L\'Iliade come poema orale (2015)

July 4, 2017 | Autor: Franco Ferrari | Categoria: Homer, Orality-Literacy Studies, Epic poetry, Iliad, Orality and Writing
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Franco Ferrari L'Iliade come poema orale 1. Indizi di composizione orale Un aspetto essenziale dell'oralità affrontato da Parry e da Lord fu quello della composizione estemporanea e il dibattito è continuato opponendo chi ritiene che all’interno della poesia orale ogni componimento sia condizionato dall’occasione della recita, al punto che non esiste composizione separata dall’atto dell’esecuzione, e chi ha obiettato che anche la poesia orale può essere composta prima dell’esecuzione e scrupolosamente memorizzata (Finnegan 1990, pp. 108-20). La pratica del comporre improvvisando resta comunque la regola almeno per poemi di una consistente estensione elaborati sulla base di un ritmo precostituito e costantemente ripetuto qual è quello dell'esametro omerico o il decasillabo dei guslari: di norma i narratori orali non imparano a memoria i poemi che recitano ma li ri-creano di volta in volta a contatto con i loro mutevoli destinatari. Naturalmente anche nel mondo di Omero l'improvvisazione, o (re)composition-in-performance, sfruttava schemi già pronti e sperimentati sul piano della dizione (formule, nessi stereotipi, collocazioni preferenziali di parole e sintagmi all’interno del verso), dei gruppi di versi ripetuti identici o quasi identici (in particolare quelle che in un saggio pubblicato a Berlino nel 1933, Die typischen Scenen bei Homer, Walter Arend definì 'scene tipiche': vestizione del guerriero, ospitalità, pasto sacrificale, assemblea, dubbio decisionale, supplica etc.), dei temi (le situazioni, gli intrecci, i meccanismi adottati dal cantore per costruire le sue scene, come nel caso degli scontri marziali e dei diverbi fra gli eroi ma anche di moduli quali genealogie e cataloghi). E dovevano giocare un ruolo importante anche il ripensamento di esecuzioni prodotte in precedenza dallo stesso o da altro cantore e l'allenamento a nuove esibizioni attraverso fasi di concentrata meditazione. In questo quadro ci si è anche domandati se Omero (o i rapsodi celati sotto il suo nome) conoscesse la scrittura e, ove la conoscesse, quale impiego ne facesse. Contro la ripetuta osservazione che poemi di tale complessità e raffinatezza non possono essere stati composti senza l'ausilio della scrittura si è osservato che alcuni indizi presuppongono una genesi orale. Janko (1982, pp. 18-41), sulla linea di Parry, ha posto come decisiva la concomitanza di tre fattori: complessi sistemi formulari caratterizzati da estensione ed economia (è il criterio della 'densità' formulare, per altro di malagevole applicazione per la problematicità della nozione di 'formula'),

2 una bassa frequenza di enjambements 'periodici' o 'necessari' (tali cioè da investire la struttura stessa della frase e non invece elementi accessori quali aggettivi o avverbi) e irregolarità metriche a proposito delle quali si può ricordare l'argomento della tesi 'complementare' parigina di Parry del 1928 (Les formules et la métrique d'Homère), e cioè l'iato anomalo (il mancato abbreviamento dei dittonghi e la mancata elisione di vocale breve davanti a vocale): un fenomeno che sembra dipendere in primo luogo dalla modificazione di formule o espressioni formulari (che dovevano essere adattate alla nuova sintassi del discorso) o dalla giustapposizione di formule diverse. Nessuno di questi criteri è decisivo perché lo stile formulare è pur sempre suscettibile di imitazione, come vediamo nella Batracomiomachia pseudo-omerica di età ellenistica (e, per converso, non mancano casi di poesia orale non formulare o scarsamente formulare), l'enjambement 'periodico' può essere evitato per consapevole intenzione (come vediamo nell'Aspis pseudo-esiodea e negli Inni di Callimaco) e per alcune irregolarità metriche si possono escogitare, e sono state escogitate, spiegazioni alternative. E' tuttavia la compresenza di questi indizi a rendere assai debole l'ipotesi di una situazione di 'oralità fittizia' per la composizione dei poemi omerici. Altri due criteri, inoltre, possono essere chiamati in causa. Il primo riguarda la tendenza alla ripetizione interna (di parole, di nessi ma anche di singoli gruppi fonici), di cui la stessa tecnica formulare è solo una più formalizzata manifestazione, e l'esuberante presenza, senza apparente motivazione stilistica, di simmetrie, parallelismi, antitesi, poliptoti, anafore ed epifore, epanalessi, chiasmi, assonanze, espressioni polari che sostengono il compositore nella tessitura della sua trama verbale imprimendo al discorso un ritmo interno che variamente interagisce con quello sterminato dall'articolazione metrica del verso. E' il criterio definito da B. Peabody (1975, p. 3 ss.) come 'fonemico' (della ridondanza di suoni) e riconosciuto già nel 1925 come tratto caratteristico dello stile orale in quanto strumento di concatenazione e di bilanciamento delle unità del discorso dal gesuita e antropologico Marcel Jousse nelle Études de psychologie linguistique. Le style oral rythmique et mnémotechnique chez les verbomoteurs (1925). Per limitarci a un solo esempio, possiamo ricordare un momento del dialogo fra Achille e Priamo nell'ultimo canto del poema. Il vecchio sovrano, che il Pelide ha appena invitato a sedersi con un gesto della mano, apre la sua battuta con (XXIV 553): µή πώ µ᾽ ἐς θρόνον ἵζε, διοτρεφές Non farmi ancora sedere sul seggio, tu nutrito da Zeus...

Pochi versi dopo, con un accento brusco che intende soffocare la sua emozione, Achille replica (XXIV 560, cf. I 32): µηκέτι νῦν µ᾽ ἐρέθιζε, γέρον. Adesso non mi irritare, vecchio ...

3 Non c'è nessuna relazione semantica fra i due imperativi presenti ἵζε "fa' sedere" ed ἐρέθιζε "irrita". Solo i significanti sono in parte sovrapponibili, e collocati nella stessa sede metrica (subito prima della cesura centrale), e questa simmetria (questa 'parechesi') è potenziata dall'identico attacco con µή "non" e dalla circostanza che entrambi gli imperativi sono seguiti dall'apostrofe in vocativo all'interlocutore ("nutrito da Zeus" e "vecchio"): un gioco di corrispondenze che non vuol essere 'espressivo' o enfatizzante, ma rispecchia uno stato di cose in cui le sillabe pensate e pronunciate continuano a galleggiare per un certo lasso di tempo nella memoria del narratore prima di finire sommerse fra altri suoni e altri richiami. Di matrice palesemente orale è poi il ricorrere di 'incidenti' (infortuni) seguiti da auto-correzione a breve distanza come effetto del dato inesorabile per cui, secondo un'espressione oraziana (Ars poet. 390), la voce umana, una volta emessa, non può tornare indietro (nescit vox missa reverti): negligenze impensabili nel caso in cui un cantore potesse intervenire sul proprio testo e correggerlo eliminando l'infortunio in cui era incorso.1 4. Tre incidenti a) Nella parte iniziale del canto V c'è una serie di ammazzamenti introdotti da una frase-verso “X uccise Y”, con verbi diversi ma equivalenti usati per esprimere l'idea di 'uccidere' (ἐνήρατο al v. 43 e al v. 59, ἔπεφνε al v. 69). Senonché al v. 75 il narratore usa per il nominativo X e l'accusativo Y due nessi (rispettivamente Εὐρύπυλος Εὐαιµονίδης “Euripilo figlio di Evemone” e Ὑψήνορα δῖον “il nobile Ipsenore”) che da soli colmano la misura del verso senza lasciare spazio per il predicato verbale. Segue, dopo il v. 75, sulla scia di “il nobile Ipsenore”, un'amplificazione relativa a questo figlio di un sacerdote di Scamandro. Ormai il verbo principale è stato omesso e il cantore non si sentiva in grado di reinserirlo lungo lo stesso sviluppo sintattico. Un poeta che avesse composto con l'ausilio della scrittura avrebbe modificato i vv. 76-8 inserendo, come negli altri casi, il verbo mancante; invece un poeta orale non può farlo ed è costretto a tornare sui suoi passi lasciando i versi precedenti come sospesi nell'aria. A questo punto il narratore si richiama nuovamente a Ipsenore con il pronome τόν “lui”, ripete in una sede diversa “Euripilo figlio di Evemone” (v. 79) e inserisce finalmente il verbo mancante con ἔλασ᾽ “colpì” al v. 80:2 Euripilo figlio di Evemone il nobile Ipsenore, figlio del prode Dolopione che era un sacerdote di Scamandro onorato come un nume dal popolo ... lui Euripilo, splendido figlio di Evemone, colpì alla spalla, mentre gli fuggiva davanti, balzando

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1 Per altre considerazioni su questi aspetti della dizione omerica rimando a Ferrari 1986, pp. 11-34 e 2007a, pp. 19-33. 2 Kirk si limita a osservare, ignorando l'incidente, che “the main verb is postponed for all of five vv.”.

4 in corsa con la sua spada, e gli mozzò il braccio pesante.

b) In VI 337-39 Paride, conversando col fratello Ettore che lo vorrebbe meno remissivo e meno angustiato dalle (meritate) censure dei concittadini, dichiara di essere pronto a riprendere le armi e a tornare sul campo di battaglia seguendo il consiglio datogli da Elena: Poco fa la mia sposa mi rivolse parole gentili per incitarmi alla guerra, e pare anche a me che sia meglio così: la vittoria alterna i suoi beniamini.

Senonché, come già notava lo scolio A a VI 337a, l'affermazione è in contrasto con ciò che sappiamo da III 427-36, dove Elena aveva sfidato il compagno ad affrontare di nuovo Menelao usando parole tutt'altro che 'gentili' (µαλακοῖς ἐπέεσσιν), anzi sarcastiche e provocatorie secondo quanto osservava lo stesso Paride (III 438: χαλεποῖσιν ὀνείδεσι "con aspri rimproveri"), e tali comunque da non giustificare la spiegazione di Kirk secondo cui Paride si riferirebbe a un contrasto fra il tono usato da Elena e quello usato da Ettore. In effetti in VI 337 Paride ha sbagliato espressione (ad es. avrebbe potuto usare, data la condizione metrica, στερεοῖς ἐπέεσσιν "con dure parole" di XII 267). La contraddizione è ineliminabile,3 ma se allarghiamo appena un poco lo sguardo troviamo la verosimile spiegazione dello scambio fra asprezza e dolcezza: di qui a pochi versi la stessa Elena interverrà rivolgendosi non già al pur presente compagno ma al cognato Ettore, e lo farà proprio con parole gentili (VI 343 µύθοισι ... µειλιχίοισι). Sembra dunque essersi verificato un lapsus per anticipazione: il narratore già pensava alla successiva apostrofe di Elena al cognato nel momento in cui faceva ricordare da Paride ciò che la stessa Elena aveva detto nel canto III. c) Un caso involontariamente comico, messo in evidenza da Janko (1982, p. 99 s.), si ha nel canto XIII. Il troiano Deifobo cerca di colpire con l'asta il cretese Idomeneo, ma questi evita il colpo, che va invece a centrare Ipsenore uccidendolo sul colpo (v. 412). Deifobo esulta, gli Achei restano attoniti, ma Antiloco si avvicina al corpo di Ipsenore e lo protegge permettendo a due compagni di sollevarlo e di trasportarlo “che sordo gemeva” (βαρέα στενάχοντα) verso le navi (vv. 417-23): Disse così, pena venne agli Argivi per il suo vanto e specialmente al saggio Antiloco agitò il cuore, ma per quanto afflitto non trascurò il compagno: di corsa fu intorno a lui e lo riparò con lo scudo.

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3 Tentativi come quelli di intendere l'affermazione di Paride come una forma di volontario mascheramento indotto da vergogna di fronte al fratello o come analessi interna non hanno alcun appiglio nel testo, e in più nel primo caso bisogna tener conto che Elena è presente e sarebbe in grado di smentire il compagno, nel secondo che questa presunta pausa di dolcezza sarebbe incuneata fra due momenti (raccontati dettagliatamente) di segno opposto.

5 Poi due fidati compagni se lo caricavano sulle spalle, Mecisteo figlio di Echio e il nobile Alastore, e lo trasportavano che sordo gemeva alle concavi navi.

Un morto che piange! L'assurdità, provocata dal riuso letterale di tre versi della scena in cui Teucro ferito da Ettore con un masso viene trasportato in lacrime alle navi (VIII 332-34 = XIII 421-23), è rimasta nella vulgata del poema ma fu evidentemente notata da Aristarco quando, non sappiamo se sulla base di esemplari a noi ignoti, modificava “che gemeva” (στενάχοντα) in “che gemevano” (il duale στενάχοντε, riferito ai due compagni che trasportano il corpo).4 Janko (1998) ha poi individuato vestigia di oralità 'primaria' anche in impacciate ripetizioni come in Il. XIV 170-78, dove per quattro volte l'aggettivo “ambrosio (divino)” è ripetuto senza alcuna riconoscibile ragione stilistica e dove troviamo, in riferimento ai riccioli (πλοκάµους) di Era al v. 177, una variante, registrata da Zenodoto di Efeso e da Aristofane di Bisanzio (ma non accolta da Aristarco di Samotracia), καλοὺς καὶ µεγάλους “belli e grandi” per καλοὺς ἀµβροσίους “belli (e) ambrosii” della vulgata, che si può considerare un tentativo, in verità maldestro, di ridurre l'esubero di ripetizioni.5 5. Il problema della trascrizione Come e quando per la prima volta la scrittura fosse usata in relazione alla recita dell'epos è questione destinata a restare materia di congettura, ma possiamo supporre che fosse originariamente impiegata non come ausilio alla composizione o alla diffusione di un testo ma come uno strumento per 'registrare' ciò che continuava a essere meditato e comunicato con le tecniche orali. Sintomatica in questo senso la tradizione, riferita da Paus. 9.31.4, secondo cui gli Erga di Esiodo sarebbero stati trascritti dai Beoti che abitavano intorno all'Elicona su una lastra di piombo: "un supporto difficilmente trasportabile, che tradisce la natura di 'cimelio' dell'esemplare scritto del testo, pensato come copia da conservare, non come versione da far circolare” (Ercolani 2006, p. 91). Lord (1953) avanzò l'ipotesi che i poemi omerici fossero testi orali dettati a uno scriba (oral dictated texts): un procedimento che trova riscontro nel personaggio di un maestro di scuola di Focea, Testoride, che secondo la Vita pseudo-erodotea (§§ 15-17) avrebbe trascritto sotto dettatura di Omero (παρὰ τοῦ Ὁµήρου ἐγράψατο) la Piccola Iliade e la Focaide offrendogli in cambio 4 Alla nota di Janko (ad 419-23) “Hupsenor is stone dead (402-23), his groans troubled the ancients … had Homer used writing to better his poem, he would surely have erased this error”. Nagy 1999, p. 270 ha obiettato che “both variants … are compatible with the formulaic system of Homeric poetry”, e dunque avremmo il pieno diritto di optare a favore di στενάχοντε. Ma si tratta di un uso della nozione di 'variante indifferente' che viola l'aureo principio dell'utrum in alterum (è tanto ovvio il passaggio da στενάχοντα a στενάχοντε quanto sarebbe incomprensibile quello inverso). R. Payne Night cercava di liberarsi della difficoltà eliminando in blocco XIII 418-23 (Ameis Hentze si limitavano invece a espungere XIII 421-23) e West 2011, p. 279 si dichiara propenso a seguirlo, ma egli stesso confessa di non scorgere ragione che possa aver suggerito l'inserimento di tali versi. 5 Per altre osservazioni nella stessa ottica vedi Gunn 1970 e Russo 1994.

6 ospitalità e assistenza salvo poi trasferirsi a Chio e appropriarsi di tutto il materiale spacciandolo per suo,6 e si possono richiamare termini di riferimento più remoti come la tradizione secondo cui Vyasa (il leggendario autore del Mahabharata) avrebbe dettato tutto il suo immemso poema al suo scriba Ganesa e il passo biblico in cui si narra che "Geremia chiamò Baruc, figlio di Neria, e Baruc scrisse, sotto dettatura di Geremia, tutte le parole che il Signore gli aveva detto nel rotolo della scrittura" (Ger. 36.4). Un'operazione di dettatura avrebbe però comportato una situazione nuova e per vari aspetti artificiale per un bardo epico, che mal si sarebbe adattato ai ritmi rallentati inerenti ad essa, abituato com'era a eseguire i suoi componimenti a contatto con un uditorio che lo incoraggiava, lo applaudiva, partecipava emotivamente e intellettualmente alle vicende narrate ("the audience is a partner and contributor to the performance" [Hainsworth 1970, p. 92]), e inoltre niente impediva che narratore e copista riesaminassero più tardi le parti già eseguite tornando sui loro passi e correggendo errori, sviste, contraddizioni (e questo vale anche per un rapsodo che, conoscendo la scrittura, registrasse un brano che egli stesso aveva eseguito e memorizzato).7 Tuttavia nel caso dell'epica omerica un ausilio prezioso per la trascrizione del testo era offerto dalla sua natura formulare e dalla frequenza dei versi ripetuti: è pertanto possibile che la trascrizione fosse condotta su una performance orale qual è quella implicita nel Certamen (§ 18), dove si dice, a proposito dell'inno omerico ad Apollo, che dopo che Omero lo aveva recitato (ῥηθέντος ... τοῦ ὕµνου) nella panegyris di Delo gli abitanti dell'isola lo trascrissero su una tavola bianca (λεύκωµα) che dedicarono nel tempio di Artemide: cosa che evidentemente non avrebbero potuto fare se gli Omeridi non avessero fornito loro una registrazione scritta dell'esecuzione appena realizzata. Più scribi che si fossero familiarizzati con la scrittura potevano registrare a turno porzioni di testo (rapsodie) su tavolette cerate grazie a un insieme di abbreviazioni - un'eventualità già profilata dallo stesso Lord (1971, p. 125 s.) in alternativa alla dettatura - che consentisse loro di tener dietro ai ritmi tradizionali della recita per poi trasferire il materiale per esteso su papiro (se ce n'era a disposizione) o su 'pergamena' (Herodot. 5.58.3 dice che διφθέραι "pelli" di capra o di pecora erano usate anticamente dagli Ioni come supporto scrittorio): un travaso dalla recita alla scrittura tanto più 6 Da maestro di scuola (una condizione che ben si addiceva alla trascrizione di esecuzioni orali) Testoride si promuove, e con successo (§17), a rapsodo (per un'analisi del passo della Vita vedi Nagy 2015). Ma la vicenda ha un seguito a § 24 quando Testoride, saputo che Omero è giunto a Chio, è diventato pedagogo dei figli di un ricco possidente del borgo di Bolisso e si è reso famoso per tutta l'isola con la sua arte di rapsodo, fugge lontano. Da notare che nel centro dell'isola Omero, dopo essersi arricchito come rapsodo, sposa una donna del luogo da cui ha due figlie, una delle quali sposa un isolano (§25): un piccolo mito di fondazione inteso a legittimare le pretese degli Omeridi di Chio a vantarsi discendenti di Omero. 7 La registrazione di un testo orale è un'operazione problematica e complessa che comporta, come ha sottolineato Ready 2015, un'intensa e continua co-operazione fra poeta e copista: difficoltà a cui i raccoglitori di tradizioni folkloriche prima dell'avvento dei moderni mezzi di registrazione meccanica cercarono di ovviare nei modi più vari (pause, abbreviazioni, ritmo di dettatura rallentato rispetto a quello consueto nelle esecuzioni orali, ripetizione della dettatura...).

7 agevolmente realizzabile se gli scribi interessati erano rapsodi della stessa corporazione, predisposti professionalmente a seguire la traccia del collega di turno.8 Una trascrizione operata sulla totalità del poema o gradualmente per singole parti dall'interno di una gilda di rapsodi, non già dall'esterno per iniziativa di un principe o di una comunità cittadina o di una cerchia templare, aveva anche il vantaggio di tutelare i recitanti dai rischi di un'appropriazione indebita del testo appena trascritto quale abbiamo appena visto nel caso di Testoride (un 'furto' già sentito come un pericolo alla fine del VII secolo in Theogn. 20 λήσει δ᾽ οὔποτε κλεπτόµενα "né mai [i miei versi] saranno rubati di soppiatto", vedi Cerri 1991). E solo una trascrizione di questo tipo riesce a spiegare come la tradizione testuale omerica abbia fedelmente conservato al proprio interno incidenti che l'uso della scrittura come ausilio per la composizione avrebbe facilmente permesso di eliminare. In questa chiave meglio si spiega anche la totalità delle iterazioni letterali di più o meno lunghe sequenze in ognuno dei due poemi e a cavallo fra Iliade e Odissea o fra queste e il resto dell'epica greca arcaica. Nel caso di gruppi di versi relativi a scene tipiche che dovevano far parte del repertorio tradizionale dei rapsodi (in particolare, vestizione del guerriero e pratiche sacrificali) o anche a discorsi riferiti a breve distanza un processo di memorizzazione orale è possibile (Lord 1991, p. 89), ma per passi strettamente legati alle vicende dell'Iliade o dell'Odissea una loro fedele riproposizione è difficile da immaginare senza l'ausilio di un testo scritto di riferimento. Goold (1977, p. 18) ricordava in proposito la ripetizione parola per parola di Il. I 37-42 (invocazione di Crise ad Apollo) in I 451-56 e di Od. XIV 258 ss. (falso racconto di Odisseo) in XVII 427 ss., e parecchi altri se ne potrebbero 8 Senza voler indulgere alla 'filologia sperimentale' (un'espressione coniata da W. Schadewaldt in relazione al teatro) mi limito a osservare che una registrazione dei primi due versi dell'Iliade (in alfabeto ionico arcaico e con il dicolon a marcare la pause ritmiche come nella kotyle di Ischia) ΜΕΝΑΕΔΘΕ : ΠΕΛΑΧ ΟΛ : ΟΣΜΥΡΑΧ : ΑΛΓΕΘ non doveva porre problemi di decrittazione a uno scriba/rapsodo anche se il rapporto fra i grafemi utilizzati è, a confronto con le nostre edizioni a stampa, rispettivamente di 13 a 28 e di 14 a 30. Registrazioni di esecuzioni orali, considerando il contesto simposiale (con la produzione di catene tematiche improvvisate) e la grande proliferazione di varianti testuali sia fra diverse versioni degli stessi carmi (lectiones priores e lectiones alterae) sia nelle riprese da poeti famosi (Tirteo, Mimnermo, Solone) rispetto al testo che degli stessi brani che conosciamo da testimoni diversi sono indubbiamente i carmi della silloge teognidea (talora elegie non brevi), per cui rimando a Ferrari 2009, pp. 5-45. Lo stesso vale per il piccolo corpus di carmi conviviali attici (884-905 PMG) trasmesso da Ateneo. Un convegno sulla textualization delle più varie tradizioni epiche fu tenuto nel 1996 a Turku (Finlandia): dai numerosi interventi emerse una gamma molto varia di modalità di passaggio dall'oralità alla scrittura. Nell'introduzione agli Atti che ne seguirono il curatore della raccolta, Lauri Honko (2000, p. 8), osserva in termini generali, a proposito della dettatura, che essa è stata sì praticata ma non è "the best way to document a song" e relativamente alla possibilità di trascrivere una performance orale prima dell'invenzione dei moderni strumenti di registrazione ricorda il caso di Elias Lönnrot, il trascrittore del Kalevala finnico (la cui prima versione fu pubblicata nel 1835), che sviluppò un metodo che registrando solo le prime lettere delle parole permetteva al cantore "di procedere senza quelle interruzioni che spesso possono limitare o danneggiare il canto". Sui vari segnali di oralità come indizi di una tradizione testuale del Nuovo Testamento fondata su esecuzioni orali vedi Rhoads 2010. Ai poemi omerici come "the record merely of a performance", ma senza porsi il problema della modalità di registrazione, si riferiva già Hainsworth 1970, p. 90.

8 ricordare: ad esempio, l'affinità fra le due 'scene speculari' del duello fra Ettore e Aiace nel canto VII e di quello fra Paride e Menelao nel III comprende non solo strette analogie nello sviluppo del racconto ma anche il frequente ritorno letterale di versi o blocchi di versi.9 Per contro, i casi di violazione dell'iterazione letterale, talvolta oscurati nelle moderne edizioni da un'artificiale standardizzazione, mostrano che lo scrupolo per la ripetizione letterale di più o meno ampi blocchi di versi venne a intrecciarsi a una più antica propensione alla ripresa non sempre rigorosamente esatta di spezzoni già eseguiti dallo stesso o da altro rapsodo. Ad esempio, dopo che Menelao è stato trafitto dalla freccia di Pandaro Agamennone ordina all'araldo Taltibio di correre a chiamare il medico Macaone (IV 195) sì che (egli) visiti (ἴδῃ) Menelao, il pugnace capo degli Achei (ἀρχὸν Ἀχαιῶν).

Quando però, solo dieci versi dopo, Taltibio raggiunge Macaone per riferirgli il messaggio di Agamennone, il verso diventa (IV 205) sì che (tu) visiti (ἴδῃς) Menelao, il pugnace figlio di Atreo (Ἀτρέος υἱόν).

Per entrambi i passi questo è il testo della 'vulgata' (il testo tramandato dalla più o meno stragrande maggioranza degli esemplari e generalmente rappresentativo del modo in cui si leggeva Omero in età tardo-ellenistica) anche se alcuni esemplari hanno omologato la chiusa del primo verso a quella del secondo, o viceversa. Allen poneva stranamente a testo nell'uno e nell'altro caso la versione attestata in misura minoritaria mentre West segue per il v. 195 la vulgata (confermata da tre papiri) ma adegua ad essa la fine del v. 205 così da riprodurre in entrambi i casi, per l'adonio finale, ἀρχὸν Ἀχαιῶν "capo degli Achei". Se consideriamo che la formula ἀρήϊον Ἀτρέος υἱὸν "pugnace figlio di Atreo" ricorreva per lo stesso Menelao in IV 98 e ricompare in XVII 79 mentre il nesso (non formulare) ἀρχὸς Ἀχαιῶν "capo degli Achei" non è mai attestato altrove né in Omero né in tutta la restante poesia greca e attribuisce a Menelao, sul modello di passi come II 541e IV 464 ἀρχὸς Ἀβάντων "capo degli Abanti" e XV 519 ἀρχὸν Ἐπειῶν "capo degli Epei", un ruolo di comandante in capo degli Achei che egli è ben lungi dal rivestire, ci si accorge che il narratore, giunto a IV 195, ha omesso di ripetere, forse per dissimilazione rispetto a Ἀσκληπιοῦ υἱόν "figlio di Asclepio" del verso precedente, l'atteso Ἀτρέος υἱὸν "figlio di Atreo" ed è ricorso all'invenzione estemporanea di una pseudo-formula salvo tornare sul binario ortodosso al v. 205. 9 VII 40 = III 20, VII 49 = III 68, VII 54-6 = III 76-8, VII = III 86, VII 92 = III 95, VII 177-78a = III 318-19a, VII 220 = III 276 e 320, VII 244 = III 355, VII 250-54 = III 356-60.

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6. Contatti Una precoce registrazione dei poemi è infine presupposta dagli echi che di segmenti testuali omerici affiorano nella più antica lirica greca superstite. L'argomento è stato vivacemente dibattuto e c'è chi, come A. Burgess (2001, pp. 114-3), ha voluto negare alla radice qualsiasi contatto puntuale fra i poemi quali ci sono pervenuti e la poesia del VII e della prima metà del VI secolo a.C., né certo basta la coincidenza nell'uso di una formula o nella elaborazione di uno schema narrativo per dimostrare una memoria puntuale di un determinato passo, né si può dimenticare che in età arcaica le relazioni inter-testuali fra testi diversi si attivavano entro una cornice culturale ben diversa da quella ellenistica, quando l'allusione ammiccante sarebbe stata ricercata e apprezzata da poeti e destinatari. Talvolta anche affinità verbali molto precise non implicano una dipendenza diretta. Esemplare il caso dell'esortazione di Priamo a Ettore in Il. XXII 71-76 e di un'elegia di Tirteo (fr. 10.21-20), dove il nesso fra rappresentazione del vecchio che spira nella polvere stringendo fra le mani i genitali insanguinati ed esortazione marziale è assai più lineare e coerente (è una vergogna che un vecchio muoia davanti ai giovani, la cui morte in battaglia è sempre e comunque cosa nobile e bella) rispetto al passo omerico (il vecchio Priamo intende incitare il figlio non già a combattere bensì a rientrare all'interno della mura rinunciando ad affrontare Achille). Si dovette trattare di due realizzazioni diverse, ancorché gemelle, di uno stesso modulo espressivo tradizionale. Se poi troviamo un'esplicita citazione di un passo dell'Iliade (VI 146) in un brano elegiaco di Simonide di Ceo (fr. 19.1-2 W.) ἓν δὲ τὸ κάλλιστον Χῖος ἔειπεν ἀνήρ· 'οἵη περ φύλλων γενεή, τοίη δ`καὶ ἀνδρῶν' ... e la cosa più bella che disse l'uomo di Chio: "Quale la generazione delle foglie, tale quella degli uomini".

non ne consegue con certezza, considerata la tipicità del motivo, che al nostro poema si richiamasse Mimnermo quando diceva (fr. 2.1 s. W.): ἡµεῖς δ᾽, οἷά τε φύλλα φύει πολυάνθεµος ὥρη ἔαρος... e noi, quali le foglie che genera la stagione molto fiorita di primavera...

Tuttavia alcuni passi della lirica arcaica mostrano, in base non solo al lessico ma anche al contesto e alla presenza di uno stesso motivo, di intrattenere un legame specifico con il testo omerico facendo ragionevolmente sospettare che il poeta più recente prendesse spunto da esso per una sua personale elaborazione.

10 Possiamo ricordare innanzi tutto due luoghi di Stesicoro di Imera, nato intorno al 630 a.C., ambedue dalla Gerioneide, un poemetto lirico per i cui brani superstiti siamo in buona parte debitori a un papiro pubblicato nel 1967 (P.Oxy. 2617): vi si narrava la storia della cattura da parte di Eracle delle vacche del gigante Gerione nell'isola di Eritia, nell'estremo Occidente.10 In S13.2-6 PMGF la madre di Gerione supplica il figlio di rinunciare a battersi con Eracle: . . . . . .] ἐγὼν [µελέ]α καὶ ἀλαστοτόκος κ]αὶ ἄλ[ασ]τα παθοῖσα . . . . . . Γ]αρυόνα γωνάζοµα[ι, αἵ ποκ᾽ ἐµ]όν τιν µαζ[ὸν ἐ[πέσχον ... io [misera] e che [ho generato] un figlio sventurato e ho sofferto pene indimenticabili, supplico [te,] Gerione, se mai ti [porsi] la mia mammella...

Altrettanto fa Ecuba rivolgendosi al figlio Ettore prima del suo duello con Achille (Il. XXII 82 s.): Ettore, figlio mio, abbi rispetto e pietà di me se mai ti porsi la mammella (µαζὸν ἐπέσχον) che fa scordare le pene.

Non solo troviamo una perfetta sovrapposizione fra i due passi nella frase "se mai ti porsi la mammella" (l'integrazione in fine di Stes. S13.6 è pressoché inevitabile), ma la situazione è la medesima (esortazione di una madre a non affrontare un avversario troppo superiore), con un gesto dichiarato (ed eseguito) dalla donna (mostrare la mammella) che non ricorre altrove nella poesia greca arcaica a noi nota anche se riappare (ma in diversa situazione: una supplica per la propria salvezza) per la Clitemestra delle Coefore (Aesch. Ch. 896-98). E l'audace e prezioso ἀλασ-| [τοτόκος κ]αὶ ἄλ[ασ]τα παθοῖσα "io che [partorii] / inobliabile rovina e inobliabili pene ho sofferto" di Stesicoro ci riconduce ai lamenti di un'altra madre omerica, Tetide, per il figlio Achille in Il. I 414 αἰνὰ τεκοῦσα "io che partorii rovina" e XVIII 54 δυσαριστοτόκεια "sventurata genitrice di un eroe". Più oltre, nella conclusione dello scontro, Gerione, colpito in fronte da una freccia di Eracle intrisa del sangue dell'Idra di Lerna, piega il capo ormai esanime (S15, col. II, 14-7 PMGF): ἀπέκλινε δ᾽ ἄρ᾽ αὐχένα Γαρ[υόνας ἐπικάρσιον, ὡς ὅκα µ[ά[κω[ν ἅτε καταισχύνοισ᾽ ἁσπαλὸν [δέµας αἶψ᾽ ἀπὸ φύλλα βαλοῖσα ν[ ... e Gerione piegò il collo di lato come quando un papavero, sfigurando la delicata [figura] d'un tratto lasciando cadere le sue foglie ...

Non diversamente un figlio di Priamo, Gorgitione, in Il. VIII 306-8: 10 A favore di un rapporto diretto fra Stesicoro e il testo dell'Iliade vedi Maingon 1980 e Kelly 2015, pp. 35-9. Più in generale, un cauto esame delle relazioni fra Omero e la lirica arcaica è offerto da Fowler 1987, pp. 3-52.

11 Come in un orto un papavero (µήκων) piega (βάλεν) la corolla per il peso del frutto e le piogge primaverili, così reclinò su un fianco il capo gravato dall'elmo.

Anche questa volta le coincidenze verbali (µάκων / µήκων "papavero" e βαλοῖσα / βάλεν) si collegano a un dato che non trova altri riscontri: il paragone di un guerriero colpito da una freccia (Gorgitione è stato centrato per sbaglio da Teucro che teneva sotto tiro Ettore) con un papavero che reclina la sua corolla.11 Non che la dinamica floreale sia identica - in Stesicoro il papavero lascia cadere le sue foglie, in Omero è gravato dal suo stesso frutto (la capsula carica di semi) e dalle piogge -, ma proprio in una simile variazione si esercita lo zelo manieristico del poeta imerese, che modifica in chiave patetica l'immagine del modello (le foglie che cadono sono figura di morte, i semi del frutto sono promessa di rinascita). Un meccanismo simile è riconoscibile per il volo di Afrodite dall'Olimpo alla terra nell'Ode ad Afrodite (1 V.) di Saffo (contemporanea di Stesicoro) e dalla terra all'Olimpo in Il. V 364-74. Come ha riconosciuto Di Benedetto (1973), la sovrapposizione verbale, nel marcare il momento dell'arrivo, tra Sapph. 1.13 αἶψα δ᾽ ἐξίκοντο "e subito giunsero" e Il. V 367 αἶψα δ᾽ ἔπειθ᾽ ἵκοντο "e poi subito giunsero" si associa alla corrispondenza fra la domanda rivolta dalla dea a Saffo (1.19 s.) τίς σ᾽, ὦ | Ψάπφ᾽, ἀδίκησι; "Chi, o Saffo, ti offende?" e quella rivolta dalla madre Dione alla stessa Afrodite (V 373) τίς νύ σε τοιάδ᾽ ἔρεξε, φίλον τέκος, Οὐρανιώνων; "Chi fra i celesti, figlia mia, ti fece questo torto?", ma con l'inversione per cui, lungo la medesima trafila offesa / volo del cocchio / consolazione, Saffo riscatta - scriveva Di Benedetto - "la situazione di disagio e di inferiorità in cui si trova Afrodite: la dea dell'amore questa volta vola con il suo cocchio non per cercare, ma per recare conforto a chi la prega". Un contatto evidente si coglie anche fra un verso (un esametro dattilico!) di un poeta lirico attivo a Sparta nel VII secolo, Alcmane (fr. 77 PMGF) Δύσπαρις, Αἰνόπαρις, κακὸν Ἑλλάδι βωτιανείρᾳ Paride disgraziato, Paride funesto, guaio per l'Ellade nutrice di eroi

e l'apostrofe indirizzata da Ettore al fratello in III 39 = XIII 769 Δύσπαρι εἶδος ἄριστε γυναιµανὲς ἠπεροπευτά Paride disgraziato, primo per bellezza, donnaiolo, seduttore

Dyspari, "invenzione ironica" (Kirk) del narratore per mezzo del prefisso squalificante dys- che ritroviamo anche altrove in Omero (ad es. δύσµητερ "madre snaturata" in Od. 23.97 e il già ricordato δυσαριστοτόκεια "sventurata madre di un eroe" di Il. XVIII 54) mai però in nesso con un 11 Diversa prospettiva ha l'immagine del capo mozzato di Ilioneo sollevato da Peneleo come fosse una testa di papavero (κώδεια) in Il. XIV 493-500.

12 nome proprio, è stato ribadito e ampliato da Alcmane attraverso un Ainoparis "Paride funesto" che a sua volta ci richiama, anche in termini di suono, l'omerico ainomoros "dal triste destino" di Il. XXII 481 e Od. IX 53. Perfino il recenziore canto X sembra rispecchiarsi d'improvviso, già verso la fine del VII secolo, in un'elegia teognidea quando la promessa di futuri onori fatta da Nestore per chi si avventurerà nottetempo nel campo nemico (v. 217) αἰεὶ δ᾽ ἐν δαίτῃσι καὶ εἰλαπίνῃσι παρέσται e sempre sarà presente ogni volta a conviti e feste

si ripropone per la fama futura di Cirno, destinatario del poeta megarese, con piena corrispondenza nella seconda parte dei rispettivi esametri (v. 239 s.): ... θοίνῃς δὲ καὶ εἰλπίνῃσι παρέσσῃ ἐν πάσαις, πολλῶν καίµενος ἐν στόµασιν ... e sarai presente a banchetti e alle feste tutte stando sulle bocche di molti.

7. Persistente fluidità del testo e congelamento della dizione Anche se si può essere ragionevolmente convinti di una precoce registrazione dei poemi c'è comunque da chiedersi come mai il loro testo restasse a lungo liquido e cangiante nel dettato (varianti più o meno significative) e nel numero dei versi. Varianti testuali e versi omessi o, più spesso, aggiunti compaiono nelle citazioni degli scrittori attici di età classica, nei papiri di età tolemaica, nelle edizioni e nei commenti dei grammatici alessandrini e, sia pure in misura minore, nei testimoni di età ellenistica e imperiale e nella stessa tradizione manoscritta medievale. E il fenomeno non investe solo singole parole o frasi ma riguarda occasionalmente scenari più ampi: da uno scolio A a VI 128 abbiamo notizia che "alcuni" spostavano altrove, presumibilmente prima di V 127 s.,12 l'incontro fra Glauco e Diomede (VI 119-236) e l'esemplare di Zenodoto trasferiva dopo VIII 52 il verso che indicava il sorgere del sole successivo alla giornata dedicata dagli Achei alla costruzione del muro (VIII 1: "Aurora dal peplo di croco si spandeva su tutta la terra"), e di fatto troviamo inserito proprio lì questo verso in un papiro del III secolo a.C. (P. Hibeh I 21). Né si può dimenticare, per quanto sia materia molto controversa (i singoli artisti erano liberi di rielaborare i loro modelli verbali e di far collassare momenti diversi di un racconto nella simultaneità di un singolo scenario), che in raffigurazioni vascolari di età arcaica o dell'inizio dell'età classica alcuni episodi dell'Iliade si presentano con sceneggiature in parte divergenti da quelle che troviamo nel poema.13 12 In V 127 s. Atena dice a Diomede di avergli tolto dagli occhi la nube che li copriva perché potesse riconoscere dèi e uomini, mentre in VI1 128 s. lo stesso eroe dubita se Glauco sia un immortale sceso dal cielo (Fornaro 1992, pp. 25-9). 13 Su questa problematica vedi in particolare Lowenstam 1992, p. 168-77 e 1997, pp. 31-44 e Burgess 2001, pp. 59-85.

13 In un vaso a figure rosse (Paris, Louvre G 146 = LIMC, s.v. Agamemnon, nr. 52) di Macrone, attivo nel primo quarto del V secolo, Briseide viene trascinata personalmente per mano da Agamennone via dalla tenda di Achille proprio come l'Atride minaccia di fare, ma non fa, in I 184 s. (cf. I 356, II 240 e IX 106 s. e 111): segno che questa versione doveva essere nota allo stesso narratore del I canto solo per essere rifiutata a favore dell'intervento di due araldi. Su alcuni vasi tardo-arcaici (LIMC s.v. Achilleus, nr. 433, 448, 453) all'ambasceria del canto IX partecipa anche Diomede. Si è pensato a un errore di memoria, ma è inverosimile che esso potesse coinvolgere artisti diversi. Sul vaso François, del 570 circa a.C., i partecipanti alla gara con i carri ai funerali di Patroclo sono, in ordine d'arrivo, Odisseo, Automedonte, Diomede, Damasippo, Ippotoonte, non, come nel canto XXIII dell'Iliade, Diomede, Antiloco, Menelao, Merione, Eumelo. Una certa versione del poema, ancorata a una dizione risalente alla seconda metà dell'VIII secolo a.C., dovette imporsi su altre perché dotata di una particolare autorità che le veniva, oltre che dalla sua superiore qualità, dall'essere espressione di una cerchia rapsodica che vantava legami riconosciuti con colui che la tradizione chiamava 'Omero', ma la fissazione in forma scritta poté frenare solo in parte il processo di formazione di nuove varianti dovuta all'incessante ripetersi di esecuzioni rapsodiche in diverse località (la condizione itinerante è un tratto caratteristico dei rapsodi) e all'interazione fra nuove esecuzioni e nuove trascrizioni. Per contro, un precoce rallentamento nell'evoluzione della forma dei poemi è dimostrato da due dati fondamentali: i poemi non ci sono stati tramandati, diversamente da poemi di origine orale come il Mahabharata, il Gilgamesh o il Nibelungenlied, in molteplici e ben differenziate redazioni e la lingua artificiale dell'epica omerica ci è stata complessivamente trasmessa a uno stadio di evoluzione più antico rispetto a quello attestato per Esiodo, per i frammenti del Ciclo e per gli Inni rapsodici essendo meno gremita rispetto a tutto il resto dell'epica greca arcaica di tratti linguistici innovativi:14 un assetto linguistico che smentisce sia la tesi, proposta nei Prolegomena ad Homerum di Friedrich August Wolf (1795) e ripresa fra gli altri da Minna Skafte Jensen (1980, pp. 96-111) e da G.S. Kirk (1985, pp. 10-4), di una trasmissione orale dei poemi fino al VI secolo a.C. e all'Atene di Pisistrato sia il più sofisticato modello evoluzionistico in cinque fasi di progressiva 'testualizzazione' elaborato da Gregory Nagy. Alcune testimonianze fanno riferimento a un'iniziativa di Pisistrato (Aelian. Var. hist. 13.14, Anth.Pal. 11.442) o di Ipparco ([Plat.] Hipparch. 228b-c) di trasferire per la prima volta in Attica i 14 Vedi Janko 1982. I tratti innovativi riguardano in primo luogo la perdita dell'effetto vocalico del digamma antevocalico, i genitivi plurali contratti della prima declinazione, i genitivi singolari della seconda declinazione in -ου, i dativi plurali brevi in -οις, -αις, l'affermarsi della forma Διός a danno di Ζηνός. Il digamma, ad esempio, conserva il suo effetto nell'84% dei casi nell'Iliade, nell'83% nell'Odissea, nel 66% e nel 62% dei casi nella Teogonia e negli Erga di Esiodo, nel 54% dei casi nell'inno A Demetra.

14 poemi omerici perché fossero recitati dai rapsodi in occasione delle grandi Panatenee (la festa quadriennale che si svolgeva alla fine di luglio nel terzo anno di ogni Olimpiade e che era stata riorganizzata nel 566 a.C.)15 e Giuseppe Flavio afferma nel Contra Apionem (1.12) che Omero non affidò i suoi poemi alla scrittura poiché essi, tramandati mnemonicamente in forma diversificata a seconda delle diverse località, solo in seguito furono ricomposti da canti separati,16 ma non è realistica l'idea di una redazione pisistratica su larga scala come prima trascrizione di canti circolanti oralmente. Si sarà trattato, piuttosto, dell'allestimento in Atene di nuovi esemplari da utilizzare come termini di riferimento e di controllo per le esecuzioni dei rapsodi. Non si riesce infatti a immaginare come Pisistrato (o chi per lui) potesse far registrare in forma scritta canti suscettibili di ricomporre, come tessere di un puzzle, poemi dalla complessa struttura narrativa se tali canti non avessero già fatto parte di due complessi conclusi e trascritti. L'esistenza di esemplari scritti anteriori a Pisistrato è del resto presupposta da Cicerone, quando parla di Homeri libros antea confusos (de or. 3.137), e dallo scolio T a Il. X 1 (e cf. anche Eust. 785.41-5), secondo cui il canto X dell'Iliade (la cosiddetta Dolonia) sarebbe stato composto da Omero non come parte dell'Iliade ma come una rapsodia indipendente finché proprio Pisistrato lo avrebbe inserito nel corpo del poema:17 come affermava già Wilamowitz (1916, p. 509), “gli Ateniesi non hanno poetato sull'Iliade: il poema era già pronto da tempo quando pervenne a essi” (e vedi anche Davison 1955). L'ancoraggio alla metà dell'VIII secolo a.C. della più antica registrazione scritta del modello scritto o 'paleotipo' della nostra Iliade e al 700 circa di quello dell'Odissea è congruente anche con l'epoca a cui risalgono i primi esempi a noi noti di esametri graffiti su vasi, ambedue in scrittura 'retrograda' (da destra a sinistra):18 quello su una oinochoe del 740 circa rinvenuta nel Dipylon di Atene (CEG 15 Non abbiamo notizie precise sull'estensione delle recitazioni epiche alle Panatenee e neppure sulla durata della festa - quattro giorni secondo uno scolio a Aristid. Panth. 147.9 (p. 196.20-31 Dindorf), otto secondo J. Neils (1992, p. 15) sulla base di un riesame della documentazione epigrafica -, ma sappiamo che vi si svolgevano molte altre attività: la grande processione di apertura con la presentazione del peplo ad Atena, la corsa con le torce la sera del primo giorno, agoni atletici (compresa la corsa in armi) e ippici, la regata, concorsi musicali per cetra e aulo, la veglia notturna e altro ancora, e occorre tener conto che i riferimenti alla recita del solo 'Omero' alle Panatenee sembrano riguardare non solo Iliade e Odissea ma l'intero ciclo troiano in quanto attribuito a Omero (Sbardella 2012, pp. 38-51). 16 E cf. anche Paus. 7.26.2 (a proposito del cambiamento, imputato dai Sicioni a Pisistrato o a uno dei suoi collaboratori al momento della prima stesura scritta dei poemi, di Δονόεσσαν, una località dell'Acaia, in Γονόεσσαν in II 573) e Tzetzes, Anecd. Gr. 1.6 Cramer (su una commissione di dotti creata da Pisistrato per produrre un testo ufficiale a cui i recitanti delle Panatenee avrebbero dovuto attenersi). 17 La tesi di Gallavotti 1969, riproposta da Cirio 1998, pp.16-22, secondo cui lo scolio T non intendeva riferirsi alla primitiva appartenenza della rapsodia al poema ma voleva sottolineare, in una prospettiva influenzata dalla Poetica di Aristotele (dove µέρος può denotare una parte costitutiva di un'opera), il suo carattere 'episodico' ed eterogeneo ("un intermezzo non necessario allo sviluppo del racconto") noim quadra con l'affermazione secondo cui sarebbe stato Pisistrato a inserirla nel poema (nel poema in generale, non nella sede più idonea, come intendeva Gallavotti). Non è per altro facile immaginare donde possa essere scaturita la notizia: i filologi alessandrini la ignorano così come nulla ci dicono di una redazione 'pisistratica'. La fonte potrebbe essere pergamena e derivare dall'esistenza di copie dell'Iliade prive di tale rapsodia o dalla sua circolazione separata ma sotto il nome di Omero (West 2011, p. 233 s.). 18 Ma risalgono alla prima metà dell'VIII secolo le più antiche iscrizioni greche a noi note, fra cui alcune da Lefkandi (Eubea, forse sul sito dell'antica Eretria), con nomi o parti di nomi, e una da Osteria dell'Osa, sul sito della necropoli di

15 432) ὃς νῦν ὀρχηστῶν πάντων ἀταλώτατα παίζῃ, τοῦ τόδε... colui che ora fra tutti più agilmente danzerà, di lui questo (vaso)...

e i due (preceduti da un rigo di cui è controverso se sia prosa o una sequenza giambica ο trocaica) incisi in alfabeto euboico su una kotyle rodia di Ischia del 735/720 (CEG 454):19 Νέστορος : .[.]. : εὔποτ[ον] : ποτήριον, ὃς δ᾽ ἂ τοῦδε πίησι : ποτηρί[ου] : αὐτίκα κεῖνον ἵµερος αἱρήσει : καλλιστε[φάν]ου : Ἀφροδίτης. Molto buono per berci il vaso di Nestore, ma chi beva da questa coppa subito quello sarà preso da desiderio di Afrodite dalla bella corona.20

Sono ambedue brevi schegge simposiali, skolia: rispettivamente la messa in palio di un premio per il vincitore di una gara di danza e la rivendicazione del potere erotico della coppa su cui è inciso il testo.21 Particolarmente interessante, per la comprensione dello sviluppo della prassi scrittoria, riesce nella kotyle di Ischia il fenomeno grafico per cui, diversamente che nel primo rigo (dove hanno la funzione di separatori fra le singole parole), in entrambi gli esametri i dicola (i due punti allineati verticalmente) dividono i versi in tre parti isolando a sinistra l'hemiepes ('femminile' nel primo Gabi, con la registrazione del grido bacchico εὐοῖν “evoè” (Peruzzi 1992). Una consolidata formalizzazione della lingua epica si coglie poi anche nella cosiddetta iscrizione di Manticlo, risalente al primo quarto del VII secolo a.C., incisa sulla parte anteriore delle cosce di una statuetta bronzea in stile 'dedalico' rinvenuta a Tebe e conservata a Boston, che raffigura un guerriero nudo con una cintura (nr. 326 Hansen): Μάντικλός µ᾽ ἀνέθηκε ϝεκαβόλοι ἀργυροτόχσοι | τᾶς δεκάτας· τὺ δέ, Φοῖβε, δίδοι χαρίϝετταν ἀµοιβ[άν] "Manticlo mi dedicò al signore dell'arco d'argento / dalla decima e tu, Febo, concedi bella ricompensa!" (oltre ai due epiteti epici di Apollo ἑκηβόλος e ἀργυρότοξος cf. Od. III 58 δίδου χαρίεσσαν ἀµοιβήν "concedi gradita ricompensa" e vedi Powell 1991, pp. 167-69). 19 E' stato molto discusso, anche a causa della breve lacuna che nella coppa interviene subito dopo Νέστορος “di Nestore” e che è stata variamente colmata - in particolare con ε[ἰµ]ί o, con Pavese 1996, al quale si deve una capillare revisione autoptica del documento, ἐ[µ]ί “io sono” o con ἐ[στ]ί(ν) "è" (Watkins) o, ancora, con la particella µ[έ]ν (M. Guarducci) - se il Nestore qui ricordato vada identificato con l'eroe omerico, la cui ampia coppa viene descritta minutamente in Il. XI 632-37, o con il proprietario del vaso. Nestore non è però un nome corrente in età arcaica (non ne conosciamo alcun esempio anche se ci risultano casi di reimpiego di nomi eroici come Agamennone e Pisistrato), e se costui non è altri che l'eroe omerico re di Pilo l'integrazione “io sono” non produce alcun nesso plausibile con i due versi seguenti, tanto più che la piccola e modesta kotyle si configura come un oggetto ben diverso dal molto capace e sontuoso depas cosparso di borchie d'oro descritto nell'Iliade. Con l'integrazione µ[έ]ν il primo rigo sarebbe un tetrametro trocaico catalettico, con ἐ[στ]ί(ν) un trimetro giambico in cui il primo metron giambico sarebbe sostituito da un coriambo, dunque con un'alternanza fra trimetro giambico ed esametri come nel Margite pseudo-omerico e nei Silloi di Senofane (21 B 14 D.-K.), ma non si può escludere che il primo rigo sia in prosa (cosa che meglio si accorderebbe con la collocazione dei dicola - su cui torneremo - fra le singole parole): una sorta di rubrica intesa a introdurre i due esametri (Faraone 1996, p. 79 s.). In tal caso esso potrebbe costituire la proposizione da parte del simposiarca di un tema conviviale a cui un partecipante rispondeva con la coppia di esametri. 20 Secondo Pavese 1996, p. 17 Ἀφροδίτης "di Afrodite" non è un genitivo oggettivo bensì di possesso, nel senso che il desiderio o passione (ἵµερος) è uno degli strumenti con cui la dea esercita il suo fascino (cf. Il. XIV 198), ma bisogna considerare che i genitivi in nesso con ἵµερος o sim. sono quasi sempre di tipo 'oggettivo' e che 'Afrodite' può valere come metonimia di "amore" o "sesso", cf. Od. XXII 444 ἐκλελάθωντ᾽ Ἀφροδίτης "si scordino delle relazioni sessuali (con i pretendenti)", Pind. Ol. 6.35 ἔψαυσ᾽ Ἀφροδίτας "toccò l'amore". 21 Sul potere magico che gli viene attribuito vedi vedi Faraone 1996, che richiama in particolare gli esempi di cup-spell in PGM VII 385-89 e PGM VII 642-51.

16 esametro, 'maschile' nel secondo) e a destra il segmento terminale del verso, rispettivamente l'adonio αὐτίκα κεῖνον “subito quello” e lo ionico a minore (∪∪ − −) Ἀφροδίτης “di Afrodite”, e dunque sembrano introdotti per favorire, secondo una prassi che doveva essere consueta nelle registrazioni di poesia epica, la corretta esecuzione del fraseggio ritmico che orienta la coppia di versi (Alpers 1969).22 Riferimenti bibliografici K. Alpers, Eine Beobachtung zum Nestorbecher von Pithekoussai, “Glotta” 47 (1969), pp. 170-74 J.S. Burgess, The Tradition of the Trojan War in Homer and the Epic Cycle, Baltimore 2001 G. Cerri, Il significato di 'sphregis' in Teognide e la salvaguardia dell'autenticità testuale nel mondo antico, "Quaderni di Storia" 17 (1991), pp. 21-40 A.M. Cirio, Lettura di Omero: Canto X dell'Iliade, Palermo, Kepos 1998 J.A. Davison, Peisistratus and Homer, "TAPhA" 86 (1955), pp. 1-21 V. Di Benedetto, Il volo di Afrodite in Omero e in Saffo, "QUCC" 16 (1973), pp. 121-23 (= id., Il richiamo del testo. Contributi di filologia e letteratura, II, Pisa, ETS 2007, pp. 791-93 A. Ercolani, Omero. Introduzione allo studio dell'epica greca arcaica, Roma, Carocci 2006 Ch. Faraone, Taking the "Nestor's Cup Inscription" Seriously: Erotic Magic and Conditional Curses in the Earliest Inscribed Hexameters, "CA" 15 (1996), pp. 77-112 F. Ferrari, Oralità ed espressione: ricognizioni omeriche, Pisa, Giardini 1986 F. Ferrari, La fonte del cipresso bianco. Racconto e sapienza dall'Odissea alle lamine misteriche, Torino, UTET Libreria 2007 F. Ferrari (ed.), Teognide, Elegie (1989), Milano, Rizzoli 20093 R. Finnegan, La Fine di Gutenberg. Studi sulla tecnologia della comunicazione (1990), Firenze, Sansoni 1990. S. Fornaro, Glauco e Diomede, Venosa, Edizioni Osanna 1992 R.L. Fowler, The Natura of Early Greek Lyric, Toronto 1987 L. Godart, Il nome dell'aedo nella Grecia dell'età del bronzo, “RAL” s. IX, 12 (2001), pp. 5-10 G.P. Goold, The Nature of Homeric Composition, "ICS" 2 (1977), pp. 1-34 D.M. Gunn, Narrative Inconsistency and the Oral Narrated Text in the Homeric Epic, "AJPh" 91 (1970), pp. 192-203 J.B. Hainsworth, The Criticism of an Oral Homer, "JHS" 90 (1970, pp. 90-8 L. Honko, "Text as Process and Practice: the Textualization of Oral Epics", in id. (ed.), Textualization of Oral Epics, Berlin-New York 2000Honko (ed.) 2000, pp. 3-53 R. Janko, Homer, Hesiod and the Hymns: Diachronic Development in Epic Diction. Cambridge 1982 R. Janko, The Homeric Poems as Oral Dictated Texts, “CQ” n.s. 48 (1998), pp. 1-13 A. Kelly, "Stesichorus' Homer", in P.J. Finglass-A. Kelly, Stesichorus in Context, Cambridge 2015, pp. 21-44 G.S. Kirk, The Iliad: A Commentary, Volume I: books 1-4, Cambridge 1985 A.B. Lord, Homer's Originality: Oral Dictated Texts, “TAPhA” 84 (1953), pp. 124-33, poi, con un 22 Pavese 1996, p. 19 ha rifiutato, con altri, questa interpretazione sostenendo che "nel trimetro l'incisore ha posto l'interpunzione dopo ogni parola, compresa l'enclitica εµι (che ha un certo peso), mentre negli esametri, che sono più lunghi, si è limitato ad articolare i gruppi di parole ... gruppi che, com'è naturale, coincidono con i cola". Questa però è una descrizione assai imprecisa della situazione, giocata sull'ambiguità della nozione di 'gruppo di parole'. Si noti in particolare che ὃς δ᾽ ἂ, che rappresenta un 'gruppo di parole' (una formula), non è seguito da dicolon, mentre ὃς δ᾽ ἂ τοῦδε πίησι, seguito da dicolon, è una 'frase', né certo è un 'gruppo di parole' l'isolato ποτηρίου del primo esametro; per contro, è un tipico 'gruppo di parole' (un nesso nome + epiteto) καλλιστεφάνου Ἀφροδίτης, i cui due costituenti sono invece separati da dicolon.

17 addendum, in id. 1991, pp. 38-47 A.B. Lord, Epic Singers and Oral Tradition, Ithaca-London 1991 S. Lowenstam, The Uses of vase-Depictions in Homeric Studies, “TAPhA” 122 (1992), pp. 165-98 S. Lowenstam, Talking Vases: The Relationship between the Homeric Poems and Archaic Representations of Epic Myth, “TAPhA” 127 (1997), pp. 21-76 A.D. Maingon, Epic Conventioin in Stesichorus' Geryoneis, SLG S15, "Phoenix" 34 (1980), pp. 99107 G. Nagy, Pindar's Homer: the Lyric Possession of an Epic Past, Baltimore-London 1990 G. Nagy, Homeric Questions, Austin 1996a G. Nagy, A pseudo-Homer gets exposed by Homer, "Classical Inquiries", CHS 2015 (classicalinquiries.chs.harvard.edu/a-pseudo-homer-gets-exposed-by-homer/) C.O. Pavese, La iscrizione sulla kotyle di Nestor da Pithekoussai, "ZPE" 114 (1996), pp. 1-23 B. Powell, Homer and the Origin of the Greek Alphabet, Cambridge 1991 J. Ready, The Textualization of Homeric Epic by Means of Dictation, "TAPhA" 145 (2015), pp. 1-75 J. Russo, Homer's Style: Nonformulaic Features of an Oral Aesthetics, "Oral Tradition" 9 (1994), pp. 371-89 M. Skafte Jensen, The Homeric Question and the Oral Formulaic Theory , Copenhagen 1980 M.L. West, The Making of the Iliad. Disquisition and Analitical Commentary, Oxford 2011 U. von Wilamowitz-Moellendorff, Die Ilias und Homer, Berlin 1916 F.A. Wolf, Prolegomena ad Homerum, Berolini 1795

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