenno all’identità nazionale o quantomeno ad una ricerca di essa. Abboccherà il lettore?

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