Lectura Dantis: Inferno, Canto V.

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Alfonso Russo – Lectura Dantis: Inferno, Canto V

LECTURA DANTIS: INFERNO, CANTO V

Alfonso Russo

Per i riferimenti bibliografici e per la parafrasi delle terzine proposte in questo lavoro, ove non diversamente specificato, si faccia riferimento al Commento alla Divina Commedia di Natalino Sapegno.

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I protagonisti del canto V dell'Inferno sono coloro che “la ragion sommettono al talento” (v. 39), ovvero i lussuriosi. La lussuria1 nell'immaginario medievale profondamente influenzato dalla cultura cristiana, è stata sempre percepita come uno dei maggiori deterrenti al raggiungimento della perfezione spirituale, tanto da ritenere che solo il matrimonio fosse in grado di contenere e ridurre il rischio di fornicazione, garantendo il soddisfacimento delle sensazioni concupiscenti dei coniugi 2. Ed infatti “gli atti con i quali i coniugi si uniscono in casta intimità, sono onorabili e degni e, se compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano, e arricchiscono vicendevolmente in gioiose gratitudini gli sposi”3. La centralità del matrimonio per la cultura cristiana è evidente e nel Canto V appare chiaro come agli occhi del Sommo poeta la violazione del dovere cristiano del matrimonio apra, senza possibilità di redenzione, le porte dell'Inferno. L'istituzione matrimoniale come sacramento fu codificata dalle autorità ecclesiastiche durante il Concilio Lateranense IV del 1215. Per la prima volta, la massima autorità ecclesiastica proibì ai sacerdoti di assistere alle celebrazioni di matrimoni clandestini: la celebrazione doveva essere preceduta dalle pubblicazioni, per consentire a chiunque di opporre legittimo impedimento ad essa.4 Si abbandonava, così, la sfera privata – il 1 Dal latino luxuria, da Luxus, esuberanza di vegetazione e quindi in senso lato, esuberanza di appetiti sessuali e superfluità di cose deliziose. 2 Casagrande, Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, p. 172. 3 Concilio Vaticano II, GS 49 4 “Unde praedecessorum nostrorum inhaerendo vestigiis, clandestina coniugia penitus inhibemus, prohibentes etiamo ne quis sacerdos talibus interesse praesumat. Quare specialem quorundam locorum consuetudinem ad alia generaliter prorogando, statuimus ut cum matrimonia fuerint contrahenda, in ecclesiis per presbyterios publice proponantur, competenti termino praefinito, ut infra illum qui voluerit legitimum impedimentum opponat” in G. Kadzioch Il ministro del sacramento del

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matrimonio, fino ad allora, era considerato un semplice contratto tra due soggetti - per entrare nella sfera di interesse pubblico e pertanto la volontà di essere coniugi doveva portare con sé anche carichi spirituali. Ed è dunque sulla violazione del rapporto coniugale che il Canto V, di cui qui si propone una lettura in parafrasi per terzine, raggiunge i suoi massimi vertici emozionali. Così discesi dal cerchio primaio giù nel secondo, che men luogo cinghia, e tanto più dolor, che punge a guaio [vv. 1-3] Dante ha lasciato il Limbo (cerchio primaio) e si sta dirigendo verso il secondo. Il Sommo poeta si muove in uno spazio più ristretto di prima (facendoci dunque intuire la struttura dell'Inferno, a forma di cono), ma dove i peccati e, conseguentemente, le pene risultano essere più tormentose (che punge a guaio). Il lettore, dunque, per la prima volta può rendersi conto di come la gravità dei peccati e la misura delle pene ad essi collegati crescano proporzionalmente all'avvicinarsi al centro dell'Inferno. Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe nell'entrata; giudica e manda secondo ch'avvinghia. [vv. 4-6]

matrimonio nella tradizione e nel diritto canonico latino e orientale, Roma 1997, p. 58.

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L'incontro con Minosse, mitico re di Creta e la cui funzione di giudice infernale era già stata descritta da Virgilio 5 è di forte impatto sia linguistico che scenico. Sul primo piano è stato già ampiamente analizzato come l'utilizzo del verbo stare nella forma del raddoppiamento dell'enclitica (stavvi), unito all'avverbio orribilmente rendano bene l'idea dell'orrore della figura6. A completamento di tale analisi appare interessante osservare come l'utilizzo del verbo ringhia, caratterizzato dal suono duro del gruppo gutturale gh e dalla forte connotazione onomatopeica, unito in rima con avvinghia, che si contraddistingue anch'esso per l'utilizzo del gruppo gh, cosituiscano ulteriori suggerimenti utili a delineare la figura di Minosse. Il piano linguistico è poi completato dal piano scenico. Minosse sta' in tutta la sua imponenza: esamina le colpe delle anime che a lui si presentano, le giudica e indica loro in quale cerchio recarsi, nel modo anticipato dal verbo avvinghia e che più oltre l'Autore spiegherà, in base al peccato o ai peccati commessi. Dico che quando l'anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor delle peccata vede qual luogo d'inferno è da essa; cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che giù sia messa [vv. 7-12] In queste due terzine inscindibili, l'Autore spiega in modo più chiaro (Dico che) quale sia il ruolo di Minosse. Le anime mal nate, ovvero dannate, che si 5 Aen, VI, 432-433 6 A. Pagliaro, Il Canto V dell'Inferno, Roma 1952, p. 3.

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presentano dinanzi a lui, non possono far altro che confessare i loro peccati e Minosse, in virtù di massimo conoscitore dei peccati umani, decide a quale cerchio infernale assegnare quell'anima e, quindi, quale pena essa debba scontare. Egli indica il cerchio in base ai giri che la sua coda compie attorno al suo corpo: tanti sono i giri, quanti sono i gradi che l'anima dovrà percorrere. La critica si è molto divisa sull'atto del cignersi, ritenendo che non si dovesse pensare ad una coda di spropositate dimensioni, quanto piuttosto all'atto del cingersi. Chi scrive propende per una lettura differente della figura descritta da Dante. La dimensione spropositata della coda sembra adattarsi all'immagine che l'Autore ha sinora proposto di Minosse: l'imponenza, il tono minaccioso e quella coda, la cui funzione non può non essere accompagnata da un aspetto non meno terrificante, completano il quadro di una vera e propria figura infernale. Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: vanno a vicenda ciascuna al giudizio; dicono e odono, e poi son giù volte. [vv. 13-15] In poche parole Dante condensa il grande caos di anime che si presentano dinanzi a Minosse. Esse giungono, confessano le peccata e poi ascoltano il verdetto. Ci sembra il caso di soffermarci su odono. Nei versi precedente il Sommo aveva descritto come Minosse indicasse alle anime il cerchio di propria spettanza semplicemente attorcigliando la propria coda; qui, invece, sembrerebbe che Minosse comunichi la propria decisione anche con la voce. Ebbene chi scrive ritiene che quell'odono non si riferisca alla “sentenza” di 5

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Minosse, ma solo ai versi infernali della creatura (cfr. 'ringhia', v. 4) che comunica il grado di appartenenza dell'anima che gli si para davanti solo con il movimento della coda. O tu che vieni al doloroso ospizio, disse Minòs a me quando mi vide, lasciando l'atto di cotanto offizio guarda com'entri e di cui tu ti fide: non ti inganni l'ampiezza dell'entrare! [vv. 16-20] La presenza di Dante interrompe Minosse distogliendolo dal suo lavoro (cotanto offizio, l'uso di cotanto sottolinea l'importanza e la solennità del ruolo di Minosse). Egli si rivolge a Dante ammonendolo di prestare attenzione alle anime che incontrerà e a guardarsi bene dalle parole che ascolterà: l'esser riusciti ad accedere all'Inferno senza ostacoli, potrebbe rappresentare un inganno7. E 'l duca mio a lui: Perchè pur gride? Non impedir lo suo fatale andare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare. [vv. 21-24] Virgilio8 interviene bruscamente, infastidito dal tono (Perchè pur gride) e 7 Matth, 7,13 – Spatiosa via est quae ducit ad perditionem. In N. Sapegno, op cit. p. 56. 8 E' il duca, dal latino dux, condottiero.

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dalle parole di Minosse. Il viaggio di Dante è voluto dall'alto (vuolsi così, colà dove si puote) e non solo niente e nessuno potrà contrastare questa volontà, ma soprattutto né lui, né Dante sono tenuti a dare a lui alcuna spiegazione (e più non dimandare). Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote. [vv. 25-27] Questa terzina ha funzione introduttiva per la descrizione che Dante fornirà dopo. Si nota subito una modifica del ritmo: l'enjambement che spezza la continuità sintattica (le dolenti note/a farmisi sentire), riduce il tempo serrato delle terzine precedenti, quasi a voler fungere da sottofondo musicale della desolazione e disperazione del luogo (là dove molto pianto mi percuote). Io venni in luogo d'ogne luce muto, che mugghia come mar fa per tempesta, se da contrari venti è combattuto. La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina: voltando e percotendo li molesta. Quando giungon davanti alla ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtù divina. 7

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[vv. 28-36] In questo gruppo di terzine, il Poeta fornisce una visione d'insieme sia del luogo in cui si trova, sia della pena a cui le anime di questo cerchio sono condannate. Dante i trova in un luogo buio, dove non c'è luce; si odono solo rumori cupi e prolungati9, tipici di un mare in tempesta. Questa bufera solleva le anime, le percuote e le sbatte da un punto all'altro del luogo infernale, fino a condurli alla ruina (interpretata da alcuni come il punto di partenza della bufera infernale, da altri – e noi concordiamo - come il punto dove le rocce sono più scoscese e da cui sono state spinte giù da Minosse): lì, in un climax emozionale, gridano, si disperano e si lamentano, fino a bestemmiare la virtù divina. Intesi ch'a così fatto tormento enno dannati i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento [vv. 37-39] In questa terzina Dante rivela quali siano le caratteristiche dei peccatori puniti in questo cerchio: essi consentono al piacere, alla passione, all'appetito, di prevalere sulla ragione, sul senno. Il termine talento, dunque, in parte rimanda al suo significato di dote, tratto dal Vangelo, ovvero di doni dati da Dio all'uomo10 e per estensione con il provenzale talenz che allude invece alle migliori qualità dell'intelletto, per metafora si giunge al senso che qui ed in altri passi della Commedia, Dante intende: la voglia, il desiderio. 9 Mugghia, dal latino mugilare e quindi dalla forma verbale toscana mugliare, emettere muggiti. Anche qui, il gruppo fonetico gh unito al significato onomatopeico del verbo, contribuiscono a rendere l'idea del rumore cupo udito da Dante. 10 Mt, 25

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Da notare altresì come in questo cerchio vi sia posto solo per i peccator carnali; la lussuria è un peccato che si associa esclusivamente a quello dei piaceri della carne. E come li stornei ne portan l'ali nel freddo tempo a schiera larga e piena, così quel fiato li spiriti mali di qua, di là, di giù, di su, li mena; nulla speranza li conforta mai non che di posa, ma di minor pena. [vv. 40-45] Sono molti i passi in cui Dante per rendere al lettore l'idea di ciò che sta osservando, utilizza l'artificio della metafora. In questo, l'Autore descrive come il vento infernale (quel fiato, dove “quel” è appunto da intendere in senso dispregiativo) travolga, devasti e, come un uragano, muova con vigore le anime dannate da un punto all'altro del cerchio infernale tanto che esse non solo non possano sperare che questa furia si plachi, ma nemmeno che la punizione a cui sono sottoposte sia meno dura. E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di sé lunga riga, così vidi venir, traendo guai, ombre portate dalla detta briga: per ch'i dissi: - Maestro, chi son quelle genti che l'aura nera sì gastiga?

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[vv. 46-51] Secondo molti, in questa seconda metafora Dante allude ad un'altra schiera di dannati che, in fila, lamenta i propri peccati ricordando il lamentoso verso dei gru11. Egli dunque, chiede a Virgilio di indicargli chi essi siano. La prima di color di cui novelle tu vuo' saper – mi disse quelli allotta, fu imperadrice di molte favelle. A vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fe' licito in sua legge per torre il biasmo in che era condotta. Ell'è Semiramìs, di cui si legge che succedette a Nino e fu sua sposa: tenne la terra che 'l Soldan corregge. [vv. 52-60] Semiramide è il primo personaggio che i due visitatori incontrano in questo cerchio. Regina degli Assiri e conquistatrice di tutta l'Asia (fu imperadrice di molte favelle, cioè di gente che parlava molte lingue), era presentata dagli scrittori medievali come simbolo di lussuria, tanto che tale comportamento era ormai diventata la norma a corte (libito fe' licito in sua legge). Semiramide rese leciti tali comportamenti al solo fine di cancellare il sentimento di disapprovazione morale verso i suoi atti. Ella governò, tra gli altri territori, anche l'Egitto (la terra che 'l Soldn corregge). 11 Gru cenerina, specie di uccello diffuso nell'Europa settentrionale e nell'Asia occidentale.

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L'altra è colei che s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo; poi è Cleopatràs lussuriosa. Elena vedi, per cui tanto reo tempo si volse, e vedi il grande Achille, che con amore al fine combattéo. Vedi Parìs, Tristano; e più di mille ombre mostrommi, e nominommi, a dito ch'amor di nostra vita dipartille. [vv. 61-69] In questo gruppo di terzine si susseguono altri personaggi puniti per i loro comportamenti; ciò che maggiormente colpisce è che, come si vedrà più avanti nel passo di Paolo e Francesca dove il Canto raggiunge il massimo livello lirico, è sempre una figura femminile ad incarnare la condotta lussuriosa, mentre alle figure maschili sono riservate solo fugaci citazioni. La prima è Didone, suicidatasi per non essere stata in grado di restare fedele al marito; la seconda è Cleopatra, qui rappresentata come lussuriosa per antonomasia; poi Elena, causa della guerra di Troia oltre ad Achille, Paride e Tristano. Sono oltre mille le anime che Virgilio indicherà (a dito) a Dante. Sono anime tolte alla vita da un amor lussurioso. Poscia ch'io ebbi il mio dottore udito nomar le donne antiche e' cavalieri pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. 11

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I' cominciai: - Poeta, volentieri parlerei a quei due che 'nsieme vanno, a paion sì al vento esser leggieri Ed elli a me: -Vedrai quando saranno più presso a noi; e tu allor li priega per quello amor che i mena, ed ei verranno. (vv. 70-78) Alla descrizione fornita da Virgilio circa le anime che apparivano agli occhi dei due visitatori, Dante prova un senso di sgomento forse perchè non gli sembra possibile che tali eroi (cavalieri), che nella vita terrena hanno avuto così grandi soddisfazioni ed onori, siano costretti a subire una pena così violenta. La sua attenzione, poi, viene attirata da due personaggi che camminano insieme con andatura lenta e leggera, quasi come se fossero sospinti dal vento. Virgilio gli preannuncia che quando si avvicineranno Dante capirà come questo vento altro non è che il loro amore (quello amor che i mena). Sì tosto come il vento a noi li piega, mossi la voce: - O anime affannate, venite a noi parlar, s'altri nol niega! (vv. 79-81) Dante, quasi a voler vincere quel vento che rischia di portar lontano dalla sua vista le due anime, si rivolge a loro invitandole ad avvicinarsi e a parlare con lui. Da notare il s'altri nol niega ove altri va inteso in relazione alla Volontà Divina che potrebbe opporsi a desiderio del Poeta di colloquiare con le due 12

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anime tormentate (affannate). Quali colombe, dal disio chiamate, con l'ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l'aere dal voler portate; cotali uscir della schera ov'è Dido, a noi venendo per l'aere maligno, sì forte fu l'affettuoso grido (vv. 82-87) La leggerezze di movimento delle due anime, paragonate a delle colombe, trasportate dal voler12, si pone in netto contrasto con lo scenario circostante dell'aere maligno, tanto che le due anime, alla vista di un essere vivente, non riescono a trattenere l'emozione (sì forte fu l'affettuoso grido).

– O animal grazioso e benigno che visitando vai per l'aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re dell'universo, noi pregheremmo lui della tua pace, poi c'hai pietà del nostro mal perverso. Di quel che udire e parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a vui, mentre che 'l vento, come fa, si tace. 12 Il Sapegno intende voler nel senso di volontà umana; noi lo intendiamo come Volontà Divina. Interpretazione questa che sembra coerente con la precedente espressione s'altri nol niega cui Dante fa riferimento quando chiede alle due anime di avvicinarsi a lui per potervi parlare.

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(vv. 88-96) E' da questo punto che prende avvio la sezione più solenne di tutto il Canto. Le due anime s'arrestano di fronte a Dante ed una di loro inizia a parlare. Per prima cosa essa ringrazia il visitatore per aver mostrato interesse proprio verso chi si è reso protagonista di delitti efferati (noi che tignemmo il mondo di sanguigno) ed in segno di riconoscenza confida che se Dio (re dell'universo) avesse pietà di lei e la ascoltasse (se fosse amico) senza dubbio pregherebbe ed intercederebbe presso di Lui per la sua pace (intesa nel senso di tranquillità d'animo; quella tranquillità d'animo che manca al Poeta e che lo ha condotto nella selva oscura). Il fatto che Danti mostri pietà per le loro sventure consente alle due anime di aprirsi totalmente al visitatore e di narrargli le loro sventure, proprio mentre la tempesta infernale si placa. Siede la terra dove nata fui sulla marina dove 'l Po discende per aver pace co' seguaci sui. (97-99) La maestosità di Dante trova maggior evidenza nei dettagli. In questa terzina l'anima si presenta e più precisamente indica il luogo di nascita: Ravenna. Città dove sfocia il Po', luogo in cui trova sfogo dopo il lungo percorso condiviso con i suoi numerosi affluenti. Chi parla è Francesca, data in sposa a Gianciotto Malatesta dopo il 1275. Dopo poco tempo, ella si innamorò di Paolo, fratello di Gianciotto, che li sorprese e li trucidò. Della vicenda i cronisti contemporanei non danno alcuna notizia, mentre una 14

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versione più ampia della storia è presente in Boccaccio e nell'Anonimo fiorentino13 Amor, ch'al cor gentile ratto s'apprende, prese costui della bella persona che mi fu tolta; e 'l mondo ancor m'offende. Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona. Amor,condusse noi ad una morte: Caina attende chi a vita ci spense. (vv. 100-107) Il racconto della storia delle due anime e delle ragioni per cui sono state tratte in questo cerchio, viene esposto in modo singolare. Amore, posto all'inizio del gruppo di tre terzine in forma di anastrofe, rappresenta allo stesso tempo sia la causa principale della loro dannazione, sia il legame che, nonostante l'aere maligno, ancora le rende unite. Il climax emozionale ascendente è particolarmente evidente in questi versi che rappresentano tre momenti, tre flash, della storia di Paolo e Francesca: l'attrazione fisica, l'innamoramento, la tragica fine. Appare peraltro importante sottolineare quanto già più volte evidenziato dai dotti commentatori: il riferimento alla Caina, dove vengono scontate le pene per i peccati più cruenti, suggerisce come Dante avesse in mente sin dall'inizio della stesura della Commedia, la struttura dell'Inferno e quindi della sua Opera intera. 13 N. Sapegno, op. cit. p. 63.

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Queste parole da lor ci fur porte. Quand'io intesi quell'anime offense, china' il viso, e tanto il tenni basso, fin che 'l poeta mi disse: - Che pense? Quando rispuosi cominciai: - Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo! (vv. 108-114) Dante prova una totale compassione per la triste storia delle due anime e china il capo quasi in segno di lutto. Virgilio chiede a Dante quale sia il suo pensiero ed il Poeta risponde con una considerazione di meraviglia mista a rassegnazione: sentimenti così dolci, desideri così forti hanno portato alla morte. Poi mi rivolsi a loro e parla' io, e cominciai: - Francesca, i tuoi martiri a lacrimar mi fanno tristo e pio. Ma dimmi: al tempo de' dolci sospiri, a che e come concedette Amore che conosceste i dubbiosi disiri? (vv. 115-120) Dante, ormai emotivamente coinvolto nella triste vicenda, chiede come le due Anime abbiano preso coscienza del loro Amore. I dubbiosi disiri sono dunque quei pensieri che l'uno amato prova per l'altro; è questa la fase dell'innamoramento: l'istante in cui, come già spiegato dal Boccaccio, gli 16

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amanti sono coscienti di piacersi, ma temono che la realtà non sia quale aad essi appare finchè non ne abbiano una prova certa o si dichiarino a parole o in azioni. E quella a me: - Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria; e ciò sa 'l tuo dottore. Ma s'a conoscer la prima radice del nostro amor tu ha cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice. (vv. 121-126) Quando si vive una situazione triste, non c'è cosa peggiore del dover ricordare un momento di vita gioioso. Tuttavia la protagonista soddisferà la curiosità di Dante. Virgilio sa bene cosa si provi (e ciò sa 'l tuo dottore). Su questa allusione è stato scritto molto, noi propendiamo per la versione proposta dal Benvenuto ed altri commentatori, secondo cui Virgilio sa perchè paragona la sua vita gloriosa, alla sua attuale misera condizione di abitatore del Limbo. Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse: soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il disiato riso 17

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esser baciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante. (vv. 127-138) Paolo e Francesca stavano leggendo, sanza alcun sospetto, cioè senza che nessuno sospettasse che quel loro stare insieme condividendo la lettura di un libro nascondesse altro, la storia di Lancillotto, nel punto in cui egli si innamorò di Ginevra, moglie di Artù. Sebbene più volte quel libro fosse stato sul punto di svelare i veri sentimenti dei due amanti (scolorocci il viso), fu solo quando si fece cenno alla bocca di Ginevra (il disiato riso, “riso” perchè è la bocca che rivela il sorriso; “disiato” perchè ricco di desiderio, di passione) che Paolo, tutto tremante, si lasciò andare baciando la sua amata. Fu quella l'ultima pagina che i due amanti lessero. Mentre che l'uno spirto questo disse, l'altro piangea, sì che di pietade io venni men così com'io morisse; e caddi come corpo morto cade. (vv. 139-142) Al ricordo, Paolo, su cui per la prima volta in tutto il Canto vengono puntati i riflettori, non riesce a trattenere l'emozione e scoppia in un pianto disperato. La disperazione e la compassione avvolgono anche il Poeta tanto da farlo svenire. 18

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Elaborato nel mese di luglio 2015. Tutti i diritti riservati. La divulgazione del presente saggio è concessa sotto licenza Creative Commons Attribuzione – Non Commerciale – Non opere derivate Italia 3.0 CC BY-NC-ND 3.0 IT

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