L\'azzardo della bellezza. Paulo Mendes da Rocha riconfigura la Praça do Patriarca a São Paulo

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Lʼazzardo della bellezza. Paulo Mendes da Rocha riconfigura la Praça do Patriarca a São Paulo Daniele Pisani

Vincendo non ancora trentenne il concorso per il palazzo sportivo del Clube Atlético Paulistano a São Paulo (1958) e, in virtù di questa opera straordinaria, il grande premio alla Biennale di São Paulo (1961), Paulo Mendes da Rocha si era imposto ancora giovanissimo come una figura di spicco sulla scena architettonica nazionale. A limitarne ben presto l’ascesa era però intervenuto il colpo di stato militare, avvenuto nel 1964, con i provvedimenti ad personam adottati nel 1969 e la progressiva marginalizzazione – non però l’inattività – a cui veniva condannato. Non deve quindi stupire se occorre attendere la caduta del regime per vedere interrotta tale marginalizzazione. A sancire quanto siano mutate le condizioni, nel 1986, è ancora una volta la vittoria di un concorso, questa volta per il Museu Brasileiro da Escultura (MuBE). Ed è proprio grazie al MuBE, e a una serie di altre opere coeve tutte di notevole livello, che nei primi anni novanta, ormai a oltre sessanta anni di età, Mendes da Rocha ha la possibilità di mettere mano ad alcuni dei nodi nevralgici di São Paulo, ossia di realizzare alcuni tasselli di quella «città per tutti» che sta in cima alle sue aspirazioni. Il sito, l’intervento proposto e quello realizzato Il primo di questi incarichi data al 1992 e concerne la risistemazione della Praça do Patriarca e del Viaduto do Chá. In breve volgere di tempo seguiranno poi gli incarichi di restaurare la Pinacoteca do Estado e di ricavare un centro culturale nella sede della Federação das Indú-

strias do Estado de São Paulo (FIESP)1. La Praça do Patriarca è ubicata sul limitare del cosiddetto «triangolo», un’area sopraelevata e delimitata dai corsi di un articolato sistema idrico che, per secoli, limitò l’espansione dell’edificato della piccola e marginale São Paulo de Piratininga. Solo a fine Ottocento, quando sull’onda della produzione e dell’esportazione del caffè la città si trovò catapultata nel mercato globale e cominciò un processo di crescita a lungo irrefrenabile, il perimetro del primo insediamento venne intaccato e quindi sfondato. La città cominciò a scavalcare le vallate che facevano da limite naturale al «triangolo» e ad espandersi a macchia d’olio. Grazie a due viadotti in particolare, il Viaduto do Chá e il Viaduto Santa Ifigênia, venne oltrepassato il Rio Anhangabaú in direzione della futura Praça da República, ossia di quello che, nei decenni successivi, avrebbe costituito il «centro nuovo». Del Viaduto do Chá, la Praça do Patriarca costituisce una sorta di imboccatura. Essa dunque ancora appartiene al centro vecchio, ma già si protende verso quello nuovo; ed è proprio dal centro della piazza che si ha accesso a una galleria, che funge al tempo stesso da elemento di collegamento con il fondovalle. Grazie alla sua ubicazione, la Praça può, in altri termini, svolgere una precisa funzione infrastrutturale. Eppure, in seguito alla trasformazione della valle di Anhangabaú, che sino ad allora aveva accolto arterie a rapido scorrimento, in un parco pedonale, la galleria aveva perso la sua funzione di snodo tra il luogo di transito dei mezzi pubblici e il centro storico, mentre la piazza era stata adibita a fermata degli autobus. Nella rotatoria era stato costruito un riparo; la galleria era cadu-

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1/ Paulo Mendes da Rocha e João Eduardo De Gennaro, Clube Atlético Paulistano, São Paulo, 1958-1961 (Archivio Mendes da Rocha).

2/ Praça do Patriarca. Cartolina postale, 1927 circa.

ta in disuso. Inondata quotidianamente da un traffico sproporzionato rispetto alle sue esigue dimensioni, la Praça do Patriarca era uno degli innumerevoli snodi senza qualità di una grande città come São Paulo. È rispetto a questa situazione che Mendes da Rocha è chiamato ad avanzare un’articolata serie di proposte: nel testo che acclude al progetto, egli non a caso suggerisce di integrare l’intervento strettamente architettonico con il restauro dell’antica pavimentazione a mosaici portoghesi della piazza, lo spostamento della scultura del «patriarca dell’indipendenza» José Bonifacio, il

3/ Jean Baptiste Debret, Viaduto de Santa Ifigênia, 1827.

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4/ Veduta del Viaduto do Chá e del Parque Anhangabaú, 1938 circa.

5/ Paulo Mendes da Rocha e collaboratori, Risistemazione di Praça do Patriarca e del Viaduto do Chá, São Paulo, 19922002. Schizzo della sezione del previsto intervento di riconfigurazione del Viaduto do Chá (Archivio Mendes da Rocha).

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6/ Risistemazione di Praça do Patriarca e del Viaduto do Chá. Schizzo della vela inserita nella piazza (Archivio Mendes da Rocha).

restauro delle facciate degli edifici prospicienti, la predisposizione di un arredo urbano e di un’illuminazione adeguati e soprattutto la dislocazione delle fermate degli autobus sul viadotto, da trasformare mediante l’introduzione di una copertura atta a proteggere i cittadini dalle intemperie. Non più propaggine del sistema viario, la piazza è così destinata a venire inglobata nell’isola pedonale che caratterizza il vecchio centro. Se intento di Paulo Mendes è di restituire la Praça do Patriarca alla città, lo è pure di sfruttare l’opportunità di mettere mano a un nodo così decisivo per operare sulla connessione tra nuovo e vecchio centro: non a caso, il progetto lavora magistralmente a scale diverse, da quella umana sino a quella propriamente metropolitana2. La sua qualità scultorea non deve infatti far dimenticare che la vela d’acciaio su cui esso

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s’impernia configura un’opera capace di adempiere con un unico gesto a funzioni plurime e in primo luogo urbane. Vi è una tavola di progetto emblematica a tale riguardo: una planimetria in cui gli interventi previsti sono collocati nell’intorno, di cui vengono evidenziate all’interno di un tessuto neutrale le emergenze principali (tra cui il grattacielo Moreira Salles di SOM, la chiesa di Santo Antônio nella Praça, l’Edifício Conde de Prates di Giancarlo Palanti e l’Edifício Matarazzo di Marcello Piacentini a poche decine di metri, e al di là del Viaduto do Chá il Theatro Municipal di Ramos de Azevedo), e da cui trapela fiducia nella capacità dell’architettura di irradiare sulla città il proprio ordine. Sotto tale profilo, l’intervento in Praça do Patriarca costituisce anzi una sorta di professione di fede. Lo strano artefatto che Paulo Mendes mette a punto è di dimensioni ridotte, e tanto più se lo si confronta con gli edifici contigui. Per chi provenga dal Viaduto do Chá risulta però visibile da grande distanza; e, il Moreira Salles a farne da sfondo, tende ad appiattirsi e a ridursi a segno, configurandosi come una «porta di accesso – così Mendes da Rocha – per quella parte della città in cui si sta entrando»3. La vela è in effetti collocata sulla soglia tra centro vecchio e nuovo, tra isola pedonale e traffico automobilistico. E dal centro nuovo, ossia dal Viaduto do Chá, l’artefatto si confronta in primo luogo con la scala degli edifici, alcuni dei quali alti, tra cui è incastonato, e viene a costituire una sorta di cannocchiale che dalla scala metropolitana stringe

7/ Risistemazione di Praça do Patriarca e del Viaduto do Chá. Schizzo della sezione della vela, che fa da copertura a una preesistente galleria che conduce a fondovalle (Archivio Mendes da Rocha).

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8/ Risistemazione di Praça do Patriarca e del Viaduto do Chá. Pianta dell’intorno urbano.

9/ La vela dal Viaduto do Chá (foto Leonardo Finotti).

prima a quella urbana – grazie al portale – e quindi a quella umana – grazie alla vela, che sul lato verso il viadotto si abbassa sino a una quota di solo poco più di due metri. La veduta dal Viaduto do Chá è però solo una

delle possibili; ed è proprio osservando l’artefatto da altre prospettive che è dato di coglierne la versatilità e la complessità. Arrivando in piazza dalle viuzze del centro vecchio, portale e vela si colgono di scorcio, frantumati ed enigmatici. La

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10/ La vela dal fondo di Praça do Patriarca in direzione del Viaduto do Chá (foto Leonardo Finotti).

vela, su questo fronte, si abbassa assai di meno che su quello opposto, e in tal modo, anziché configurarsi come un’immagine chiusa e compatta, definisce uno spazio, la cui lieve compressione al di sotto della vela pare sia voler suggerire la possibilità di accedere alla galleria, che preludere alla marcata espansione che si prepara in direzione del viadotto – il bordo della vela inferiore che viene a fungere da «cornice che segnala il passaggio agli spazi aperti, alle visuali sull’altro lato della città»4. Come nei migliori progetti di Mendes da Rocha, non si saprebbe però dire quanto la soluzione escogitata sia il frutto di intenti programmatici, di ragioni tecniche o – come in questo caso – di considerazioni di ordine urbano. Innegabile è che essa soddisfa al tempo stesso gli uni come le altre e che sembra, anzi, appositamente concepita a tal fine. Il fatto che la vela si abbassi sul fronte verso la vallata, ad esempio, ha tra le proprie motivazioni anche l’esigenza di offrire ai venti che ne salgono una superficie ridotta5. Lo stesso abbassamento che svolgeva un ruolo fondamentale nel consentire all’opera di rivolgere fronti diversi a parti di città diverse costituisce una soluzione tecnicamente vantaggiosa. La conformazione della vela presenta la medesima capacità di soddisfare preoccupazioni di natura diversa. Julio Fruchtengarten, uno degli

ingegneri chiamati a collaborare al progetto, ha spiegato come – fissata tramite due cerniere alla trave a sezione triangolare – essa sia concepita, sotto il profilo strutturale, come l’ala di un aereo, con due lamine tra cui corre un’orditura di nervature6. Con il rimando all’aereo, Mendes da Rocha ribadisce una sua convinzione, quella secondo cui le «virtù della tecnica sono in fondo virtù della natura […] che non esistono in natura. Siamo noi che rubiamo virtù alla natura»7. Se vogliamo davvero capire a cosa Mendes da Rocha alluda con tale affermazione, quale sia la posta in palio del furto agli dei compiuto dal novello Prometeo e come questo esso abbia a che fare con il progetto in esame, dobbiamo però allargare il campo d’indagine. La città dell’architetto, la città della committenza, la città Abbiamo sinora considerato la Praça do Patriarca dal punto di vista della sua ubicazione e il progetto di Mendes da Rocha dal punto di vista della relazione che intende stabilire con il suo complesso intorno urbano, come se la città fosse non anche ma solo paesaggio. Così non è, naturalmente. Ed anzi è proprio la concreta città di São Paulo, di vent’anni fa come di oggi, a giustificare l’intervento compiuto e al contempo a saggiarne i limiti.

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11-15/ Risistemazione di Praça do Patriarca e del Viaduto do Chá. Progetti preliminari (Archivio Mendes da Rocha).

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Agli occhi di Mendes da Rocha, anzi, São Paulo si rivela oggi priva delle prerogative di una vera e propria «città». Se egli cita così spesso una considerazione di Walter Benjamin («In nessun luogo Mosca pare essere la città stessa; ne sembra piuttosto la periferia»), è perché l’intento che attraversa come un filo rosso la sua opera, e che nell’intervento di Praça do Patriarca trova una delle attuazioni principali, consiste nel fare di São Paulo una città. E se il progetto per la Praça do Patriarca ha un intento programmatico, questo consiste nel dotare il centro della capitale paulista di uno spazio pubblico. Vista la logica della segregazione oggi vigente in città e la situazione in cui versa il centro, si tratta di un atto decisamente contro tendenza. Il «miracolo economico» degli anni settanta, sotto la dittatura militare, era infatti stato pagato a un prezzo assai caro: una distribuzione della ricchezza sempre più diseguale. Le conseguenze si erano fatte sentire anche nel volto delle città brasiliane: una fetta sempre più consistente della popolazione si era trovata costretta a vivere in residenze informali. Tra la metà degli anni settanta e degli anni ottanta, sia il numero delle abitazioni di fortuna a São Paulo che della popolazione che vi risiedeva risultava infatti essersi decuplicato; alla fine di questo processo, nel 1987, il 55% della popolazione urbana di São Paulo abitava in cortiços o in favelas, con un 70% dell’edificazione ormai prodotto dell’autocostruzione. Non meno ragguardevole era stata la crescita della violenza: tra il 1978 e il 1994 il numero degli assassini registrati nella regione metropolitana di São Paulo era cresciuto del 356% e nel 1994 l’assassinio costituisce anzi la principale causa di morte dei cittadini tra i 20 e i 49 anni (20%) e ancor più tra i 15 e i 24 (44%)8. È quindi del 1995 la relazione della Banca Mondiale secondo cui il Brasile è il paese con «la maggior disparità sociale e di reddito del mondo». Ciò che questi numeri non dicono è che, nello stesso arco di tempo, era andato in crisi anche il modello spaziale di segregazione implicito a São Paulo, che vedeva i quartieri centrali appannaggio dei ceti più ricchi. Avevano iniziato a sorgere i primi condomínios fechados, enclaves murate e protette in cui, sospinta dalla paura e dalla paranoia della violenza urbana, aveva mano a mano iniziato a trasferirsi la fetta più ricca della popolazione, che aveva sino allora abitato in centro o nei suoi dintorni9. Il nuovo modello di segregazione che caratterizza lo svi-

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luppo della città nell’ultimo trentennio ha quindi portato (e ancora porta) con sé sia la creazione di universi ermeticamente separati in alcune zone periferiche, per il resto sempre più degradate, che la trasformazione del centro in una zona anch’essa degradata. Tra le conseguenze che questo processo comporta, vi è una drastica ritirata degli «spazi pubblici»: sempre di meno e sempre meno «di tutti», perché chi può ne fugge. L’intervento di Praça do Patriarca va stagliato su questo sfondo. Mendes da Rocha, sulla scorta della convinzione che «L’ideale dell’architetto contemporaneo è la città per tutti»10, è incaricato di agire su di uno spazio pubblico di quella che è stata definita la «città dei muri». La sua opera non potrà non avere qualcosa al tempo stesso di polemico e di dimostrativo. Ma prima di occuparsi di questo, occorre focalizzare un ulteriore, determinante fattore. La riconfigurazione di Praça do Patriarca è frutto della commissione di un operatore pubblico, la Empresa Municipal de Urbanização (Emurb), con fondi privati come quelli dell’Associação Viva o Centro, intorno a cui si raccoglie una fetta dell’élite paulista, finanziata da banche (BankBoston, Bolsa de Mercadorias & Futuros, Banco Itaú, Unibanco, Banespa, Eletropaulo, Banco Santander, Banco-Cidade, Nossa Caixa Nosso Banco, Procter & Gamble…11) e composta da imprenditori, banchieri e cittadini abbienti residenti in centro al fine di promuovere interventi finalizzati a valorizzare i propri immobili. È questo il quadro in cui s’inserisce il progetto di Paulo Mendes per la Praça do Patriarca. Del resto, un’associazione come Viva o Centro è tra le poche ad avere sia l’interesse a recuperare parti del centro storico che i mezzi per farlo. Sotto questo profilo, visto il ruolo centrale che assegna alla città come luogo della socialità, Mendes da Rocha non può che trovarvi degli alleati. Non ci si dovrà però poi stupire se l’intento di restituire gli spazi urbani a un uso pubblico nasconda, nei diversi operatori, radicali diversità di vedute: per l’architetto si tratta di un atto dovuto, da compiere per principio e senza secondi fini («ci si deve sempre chiedere: perché trasformare? Perché lo spazio riviva e sia frequentato dal popolo»12), mentre per Viva o Centro si tratta di un investimento, per cui può eventualmente rivelarsi necessario liberare il luogo dagli indesiderati, riproponendo nel cuore del centro la stessa logica di segregazione ormai imperante nei condomínios fechados.

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16/ La vela in un giorno lavorativo (foto Leonardo Finotti).

Un gesto consapevolmente azzardato La riqualificazione della Praça do Patriarca si gioca, insomma, su di un filo sottilissimo. Il progetto si fa carico di un’ambizione che la difformità di vedute tra Mendes da Rocha e la committenza non fa che rendere più azzardata: «È arrivato il momento di tentare di smontare questo disastro, mostrando alle persone che l’architettura non serve solo a costruire palazzi, ma a trasformare e perfezionare la geografia delle città»13. E per quanto sia arduo trasformare tale geografia agendo solo per punti, un singolo progetto può però essere espressione di un paradigma universale: può, in altri termini, fungere da esempio, da modello. Questo, almeno, è l’intento che Mendes da Rocha assegna alla vela di Praça do Patriarca: alla base del suo progetto, ha affermato, sta «un’idea di azioni esemplari» che propongono alternative al «disastro» e alla «decadenza» che imperano in città, pur ben sapendo che non è grazie a interventi eccezionali che si può davvero riuscire a cambiarne le sorti14. Di qui il ricorso alle facoltà comunicative dell’architettura che Paulo Mendes compie in questo progetto: si tratterebbe addirittura, a suo dire, di compiere «un ripristino creativo del valore simbolico dell’architettura», facendo «affidamento […] sul potere comunicativo delle forme»15. Di

qui il ricorso alla «bellezza», forse più disperato di quanto non sembri16. Troppo spesso sembra infatti essere sfuggito come la bellezza della vela e la sua forza iconica si debbano alla consapevolezza da parte del suo autore che l’unico modo per affrontare la sfida con qualche possibilità di successo consista – sono le sue parole – nel compiere un «azzardo»17. A fondamento del progetto in esame sta, del resto, il senso di urgenza che proviene dall’angoscia di chi osserva i propri concittadini precipitarsi lungo la rotta del disastro: «Dobbiamo necessariamente invertire la rotta del disastro. Non è il caso di chiedere se è possibile. Deve esserlo, altrimenti siamo fritti»18. La vela di Praça do Patriarca, in fondo, con la sua aspirazione a ricucire una trama di relazioni urbane e con il suo disperato ricorso alla bellezza, costituisce davvero un emblema della tarda opera di Mendes da Rocha. Tanto più è disperata la situazione, quanto più si tratta di rimboccarsi le maniche. È così che si spiega l’allusione di cui sopra al mito di Prometeo. Non ci resta – sembra dirci l’architetto – che tentare di trarre frutto dalla capacità umana di volgere a proprio vantaggio la natura, naturalmente attraverso la tecnica, per un obiettivo preciso: prendere ancora una volta parte alla messa a punto della nostra città. Di qui, come si è detto, il carattere iconico del

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progetto. Di qui, probabilmente, l’incertezza dell’iter progettuale, testimoniata dalla presenza di numerose soluzioni preliminari (due di esse prevedevano di reggere la copertura, in un caso piana e nell’altro curva, appendendola grazie a due coppie di tiranti a un’unica trave; un’altra mostrava una copertura curva appoggiata su di una trave; un’altra ancora suggeriva di occupare gran parte della piazza con una grande trave memore di quella del MuBE; un’ulteriore soluzione, sviluppata più dettagliatamente, prevedeva la realizzazione di una copertura in acciaio e vetro ad andamento spezzato, come per accompagnare i pedoni nella discesa nella galleria) e da una conquista faticosa e paziente di una soluzione nitida come quella messa in opera. E di qui, per contro, l’intenzionale «apertura» che caratterizza gli usi proposti e consentiti da quest’ultima: giacché «l’architettura è fatta di progetti dell’imprevedibilità della vita. Ciò che progetta tale imprevedibilità è una costruzione nitida e rigorosamente tecnica, che però non determina modo, mezzo, fine e programma. Sollecita l’indeterminatezza, l’imponderabilità della libertà individuale»19. È facendo un passo indietro che l’architettura può farsi ricettacolo di eventi. Perché la «prevedibilità dell’oggetto» – il suo nitore e il rigore – altro non è che la premessa a ciò che fa di un luogo urbano qualsiasi uno spazio pubblico, ossia all’«imprevedibilità della vita».

Note Per una bibliografia su queste opere, rimando al sesto capitolo della mia monografia sull’architetto. Si noti come siano proprio questi gli anni in cui Mendes da Rocha comincia a ottenere i dovuti riconoscimenti, con la conquista del premio Mies van der Rohe per l’architettura latino-americana (2000), gli inviti a Documenta (1997) e alla Biennale di Venezia (2000) e la pubblicazione delle prime monografie a lui dedicate. Nel 2006 arriverà poi il Pritzker. 2 «In questo artefatto architettonico si deve tentare di parlare della contraddizione tra la scala della “città vecchia” e quella della valle di Anhangabaú», tali le parole della Memória descritiva del progetto datata 23 agosto 1992, che si trova, dattiloscritta e appuntata dall’autore, nel suo archivio privato. 3 Così la già citata Memória descritiva del 23 agosto 1992. 4 Ibidem. 5 Da una conversazione con l’autore del 5 maggio 2009. 1

Cfr. I. GABRIEL, Marco no centro paulistano, in «Arquitetura & Aço» n. 14, giugno 2008, p. 25. Alcuni anni più tardi è su di una vela a prima vista analoga, anche se dal comportamento statico diverso, che si incentra il progetto inedito per la riconfigurazione della sede paulista della TV Globo. 7 P. MENDES DA ROCHA, Encontro das Âguas, in «Carta Capital», 29 marzo 2000, p. 69 e P. MENDES DA ROCHA, Cultura e natureza (intervista di L. Espallargas Gimenez), in H. PIÑÓN, Paulo Mendes da Rocha, Edicions UPC e R. Guerra, Barcelona e São Paulo, 2002, p. 34. 8 Cfr. M. SANTOS, Metrópole corporativa fragmentada, EDUSP, São Paulo, 2009, pp. 43 sgg.; T. PIRES DO RIO CALDEIRA, Cidade de muros. Crime, Segregação e Cidadania em São Paulo, 34/Edusp, São Paulo, 2008, pp. 111 sgg. 9 Cfr. P. MENDES DA ROCHA, Arte objetiva. O arquiteto Paulo Mendes da Rocha fala de seus sonhos e projetos (intervista di M. De Souza), in «Problemas brasileiros» n. 341, settembre/ottobre 2000, p. 29. 10 P. MENDES DA ROCHA, “Engenharia é arquitetura, e arquitetura é pura engenharia”, in «Conselho em Revista» n. III, 28, dicembre 2006, p. 6. 11 Cfr. M. BALBI, A cidade busca sua identidade, in «Vogue» n. 260, gennaio 2000, pp. 15-17. 12 P. MENDES DA ROCHA, Cidade Nova (intervista di F. Oliva), in «Bravo!» n. IX, maggio 2006, p. 51. 13 P. MENDES DA ROCHA, Longe dos corações das cidades. A especulação imobiliária empurra os pobres para a periferia, in «Istoé» n. 1595, 26 aprile 2000, p. 44. 14 Così Mendes da Rocha in alcuni appunti manoscritti, datati 10 novembre 1992, contenuti nel suo archivio privato. «Non si riesce a correggere una città, ma si riesce sempre a dire a suo riguardo qualcosa che non sia passivo», P. MENDES DA ROCHA, Tentamos sempre preservar a integridade do projeto, enfrentando a vertigem do mercado, in «Projeto Design» n. 275, gennaio 2003, p. 7. «Pertanto ci demoralizzano quando ci chiamano a risolvere problemi che non possiamo risolvere e che sappiamo che non si risolvono con un ulteriore museo, un ulteriore teatro; la città non è fatta solo di questo […]. La città è monumentale in sé e non è fatta di monumenti», P. MENDES DA ROCHA, A cidade enquanto liberdade, in Corredor das Humanas. A poesia que poderia ter sido e que não foi, GFAU, São Paulo, 2009, p. 23. 15 Così Mendes da Rocha nei già citati appunti del 10 novembre 1992. 16 «Che la paura e lo spavento non ci demoralizzino, che non ci facciano nazisti ma, al contrario, supremi umanisti […]. Un’allegria tragica? Certo, ma allegria. Non c’è nulla da temere», P. MENDES DA ROCHA, Depoimento, in L. A. JORGE, O espaço seco: imagens e poéticas da arquitetura na América, tesi di dottorato, FAUUSP, São Paulo, 1999, p. 228. 17 P. MENDES DA ROCHA, Tentamos sempre, op. cit., pp. 910. 18 P. MENDES DA ROCHA, Cidade Nova, op. cit., p. 52. 19 P. MENDES DA ROCHA, A cidade para todos, in R. ARTIGAS (a cura di), Paulo Mendes da Rocha: projetos 19571999, Cosac Naify, São Paulo, 2000, pp. 171-172. 6

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