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L'etnografo educato: istanze critiche e codici etici negli antropologi


Vorrei cominciare questa breve riflessione con un percorso inverso: dalla
ricerca di campo all'aula di lezione. Parto dal lavoro di campo non come un
insieme di spazi fisici e temporali, quanto dall'esperienza di rottura
vissuta dall'etnografo. Il "campo" diventa prima di tutto un momento chiave
nella formazione personale di chi lo vive, senza per questo dover andare
molto lontano. È vero che la distanza serve, ma non in senso relativo,
quanto assoluto. È nella presa di distanza dal proprio contesto, o
nell'avvicinarsi ad uno sconosciuto, che si verifica quel trauma di cui il
campo è la rappresentazione simbolica e concettuale.
Una volta tornato nella propria società, la conoscenza dell'etnografo
consiste nella testimonianza anzitutto dell'esistenza di alternative. Il
pontenziale trasformativo dell'antropologia è sempre critico, nel momento
in cui mostra delle proposte altre, ancora prima che vi sia una presa di
posizione, una capacità trasformativa non-finalizzata, corrispondente ad
un'antropologia non-impegnata. Questa viene dopo, ed è comunque secondario.
La criticità, sempre presente, non è tanto legata all'essere fastidiosi per
natura degli antropologi, bensì al trovarsi in un contesto culturale
globale come il nostro, che è egemonico. È per questa sua qualità che ogni
proposta alternativa è critica, se viene presentata come dotata di pari
valore a quella vigente. Non può esserci coesistenza in una logica
egemonica, è inevitabile. E inevitabile è la criticità potenziale
dell'antropologia, che quando viene espressa può, in varia misura,
destabilizzare l'ordine stabilito attraverso uno svelamento del
dispositivo. Pensato su scala ridotta ad uno stato, si capisce perché certe
ricerche etnografiche siano viste come particolarmente sospette. Quando il
campo diventa il Piemonte o la Puglia, allora entrano in gioco delle
reazioni culturalmente modulate per prevenire l'istanza critica. Non serve
pensare a complotti o azioni sempre coscienti, bastano tutta quella serie
di risposte quasi automatiche che scattano come difesa, e che però hanno un
effetto diverso a seconda del contesto. Quando, alcuni mesi fa, domandai al
professor Remotti cosa pensasse di questo potenziale, mi rispose dicendomi
che certamente è presente, ma che non bisogna farsi troppe illusioni, vista
la quantità di ostacoli che possono limitare, deviare o bloccare la sua
espressione. Le scelte dell'editoria e della stampa, l'indirizzo politico,
la decisione di un giudice, una legge europea, il restringimento della
libertà di ricerca etnografica, possono essere tutti esempi di reazioni
culturali, volontarie o meno. Ma non è scontato che ciò avvenga sempre
dall'esterno, da un'autorità altra, distaccata. Raramente i confini sono
così netti, e il caso che vi porto credo sia abbastanza indicativo.
Durante un corso di tecniche della ricerca etnografica, è costantemente
emerso il tema etico, quello che un antropologo può o meno fare sul campo.
Perciò è stato proposto a me e al mio collega Filippo Siena di presentare
un'analisi critica del codice deontologico della AAA, l'associazione degli
antropologi americani, e ne è nato un dibattito piuttosto animato. In
particolare, mi hanno colpito certe affermazioni di studenti, al terzo anno
di un corso in antropologia, indicative di come quelle reazioni culturali
non provengano solo dalle istituzioni o da entità esterne, ma pure
dall'interno della nostra disciplina. Dire che ogni persona assimila una
parte del patrimonio culturale del contesto in cui vive è banale, ma non lo
è accorgersi di quali siano queste rappresentazioni, e del valore che
rivestono nel lavoro e nel pensiero di futuri etnografi. I 7 punti del
codice della AAA sono riassumibili in alcuni principi di base, ossia la
politica del minor impatto sull'altro, con obblighi etici per compensare i
"danni", la volontà di un fair-play nelle inter-relazioni, da rispettare a
priori, la responsabilità personale dell'antropologo nella gestione del suo
campo, e infine la creazione di un habitus dell'etnografo. Le parole-chiave
sono well-being (fisico e materiale) e dignity. Per la definizione di molti
termini sono stati creati dei link, purtroppo non funzionanti. Sarebbe
interessante indagare la relazione tra la scelta terminologica e l'ambiente
culturale americano, ma lo è stato di più notare come questi punti sono
stati recepiti e integrati negli schemi di rappresentazione degli studenti.
La criticità espressa dall'antropologia nei confronti delle
rappresentazioni culturali, colpisce pure quella chiamata "dignità". In
altri momenti storici si sarebbe chiamata "orgoglio", oppure "onore", ma
oggi è a questa parola che siamo più sensibili, e sorridiamo alle altre. Un
ottimo esempio è il lavoro di Fassin su alcuni reparti della polizia
francese nelle periferie urbane, a cui certo non fa fare una bella figura,
e che alcuni non esiterebbero a definire un attacco alla loro dignità,
condannandolo. E in effetti, durante il dibattito alcuni studenti lo hanno
fatto. È chiaro che non potrò riportare l'intero dibattito, ma dovrò per
forza riassumere i punti salienti. Cercherò di dare una panoramica di
quelle risposte culturali latenti, emerse non appena veniva toccato un
qualche "punto caldo". Così come in geologia i vari hotpoints sono i luoghi
più sensibili di una rete di fratture sotterranee, allo stesso modo si
possono congiungere le singole affermazioni con un intreccio di idee a
formare zone di particolare tensione. Per esempio, la tendenza ad
estremizzare gli enunciati, a non vedere sfumature nella possibilità di
mediazione o di offesa all'altro, si collega ai termini usati per quegli
antropologi che non rispettavano il codice deontologico, descritti come
«attivisti, militanti, politici, di parte, populisti, di sinistra», tutto
un gergo per marcare la distanza da criteri di scientificità e neutralità,
di essere "poco professionali", e quindi da isolare come un gruppo a parte,
una frangia di persone che si comportano in un modo moralmente riprovevole.
Non solo, ma anche distanti dalla normalità quotidiana, perché con pretese
troppo astratte e filosofiche, come voler capire qualcosa sull'altro senza
la sua approvazione. Il concetto di fair-play viene pensato spesso come un
do ut des tra antropologo e contesto, in cui le informazioni e riflessioni
dell'etnografo sono una "proprietà" dell'altro e senza di lui non si può
capire nulla. Perciò, ogni critica al contesto diventa una critica
politica, e quindi militante, populista, ecc, da eliminare per preferire
una dimensione dialogica educata. Queste affermazioni fanno da sottofondo
per tutto il tempo, mentre altre due spiccano per la forza e l'insistenza
con cui cercano di imporsi. La prima è la lettura di dignità e del well-
being come rappresentazione del self intesa da Goffman, e perciò il
divieto di mettere in crisi questa finzione, ma anzi di sostenerla per
evitare di discriminare o denigrare. La seconda idea è quella di un'etica
di base, laica, con tendenze universali, ma che ricalca la normativa
giuridica.
Se riconosciamo all'antropologia un'istanza trasformativa, allora non si
può pretendere di lasciare intatta ogni costruzione del sé, e questo è un
fenomeno che vale tanto di più per istituzioni e rituali, in generale per
soggetti dotati d'autorità. L'autorità infatti è una qualità, la qualità
del riconoscimento e dell'accettazione del potere, di cui abbiamo esempi
ogni giorno. La polizia, così come il giudice, un organo dello stato o un
relatore sono dotati di autorità, ed essa si regge su tutta una serie di
convenzioni, simboli, pratiche, che la rinforzano e la rendono valida. Non
è un caso che una delle studenti affermò che rivelare conoscenze segrete,
senza autorizzazione, significava svelare il sacro, togliere la distinzione
basilare tra sacro e profano. Tuttavia, se si svela il dispositivo, se si
mette in crisi l'ordine di valori e simboli, allora il riconoscimento viene
a mancare, così come l'accettazione. Questo non significa che gli
antropologi siano anarchici e rivoluzionari, ma che il potenziale
trasformativo, quando applicato, non risparmia alcun contesto e alcun
soggetto. Ecco quindi che un restringimento della ricerca etnografica serve
ad evitare che l'antropologia si occupi di situazioni sensibili che possono
diminuire l'autorità di parte della società. Di nuovo, non serve pensare ad
un'operazione consapevole, quanto a un processo di bilanciamento in cui il
potere può essere utilizzato per creare tutta una serie di impedimenti, in
un certo lasso di tempo, attraverso pratiche incorporate che ricordano da
vicino il concetto di habitus di Bourdieu. Per inciso, durante il periodo
coloniale l'etnografia è stata al contrario molto agevolata da questo
processo.
Ma su che cosa basare un restringimento degli ambiti della ricerca
etnografica? Per questo dobbiamo rivolgerci alla seconda grande obiezione
del dibattito, cioè l'esistenza di norme etiche irrinunciabili. Al codice
deontologico della AAA sono allegati una serie di case studies di scelte
reali di etnografi, con relativo commento dei membri dell'associazione.
Molte delle scelte sono state criticate perché non rispondono al
comportamento etico atteso, che viene dato comunque come una cosa la cui
esistenza è scontata. Comportamenti come quelli di Fassin, o Firth che
nella sua introduzione a Noi, Tikopia responsabilizza il lettore, sono
pensati da diversi studenti come esempi negativi. Nei riguardi dell'etica
c'è una sospensione dell'approccio usato nei confronti di modelli religiosi
o economici, cioè la capacità di contestualizzare il dispositivo e
riconoscere una genesi culturale. Al contrario, quando si prova a far
notare questo fatto, la reazione è all'inizio quasi emotiva, di
disapprovazione a priori, come se si attaccasse qualcosa di naturale,
necessario. In questo senso parlo della creazione di regole etiche,
obblighi secondo l'AAA e non solo. Nel tentativo di raggiungere un
compromesso con certe istanze dell'antropologia, queste affermazioni
tentano di costruire un'etica di base, laica, che però continua a ricalcare
le norme culturali del contesto di provenienza e specialmente la normativa
giuridica. Vengono messe continuamente le mani avanti, ribadendo fino alla
nausea i rischi del mestiere di antropologo, le possibilità di danneggiare
l'altro, di lederlo in qualsiasi modo, cercando di ponderare l'impensabile,
al punto che si genera un'impasse dell'azione e ci si ritrova alla mercè
del contesto, con una prudenza esagerata che cerca di adattarsi
continuamente per non ferire nessuno. Si tratta di un processo di modelling
basato sull'imitazione di altri codici riconosciuti e dotati di autorità,
simile per altri versi a quello della culturologia americana nei confronti
delle scienze "dure". L'adozione di regole simili, oltre a ignorare le
riflessioni dell'antropologia, esige un rispetto a priori per il sistema di
riferimento, contribuendo a rinsaldare l'autorità esterna. Se l'etnografia
diventa innocua, se ci si lega le mani con ragionamenti e etiche
generalizzanti, allora i provvedimenti per limitare la libertà di ricerca
etnografica sono superflui.
Concludo con una frase di quel dibattito, che se allora poteva mostrare una
grande fiducia verso il sistema di riferimento, adesso appare invece
tristemente ironica. Sull'etnografia, che dopotutto «i giudici sanno
benissimo che si tratta di una finzione».



Nicola Martellozzo
Università di Bologna – Alma Mater Studiorum
Dottore in Antropologia, religioni, civiltà orientali
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