L’estraneamento in Fernando Pessoa

June 9, 2017 | Autor: V. de Oliveira | Categoria: Fernando Pessoa, Poesia Portuguesa, Modernismo Português
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Vera Lúcia de Oliveira

L’estraniamento in Fernando Pessoa

S

ono note alcune vicende della vita di Fernando Pessoa, poeta del paradosso che continua ad affascinare e a intrigare lettori di tutto il mondo. Alcune di queste vicende sono legate ai suoi primi anni di vita, ai lutti vissuti in famiglia, soprattutto alla scomparsa del padre nel 1893, quando il poeta aveva solo cinque anni, e alle successive seconde nozze della madre, nel 1895, con il console portoghese del Sudafrica. Tale matrimonio ha come conseguenza il trasferimento della giovane sposa e del bambino a Durban, città in cui Pessoa rimarrà fino al 1905, dieci anni che sembrano, paradossalmente, svaniti dalla vita e dall’opera del poeta adulto. Eppure questo periodo significativo dell’infanzia e dell’adolescenza deve aver lasciato un segno, se è vero che Pessoa acquisisce la lingua inglese con la coscienziosità di chi vuole confondersi con gli autoctoni, di chi non desidera sentirsi straniero. Del periodo africano il poeta tace, anche se è indicativo il fatto che, mentre i fratelli – integratisi perfettamente nella società inglese della colonia e più tardi trasferitisi in Inghilterra – sono diventati dei perfetti gentlemen, Pessoa decide di ritornare a Lisbona per studiare, allontanandosi dalla famiglia e dalla città che era diventata la sua seconda patria. Ma di patria, nel caso di Pessoa, è problematico parlare.1 In un suo famoso scritto, per bocca del semieteronimo Bernardo Soares, afferma: 1. A tale riguardo, è interessante notare come la stessa tematica riaffiori in uno strano testo, O Marinheiro [Il marinaio], pubblicato nel 1915 nella rivista «Or-

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Não tenho sentimento nenhum político ou social. Tenho, porém, num sentido, um alto sentimento patriótico. Minha pátria é a língua portuguesa [Pessoa, s. d.: 141]. [«Non ho alcun sentimento politico o sociale. Ho, però, un alto sentimento patriottico. La mia patria è la lingua portoghese»].2

La patria non è da lui definita e identificata in uno spazio geografico, ma in una lingua e una lingua è un’astrazione, un sistema di segni, secondo la lezione di Ferdinand de Saussure. Affermando che la sua patria è una proiezione astratta della realtà fisica egli conferma il suo senso di spaesamento, la sua difficoltà di stare oggettivamente nel mondo. Tutta la poesia di Pessoa, il suo bilinguismo, la sua spersonalizzazione eteronimica, sono il risultato della mancanza di identificazione con un luogo specifico, con un universo concreto che faccia da ponte fra lo spazio magico della memoria e dell’affettività e quello reale di tutti i giorni in cui poter racchiudere simbolicamente le radici e in cui stabilire legami di complicità con gli amici: compagni di vita ai quali sentirsi uniti, con i quali condividere la propria solitudine esistenziale e il proprio disagio. E il disagio è un sentimento radicato in Pessoa, derivante dalla sua incapacità a riadattarsi al Paese in cui è nato e che ha scelto per vivere, così come era stato incapace di inserirsi a Durban, città in cui sembra non aver lasciato radici.

pheu». In esso, il personaggio chiave, un marinaio creato dal sogno di una delle tre vegliatrici, avendo fatto naufragio in un’isola deserta, cerca di ricostruire la patria perduta e la inventa nei minimi particolari: Como ele não tinha meio de voltar à pátria, e cada vez que se lembrava dela sofria, pôs-se a sonhar uma pátria que nunca tivesse tido; pôs-se a fazer ter sido sua uma outra pátria, uma outra espécie de país com outras espécies de paisagens (…). Cada hora ele construía em sonho esta falsa pátria, e ele nunca deixava de sonhar (…) [«Poiché non aveva modo di tornare in patria, e soffriva troppo ogni volta che il ricordo di essa lo assaliva, si mise a creare un’atra patria come fosse stata sua, un’altra specie di paese con altri paesaggi (…). Ora per ora egli costruiva in sogno questa falsa patria, e non smetteva mai di sognare (…)»] [Pessoa, 1996: 22-23]. 2. Le traduzioni, quando non diversamente specificato, sono nostre.

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Non è un caso che anche gli eteronimi di Pessoa siano dei solitari introversi e spaesati, due dei quali, Álvaro de Campos e Ricardo Reis, vissero all’estero e gli altri due, Alberto Caeiro e Bernardo Soares, «proiezioni e ipotesi diversi del Pessoa che rimase» [Sena, 1974: 14], siano degli esiliati in un Portogallo che, dal canto suo, ha ripagato l’altezzosità raffinata del poeta ignorandolo in vita. Il distacco tra il personaggio e la realtà portoghese, il senso di estraneità e la percezione del cambiamento della città e dei posti che fanno parte della sua vita passata, perduta per sempre, sono i temi di due testi paradigmatici di Pessoa, dall’identico titolo, firmati entrambi dall’eteronimo Álvaro de Campos, Lisbon revisited, datato il primo 1923 e il secondo 1926. Tali componimenti furono scritti in portoghese, ma il titolo è in inglese, come se il poeta inizialmente avesse voluto – possiamo supporre – scriverli nella lingua di Shakespeare, ma poi di getto il magma poetico avesse preso il sopravvento e si fosse concretizzato in portoghese. E sì che questi sembrerebbero (il condizionale è inevitabile nel caso di un «fingitore») essere fra i pochi testi autobiografici del poeta, accanto a poesie come Anniversario, Rinvio e altre rappresentative di Álvaro de Campos, in cui troviamo riferimenti, reminiscenze e impressioni legate all’infanzia.3 In esse si manifesta la contrapposizione fra passato e presente, fra il dentro e il fuori, fra l’io e gli altri, fra l’essere 3. Il Pessoa ortonimo, nel solito gioco di camuffamento dell’artista dietro l’opera, fa ben pochi riferimenti all’infanzia e all’adolescenza. Afferma (ed è rivelatore in questa laconica negazione di traumi antichi): Decorreu tranquila (…) a minha infância e boa foi a minha educação [«Fu tranquilla (…) la mia infanzia e fu buona la mia educazione»]. E ancora, in una lettera a João Gaspar Simões, parlando dell’opera di Sá-Carneiro, tragicamente sprovvista di calore umano, conseguenza, secondo Pessoa, del fatto che all’amico sia mancato, da bambino, l’affetto di una madre premurosa, aggiunge, quasi per negare qualsiasi associazione fra la biografia di Sá-Carneiro e la sua: Nunca senti saudades da infância; nunca senti em verdade, saudades de nada. (…) Tenho do passado, somente saudades de pessoas idas, a quem amei; mas não é a saudade do tempo em que as amei, mas a saudade delas: queria-as vivas hoje, e com a idade que hoje tivessem, se até hoje tivessem vivido [«Non ho mai avuto nostalgia dell’infanzia; non ho mai avuto nostalgia di nulla in realtà. (…) Ho, del passato, solo nostalgia di persone che non ci sono più, che ho amato; ma non è nostalgia del tempo in cui le ho amate, ma nostalgia di loro:

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reale e il sembrare tale, fra le immagini piene di magia custodite nella memoria e la realtà prosaica e triste di tutti i giorni. Le due versioni di Lisbon revisited danno conto di un profondo senso di inadeguatezza e spaesamento nei confronti di Lisbona, della difficoltà del poeta a reintegrarsi in una città che gli era divenuta dolorosamente straniera. Il bilinguismo (il titolo in inglese, il corpus del testo in portoghese) denuncia la dicotomia dei sentimenti, la molteplicità di sollecitazioni e impulsi che riceve dall’ambiente esterno ma anche da se stesso e dalle attese nei confronti di un mondo che non c’è più. Vale la pena citare qualche verso di entrambi i testi: Ó céu azul – o mesmo da minha infância – / Eterna verdade vazia e perfeita! / Ó macio Tejo ancestral e mudo, / Pequena verdade onde o céu se reflecte! / Ó mágoa revisitada, Lisboa de outrora de hoje! / Nada mais me dais, nada me tirais, nada sois que eu me sinta [Pessoa, 1969: 356-357 (357)]. [«O cielo azzurro – lo stesso della mia infanzia – / eterna verità vuota e perfetta! / O soave Tago ancestrale e muto, / piccola verità sulla quale il cielo si riflette! O dolore rivisitato, Lisbona di una volta di oggi! Nulla più mi dai, nulla mi togli, nulla sei che io mi senta»].

Se nel primo testo dedicato a Lisbona c’è un apostrofare veemente nei confronti della città che lo vorrebbe “normale” e ordinario, riconoscibile nei canoni e modelli di vita borghese – Queriamme casado, fútil, quotidiano e tributável? [Ibidem] [«Mi volevano sposato, futile, quotidiano e tassabile?»] –, tre anni dopo, il tema del dissenso con il mondo che lo circonda si riaffaccia molto più mestamente di prima. Nella sua coscienza convivono ancora i sentimenti contrastanti, il dissidio con la realtà. Il poeta, tuttavia, data la sua personalità di introverso sognatore, sembra aver acquisito la consapevolezza che esso sia fatale. L’immagine magica della città che vive nella sua anima e nella sua nostalgia diventa, così ancora più cara, quasi un antidoto contro il presente: le vorrei vive oggi, e con l’età che oggi avrebbero avuto, se fino ad oggi fossero vissute»] [Pessoa, 1985: 36 e 65].

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Outra vez te revejo, / Cidade da minha infância pavorosamente perdida… / Cidade triste e alegre, outra vez sonho aqui… / Eu? Mas sou eu o mesmo que aqui vivi, e aqui voltei, / E aqui tornei a voltar, e a voltar. / E que aqui de novo tornei a voltar? / […] // Outra vez te revejo – Lisboa e Tejo e tudo –, / Transeunte inútil de ti e de mim, / Estrangeiro aqui como em toda parte [Ibidem: 359-360 (360)]. [«Di nuovo ti rivedo, / città della mia infanzia spaventosamente perduta… / Città triste e allegra, eccomi tornato a sognare… / Io? Ma sono lo stesso che qui è vissuto, che qui è tornato, / e che qui è tornato a tornare, e a ritornare, / e di nuovo a ritornare? / […] // Una volta ancora ti rivedo, Lisbona, e Tago, e tutto, / viandante inutile di te e di me, / straniero qui come dappertutto»] [Pessoa, 1997: 373].

È forse possibile ritornare ai luoghi fatati della memoria (quando non si sentiva ancora lo «straniero qui come ovunque»), ma il cronos è l’altra coordinata irreversibile, soggetta al divenire e al mutare degli eventi. È dunque inevitabile il progressivo costituirsi di un tempo interno che lo allontana sempre di più dai suoi connazionali. In Anniversario, poesia del 1929, sempre di Álvaro de Campos, riemergono di nuovo le immagini felici della prima infanzia, dei giorni in cui si festeggiavano i compleanni del bambino che non aveva vissuto lutti e distacchi. La contrapposizione fra i due piani temporali che si alternano e spesso si sovrappongono, quello reale del presente e quello passato della memoria, lascia al poeta la sensazione di essere un «sopravvissuto a se stesso», come egli afferma: No tempo em que festejavam o dia dos meus anos, / Eu era feliz e ninguém estava morto. / Na casa antiga, até eu fazer anos era uma tradição de há séculos, / E a alegria de todos, e a minha, estava certa com uma religião qualquer. // […] // No tempo em que festejavam o dia dos meus anos… / Que meu amor, como uma pessoa, esse tempo! / Desejo físico da alma de se encontrar ali outra vez! / Por uma viagem metafísica e carnal, / Com uma dualidade de eu para mim… / Comer o passado como pão de fome, sem tempo de manteiga nos dentes! [Pessoa, 1969: 379-380 (379)].

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[«Al tempo in cui si festeggiavano il giorno dei miei anni, / io ero felice e nessuno era morto. / Nella casa antica, perfino il mio compleanno era una tradizione di secoli, / e la gioia di tutti, e la mia, era certa come una qualsiasi religione. // […] Nel tempo in cui festeggiavano il giorno dei miei anni… / Che amore mio, come una persona, questo tempo! / Desiderio fisico dell’anima di trovarmi lì un’altra volta! / Per un viaggio metafisico e carnale, / con una dualità da me a me… / Mangiare il passato come un pane di fame, senza tempo di burro nei denti!»].

Tali evocativi testi di Álvaro de Campos ci aiutano a capire molto della stessa eteronimia pessoana. Questo misterioso essere sé in altri da sé, questo sdoppiarsi per essere quello che un uomo solo non può essere, questo incorporare gli altri o proiettarsi negli altri per vivere più intensamente. Quando Pessoa afferma che la sua patria è la lingua portoghese, in realtà afferma che essa è il tempo-spazio evocato dell’infanzia, territorio ancora non sfiorato dal dolore, una patria che è la lingua madre attraverso la quale rivivere un periodo di armonia [Oliveira, 2002: 81], «come se la continua rievocazione della perdita, il non far rimarginare la ferita, fosse l’unico modo di testimoniare un lutto irreparabile, ribadire una segreta fedeltà e mantenere un legame col passato» [Mehler, 1995: 253]. In effetti, il dolore del distacco e della perdita si amplifica nel Pessoa adulto che si moltiplica in personaggi soli e angosciati come lui. Si manifesta anche nell’impossibilità di essere un uomo normale con i propri pensieri e sogni. In Pessoa tutto viene potenziato dalla sensibilità e dalla capacità di autoanalisi, dalla ricerca e dall’inadeguatezza a rientrare in un’armonia primordiale, uterina, che sembra essere il punto di approdo a cui tendono tutti i personaggi travagliati che ha in sé. In questo senso, in questo tentativo di ricomporre affetti e emozioni della prima infanzia – sempre visti come i più concreti e veri – possiamo forse meglio capire la sua scelta della lingua portoghese come idioma poetico per eccellenza (le poesie in inglese, in effetti, non raggiungono il livello artistico di quelle in portoghese). Se la lingua madre e l’amore esclusivo della madre sembrano

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svanire nel periodo sudafricano, l’aggrapparsi comunque a questo codice linguistico dell’amore materno e paterno, il rivelarsi poeta massimo proprio con questo idioma è sintomatico e indicativo. Pessoa non è tornato in Portogallo proprio per cercare, e forse ritrovare, quel bambino lasciato dieci anni prima? Scopre, però, che tutto è mutato: O que eu sou hoje é terem vendido a casa, / É terem morrido todos, / É estar eu sobrevivente a mim-mesmo como um fósforo frio… [Pessoa, 1969: 379-380 (379)]. [«Ciò che sono oggi è che hanno venduto la casa, / è che sono morti tutti, / è che io sono sopravvissuto a me stesso come un fiammifero freddo»].

Se si tiene presente il complesso e intricato legame fra figura materna e lingua madre, possiamo pensare che Pessoa sia ritornato per un desiderio di reintegrazione in uno stato di assenza di scissioni con il mondo circostante. Il ritorno verso il luogo della lingua madre può essere una strategia per sanare un’assenza, una perdita, il trauma della separazione infantile, la privazione dei luoghi e degli affetti famigliari, il mutamento del Paese. E così nella poesia Adiamento [Rinvio], sempre a firma di Álvaro de Campos, leggiamo: Quando era criança o circo de domingo divertia-me toda a semana. / Hoje só me diverte o circo de domingo de toda a semana da minha infância… / (…) / Por hoje, qual é o espetáculo que me repetiria a infância? [Ibidem: 368-369]. [«Quando ero bambino il circo della domenica mi divertiva per tutta la settimana. / Oggi mi diverte solo il circo della domenica di tutta la settimana della mia infanzia… / (…) Oggi, qual è lo spettacolo che mi ripeterebbe l’infanzia?»].

Contrariamente a molti scrittori bilingui – fra questi citiamo il caso emblematico di Samuel Beckett, che ha dovuto allontanarsi e, ad un certo punto, ripudiare la lingua madre per creare una barriera fra sé e la figura opprimente della genitrice [Mehler, 1995: 228-234] – Pessoa difende strenuamente la memoria della lingua

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dell’infanzia, l’unica in grado di riportarlo al Paradiso perduto di una Età dell’Oro. Nella lontananza, conserva i suoni e modula le parole con un piacere quasi fisico. Per voce del semieteronimo Bernardo Soares, nel Libro dell’inquietudine, si avverte questo legame emotivo, sensoriale e sensuale con la lingua portoghese: As palavras são para mim corpos tocáveis, sereias visíveis, sensualidades incorporadas. (…) Não choro por nada que a vida traga ou leve. Há porém páginas de prosa que me têm feito chorar. Lembro-me, como do que estou vendo, da noite em que, ainda criança, li pela primeira vez, numa selecta, o passo célebre de Vieira sobre o Rei Salomão. “Fabricou Salomão um palácio…” E fui lendo, até ao fim, trémulo, confuso; depois rompi em lágrimas felizes, como nenhuma felicidade real me fará chorar, como nenhuma tristeza da vida me fará imitar. Aquele movimento hierático da nossa clara língua majestosa, aquele exprimir das ideias nas palavras inevitáveis, correr de água porque há declive, aquele assombro vocálico em que os sons são cores ideais – tudo isso me toldou de instinto como uma grande emoção política [Pessoa, s. d.: 140-141]. [«Le parole sono per me corpi tangibili, sirene visibili, sensualità incorporate. (…) Non piango per nulla che la vita mi porta o toglie. Ci sono però pagine di prosa che mi hanno fatto piangere. Mi ricordo, come di quello che sto vedendo, della notte in cui, da bambino, lessi per la prima volta, in un’antologia, il celebre passo di Vieira su Re Salomone. “Eresse Salomone un palazzo…” E continuai a leggere fino alla fine, tremante, confuso; poi piansi lacrime felici, come nessuna felicità reale mi farà piangere, come nessuna tristezza della vita mi farà imitare. Quel movimento ieratico della nostra chiara lingua maestosa, quell’esprimere le idee in parole inevitabili, scorrere dell’acqua perché c’è declivio, quello stupore vocalico in cui i suoni sono colori ideai – tutto ciò mi colpì per istinto come una grande emozione politica»].

È plausibile leggere in questo brano di Bernardo Soares la nostalgia del poeta, in Sudafrica, per la sua lingua, che sembra conservare il carico dei vissuti emozionali primari. Possiamo ipotizzare come sia per questo che Pessoa dà vita, proprio in portoghese, al potenziamento delle sensazioni, intuizioni e sentimenti del Sensa-

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zionismo e dell’Intersezionismo. Ecco come si esprime Álvaro de Campos in Passagem das horas [Passaggio delle ore] del 1916: Sentir tudo de todas as maneiras, / Viver tudo de todos os lados, / Ser a mesma coisa de todos os modos possíveis ao mesmo tempo, / Realizar em si toda a humanidade de todos os momentos / Num só momento difuso, completo e longínquo [Pessoa, 1969: 341-354 (344)]. [«Sentire tutto in tutte le maniere, / vivere tutto da tutte le parti, / essere la stessa cosa in tutti i modi possibili allo stesso tempo, / realizzare in sé tutta l’umanità di tutti i momenti / in un solo momento diffuso, profuso, completo e distante»] [Pessoa, 1997: 329].

In realtà, Pessoa era un esule nelle due lingue, un estraneo a se stesso e al mondo, sempre alla ricerca di quel senso profondo che intuisce nell’Universo, ma che non arriva a cogliere perché tutto è mistero. Si definisce un sognatore, un fingitore. Il suo canto è canto di nostalgia, di saudade. Se la lingua portoghese è la patria, possiamo dire che è anche il luogo per guarire dalla ferita di essere stato per sempre strappato dall’Eden perduto del bambino inconsapevole. Da qui questa affermazione, sempre di Álvaro de Campos, estrapolata da una poesia priva di titolo del 1931: Quanto amei ou deixei de amar é a mesma saudade de mim. [Pessoa, 1969: 384-385 (384)]. [«Quanto amai o smisi d’amare è la stessa nostalgia di me stesso»].

Di quel mondo infantile, solo la lingua è la stessa, identica la modulazione delle sillabe, medesimo il sapore delle parole in bocca che rievocano il perduto. Non sarà questa estraneità al presente a portarlo alla spersonalizzazione, alla dispersione fra i luoghi che non sente suoi, in un tempo che non sente suo? Tutta la difficoltà di Pessoa di rapportarsi con il mondo sembra derivare da questo distacco. Il suo radicato sentimento di essere un fuori posto, un clandestino, un esiliato ovunque è la conseguenza di tale stato d’animo, così come lo è la sensazione ricorrente di

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sentirsi sempre in fanciullo solo e abbandonato. Afferma, in una lettera all’amico Mário de Sá-Carneiro: Em dias da alma como hoje eu sinto bem, em toda a minha consciência do meu corpo, que sou a criança triste em quem a Vida bateu. Puseram-me a um canto de onde se ouve brincar. Sinto nas mãos o brinquedo partido que me deram por uma ironia de lata. Hoje, dia catorze de Março, às nove horas e dez da noite, a minha vida sabe a valer a isto. [Carneiro, 2003: 167-168 (167)]. [«In giorni dell’anima come questo io sento perfettamente, con tutta la coscienza del mio corpo, di essere il bambino triste che la vita ha malmenato. Mi hanno messo in un canto da dove sento altri che giocano. Tengo fra le mani il giocatolo rotto che mi hanno regalato per un’ironia di latta. Oggi, quattordici di marzo, alle nove e dieci di sera, la mia vita si rende conto perfettamente di tutto ciò»] [Pessoa, 1997: 99].

A Lisbona non si attenua, infatti, il suo sradicamento. Neanche il senso di condivisione di una lingua con i suoi connazionali serve a mitigare la solitudine fisica ed esistenziale, la dissociazione dalla realtà concreta di ogni giorno. È emblematico che sia proprio Álvaro de Campos, l’eteronimo più angustiato e il più inquieto, un vero cittadino del mondo senza patria, a descrivere così bene la percezione di estraneità che separa il poeta dalla sua città. Campos è il vero alter ego di Pessoa, tanto da sfuggire al suo inventore e conquistare, «nella sua letteraria esistenza, una realtà superiore a quella degli altri eternonimi» [Lancastre, 1993: 17]. A lui è stato affidato il compito difficile di esporsi, di prendere parte alla vita dell’epoca come «polemista, provocatore» [Ibidem: 19]. Come vero ribelle, non può, infatti, sopportare la realtà ordinaria del suo creatore. Questo eteronimo ci riporta al personaggio del marinaio, nel dramma omonimo di Pessoa, il quale, non potendo ritrovare la vera patria utopica, si costruisce un Paese ideale: Quis então recordar a sua pátria verdadeira… mas viu que não se lembrava de nada, que ela não existia para ele… Meninice de que se

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lembrasse, era a na sua pátria de sonho; adolescência que recordasse, era aquela que se criara… Toda a sua vida tinha sido a sua vida que sonhara… E ele viu que não poderia ser que outra vida tivesse existido… Se ele nem de uma rua, nem de uma figura, nem de um gesto materno se lembrava… [«Allora volle ricordare la sua patria vera… Ma si accorse che non ricordava niente, che essa per lui non esisteva più… La sola infanzia che ricordava era quella della sua patria di sogno; la sola adolescenza che aveva in mente era quella che si era creato… Tutta la sua vita era stata la vita che aveva sognato… E si rese conto allora che non era possibile che fosse esistita un’altra vita, se lui non ricordava più né una strada, né una figura, né un gesto materno…»] [Pessoa, 1996: 30-31].

Nondimeno, nella provinciale e cosmopolita Lisbona, Pessoa visse, come Álvaro de Campos, e da essa non si allontanò più dopo il suo rientro in patria, come se gli fosse ormai impossibile sradicarsi nuovamente, anche solo per brevi periodi. Girovaghi in questa città di ombre e di luci, l’autore e il personaggio, il creatore e la creatura sentono la necessità di percorrerla alla ricerca di chi sa quali luoghi, edifici, strade familiari che potessero ricordare loro una appartenenza a tale realtà.4 E a Lisbona Pessoa morì nel 1935 e in questa città è sepolto, ancora oggi multiplo e disperso giacché, nello stesso tumulo, nel Mosteiro dos Jerónimos, troviamo le iscrizioni di quattro poeti: Fernando Pessoa, Álvaro de Campos, Alberto Caeiro e Ricardo Reis, gli abitanti della sua patria elettiva, i cittadini dell’unica sua patria.

4. Non stupisce che Pessoa scriva, nel 1925, da profondo conoscitore, una guida turistica di Lisbona, in cui descrive la città nei minimi particolari. E nemmeno sorprende che tale testo, valido e utilizzabile ancora oggi, inizi con una visione quasi onirica della città: «Per il viaggiatore che vi giunga dal mare, Lisbona, anche vista in lontananza, sorge come una bella visione di sogno, stagliata contro un cielo azzurro splendente che il sole allieta con il suo oro» [Pessoa, 2003: 5].

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Riferimenti bibliografici essenziali Carneiro, Mário de Sá, 2003, Correspondência com Fernando Pessoa. Edição de Teresa Sobral Cunha, Lisboa, Relógio d’Água Editores, 2 voll. (II). Lancastre, Maria José de, 1993, Introduzione, in Fernando Pessoa, Poesia di Álvaro de Campos. A cura di Maria José de Lancastre. Traduzione di Antonio Tabucchi, Milano, Adelphi Edizioni, 15-26. Mehler, J. Amati et al., 1995, La Babele dell’Inconscio, Milano, Raffaello Cortina Editore. Oliveira, Vera Lúcia de, 2002, «Requiem», de Antonio Tabucchi: a voz, o canto, a língua da memória e do luto, «Insieme» [São Paulo], Associação de Professores de Italiano do Estado de São Paulo, pp. 77-87. Pessoa, Fernando, 1969, Obra Poética. Organização, Introdução e Notas de Maria Aliete Galhoz, Rio de Janeiro, Nova Aguilar, 3ª ed. Pessoa, Fernando, 1985, Obras em Prosa. Organização, introdução e notas de Cleonice Berardinelli, Rio de Janeiro, Nova Aguilar. Pessoa, Fernando, 1996, Il marinaio. Dramma statico in un quadro. Traduzione di Antonio Tabucchi, Torino, Einaudi, 2ª ed. Pessoa, Fernando, 1997, Una sola moltitudine. A cura di Antonio Tabucchi con la collaborazione di Maria José de Lancastre, Milano, Adelphi Edizioni, 2 voll. (I, 8ª ed.). Pessoa, Fernando, 2003, Lisbona: quello che il turista deve vedere. Traduzione di Luca Merlini, Firenze, Passigli Editori. Pessoa, Fernando, s. d., Livro do Desassossego, por Bernando Soares. Introdução e nova organização de textos de António Quadros, Lisboa, Publicações Europa-América, 2 voll. (I). Sena, Jorge de, 1974, O heterónimo Fernando Pessoa e os poemas ingleses que publicou, in Poemas ingleses publicados por Fernando Pessoa. «Obras completas de Fernando Pessoa XI». Edição bilíngue com prefácio, traduções, variantes e notas de Jorge de Sena, e traduções também de Adolfo Casais Monteiro e José Blanc de Portugal, Lisboa, Edições Ática, 11-87.

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