Liturgia, Cosmo, Architettura

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Ciro Lomonte e Guido Santoro

LITURGIA, COSMO, ARCHITETTURA a proposito del ridisegno dell’area presbiterale nella chiesa madre di Sancipirello (PA), parrocchia di Maria SS. Immacolata, diocesi di Monreale

Presentazione

Ho avuto la felice possibilità di assistere l’8 luglio 2007 alla inaugurazione del rifacimento artistico dell’area presbiterale della chiesa madre di Sancipirello. In quell’occasione potei conoscere gli autori di quel rifacimento, gli architetti Ciro Lomonte e Guido Santoro, già noti in diocesi per aver lavorato ad altre cose. Ascoltai allora con vero godimento la relazione a due voci, che nella circostanza i due architetti fecero al numeroso popolo dei fedeli, prima che io stesso procedessi alla solenne consacrazione del nuovo altare. Debbo dire con vera gratitudine che conservo nel mio cuore il ricordo di un bel pomeriggio d’arte e di preghiera, ricco dei messaggi e degli stimoli, ambedue elevatamente spirituali, provenienti da ambedue le fonti, l’arte e la preghiera, una volta ancora provvidenzialmente accomunate. Adesso ho il piacere di presentare la pubblicazione di quella relazione, sostanzialmente quella di allora, impreziosita tuttavia, oltre che da un ricco corredo fotografico, da alcune aggiunte interessanti e da riflessioni ulteriori. Queste ultime, mi si dice, sono maturate nel corso dei colloqui che i due Autori hanno potuto avere, spesso cercandoli, con le persone più significativamente interessate alla realizzazione dell’opera. Io stesso ho avuto modo di incontrare a colloquio privato i carissimi architetti e di godere del loro sereno entusiasmo, indubbiamente motivato e sostenuto da serietà culturale e spessore di fede. Ho saputo che i primi e più diretti destinatari di questa bella pubblicazione sono, nell’intenzione degli Autori, i fedeli stessi di Sancipirello. La scelta, anche se giusta e naturale, fa ugualmente piacere, perché rivela la consapevolezza che i nostri Architetti hanno della dignità ecclesiale e umana dei fruitori più abituali dell’opera di cui parliamo. La quale, una volta uscita dalle loro mani e divenuta ormai, soprattutto e in un modo tutto suo proprio, “luogo” della celebrazione del Mistero di Dio, sarà tanto meglio rispondente al suo vero scopo quanto con maggiore naturalezza (quella della fede) consentirà ai credenti di ritrovarsi coinvolti nella sua santità e quasi con essa identificarsi. Ciò naturalmente viene detto a prescindere dal fatto che, per altro verso, questa pubblicazione è da se stessa in grado di offrire ottimo materiale di riflessione, anche critico, su un argomento delicato, quale è l’arte liturgica. È ciò che anzi fortemente mi auguro che avvenga. Monreale, 4 settembre 2008

 Salvatore Di Cristina Arcivescovo di Monreale

Padre Uwe Michael Lang Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice Officiale della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti Coordinatore accademico del Master in “Architettura, Arti Sacre e Liturgia” dell’Università Europea di Roma

ASSEMBLEA ORIENTATA: ELEMENTI ESSENZIALI DELL’ARCHITETTURA DELLE CHIESE

Il corpo di Cristo – il nuovo tempio Nel suo esistere, l’uomo è individuato da due coordinate fondamentali: lo spazio e il tempo, due realtà che non si costruisce, ma che gli sono date. L’uomo è legato allo spazio e al tempo, e lo è anche la sua preghiera a Dio. Quando invochiamo Dio, la nostra preghiera ha bisogno, per così dire, di essere incarnata. Quindi anche il culto cristiano necessita di un luogo dove si può realizzare come rito sacro. Tale luogo non è il corrispettivo del tempio pagano, dove la cella era considerata l’abitazione della divinità. C’è un rapporto fra il luogo del culto cristiano e il Tempio di Gerusalemme, dove Dio si rendeva presente per incontrare i fedeli. Vedasi, ad esempio, Esodo 25,22, dove Dio dice: “Io ti darò convegno in quel luogo: parlerò con te da sopra il propiziatorio”. Ovvero Esodo 40,34: “Allora la nube coprì la tenda del convegno e la gloria del Signore riempì la dimora”. Però ci sono anche differenze fra il Tempio e il luogo di culto cristiano che non è concepito come luogo materiale dell’abitazione di Dio. Già Salomone, dopo avere costruito il Tempio di Gerusalemme, esclama: “Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!” (1 Re 8,27). E San Paolo dice agli ateniesi che “Dio non abita in templi costruiti dall’uomo” (Atti degli Apostoli 17,24). Leggiamo nel libro del profeta Isaia: “Tutta la terra è piena della sua gloria” (Isaia 6,3; cfr Geremia 23,24; Salmi 139,1-18; Sapienza 1,7) – un passo che è stato incluso nel Sanctus della liturgia eucaristica. Quindi, tutta la terra è piena della presenza di Dio e da Lui affidata agli uomini1. Nel Vangelo secondo Giovanni, conosciuto come “il Vangelo spirituale” da molti Padri della Chiesa2, Gesù durante il suo incontro con la donna di Samaria presso il pozzo di Giacobbe, dichiara che “è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” (Giovanni 4, 23). Bisogna tenere conto che ci sono vari livelli di significato: In primo luogo, il culto cristiano è contrapposto al culto dei samaritani e degli ebrei, perché esso è “in spirito”, cioè non è limitato ad un singolo santuario, come il monte Garizim per i samaritani ed il tempio di Gerusalemme per gli ebrei. Ma questo non significa che, alla luce del Vangelo, non ci dovrebbero essere riti e cerimonie, nessuno culto pubblico o nessuno edificio sacro. Una tal conclusione sarebbe sbagliata, fosse soltanto per la ragione che quasi duemila anni di tradizione cattolica parlano in senso contrario . Il Signore non ha detto alla donna samaritana che non ci dovrebbero essere luoghi ed edifici per il culto nella Nuova Alleanza; allo stesso modo, nella profezia sulla distruzione del Tempio, non afferma che non ci debba essere più alcuna casa costruita in onore di Dio, ma piuttosto che ci debbano essere molte case. John Henry Newman, il grande teologo convertito inglese, ha espresso questa verità in un’omelia: “La gloria del Vangelo non è

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Cfr V. Gatti, Liturgia e arte. I luoghi della celebrazione, EDB, Bologna 2001 (ristampa 2005), pp. 49-50 e 67-68. Cfr M. Wiles, The Spiritual Gospel. The Interpretation of the Fourth Gospel in the Early Church, Cambridge University Press, Cambridge 1960 (ristampa 2006).

l’abolizione dei riti, ma la loro diffusione; non la loro assenza, ma la loro presenza viva ed efficace per la grazia di Cristo”3. Nel suo libro essenziale sullo Spirito della Liturgia, l’allora Cardinale Joseph Ratzinger, ora Papa Benedetto XVI, mette in relazione “il nuovo universalismo” del culto “in spirito e verità” della Nuova Alleanza, che non è legato ad un luogo esclusivo, e la profezia di Gesù sulla distruzione del tempio: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Matteo 26,61). Riprendendo la precisazione dell’evangelista Giovanni: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Giovanni 2,21), Ratzinger commenta: Gesù non dice che lui distruggerà il tempio: questa sarà la versione data dai falsi testimoni contro di lui. Anzi, egli profetizza che saranno proprio i suoi accusatori a far ciò. Questa è una profezia della croce; la fine della sua vita terrena sarà al tempo stesso la fine del tempio: è questo ciò che egli lascia intendere. Con la sua resurrezione comincerà il nuovo tempio: il corpo vivente di Gesù Cristo, che allora sarà al cospetto di Dio e che sarà il luogo di ogni culto. In questo corpo egli abbraccia tutti gli uomini; non è la tenda eretta da mani d’uomo, è il luogo della vera adorazione di Dio, che dissolve le tenebre e le sostituisce con la realtà. La profezia della resurrezione, letta nel suo significato profondo, è al tempo stesso una profezia eucaristica: vi si annuncia il mistero del corpo di Cristo, sacrificato e proprio per questo vivente, che si comunica a noi e conduce in tal modo al legame reale con il Dio vivente4. Quindi, Cristo stesso, il suo corpo vivo, risorto e glorificato, è il nuovo tempio dove Dio dimora e dove si svolge il suo culto “in spirito e verità”. La parola del Quarto Vangelo deve essere letta in modo cristologico: “spirito” e “verità” non sono astratti concetti filosofici, ma sono realtà divine che ricordano colui che si è rivelato come “la verità” (Giovanni 14,6) e ha promesso di mandare il suo Spirito5. Il vero tempio in cui Dio abita è il corpo che la Vergine Maria, per opera dello Spirito Santo, offriva al Verbo di Dio, Gesù Cristo. Come scrive San Paolo ai Colossesi: “È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza” (Colossesi 2,9-10). Poi, per partecipazione, in forza del battesimo, anche il corpo del cristiano diventa tempio di Dio, come dicono San Paolo e San Pietro nel Nuovo Testamento (1 Corinzi 6,19; Efesini 2,22; 1 Pietro 2,5; 1 Corinzi 3,16-17). Christus totus, il Cristo intero è il vero luogo di culto cristiano, cioè Cristo in quanto capo e noi in quanto membra del suo corpo mistico. I fedeli che si riuniscono in uno stesso luogo per il culto divino costituiscono le “pietre vive”, messe insieme “per la costruzione di un edificio spirituale” (1 Pietro 2,4-5). Infatti, è significativo che la parola che prima indicava l’azione del riunirsi dei cristiani, cioè ecclesia – chiesa –, è passato a indicare anche il luogo stesso in cui la riunione si realizza. Perciò, possiamo dire che la liturgia stessa, la solenne celebrazione del mistero della Passione, della Morte e della Risurrezione del Signore, è costitutivo del tempio cristiano, inteso come luogo della presenza divina6. Qui Cristo è presente in forza della sua parola e dei sacramenti, soprattutto nella Santissima Eucaristia. Il luogo di culto cristiano dalle origini alla pace costantiniana Gesù celebrò l’ultima Cena in “una grande sala con i tappeti” (Marco 14,15), “grande e addobbata” (Luca 22,12), istituendo il sacrificio eucaristico come il centro della liturgia cristiana. Nel periodo apostolico, l’Eucaristia era celebrata “kat’oikon” (Atti 2, 46 e 5, 42), cioè in una casa 3

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J. H. Newman, Parochial and Plain Sermons, Ignatius Press, San Francisco 1997, VI, 19: ‘The Gospel Palaces”, p. 1355: “The glory of the Gospel is not the abolition of rites, but their dissemination; not their absence, but their living and efficacious presence through the grace of Christ”. J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 39-40. Cfr. J. Ratzinger, “Theologie der Liturgie”, in Forum Katholische Theologie 18 (2002), 1-13, pp. 9-10. Cfr Benedetto XVI, Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis, 22 febbraio 2007, n. 41.

adeguata con una sala spaziosa7. Non tutti gli storici sono d’accordo, ma io ritengo probabile che questo fosse anche il luogo dove venivano lette le Sacre Scritture e dove veniva impartita l’istruzione religiosa. Dopo la Pentecoste, i primi discepoli inizialmente continuarono a frequentare il Tempio di Gerusalemme per la preghiera di lode. Il sabato andavano anche alla sinagoga per ascoltare e proclamare la Parola di Dio, però celebravano l’Eucaristia nel primo giorno della settimana, la domenica. Sembrerebbe plausibile che la celebrazione eucaristica fosse preceduta dalle letture e dalla predicazione secondo gli usi delle funzioni nella sinagoga. Anche prima del rescritto di Costantino, che portava la fine delle persecuzioni e la pace alla Chiesa, le comunità cristiane avevano propri edifici con sale dedicate al culto liturgico. Una delle scoperte archeologiche più significative degli ultimi decenni è l’edificio cristiano di Dura-Europos, una città romana di frontiera sulle rive dell’Eufrate. Si è conservata la struttura di una casa dei cristiani, con alcuni locali riservati al culto, della prima metà del terzo secolo. La sala delle riunioni, senza dubbio usata per l’Eucaristia, è orientata ed ha una pedana sul lato est che potrebbe indicare il luogo dove sorgeva l’altare8. Nella seconda metà del terzo secolo, nella sua opera Contro i cristiani, il filosofo pagano Porfirio nota come i cristiani imitino la costruzione dei templi e costruiscano “case grandissime” nelle quali si riuniscono a pregare9. Tale informazione è confermata da Eusebio di Cesarea che scrisse nel tardo terzo secolo: “Ma come si possono descrivere quelle vaste assemblee e la moltitudine che si riuniva in ogni città e le celebri riunioni nelle case di preghiera; motivo per cui, non soddisfatti dei vecchi edifici, costruirono dalle fondamenta grandi chiese in tutte le città?”10 Eusebio presenta la distruzione delle chiese come una caratteristica della persecuzione di Diocleziano. Queste chiese precostantiniane possedevano comunque preziosi vasi sacri, come si evince dal rapporto di una confisca nella chiesa di Cirta, nell’Africa settentrionale, datato 19 maggio 30311. La basilica cristiana Salvo poche eccezioni le più antiche testimonianze di architettura ecclesiastica risalgono al quarto secolo, quando il riconoscimento ufficiale della religione cristiana da parte dell’imperatore Costantino diede impulso alla costruzione di chiese. Il rescritto imperiale dell’anno 313 accordò alla Chiesa la libertà di culto con il diritto di possedere i luoghi destinati ad esso. Il favore imperiale fornì la possibilità di costruire edifici grandi e belli, e perciò il secolo quarto vide anche la nascita dell’arte liturgica. La forma tipica della chiesa paleocristiana è diventata quella della basilica. La basilica forense, con la grande navata rettangolare, di solito terminante con un’abside, appariva particolarmente adatta alla liturgia cristiana. In modo generale, la navata era capace di ricevere la comunità cristiana, e l’abside serviva come luogo della cattedra episcopale e dei sedili per il clero. Lo storico dell’arte paleocristiana André Grabar, osservando le basiliche costruite simultaneamente a Roma, Treviri, Gerusalemme e Costantinopoli, conclude: “Sollecitati da ordini imperiali, costruttori di varia origine, e in regioni lontanissime l’una dall’altra, progettano tutti lo stesso tipo di edificio. Questa identità è impressionante ed essenziale, ma non esclude certe differenze notevoli nella scelta e nell’interpretazione di diversi aspetti particolari di questi edifici (absidi, transetti, ingressi, ‘atria’, eccetera)” 12. La forma della basilica corrispondeva alle esigenze della liturgia ed, allo stesso tempo, lasciava libertà ai costruttori per la scelta dei singoli elementi architettonici ed artistici. La basilica sottolinea l’importanza dell’assemblea – sant’Agostino scrive 7

Oltre la “sala superiore” di Gerusalemme, il cenacolo, il Nuovo Testamento parla, ad esempio, della casa di Troade (Atti 20, 7-12), della casa di Prisca e Aquila a Roma (Romani 16, 3-5) e della casa di Gaio a Corinto (Romani 16, 23). 8 Cfr. C. H. Kraeling, The Christian Building (The Excavations at Dura-Europos. Final Report, vol. VIII, parte 2), Connecticut: Dura-Europos Publications, New Haven 1967. 9 Porfirio, Adversus Christianos, frammento 76, ed. A. von Harnack. 10 Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. VIII,1,5: GCS Euseb. II/2, p. 738. 11 Il rapporto, tratto da Acta Munati Felicis, viene citato in Gesta apud Zenophilum in CSEL 26, p. 187. 12 A. Grabar, L’arte paleocristiana (200-395), trad. G. Veronesi, Rizzoli, Milano 1967 (ristampa 1991), p. 170; cfr E. Cattaneo, Arte e liturgia dalle origini al Vaticano II, Vita e pensiero, Milano 1982, pp. 26-42.

dell’“ecclesiam basilicam qua continetur populus, qui vere appellatur ecclesia”13 – ma esprime anche un orientamento assiale che apre l’assemblea alle dimensioni trascendente ed escatologica dell’azione liturgica14. Nelle grandi religioni storiche la posizione assunta nella preghiera e la disposizione dei luoghi sacri è determinata da una “direzione sacra”. Fin da tempi molto antichi, i cristiani si volgevano in preghiera verso il sole nascente, ovvero verso l’est geografico. Sia nella preghiera in privato che nella preghiera liturgica i cristiani si voltavano non più verso la Gerusalemme terrena, ma verso la nuova Gerusalemme celeste; credevano fermamente che, quando il Signore fosse tornato in gloria per giudicare il mondo, avrebbe radunato i suoi eletti per formare questa città celeste. Il sole nascente era considerato l’espressione appropriata di questa speranza escatologica15. Rivolgersi in preghiera verso Oriente divenne essenziale per la liturgia e per l’architettura paleocristiane. Si potrebbero individuare due tipi di chiese in cui questo orientamento era realizzato: quelle di Siria e quelle di Roma. Le chiese di Siria La maggior parte delle chiese siriane seguirono il modello della basilica, simile a quello delle sinagoghe dell’epoca. Comunque, l’elemento distintivo della basilica cristiana era che, in genere, l’abside veniva orientata verso est. Particolarmente ricche di informazioni al riguardo sono le scoperte archeologiche della Siria settentrionale e della Mesopotamia. Laddove è rimasta qualche traccia, fatto raro, l’altare è collocato in posizione avanzata rispetto alla parete est oppure direttamente di fronte a questa. L’orientamento della chiesa e dell’altare corrisponde quindi al principio universalmente accettato di rivolgersi in preghiera verso Oriente. Il bema, una pedana rialzata al centro dell’edificio, venne ripreso dalla sinagoga, dove serviva per la lettura della Sacra Scrittura e per la recitazione delle preghiere. Nella tradizione siroorientale, il vescovo siede con il clero nella navata sul lato occidentale del bema rivolto verso l’abside. La salmodia e le letture, che fanno parte della liturgia della Parola, vengono guidate dal bema: il clero poi avanza in direzione est verso l’altare per la liturgia eucaristica. Le testimonianze letterarie e archeologiche mostrano che questa “disposizione siriana” esisteva anche nelle chiese della Siria occidentale, anche se pare non fosse adottata ovunque. Le chiese siriane erano generalmente orientate con l’abside, e quasi tutti sono concordi nell’affermare che, nella liturgia eucaristica, il celebrante stava in piedi davanti all’altare volgendosi verso est con i fedeli. Le chiese romane Anche prima della fine delle persecuzioni, i cristiani della città di Roma avevano i loro edifici per la celebrazione della liturgia, ma per quanto concerne la forma di questi tituli o domus ecclesiae siamo quasi completamente al buio. I monumenti più antichi giunti sino ai nostri giorni sono le basiliche costruite dopo la pace di Costantino, ma si deve rammentare che l’interno di questi edifici è stato notevolmente alterato nel corso dei secoli. La pianta costantiniana è abbastanza distinguibile nella basilica Laterana, dove la cattedra del papa è collocata in fondo all’abside, il luogo che corrispondeva al posto d’onore occupato dal magistrato nelle basiliche secolari, utilizzate come tribunali o sale del mercato, e al seggio dell’imperatore in Senato. Nelle prime basiliche romane 13

Agostino, Ep. 190 ad Optatum, 19: CSEL 57,154. Per la parte seguente, vedasi U. M. Lang, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, Cantagalli, Siena 2006 (ristampa 2008). Cfr anche G. Liccardo, Architettura e liturgia nella chiesa antica, Skira, Milano 2005. 15 Nel Nuovo Testamento il particolare significato della direzione verso est per il culto non è esplicito. La tradizione ha tuttavia trovato molti riferimenti biblici a questo simbolismo, la più antica essendo probabilmente la descrizione dell’Ascensione del Signore di Atti 1,11, intesa come compimento di Zaccaria 14,4: “i piedi del Signore posati sul monte degli Ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso oriente”. Inoltre, basti indicare il “sole di giustizia” di Michea 3,20, “un sole che spunta dall’alto” nel cantico Benedictus di Luca 1,78, “l’angelo che sale da oriente con il sigillo del Dio vivente” nell’Apocalisse 7,2, per non parlare del linguaggio della luce nel Vangelo di Giovanni. In Matteo 24,27-30, il segno della venuta del Figlio dell’Uomo con grande potenza e gloria è la croce che compare come la folgore da Oriente e brilla fino a Occidente. 14

l’altare si trovava o all’ingresso dell’abside, oppure nella navata centrale, e la posizione elevata, i gradini di accesso e il ciborio, una sovrastruttura particolarmente adatta ad enfatizzarne l’importanza, ne rivelavano il carattere sacro. A Roma, come nell’Africa settentrionale, si trovano non poche basiliche con l’ingresso verso est e l’abside verso ovest, come quella Laterana e San Pietro in Vaticano16. Per quanto riguarda la direzione della preghiera liturgica in queste chiese, si sono presentate varie ipotesi. A parere di Louis Bouyer l’intera assemblea, sia il celebrante, che stava dietro l’altare, che i fedeli nella navata, si volgevano verso Oriente durante la preghiera eucaristica17. Tale ipotesi ha sollevato severe critiche con la motivazione che sarebbe stato impensabile che i fedeli volgessero la schiena all’altare che, fin dai tempi più remoti, era ritenuto un oggetto sacro, anzi un simbolo di Cristo. Klaus Gamber sostiene che i fedeli occupavano soprattutto le navate laterali: San Pietro e il Laterano ne avevano quattro, e alcune chiese persino sei. La navata centrale sarebbe rimasta libera per i gesti liturgici, come l’ingresso solenne del celebrante e dei suoi assistenti, e per altre processioni18. Di conseguenza, nelle basiliche con l’ingresso verso est, la gente non stava direttamente di fronte all’altare, ma neppure volgeva le spalle a questo: sarebbe stato, infatti, inconcepibile per via del carattere sacro dell’altare e del sacrificio che vi si offriva. Le persone che si trovavano nelle navate laterali dovevano cambiare solo di poco la loro posizione per volgersi verso est; l’altare doveva, infatti, essere più o meno alla loro sinistra o alla loro destra. L’assemblea liturgica avrebbe così formato un semicerchio aperto verso est con il sacerdote celebrante al vertice. La pratica del sacerdote e dei fedeli l’uno di fronte agli altri nacque, quando andò perduto e restò incompreso il profondo simbolismo del volgersi verso Oriente, e i fedeli non si voltarono più a est per la preghiera eucaristica. Questo avvenne soprattutto nelle basiliche in cui l’altare fu spostato dal mezzo della navata centrale verso l’abside. Si può vedere un’analogia di questa particolare disposizione nell’uso dell’Oriente cristiano, dove i fedeli si trovano lungo le pareti laterali, mentre lo spazio centrale sotto la cupola è lasciato libero per le cerimonie liturgiche. Resta comunque opinabile, almeno nel caso delle grandi basiliche, il fatto che i fedeli, durante la liturgia eucaristica, restassero in piedi soprattutto nelle navate laterali; queste, infatti, erano usate anche per funzioni extra liturgiche come i refrigeria. Si potrebbe anche seguire un altro genere di discussione prendendo le mosse dall’osservazione che ci si volgeva verso est guardando in alto, ovvero verso il cielo ad Oriente, che era considerato il luogo del paradiso e lo scenario del Secondo Avvento di Cristo19. L’innalzamento dei cuori per il canone o anafora in risposta all’esortazione “Sursum corda”, comprendeva il gesto di alzarsi in piedi, sollevare le braccia e guardare verso il cielo. Non a caso l’abside e l’arco trionfale di molte basiliche sono decorati con mosaici magnifici, i cui programmi iconografici sono spesso strettamente riferiti all’Eucaristia che è celebrata sotto. Forse i mosaici servivano a dirigere l’attenzione dell’assemblea liturgica che, nel corso della preghiera eucaristica, aveva gli occhi rivolti verso l’alto. Persino il sacerdote all’altare pregava con le braccia aperte, come la figura femminile rinvenuta nelle catacombe romane e nota come Orans, senza ulteriori gesti rituali20. 16

Diverse basiliche romane non sono orientate lungo l’asse est-ovest per svariati motivi. Molte chiese poggiavano su fondazioni antiche: già sotto Costantino edifici secolari furono convertiti ad uso cristiano. Inoltre, nel caso delle basiliche costruite sulle tombe dei santi, il sito di queste memoriae tanto venerate determinava la pianta della chiesa. Nella maggioranza dei casi la variazione dall’asse est-ovest era dovuto a limitazioni dell’ubicazione, poiché l’ingresso della chiesa si trovava di solito a lato della strada, come nel caso della chiesa di San Clemente a Roma, dove le porte si aprivano verso sud-est. 17 L. Bouyer, Architettura e liturgia, trad. V. Lanzarini, Edizioni Qiqajon, Magnano 1994, pp. 39-40. 18 K. Gamber, Liturgie und Kirchenbau, Studien zur Geschichte der Meßfeier und des Gotteshauses in der Frühzeit, Pustet, Regensburg 1976, pp. 23-25; cfr. T. F. Mathews, “An Early Roman Chancel Arrangement”, in Rivista di Archeologia Cristiana 38 (1962), 73-96, p. 83: sostiene che la navata centrale era il grande corridoio processionale per la gerarchia nel cammino verso il sacro ufficio, la zona destinata alla congregazione è principalmente nelle navate laterali. 19 Cfr M. Righetti, Manuale di storia liturgica, vol. I: Introduzione generale, 3a ed., Editrice Ancora, Milano 1964 (ristampa 1998), pp. 377-79. 20 Cfr S. Heid, “Gebetshaltung und Ostung in frühchristlicher Zeit”, in Rivista di Archeologia Cristiana 82 (2006), 347404.

Quando l’altare era collocato all’ingresso dell’abside o nella navata centrale, il celebrante avrebbe potuto facilmente guardare in alto verso l’abside. Con gli splendidi mosaici che rappresentano il mondo celestiale l’abside potrebbe aver indicato “l’est liturgico”, quindi il punto focale cui rivolgere la preghiera. Non c’è bisogno di dire che questa teoria è abbastanza incerta e richiede indagini più approfondite. Presenta tuttavia il sicuro vantaggio di spiegare meglio la correlazione fra liturgia, arte e architettura rispetto alle idee di Bouyer e Gamber, che devono fare i conti con la discrepanza fra i riti sacri e lo spazio architettonico-artistico creato per questi. Bouyer ritiene che l’architettura delle chiese bizantine sia il vero sviluppo della basilica paleocristiana: gli elementi non adatti alla celebrazione della liturgia furono cambiati o eliminati in modo da far nascere un nuovo tipo di edificio. Un risultato di grande importanza fu la formulazione di una particolare iconografia, strettamente connessa ai sacri misteri celebrati nella liturgia, che dava loro forma artistica21. D’altro canto, l’architettura delle chiese in Occidente era molto più influenzata da quella della basilica. Gli splendidi altari delle chiese occidentali, dal tardo Medioevo al Barocco, fanno parte dello sviluppo che, evidentemente, va al di là delle disposizioni degli altari nel primo millennio. Nonostante ciò, questi magnifici altari sono molto confacenti allo scopo della liturgia, che è quello di rendere lode e gloria a Dio e di rappresentare in modo sacramentale la sua opera salvifica per i fedeli che sono riuniti nella preghiera e nell’offerta. Il senso teologico e spirituale dell’orientamento liturgico non si può spiegare meglio di come il Santo Padre Benedetto XVI ha fatto nella sua omelia per la Veglia Pasquale 2008: “Nella Chiesa antica c’era la consuetudine, che il Vescovo o il sacerdote dopo l’omelia esortasse i credenti esclamando: ‘Conversi ad Dominum’ – volgetevi ora verso il Signore. Ciò significava innanzitutto che essi si volgevano verso Est – nella direzione del sorgere del sole come segno del Cristo che torna, al quale andiamo incontro nella celebrazione dell’Eucaristia. Dove, per qualche ragione, ciò non era possibile, essi in ogni caso si volgevano verso l’immagine di Cristo nell’abside o verso la Croce, per orientarsi interiormente verso il Signore. Perché, in definitiva, si trattava di questo fatto interiore: della conversio, del volgersi della nostra anima verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente, verso la luce vera. Era collegata con ciò poi l’altra esclamazione che ancora oggi, prima del Canone, viene rivolta alla comunità credente: ‘Sursum corda’ – in alto i cuori, fuori da tutti gli intrecci delle nostre preoccupazioni, dei nostri desideri, delle nostre angosce, della nostra distrazione – in alto i vostri cuori, il vostro intimo! In ambedue le esclamazioni veniamo in qualche modo esortati ad un rinnovamento del nostro Battesimo: Conversi ad Dominum – sempre di nuovo dobbiamo distoglierci dalle direzioni sbagliate, nelle quali ci muoviamo così spesso con il nostro pensare ed agire. Sempre di nuovo dobbiamo volgerci verso di Lui, che è la Via, la Verità e la Vita. Sempre di nuovo dobbiamo diventare dei ‘convertiti’, rivolti con tutta la vita verso il Signore. E sempre di nuovo dobbiamo lasciare che il nostro cuore sia sottratto alla forza di gravità, che lo tira giù, e sollevarlo interiormente in alto: nella verità e l’amore. In questa ora ringraziamo il Signore, perché in virtù della forza della sua parola e dei santi Sacramenti Egli ci orienta nella direzione giusta e attrae verso l’alto il nostro cuore. E lo preghiamo così: Sì, Signore, fa che diventiamo persone pasquali, uomini e donne della luce, ricolmi del fuoco del tuo amore. Amen”22.

21 22

Cfr Bouyer, Architettura e liturgia, pp. 43-48. Benedetto XVI, Omelia per la Veglia Pasquale nella Notte Santa, 22 marzo 2008.

don Renzo Cannella arciprete di Sancipirello Nel lontano 1875 l’arcivescovo mons. Giuseppe M. Papardi, in una visita pastorale che voleva essere una «cortese ed amorevole» risposta all’invito rivoltogli dalla giunta municipale – come si legge in un documento custodito nell’archivio storico del Comune di Sancipirello –, si degnò di benedire «di sua mano la posa della prima pietra angolare del lato destro» del muro di prospetto di questa chiesa. Da quella data ad oggi la realizzazione di quest’opera è stata contrassegnata da molte vicissitudini e notevoli sacrifici. Ma nulla ha fatto venir meno le speranze e le attese della gente del paese. Possiamo dire che l’unica fonte di finanziamento (tranne qualche eccezione) è stata costituita dai contributi spontanei dei fedeli. La loro generosità si è manifestata nell’offerta di denaro o di lavoro prestato gratuitamente, per es. portando a spalla o con mezzi di fortuna le pietre per l’edificazione del nuovo tempio. Dopo la consacrazione della chiesa nel 1975, mancava ancora un adeguamento liturgico dignitoso. Molti nutrivano il desiderio di portare a compimento il nostro tempio, retaggio dei nostri antenati, rendendolo più bello e decoroso. Così, convocato il consiglio pastorale ed il consiglio per gli affari economici della parrocchia, abbiamo deciso di lanciarci nell’avventura. Una volta che gli architetti hanno ideato il progetto e abbiamo ottenuto il parere favorevole dell’Ufficio Liturgico e dell’Ufficio per l’Edilizia di Culto diocesani, abbiamo dato il via ai lavori. Il preventivo elaborato sulla base dell’ipotesi progettuale comportava una somma più elevata di un terzo di quanto avevamo raccolto per la realizzazione dell’opera. Ma eravamo convinti che non fosse opportuno rimandare ad altro momento l’esecuzione integrale dei lavori. Malgrado la scarsezza delle risorse economiche della parrocchia, la comunità si è prodigata con impegno per raccogliere nel giro di pochi mesi la cifra mancante. Siamo consapevoli che il linguaggio dell’arte non è semplicemente accessorio rispetto al cuore dell’esperienza cristiana ma, come attestano secoli di storia, esso è sempre stato e continua ad essere uno dei modi fondamentali per testimoniare l’incontro dell’uomo con Dio e comunicare la speranza che nasce dall’annuncio della Risurrezione. Così esordiva il Santo Padre Paolo VI nel famoso discorso agli artisti riuniti nella cappella Sistina nel 1964: «…la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità. E non solo una accessibilità quale può essere quella del maestro di logica, o di matematica, che rende, sì, comprensibili i tesori del mondo inaccessibile alle facoltà conoscitive dei sensi e alla nostra immediata percezione delle cose. Voi avete anche questa prerogativa, nell’atto stesso che rendete accessibile e comprensibile il mondo dello spirito»23. Insisteva anche sull’importanza di una loro preparazione religiosa poiché – diceva – «Non è lecito inventare una religione, bisogna sapere che cosa è avvenuto tra Dio e l’uomo, come Dio ha sancito certi rapporti religiosi che bisogna conoscere per non diventare ridicoli o balbuzienti o aberranti». E ancora «L’arte dovrebbe essere intuizione, dovrebbe essere facilità, dovrebbe essere felicità». Ringrazio Mons. Di Cristina, Arcivescovo di Monreale, per essermi stato vicino e per la fiducia accordatami. Consegno a lui, che è il Pastore di questa Chiesa, l’intera opera frutto di sacrifici e rinunce da parte del popolo sancipirellese. Sento il dovere di ringraziare Dio per avermi fatto incontrare nel mio cammino sacerdotale i due architetti Lomonte e Santoro, i quali hanno sempre pensato, ideato e realizzato tutto con gli occhi della fede, senza improvvisazioni. Sono loro grato per la serietà professionale con cui hanno lavorato. Sin dai tempi in cui ero parroco a Malpasso (dove abbiamo progettato l’intera area presbiterale) abbiamo condiviso – in piena sintonia – un interesse profondo per rendere sempre più viva attraverso l’arte la percezione del mistero dell’amore di Dio. 23

PAOLO VI, Discorso agli artisti (7 maggio 1964): AAS 56 [1964], 441.

Infine ringrazio tutte le ditte, gli operai, le maestranze. Molto preziosa, in nove mesi di lavoro, è stata la loro collaborazione. Mi si consenta di rivolgere un grazie particolare all’impresa La Milia Eduardo, per l’abnegazione, la pazienza, soprattutto per avere condiviso con me le difficoltà incontrate nella realizzazione dell’opera.

Antonino Giammalva Sindaco di Sancipirello È stato per me un grande onore partecipare, il pomeriggio dell’8 luglio 2007, alla dedicazione dell’altare della chiesa madre di Sancipirello, nel corso della Messa solenne celebrata da Mons. Di Cristina, Arcivescovo di Monreale. L’inaugurazione del nuovo presbiterio, bello come pochi, mi ha dato l’occasione di riflettere sulla bellezza. Mi pare che la bellezza non possa essere racchiusa in un semplice concetto, ha qualcosa di ineffabile. Ciò che proviamo di fronte ad essa, sia essa naturale, frutto del Creatore, o artificiale, prodotto dell’estro degli artisti, è uno stupore sconfinato. L’essere umano, percependo l’ampiezza dell’amore di Dio per lui, ha cercato nei secoli di esprimere con le sue opere qualcosa che le limitate capacità della creatura a fatica possono definire. L’adeguamento del presbiterio della chiesa madre di Sancipirello certamente è una bellissima opera architettonica, frutto della genialità di due architetti che, apponendo la loro firma in questo progetto, passano alla storia di questa comunità e della sua Chiesa. Dio dona talenti molteplici ad ognuno di noi e ci chiede di essere suoi strumenti. Il nostro destino dipende dalla nostra risposta alla chiamata che riceviamo e che dà senso alla nostra esistenza. La chiesa è un’oasi di pace, di contatto e colloquio con il Signore. Quando, come in questo caso, le verità di fede prendono forma in modo da penetrarci attraverso gli occhi, allora ci fermiamo a pensare. Qui, in questo luogo sacro, possiamo riflettere sulla nostra vita e sulla nostra misera condizione umana, possiamo ritrovare noi stessi, ci ritempriamo per meglio affrontare la dura realtà che ci attende all’esterno: quella di tutti i giorni. Da ora in poi sarà più facile pregare in questo luogo. Soprattutto sarà più immediata la partecipazione alla celebrazione della Messa. Il completamento del presbiterio è un’opera fortemente voluta dai sancipirellesi che hanno risposto con animo generoso all’appello accorato del loro arciprete, una persona instancabile, a cui bisogna rendere merito per il lavoro svolto, per l’abnegazione nell’assolvere il mandato ricevuto, la sua missione. Don Renzo Cannella è un parroco che si è prodigato per far diventare questa parrocchia quello che oggi è, una comunità ecclesiale composita ed organizzata. Essere Sindaco di questa comunità per me è motivo di orgoglio e di stimoli, perché, al di là di quest’opera, Sancipirello è un paese di persone laboriose e generose, tanti anonimi che ogni giorno operano in silenzio lontani dai riflettori. Non è giusto che Sancipirello sia conosciuta nel mondo solo per deplorevoli vicende di mafia che riguardano una minuscola porzione degli abitanti. Anche per questo la realizzazione di questo cantiere nella chiesa madre ha un valore che trascende l’opera in se stessa: permette di parlare della Sancipirello sana, della Sancipirello che suda per guadagnarsi da vivere, per aiutare chi è nel bisogno, per dare dignità al culto. Ribadisco il mio impegno come persona e come Sindaco affinché le realtà positive di questo paese – e sono tante – possano essere valorizzate e universalmente conosciute. Le mie parole non vogliono essere di circostanza ma di impegno per il futuro.

Ciro Lomonte e Guido Santoro

LITURGIA, COSMO, ARCHITETTURA a proposito del ridisegno dell’area presbiterale nella chiesa madre di Sancipirello (PA), parrocchia di Maria SS. Immacolata, diocesi di Monreale

Una componente importante dell’arte sacra è certamente l’architettura delle chiese, nelle quali deve risaltare l’unità tra gli elementi propri del presbiterio: altare, crocifisso, tabernacolo, ambone, sede. A tale proposito si deve tenere presente che lo scopo dell’architettura sacra è di offrire alla Chiesa che celebra i misteri della fede, in particolare l’Eucaristia, lo spazio più adatto all’adeguato svolgimento della sua azione liturgica. Infatti, la natura del tempio cristiano è definita dall’azione liturgica stessa, che implica il radunarsi dei fedeli (ecclesia), i quali sono le pietre vive del tempio (cfr 1 Pietro 2,5) 24.

A cosa servono gli architetti L’architettura è un’arte al servizio dell’uomo. O almeno dovrebbe esserlo. Essa qualifica gli ambienti in cui egli vive, da quello più comune e quotidiano a quello più maestoso e straordinario. In Italia non c’è più l’educazione al bello che ha caratterizzato i suoi tremila anni di storia e con essa si è persa la cultura dell’abitare. È un regresso iniziato nel 1860, quando venne mortificata la costellazione di splendide capitali regionali e di incantevoli centri minori in nome dell’unità nazionale e dell’industrializzazione, dello sviluppo dell’ingegneria a scapito dell’architettura. «L’insegnamento dell’architettura fu purtroppo una delle prime vittime sacrificali sull’altare dell’auspicato progresso tecnologico del paese, attraverso cui si intendeva sopperire ad una più che evidente arretratezza strutturale. Il nuovo stato unitario esprimeva come prioritaria l’esigenza di creare un ceto tecnico, burocratico, amministrativo e intellettuale che fosse adeguato agli obiettivi di modernizzazione del paese e alle funzioni che era chiamato a svolgere. La legge sulla pubblica istruzione n. 3725, promulgata a Torino il 13 novembre 1859 (nota come legge Casati) e ben presto estesa con le annessioni al resto del paese, costituì la base fondamentale su cui si svilupparono i successivi ordinamenti didattici dell’Italia unificata; predisposta su misura per una realtà come quella torinese, era facilmente applicabile anche a quella lombarda, in cui una borghesia industriale già forte si proponeva come classe dirigente. L’estensione della legge su tutto il territorio nazionale, rapportata con realtà ben diverse da quella per cui era stata pensata, la rivelò però spesso inefficace a confrontarsi con le specificità culturali e produttive che componevano il mosaico delle regioni italiane, deprimendo così anche le potenzialità locali dell’insegnamento architettonico. […] Si arrivò così fino al 1876, anno in cui finalmente vide la luce il primo regolamento generale per le università, le facoltà e le scuole, finalizzato ad indicarne un più stabile orientamento. Per quanto riguarda l’insegnamento dell’architettura, il regolamento manteneva una posizione decisamente ambigua, costringendo tale disciplina come specializzazione in una scuola creata per altri scopi e orientata secondo metodi che non agevolavano di certo lo sviluppo delle capacità creative degli architetti. Gli iscritti alle sezioni di architettura delle scuole di applicazione furono sempre pochissimi; era del resto assolutamente ingiustificato il rigore degli studi da seguire per quegli allievi architetti che, a parità di fatica con i colleghi ingegneri, una volta ottenuto il diploma avrebbero avuto, rispetto ad essi, possibilità professionali ben più limitate, mentre si sarebbero dimostrate inutili gran parte delle nozioni tecniche acquisite durante gli studi»25. 24 25

BENEDETTO XVI, Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis, 22 febbraio 2007, n. 41. EMANUELE PALAZZOTTO, La didattica dell’architettura a Palermo. 1860-1915, Hevelius Edizioni, Benevento 2003, pp. 12-14. Giova ricordare che ancora oggi l’Italia è l’unico paese al mondo in cui anche gli ingegneri (non solo quelli edili, anche i nucleari, gli informatici, ecc.) possono progettare opere di architettura. Con ciò non vogliamo

Alfredo Melani arriva a definire «un disastro» per le sorti dell’architettura italiana il limitatissimo numero di diplomati architetti rispetto agli ingegneri che si occupavano anche di architettura26. Indubbiamente tale realtà ebbe conseguenze funeste sulla comprensione e l’amore della gente per l’architettura. Una nazione che aveva dato un contributo enorme, condiviso a tutti i livelli della popolazione, alla creazione di opere d’arte, si abituò a prestare maggiore importanza alla stabilità degli edifici piuttosto che al corretto rapporto fra struttura, funzione e forma, deformazione che dura tutt’oggi. Le profonde radici culturali del paese e la consuetudine con l’arte costituirono una sorta di energia inerziale che permise ai pochi architetti italiani di dare grande prova della propria maestria ancora per qualche decennio. Questo avvenne con gli epigoni del Floreale prima (D’Aronco e Basile) e del Futurismo poi (Sant’Elia), fino alle grandi figure del Razionalismo italiano (Terragni). Ma poco a poco questi contributi si ridussero ad una cerchia raffinata ed elitaria, senza riuscire a porre un freno all’imbarbarimento architettonico delle masse, dilagante soprattutto a partire dal dopoguerra. Il Sessantotto provocò un terremoto nelle facoltà di architettura. Animati probabilmente da un sincero desiderio di riforma della società e insofferenti verso un sistema accademico troppo severo, gli studenti di allora favorirono gli esami di gruppo, il 27/30 “politico”, le iscrizioni di massa. Una delle conseguenze dello stravolgimento dei fini delle scuole di architettura è il numero attuale di architetti italiani, 135.000 (uno ogni 400 abitanti), unico al mondo e assolutamente sproporzionato rispetto alle richieste della gente. Ricerca del centro Qualcuno attribuisce lo strano fenomeno del decadimento del gusto italiano alla ricerca di una nuova identità, resa faticosa dalla ricchezza culturale ed artistica del passato. Più probabilmente si tratta di due processi paralleli: da un lato l’affanno di trovare una fisionomia moderna ed omogenea per l’intera nazione; dall’altro il rifiuto latente di un’arte nuova, nord europea, profondamente segnata dall’illuminismo e dal razionalismo, così estranea al carattere mediterraneo e cristiano. Benché l’empirismo anglosassone sia pericolosamente pragmatico, dalla Gran Bretagna potremmo importare un’arte dell’abitare diffusa a livello popolare. Come si può apprezzare nella letteratura inglese, anche in quella più recente27, i britannici amano il comfort senza sfarzo, privilegiano la qualità della casa rispetto all’apparire. Agli italiani servirebbe comprendere che per avere una dimora bella e accogliente non è necessario fare spese folli. Bisogna sapere cosa si vuole e chiederlo ad un progettista fidato, perché il fai-da-te oggi così frequente non sortisce mai l’effetto desiderato. A livello più alto, però, quello delle persone dotate di estro creativo, occorre ripercorrere a ritroso il cammino intrapreso nel Settecento, quando sono avvenuti cambiamenti che avrebbero fatto perdere il centro e l’unità delle arti. Il neoclassicismo nelle forme e l’illuminismo nelle idee, rivoluzionando le stesse radici del pensiero, hanno cacciato l’anima dall’arte, l’hanno rifondata sulla base di un’antropologia che dà più valore alla ragione che alla realtà. È stato possibile così arrivare all’arte contemporanea, per la quale non hanno più valore indicazioni classiche quali «l’effetto deve risultare evidente senza bisogno di alcun commento»28. Oggi l’arte sembra morta e sepolta, rimane la critica a spiegarci il senso di ogni opera. Senza tali spiegazioni (ma spesso anche dopo averle ascoltate) restiamo confusi, noi che cerchiamo la bellezza e non il gesto scaltrito. Invano affermare che gli studi universitari in architettura siano l’unico percorso formativo possibile per diventare un grande progettista: né Frank Lloyd Wright, né Le Corbusier, né Carlo Scarpa erano laureati. 26 Cfr ALFREDO MELANI, Pratica e teoria: in proposito delle Scuole di Architettura, «L’Arte Decorativa Moderna», III, 1904, n. 3, pp. 79-87, riportato da E. PALAZZOTTO, op. cit. p. 14, nota 4, dove aggiunge che a Palermo dal 1876 al 1922 si laurearono 832 ingegneri e solamente 35 architetti. 27 Fra i molti romanzi possibili, citiamo qui KAZUO ISHIGURO, Quel che resta del giorno, Einaudi, Torino 1990. L’autore è un giapponese cresciuto in Inghilterra. Nel 1993 James Ivory ha tratto dall’opera un bel film, malinconico e amaro, con Christopher Reeve, Michael Lonsdale, Emma Thompson, Anthony Hopkins, James Fox, Hugh Grant, Peter Vaughan. 28 ARISTOTELE, Poetica, 19, 1456 b 5.

chiederemmo agli autori moderni di elevare l’uomo verso la parte più nobile della propria natura, «portando ad effetto la katharsis di siffatte passioni»29. La ricerca è diretta piuttosto ad assecondare le pulsioni degli istinti oppure i pruriti intellettuali. Un esempio fra i tanti, emblematico per coerenza e lucidità dell’autore, è la famosa “Merda d’artista” di Piero Manzoni, del 1961. Si tratta di novanta scatolette che riportano sull’etichetta un contenuto di 30 grammi, il cui prezzo fu legato in principio alla quotazione dell’oro 30. Una volta infrante le regole, si può elevare a tema artistico perfino l’escremento, usandolo come grido di insofferenza contro le convenzioni da un lato e il consumismo del mercato dell’arte dall’altro. Qui oltretutto viene solo evocato, senza presentarlo né rappresentarlo. Le feci sono solo nominate, sono una scritta su un comune barattolo. Nessuno sa cosa ci sia esattamente dentro. Quando nel 1964 l’artista francese Bernard Bazile ne acquistò un esemplare per aprirlo nel corso di una sua performance, vi trovò all’interno un’altra scatola. Risulta paradossale ed insieme eloquente osservare i ritratti in parrucca, dipinti o scolpiti, di Giacomo Serpotta (1656-1732). Un artigiano come lui, artista nel senso tradizionale del termine, ha disseminato chiese e oratori siciliani di personaggi che rivelano una sapienza sorprendente. Tutto dei puttini o delle virtù rimanda a una visione del mondo e dell’uomo profondamente radicata nella fede cattolica31. Vedere un autore, così sensibile alla trascendenza del reale, abbigliato alla maniera del Secolo dei Lumi ha un che di ironico, benché riveli la prossimità di una svolta epocale. Serpotta viveva in un ambiente ancora rispettoso di una scala di valori. Inoltre non lavorava isolato, faceva parte di un popolo che desiderava esprimere con l’arte ciò in cui credeva. Il frate elaborava il programma teologico, i componenti delle compagnie laicali reperivano i fondi necessari, l’architetto disegnava i volumi nell’insieme e nei particolari, gli artigiani (muratori, gessai, marmisti, ebanisti, stuccatori, argentieri, organari) eseguivano l’opera, gli artisti realizzavano quadri e sculture. Da allora in poi, progressivamente, sono venute meno le sinergie del cantiere. Il committente non sa più bene cosa vuole. L’architetto è divenuto il demiurgo che progetta a tavolino le soluzioni e le impone non solo ai committenti ma persino alla stessa realtà dei luoghi e dei materiali, che debbono adattarsi a considerazioni teoriche astruse. Gli artigiani non sono più sollecitati a dimostrare la propria abilità in una sinfonia, di cui una volta l’architetto era il compositore e il direttore d’orchestra più che il demiurgo indefettibile e dispotico. L’incomunicabilità fra le arti è collegata alla frammentazione dei saperi e ancora di più all’indifferenza rispetto alle gerarchie di valori. Secondo alcuni studiosi il processo di decomposizione inizia già al tempo della filosofia scolastica, subito dopo la grandiosa sintesi operata da S. Tommaso d’Aquino, che può essere osservata in filigrana nella struttura stessa delle cattedrali romaniche e gotiche. Ma fino al Seicento la visione del mondo era sostanzialmente armoniosa. L’uomo era considerato nel contesto della creazione, la quale partecipa delle perfezioni di Dio. La bellezza andava pertanto cercata nelle proporzioni dell’universo e soprattutto dell’unica creatura che Dio abbia voluto per se stessa32, concezione che conserva la sua perenne validità al di 29

Ibidem, 6, 1449 b 28. Il 23 maggio 2007 in asta da Sotheby’s una di queste “opere” ha raggiunto la quotazione di 124.000 euro. Non è questa la sede per indagare le conseguenze sull’arte dello sganciamento della finanza attuale dall’economia reale. 31 Nell’ambito del convegno su Musica sacra in Sicilia, Palermo, Sala Magna dello Steri, 21 aprile 2007, molto intrigante è stata la conferenza del Maestro Francesco Attardi su Mozart e Serpotta: musica e scultura fra sacro e profano. L’audizione guidata della Messa in do minore, o Grande Messa, KV 427, ha messo in luce la teatralità mondana e le altre analogie fra i due artisti, benché il genio di Salisburgo sia vissuto in epoca posteriore, fra il 1756 e il 1791. Si ricordi che gli austriaci governarono la Sicilia fra il 1718 e il 1735. Va aggiunto che l’artigiano palermitano riuscì mirabilmente a mettere la leziosità del rococò al servizio di un impaginato logico e architettonico che invita al raccoglimento e alla preghiera. I puttini dei suoi oratori sono un capolavoro assoluto anche per la capacità di trasmettere il senso della filiazione divina e dell’infanzia spirituale. Cfr DONALD GARSTANG, Giacomo Serpotta e gli stuccatori di Palermo, Sellerio, Palermo 1990. 32 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 7 dicembre 1965, 12. 30

là di ogni ingenuo antropocentrismo. I rapporti armonici del fisico umano erano analizzati anche per progettare le architetture ecclesiastiche. «La corrispondenza tra corpo e tempio, così ampiamente sviluppata già nella tradizione classica testimoniata da Vitruvio, si arricchisce infatti nella prospettiva cristiana di elementi ulteriori. Così vediamo, per esempio, nella nota raffigurazione del macrocosmo proposta da Ildegarda di Bingen – nel Liber divinorum operum, della Biblioteca Governativa di Lucca (ms 1942, fol. 9r) –, una esplicita corrispondenza tra il cosmo, il corpo dell’uomo, la pianta delle chiese, la croce; in questa immagine la Trinità abbraccia e costituisce questo tutto armonico, di cui Cristo è il centro di significato. Deriva da Ildegarda di Bingen anche la bella immagine che troviamo nel Liber Pontificalis del XII secolo (Reims, Bibl. Munic., ms 672, fol. Iv)»33. È possibile ritrovare il centro perduto, nella società complessa in cui viviamo? Noi siamo convinti di sì, a condizione che si superi il principio di immanenza che sta alla radice della civiltà contemporanea. Nei nostri progetti abbiamo applicato un metodo: riprendere il percorso di sviluppo delle arti dal momento in cui il razionalismo cartesiano ne ha causato la frammentazione. Se si evitano le analisi ideologiche che portano spesso alle divisioni tra modernisti e tradizionalisti, si può far tesoro delle acquisizioni degli artisti di tutte le epoche, fino ad arrivare a quelle più vicine a noi. Bisogna che la ricerca accademica supporti attentamente la sperimentazione di nuove soluzioni progettuali. Gli studi sul rapporto fra scienze, armonia e architettura condotti dal prof. Salingaros, un docente della Facoltà di Architettura di San Antonio, Texas, costituiscono indubbiamente uno dei tentativi degni di nota34. Non è questione tuttavia di proporre un recupero nostalgico degli stili, bensì di progredire nell’affermazione di un’architettura senza aggettivi. Si rifletta bene su un fenomeno facilmente verificabile: un uomo senza storia è una creatura senza futuro; un’architettura senza radici è un’arte disumana e, in assoluto, non la si può neppure considerare arte35. A conclusione di queste premesse, ribadiamo il nostro ottimismo. Oltre le nubi grigie che celano il sole delle grandi ispirazioni artistiche, c’è ancora un cielo sconfinato per chiunque abbia voglia e capacità di creare. Volendo citare un poeta romantico inglese, «O, Wind, if Winter comes, can Spring be far behind?»36. Un centro minore di origini recenti S. Giuseppe Jato, paese dell’entroterra palermitano a circa 30 km dal capoluogo siciliano, si costituì a comune nella prima metà dell’Ottocento. Allora si chiamava S. Giuseppe dei Mortilli. Fondatore nel 1789 ne fu Giuseppe Beccadelli, principe di Camporeale, marchese d’Altavilla e della Sambuca, che mise al bando a basso prezzo le terre della zona. L’11 marzo 1838 una tremenda frana faceva scoscendere verso valle buona parte del comune di San Giuseppe Jato che allora contava quasi 5000 abitanti. Piuttosto che ricostruire il comune nello stesso sito si decise, con l’avallo del Governo, di utilizzare un sito molto più stabile, quello attuale di Sancipirello37. Un Sovrano Rescritto38 del 21 luglio del 1838 disponeva che i disastrati 33

RODOLFO PAPA, Leonardo teologo. L’artista «nipote di Dio», Àncora, Milano 2006, p. 64. NIKOS ANGELOS SALINGAROS, A theory of architecture, Umbau-Verlag, Solingen 2006. 35 Un tema progettuale particolarmente ostico per gli architetti moderni è quello degli edifici per il culto. Non riescono più a fare chiese soddisfacenti dal punto di vista liturgico ed eccellenti dal punto di vista artistico. Il perché di queste difficoltà è trattato nell’articolo di CIRO LOMONTE, Un’anima per lo spazio liturgico, pubblicato in castigliano sul numero 36 della rivista Humanitas, Santiago del Cile, ottobre-dicembre 2004, e in italiano sul numero 16 del settimanale Il Domenicale, 22 aprile 2006. 36 «Oh vento, se l’inverno arriva, può essere mai lontana la primavera?»: Percy Bysshe Shelley (1792-1822), Ode to the West Wind, l. 69-70 (1819). 37 La denominazione si riferisce al toponimo della contrada, non ad un santo. Potrebbe derivare da un antico proprietario dal nome spagnolo, Sancio Pirrello. 38 «Dal latino rescriptum, part. pass. di rescribere, scrivere di nuovo, rispondere per iscritto. Rescriptum (principis) è in diritto romano l’atto con cui l’imperatore dava risposta a questioni o domande a lui sottoposte da funzionari o da privati; era uno dei tipi fondamentali delle Constitutiones Principis. L’imperatore agiva quindi come un interprete, non diversamente dai giureconsulti; il suo parere, avente efficacia vincolante, veniva scritto in calce o nel retro della richiesta; da qui il termine “rescritto”. Nel Regno delle Due Sicilie, ad esempio, la legge di data 27 marzo 1817 lascia 34

ricostruissero le loro case “nel sito chiamato Sancipirrello” una contrada omonima a circa mezzo miglio del vecchio centro facente parte dell’ex feudo Mortilli 39. Lo scopo non era di creare un nuovo comune, ma di trasferire definitivamente quello esistente. La nuova sistemazione dovette godere di un buon consenso se già un rapporto dell’Intendenza di Finanza della Provincia di Palermo del 1° luglio 1839 rileva 158 moduli di nuove case in costruzione40. Inoltre per fare fronte ad alcuni tentativi di ricostruzione sui luoghi interessati dalla frana, subito rivelatisi estremamente pericolosi, furono emanate una serie di disposizioni che da un lato vietavano la ricostruzione sul vecchio sito, e “dall’altra si autorizzava la ricostruzione in quel di San Cipirrello seguendo il disegno della pianta redatta dall’Ingegnere Provinciale Francesco Savarino in data 18 Marzo 1841, al fine di una regolare ed ordinata ricostruzione”41. La legge 2048 dell’11 dicembre del 1864 legittimò alla fine la costituzione del comune autonomo di Sancipirello42. Il paese si stende ai piedi del Monte Jato. Benché la cima di questo rilievo tocchi appena 852 metri, esso è circondato su tre lati da scoscesi pendii che lo rendono praticamente inaccessibile. Il Monte Jato si presenta molto adatto a un insediamento in posizione di controllo dell’unica via di comunicazione tra la Conca d’Oro e la valle del Belice, cioè tra la costa tirrenica e quella meridionale dell’isola. Lassù sorse all’inizio del I millennio a. C. una cittadina che fu dei Sicani o degli Elimi, detta Iaitas in greco, Ietas in latino e Giato in epoca medievale. La vita della città continuò ininterrotta fino al 1246, anno in cui Federico II di Svevia la rase al suolo e deportò a Lucera gli arabi che vi si erano asserragliati dopo essere insorti contro il suo governo. Gli scavi iniziati nel 1958 e tuttora in corso hanno riportato in luce il pregevole agglomerato di epoca ellenistica. Un nuovo edificio è pronto da tempo per accogliere il museo archeologico di Iaitas. I nuclei storici dei due comuni sorti alle falde di Monte Jato hanno un impianto ippodameo molto simile e identico orientamento. Il decumanus principale è un asse tracciato in direzione nordsud (ruotato di 30° rispetto al nord geografico). I ripidissimi cardines, ortogonali al decumanus, sono orientati lungo l’asse est-ovest. In origine dovevano essere scalinate, dato che la pendenza arriva in alcuni tratti al 100%. La differenza tra i due centri è che i cardines di San Giuseppe Jato, chiusi a est dalla montagna, sono rivolti al tramonto (verso la valle dello Jato), quelli di Sancipirello sono in pendenza verso il sorgere del sole (dal lato del bosco di Ficuzza). Lo sviluppo urbanistico di Sancipirello conserva qualche traccia della volontà di disegnare il paese come una piccola città ideale. Il progetto dell’Ingegnere Provinciale Francesco Savarino prevedeva un quadrato con otto piazze, una centrale (l’attuale “piazzetta”), quattro al centro dei quadranti e due ai margini del corso. In cima a tutto la piazza della chiesa madre, solitaria presenza dominante in assenza di un centro civico evidente. Grandi sono le potenzialità turistiche del luogo. Occorrerebbe pianificare in modo lungimirante sia lo sviluppo economico sia la qualità urbanistica e architettonica dell’abitato, attualmente non all’altezza della sua storia remota né della bellezza del sito naturale e neppure della bontà dei prodotti locali. Un buon esempio viene proprio dalla comunità parrocchiale di Maria SS. Immacolata, un popolo che ha mostrato la capacità di realizzare la sistemazione architettonica del presbiterio o la complessa messa in scena dei musical dedicati a San Francesco d’Assisi ed a Madre Teresa di Calcutta.

ancora largo spazio a detti atti. Negli Stati costituzionali moderni, il sovrano rescritto è scomparso dalle fonti». COSTANZA BADII, Rapporto tecnico n. 21/2003, Istituto di Teoria e Tecniche dell’Informazione Giuridica Consiglio Nazionale delle Ricerche, Firenze 2003. 39 GIUSEPPE SCARPACE, Da Jato antica a San Cipirrello, Grafiche A. Renna, Palermo 1958, p. 72. 40 Ibidem, p. 72. 41 Ibidem, p. 73. Si vedano anche i Rapporti dell’Intendente al Ministero degli Affari Interni in Napoli, 27/01/1841, 01/02/1841, 18/03/1841 – Archivio di Stato in Palermo – Vol. I, fasc. 459. 42 Ibidem, pp. 89-90.

Sulla Palermo-Sciacca Tra Malpasso43 e Sancipirello non corrono soltanto alcuni chilometri della strada a scorrimento veloce che collega Palermo a Sciacca. Si snoda anche la storia di un rapporto reciproco di stima e amicizia tra don Renzo Cannella e i progettisti dei due interventi di sistemazione dell’area presbiterale. Nel 1995, l’allora parroco della piccola comunità esistente fra Villagrazia di Palermo e Villaciambra affrontò l’adeguamento liturgico della chiesa parrocchiale di San Giuseppe, appena terminata nel suo involucro ma sprovvista dell’arredo architettonico per il culto. Fu un encomiabile atto di coraggio, dato che le poche famiglie dei fedeli non potevano supportare economicamente l’audace impresa della loro guida spirituale. La carenza di fondi causò una realizzazione parziale del progetto. Mancano le finestre previste per il presbiterio; tutta la sistemazione della striscia fra arco trionfale e navata, comprensiva del nuovo fonte battesimale; il tabernacolo, accuratamente disegnato per la nicchia dell’ancona lapidea. Inoltre sono stati utilizzati colori diversi da quelli del progetto. Don Renzo, che aveva profuso molta passione ed energie organizzative nelle migliorie delle parrocchia, non poté purtroppo godere del risultato dei suoi sforzi, perché venne trasferito alla chiesa madre di Sancipirello, suo paese natale. Fu allora, nel 1998, che invitò i due architetti a visitare il tempio, dedicato a Maria SS. Immacolata. Stava già meditando di intervenire nella parrocchia, ma preferì attendere di racimolare – con molta fatica e contando sull’aiuto dei fedeli – la somma necessaria. Questa è una delle peculiarità del suo carattere: provvedere alle necessità delle persone che gli sono affidate senza fare un passo più lungo della gamba. Situazioni di degrado Il primo dato immediatamente rilevato dalle analisi degli architetti fu la presenza cospicua di umidità nell’edificio, aggravata dall’utilizzo di vetrate fisse che impedivano un ricambio d’aria sufficiente. Il fenomeno era attestato dal caratteristico cattivo odore che si percepiva e dal degrado macroscopico dei marmi del pavimento e del lambris. Non era ipotizzabile dotare la chiesa di un arredo architettonico di qualità senza eliminare le cause di tale fenomeno. Si è collocata allora la nuova pavimentazione su di una soletta aerata, realizzata con l’impiego di materiali tecnologicamente innovativi, allontanando così la struttura dal terreno impregnato d’acqua, come era stato evidenziato dai saggi preventivi. Il fenomeno risulta piuttosto singolare per la sua rilevanza, dato che la madrice domina la sommità orografica del paese, per cui sarebbe legittimo attendersi un esiguo ristagno dell’acqua piovana. Gli ingegneri Galati e Patti hanno elaborato il progetto strutturale della soletta, tenendo conto della struttura preesistente e della necessità di realizzare una separazione muraria su cui collocare il crocifisso di notevoli dimensioni. Proporzioni dell’edificio La chiesa di Maria SS. Immacolata a Sancipirello, ha una storia lunga e complessa nonostante sia stata ultimata solamente nel 1975. Il suo posizionamento è contestuale alla stessa ideazione del nuovo sito, essendo la chiesa uno degli elementi generatori ed ordinatori della prima e già citata pianta della città del 1841. Nel 1874, attraverso una raccolta di fondi tra i fedeli, si iniziarono i lavori secondo un progetto – accompagnato pare da un plastico in legno – redatto da Frate Serafino da Palermo. La prima pietra fu posta in occasione della visita dell’Arcivescovo di Monreale, Mons. Giuseppe Maria Papardi. Nel 1880, per ridare impulso ai lavori si aprì una sottoscrizione tra i fedeli e si decise di affidare la direzione dei lavori all’Ing. Achille Viola, il quale in maniera autonoma operò una serie di modificazioni al progetto originario, provocando la reazione dei cittadini e la conseguente sospensione dei lavori. Il 10 ottobre 1901, nello stesso anno della erezione a 43

Minuscola frazione il cui territorio appartiene per tre quarti al comune di Palermo, per il resto – compresa l’area della parrocchia – al comune di Monreale.

parrocchia, il comizio dei notabili decise di proseguire i lavori, conservando per gli interni la distribuzione originaria, e di realizzare la facciata con il disegno in parte realizzato del Viola44. L’analisi della struttura architettonica dell’edificio, edificata nell’arco di quasi cento anni e completata nel 1975, ha richiesto un rilievo accurato. La chiesa era stata realizzata in muratura portante, con solai, travi ed archi in cemento armato. Le soluzioni tecnologiche adottate così come quelle compositive e formali risentono di un evidente processo di edificazione “povero”, affidato essenzialmente alle risorse e alla buona volontà della comunità parrocchiale. L’insieme, maestoso nelle proporzioni, era rimasto spoglio e incompleto. Si notava tuttavia che esso era stato pensato in qualche relazione con i volumi delle grandi madrici della diocesi monrealese e con il linguaggio architettonico del Duomo di Monreale. Era come se la chiesa stesse attendendo di essere compiuta in modo consono alla grandiosità delle sue masse. L’impianto basilicale a transetto è composto da tre navate, per una larghezza complessiva di circa 22 metri. Navata e presbiterio, insieme, sono lunghe 47 metri, il presbiterio da solo 14. L’altezza è di 15 metri all’incirca. Principi generatori Un elemento da tenere in considerazione per la riqualificazione della chiesa di Maria SS. Immacolata a Sancipirello è l’orientamento. L’asse longitudinale è ruotato di 30° verso nord rispetto all’est geografico. Ciò comporta che il sacerdote celebra la Messa rivolto al punto della vallata antistante da cui sorge il sole, facendo capolino a sinistra di Rocca Busambra, all’alba del 25 dicembre. L’abside invece è allineata con il tramonto del 24 giugno. L’orientamento è simile a quello delle basiliche costantiniane di Roma, dove – al momento della consacrazione – il diacono esortava il popolo: volgetevi al Signore! e i fedeli si giravano verso l’ingresso in modo da fissare lo sguardo insieme al sacerdote sul sole nascente, simbolo della parusia, di cui l’eucaristia è pegno sicuro45. Secondo l’esegesi dei primi cristiani, il segno della venuta del Figlio dell’Uomo con grande potenza e gloria è la croce che compare come la folgore da Oriente e brilla fino a Occidente (Matteo 24, 27.30) 46 ovvero il chrismon che appare sul disco solare. Forse questa disposizione verso la janua coeli47 non sarà stata del tutto consapevole, tuttavia non è da escludere interamente che sia stata una precisa scelta originaria, in quanto la chiesa è prevista, nel progetto di Savarino, come coronamento del nuovo abitato. In ogni caso si tratta di un dato di fatto che risulta estremamente affascinante. L’asse ingresso-abside e i punti cardinali sono stati impiegati come geometrie di base della progettazione. Il vano del presbiterio, leggermente più largo che profondo, è stato regolarizzato inserendo due campi laterali in modo da ottenere un quadrato di base, nel quale è stato iscritto un cerchio. Quest’ultimo è stato suddiviso in settori di 15°, in maniera da formare una stella a dodici punte (Fig. 5), evidenziata da lastre di marmo di colore differente (travertino rosso dell’Iran, travertino giallo dell’Iran, bardiglio, bianco carrara). Per aspera ad astra La stella di base riflette quella del controsoffitto a gradoni dorati, con l’intenzione di evocare la liturgia della Gerusalemme celeste48. A differenza del pavimento, la stella di copertura non è disegnata su di un piano. Non c’era lo spazio sufficiente per realizzare una vera e propria cupola. Il volume disponibile è stato sfruttato per creare un controsoffitto dalla sagoma intrigante. Dal 44

GIUSEPPE SCARPACE, op. cit.¸ p. 133. UWE MICHAEL LANG, Rivolti al Signore, Cantagalli, Siena 2006. pp. 53-57. 46 Ibidem, p. 31. 47 Era così denominato il solstizio d’inverno, che apre la porta all’allungarsi delle giornate e quindi, simbolicamente, alla vittoria sulle tenebre del Verbo Incarnato che nasce a Betlemme. Ma essa è anche una invocazione mariana, inclusa fra le litanie lauretane. È bene quindi che il rosone d’ingresso ospiti una vetrata dell’Immacolata. 48 Cfr Apocalisse 21. 45

cupolino centrale partono sette gradini digradanti, separati l’uno dall’altro da un solco profondo 49. Le stelle concentriche hanno dodici punte, ricavate facendo intersecare due esagoni ruotati di 30°. I due cassettoni laterali sono arricchiti da cinque nicchie romboidali ciascuno. All’interno delle nicchie sono ricavate delle cavità cupoliformi che accrescono l’effetto della luce riflessa come se fossero astri che emanano luce propria. Non pochi Padri della Chiesa ritengono che il santuario e il tabernacolo rappresentino la Chiesa, intesa nella sua universalità, come Chiesa militante e trionfante. San Cirillo d’Alessandria, per esempio, rileva in una sua opera: «Per mezzo di Mosè fu innalzato nel deserto l’antico tabernacolo, perfettamente idoneo a esercitarvi tutte le cerimonie sacre della Legge. Ma la dimora che conviene a Cristo è la città in alto, cioè il Cielo, la tenda divina che non è opera dell’abilità umana, ma è sacra e innalzata da Dio. Cristo, ivi insediatosi, offre a Dio Padre quelli che credono in Lui, resi santi dallo Spirito»50. Ciò riflette numerosi brani del Nuovo Testamento, per es. la Lettera agli Ebrei: Il punto capitale delle cose che stiamo dicendo è questo: noi abbiamo un sommo sacerdote così grande che si è assiso alla destra del trono della maestà dei cieli, ministro del santuario e della vera tenda che ha costruito il Signore, e non un uomo51. E ancora: Cristo, invece, venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta, non costruita da mano di uomo, cioè non appartenente a questa creazione, entrò una volta per sempre nel santuario non con sangue di capri e di vitelli, ma con il proprio sangue, dopo averci ottenuto una redenzione eterna52. Nella volta c’è anche un riferimento alla Madonna, Regina degli Apostoli: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle»53. Il lato verso l’abside è chiuso da una parete rivestita di legno che accoglie la sede del celebrante principale, le due degli eventuali concelebranti e gli stalli dei ministranti. Ai piedi dei gradini di questa zona è stato collocato un nuovo leggio a stelo per le orazioni che il sacerdote pronunzia dalla sede. Si è scelto di utilizzare la profondità eccessiva del presbiterio e la sua spazialità facendo riferimento alla distribuzione di alcune chiese monastiche. Solo che in questo caso nella zona absidale è stata posta la sacrestia invece del coro dei monaci. Sede, stalli e pareti sono stati realizzati in massello di iroko con tarsie di frassino. I disegni alludono alle relazioni fra la Chiesa militante e quella trionfante, servono a orientare verso la speranza del premio eterno i viatores che celebrano nell’oggi della lotta per essere santi. La stella che segna la centralità del presbiterio si interseca con un’altra stella a dodici punte con centro sotto l’arco trionfale, dove è stato collocato l’altare, vero fulcro della composizione. In tal modo le due stelle formano un insieme di ventiquattro spicchi intersecatesi, che rimandano ai vegliardi dell’Apocalisse54. Il risultato è uno spazio policentrico nell’orizzontalità, dove il centro volumetrico (asse della volta), si confronta con il fulcro liturgico dell’altare, inducendo una dinamicità spaziale accentuata dalla separazione lignea del presbiterio, resa base della croce monumentale che determina una gerarchizzazione degli spazi esaltandone l’impatto percettivo. L’arco trionfale, ad archetti concavi che segnano l’intero intradosso dell’arco, incorniciati da una trina di archetti ulteriori, è un rimando alla cortina della tenda del convegno che Mosè eresse nel deserto: «introdusse l’arca nella Dimora, collocò il velo che doveva far da cortina e lo tese davanti all’arca della Testimonianza, come il Signore aveva ordinato a Mosè»55. L’arco trionfale e 49

In parecchi passi della Rivelazione sono presenti gruppi di sette realtà che conducono al cielo. In questo caso ci è sembrato pertinente alludere agli arcangeli che assistono il trono di Dio. È l’affermazione di uno di loro quando rivela la propria identità nel meraviglioso libro di Tobia (12, 15): «Io sono Raffaele, uno dei sette angeli che portano lassù le preghiere dei santi e sono ammessi alla gloria del Santo». 50 Cfr Spiegazione della Lettera agli Ebrei, framm. 51 Cfr Ebrei 8, 1-2. 52 Cfr Ebrei 9, 11-12. 53 Cfr Apocalisse 12, 1. 54 Cfr Apocalisse 4, 4. 55 Esodo 40, 21.

quello posto fra il presbiterio e l’abside delimitano uno spazio con una luminosità speciale, evocativa della sacralità della tenda del convegno. «Perché la nube del Signore durante il giorno rimaneva nella Dimora e durante la notte vi era in essa un fuoco, visibile a tutta la casa d’Israele, per tutto il tempo del loro viaggio»56. Gli artisti hanno cercato in vario modo nei secoli passati di rendere figurativamente questa luce, di cui veniva reso partecipe anche il profeta: «Quando entrava davanti al Signore per parlare con lui, Mosè si toglieva il velo, fin quando fosse uscito. Una volta uscito, riferiva agli Israeliti ciò che gli era stato ordinato. Gli Israeliti, guardando in faccia Mosè, vedevano che la pelle del suo viso era raggiante. Poi egli si rimetteva il velo sul viso, fin quando fosse entrato di nuovo a parlare con lui»57. Inizialmente l’arciprete avrebbe voluto prevedere un ciborio sull’altare. Questo elemento architettonico del medioevo indica proprio il segno della tenda. Ma qui è tutto il presbiterio che fa da ciborio, alludendo – fra l’altro – alla discesa dello Spirito Santo sulle offerte. C’è inoltre un riferimento mariano, alla «nuvoletta, come una mano d’uomo, [che] sale dal mare»58 e che si poteva vedere dalla cima del Monte Carmelo, mentre il profeta Elia supplicava il Signore che ponesse fine a una lunga siccità. La nube si estese rapidamente nel cielo e portò abbondante pioggia alla terra da lungo tempo assetata. In questa nube colma di beni si è vista raffigurata la Vergine Maria, che, dando alla luce il Salvatore, fu portatrice dell’acqua vivificante di cui tutta l’umanità era assetata. Un’ulteriore stella segna il pavimento nella sacrestia, coperta da un nuovo catino absidale che rende più proporzionate all’insieme le due enormi vetrate esistenti. Una chiave di volta a chevron, posta in asse con il centro della stella del pavimento, costituisce il punto di raccordo dei costoloni che incorniciano nel catino le lunette delle due vetrate. Una cornice di generose dimensioni copre la sgraziata risega della muratura originaria e conferisce unità all’insieme di presbiterio e sacrestia. I nuovi varchi creati nel muro in corrispondenza della sacrestia consentono percorsi brevi fino agli spazi della celebrazione o, all’occorrenza, processioni solenni d’ingresso. Le due porte quivi predisposte sono realizzate in massello di iroko con un disegno di triangoli equilateri che si inserisce nel vano definito da un arco in gesso a ferro di cavallo. Le geometrie di progetto mirano a creare un grande dinamismo dello spazio liturgico, instaurando un intreccio armonioso fra le numerose direzioni degli spostamenti previsti dai riti. L’intersezione fra l’asse verticale (axis mundi) e gli assi orizzontali imprime grande energia ai percorsi, conservando l’eco dell’istante iniziale della creazione (Big Bang o altro), delle misteriose epifanie di Dio, dell’irruzione del Verbo nella storia dell’uomo, dell’oscuramento del Calvario, dell’esplosione di luce della Risurrezione, dell’effusione dello Spirito Santo. L’altare Nella celebrazione, Cristo è re nella sede, sacerdote nell’altare e profeta nell’ambone. Sono le tre funzioni di Cristo (tria Christi munera) che postulano un progetto iconografico comune, coerente con questa teologia e che ad essa si ispiri. Il Concilio Vaticano II, dalla Sacrosantum Concilium in poi, sottolinea che la Messa è centro e radice della vita del cristiano. Allo stesso modo l’altare deve essere il fulcro compositivo dello spazio liturgico, non soltanto del santuario che lo accoglie, ma dell’edificio di culto intero. Sono molte le metafore con cui la Tradizione, a cominciare dai Padri della Chiesa, guarda all’altare. Senz’altro esso ricorda la mensa attorno alla quale si svolse l’Ultima Cena. Però l’altare è l’ara su cui viene rinnovato il Sacrificio della Croce e si verifica l’evento prodigioso della transustanziazione. Gesù Cristo, che si è davvero incarnato assumendo la natura umana – anima e corpo –, è misteriosamente sacerdote, vittima e altare del suo stesso Sacrificio.

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Esodo 40, 38. Esodo 34, 34-35. 58 1 Re 18, 44. 57

L’altare cristiano è il simbolo di Cristo stesso: «Che cosa è l’altare di Cristo se non l’immagine del Corpo di Cristo?», dice sant’Ambrogio59. E altrove: «L’altare è l’immagine del corpo, e il Corpo di Cristo sta sull’altare»60. L’arciprete di Sancipirello ha chiesto un altare simile a quello realizzato a suo tempo nella chiesa di S. Giuseppe a Malpasso, con un disegno cristologico che faceva riferimento insieme alla radice di Jesse e alle linee architettoniche del Duomo di Monreale. In questo caso è stato scelto un basamento di dodici fusti semicircolari e di altrettanti pannelli. Nella sfida con i profeti di Baal, Elia ricostruì l’altare del Signore con dodici pietre, secondo il numero delle tribù61. Le mura della città di Dio poggiano su dodici basamenti, su cui sono scritti i nomi dei dodici apostoli62. Il Corpo Mistico è unito al suo Capo nell’offerta al Padre del sacrificio del Calvario, rinnovato in ogni Messa con l’aiuto dello Spirito Santo. L’insieme è un blocco chiuso, costruito con pietra bianca di Comiso. Sulla superficie piana superiore sono incise cinque piccole croci (le piaghe di Cristo), che servono per la dedicazione. Nel fusto centrale rivolto alla sede, quello che potrebbe essere dedicato a Simon Pietro, è stata collocata una teca in argento per le reliquie di S. Marcellino63 e di altri martiri. La tovaglia di lino allude alla sindone sepolcrale e non alle tovaglie da mensa, ha cioè la forma di un lenzuolo che pende dai lati. Sui due bordi il disegno riprende il motivo della stella a dodici punte e delle trame decorative del presbiterio, in modo da armonizzarsi con l’architettura. L’opera – un esempio estremamente prezioso e delicato di sfilato di Sicilia64 – è stata eseguita pazientemente a mano dalla sorella del parroco (Enza Cannella) insieme ad un’amica (Antonina Celeste), senza lesinare nottate per consegnarla entro l’8 luglio 2007, giorno della dedicazione dell’altare. L’ambone L’ambone ha conosciuto secoli di abbandono, soprattutto dopo il Concilio di Trento. Ai nostri giorni la riforma liturgica tende a riproporlo, anche se non c’è ancora pieno accordo sulla forma da dargli. Alcuni vorrebbero rielaborare i tipi medievali, adattandoli alla liturgia odierna e alla sensibilità artistica contemporanea. Altri vorrebbero dare risalto ad un podio elevato e solenne, ma non carico del significato simbolico originario. La tribuna per la proclamazione del vangelo è congegnata come le architetture evocative del sepolcro vuoto, in auge nel medioevo. Il diacono che canta l’Exultet nella veglia pasquale rappresenta l’angelo, seduto sulla pietra, che dà l’annuncio della risurrezione di Gesù alle donne che giungono la mattina del primo giorno per ungere il corpo del Signore.

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Sant’Ambrogio, De sacramentis, 5, 7: CSEL 73, 61 (PL 16, 447). Sant’Ambrogio, De sacramentis, 4, 7: CSEL 73, 49 (PL 16, 437). 61 1 Re 18, 31. 62 Apocalisse 21, 14. 63 S. Marcellino fu eletto papa il 30 giugno 296 e morì nel 304, quando infieriva con rigore la persecuzione di Diocleziano. Fu sepolto nel cimitero di Priscilla, presso il martire Crescenzione. Viene ricordato alla fine della Preghiera Eucaristica I, il cosiddetto Canone Romano. 64 Lo “sfilato siciliano”, la più nota manifattura del ricamo siciliano, è un tipo di ricamo a traforo ottenuto sfilando da un tessuto, solitamente lino o cotone o seta, una parte dei fili, riunendo e annodando quelli rimanenti in modo da formare, con il gioco dei pieni e dei vuoti, disegni figurativi e geometrici. L’arte del ricamo in Sicilia era già diffusa al tempo dei musulmani e con i normanni fu incentivata fino a farne una delle maggiori attività dell’Opificio del Palazzo Reale di Palermo. Nel XV secolo entrando in vigore le Leggi Suntuarie che proibirono i ricami con fili d’oro e d’argento per frenare l’uso di materiali eccessivamente sfarzosi, si evolve rapidamente come modalità di abbellimento il “ricamo in bianco”, eseguito su tela bianca con filo bianco. Lo sfilato è un ricamo tipico della Sicilia, difficile da trovare in altre regioni. Comprende cinque tecniche: la sfilatura del tessuto, la realizzazione della rete, il cordoncino, il ricamo ‘400, il ricamo ‘700. Cfr. R.E.I. – Registro delle Eredità Immateriali della Sicilia – RICAMO E SFILATO, Numero di Registro 14. 60

Sopra una base a forma di sperone roccioso65 si erge una costruzione con un vano aperto, la cui profondità è rimarcata dalla pietra lavica. La cavità buia è il vuoto lasciato dal Signore della vita, che non poteva restare preda della morte. Il tutto è realizzato in pietra bianca di Comiso, anche il cosiddetto gobel, la lastra che chiudeva le sepolture ebraiche, rappresentata da una grande macina appoggiata al basamento come se fosse appena rotolata via dall’apertura del sepolcro. L’architettura dell’ambone è imponente oltre che inconsueta. Nasconde l’altare alla vista di chi si trova nel braccio destro del transetto, quello attualmente dedicato a San Giuseppe. In effetti la visibilità ottimale del presbiterio si è sempre avuta solo dalla navata centrale. Cogliamo tuttavia l’occasione per sottolineare l’importanza della dinamicità dello spazio liturgico. Oggi siamo abituati a seguire le celebrazioni eucaristiche (come pure battesimi, matrimoni, ecc.) comodamente seduti sui banchi della chiesa, correndo costantemente il rischio di trasformarci nel pubblico passivo di uno spettacolo. In origine i fedeli non erano così sedentari. Non c’erano banchi, alla Messa si partecipava attivamente in piedi, spostandosi nei vari luoghi della celebrazione man mano che le diverse parti del rito si svolgevano. Chissà che un giorno la liturgia non torni ad essere energica azione rituale di un popolo in cammino verso la Trinità. Di pietra di Comiso è anche il candelabro pasquale, una vera e propria scultura con base a forma di stella ottagonale che si sviluppa quasi organicamente in altezza. Su questo piedistallo viene collocato il cero, simbolo della luce della Risurrezione. Il candelabro è concepito come un’eruzione magmatica che si riversa dal cratere del cero. Il leggio Sull’altra estremità della gradinata di accesso al presbiterio è previsto un leggio di legno per le letture e il salmo. Sul fronte due cerchi con due Tau iscritte, una verso l’alto l’altra verso il basso, ricordano i giusti dell’Antico Testamento che sospirano per l’avvento della giustizia66. Un criterio che ha guidato la progettazione di questo elemento è stato il desiderio di distinguerlo bene dall’ambone. A quest’ultimo devono avere accesso soltanto i ministri ordinati, diaconi e sacerdoti. Uno degli intendimenti del Concilio Vaticano II e della conseguente riforma liturgica è stato quello di far partecipare attivamente i laici alla liturgia, la cosiddetta partecipatio actuosa. Si corre il rischio tuttavia di travisare le intenzioni del Concilio clericalizzando i laici. Occorre mantenere chiara la distinzione tra sacerdozio ministeriale, proprio di coloro che ricevono il sacramento dell’Ordine, e sacerdozio comune dei fedeli. Il leggio è collocato tangente ad uno degli assi della stella che ha centro nell’altare, quello orientato all’alba del 24 giugno67. Pertanto è rivolto a nord-nord-est: la proclamazione della Parola di Dio è diretta a settentrione come nella tradizione medievale, per chiedere al Signore di fugare le tenebre che vi dimoravano. Dietro il leggio è stato sagomato attorno al pilastro un mobile ulteriore, che comprende la credenza con il ripiano per le suppellettili in uso durante la Messa e alcuni scaffali chiusi per conservarle. Al di sopra è stata predisposta la nicchia per gli olii santi. La nuova collocazione del crocifisso «La croce è rivelazione. Essa non ci rivela una cosa qualsiasi, bensì Dio e l’uomo. Ci svela chi Dio è e come l’uomo è. Nella filosofia greca ne abbiamo un singolare presentimento: l’immagine del giusto crocifisso, descrittaci da Platone. Il grande filosofo si chiede, nella sua opera sullo Stato, 65

Si è inteso in tal modo evocare sia il dirupo scosceso che incombe sul paese sia il sepolcro nuovo, appartenente a Giuseppe d’Arimatea, scavato nella pietra a poca distanza dal Calvario, nel quale venne sepolto il corpo morto di Gesù Cristo. 66 Cfr Ezechiele 9, 4. 67 Il solstizio d’estate corrisponde più o meno alla ricorrenza della nascita del Battista. Da quel giorno le ore di luce diminuiscono, per questo veniva definito janua inferi. È lo stesso S. Giovanni che si fa da parte all’arrivo del Messia: Egli deve crescere e io invece diminuire (cfr Giovanni 3, 30).

come dovrebbe andare, in questo mondo, a un uomo veramente giusto. E giunge alla conclusione che la giustizia di un uomo sarebbe davvero perfetta e provata solo allorché egli assumesse la sembianza dell’ingiustizia, perché soltanto allora sarebbe evidente che egli non segue l’opinione degli uomini, ma cerca la giustizia unicamente per se stessa. Sicché, secondo Platone, il vero giusto deve essere in questo mondo un misconosciuto e perseguitato; anzi, Platone non esita a scrivere: “Direte quindi che, stando così le cose, il giusto verrà flagellato, torturato, gettato in catene, accecato col ferro rovente, e infine, dopo tutto questo scempio, finirà per esser crocifisso…” (Platone, Politeia II, 361e-362a). Questo brano, scritto ben 400 anni avanti Cristo, continuerà a commuovere un cristiano. Partendo dalla serietà del pensiero filosofico, qui si presagisce che il perfetto giusto, nel mondo, sarà il giusto crocifisso; si ha come un presentimento di quella rivelazione dell’uomo che si attua sulla croce. Il fatto che il vero Giusto, allorché apparve, sia diventato il Crocifisso, colui che dalla giustizia fu consegnato alla morte, ci dice implacabilmente chi sia l’uomo. Guardati come sei, o uomo: incapace di sopportare il giusto, al punto che colui che ama veramente viene trattato da pazzo, da fallito, da ripudiato. Ingiusto al punto da avere continuamente bisogno dell’ingiustizia altrui per sentirsi scusato, al punto di non potere tollerare il giusto che sembra strapparti di mano questa scusa. Ecco quello che sei! L’evangelista Giovanni ha riassunto tutto ciò nell’Ecce homo (Ecco l’uomo!) di Pilato, che vuol dire appunto questo: ecco come è l’uomo. Questo è l’uomo. La verità dell’uomo è la sua mancanza di verità. La parola del salmo, “ogni uomo è inganno” (Salmi 116 [115], 11), uno che vivrebbe in qualche modo contro la verità, svela già come stiano veramente le cose con l’uomo. La verità dell’uomo è di andare continuamente contro la verità; il giusto crocifisso è quindi lo specchio messo davanti all’uomo, nel quale egli si vede spietatamente riflesso. La croce, però, non rivela soltanto l’uomo, ma rivela anche Dio: ecco Dio, tale da identificarsi con l’uomo, fin nel profondo di questo abisso, tale da salvarlo nell’istante stesso in cui lo giudica. Nell’abisso del fallimento umano si rivela l’abisso ancora più insondabile dell’amore divino. La croce è quindi veramente il centro della Rivelazione, una rivelazione che non ci svela qualche massima sinora a noi ignota, ma noi stessi, rivelando noi davanti a Dio e rivelando Dio in mezzo a noi»68. Platone aveva negli occhi Socrate, un uomo di grandi ideali che muore per la verità. Gesù Cristo invece è la Verità che muore per amore degli uomini, per dare loro la Vita. «L’addio moribondo del Maestro è un classico del genere Socrate per esempio che è esistito rivolto alla verità fino al punto in cui la verità si fa esperienza quasi religiosa i discepoli lo contemplano morire come l’Idea stessa quasi come un Dio benché egli si rifiuti di imporsi a loro come autorità sarebbe un dogmatismo improprio per l’esploratore dell’essere segnala loro soltanto un possibile itinerario di domanda la sua stessa morte in vita è una forma di domanda Budda colui che muore di pura sapienza è un uomo che ha lottato quanto o più di Socrate soltanto lui ha compreso l’inganno di ogni esistenza la causa del dolore universale e il metodo per spegnerlo la segreta via d’uscita dal fiume della metamorfosi lo contemplano i discepoli come la porta aperta del Nirvana stesso benché egli rifiuti nobilmente il piedistallo da dio e con un lieve movimento delle palpebre scioglie gli ormeggi della vita illusoria mentre gli animali lo guardano come ipnotizzati di fronte a Budda o a Socrate 68

JOSEPH RATZINGER, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 2005, pp. 282-283.

che meschino appare questo cenacolo di oscuri ebrei intorno a un maestro che presto si riempirà d’angoscia sarà assediato dai terrori del suo cuore ma col dovuto rispetto per i morti classici oh Dio che differenza sarebbe blasfemo dire che Gesù abbia scoperto verità o inganni di alcun genere blasfemo sarebbe dire che ha svelato l’enigma dell’essere e che morendo si esibisca davanti ai suoi discepoli come l’esempio di tale svelamento Gesù di Nazaret diamine non ha scoperto assolutamente nulla non ha solcato eroicamente l’oscurità del mondo per raggiungere una legge superiore che oggi brilli davanti ai suoi occhi lucenti di agonizzante egli non è una personalità religiosa o intellettuale le sue parole più che sottili più che domande all’universo si applicano direttamente a risuscitare i morti a domare le tempeste e a perdonare i peccati e ad espellere diavoli dal cuore egli non è un illuminato perché egli è la Luce egli non ha cercato la verità perché egli è la Verità egli non è un eroe del verbo perché egli è il Verbo egli non ha scoperto neppure sé stesso Gesù di Nazaret diamine con la voce dell’umiltà infinita semplicemente sussurra prima di morire io sono la risurrezione e la vita io sono la luce del mondo Io Sono Colui Che Sono Io Sono»69. Il crocifisso, scolpito in legno di tiglio, che si trovava già addossato alla parete di fondo dell’abside, è stato montato su una croce imponente, di nuova fattura, collocata utilizzando come basamento la parete di separazione fra presbiterio e sacrestia in corrispondenza della sede. Si intende così esaltare il Signore inchiodato sulla croce sfruttando la spazialità e la luminosità dei due vani. «Instaurare omnia in Christo, questo è il motto di san Paolo per i cristiani di Efeso; informare tutto il mondo con lo spirito di Gesù, mettere Cristo nelle viscere di ogni realtà: Si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutto a me. Cristo, mediante la sua Incarnazione, la sua vita di lavoro a Nazaret, la sua predicazione e i suoi miracoli nelle contrade della Giudea e della Galilea, la sua morte in Croce, la sua Risurrezione, è il centro della creazione, è il Primogenito e il Signore di ogni creatura»70. Uno dei biografi del Fondatore dell’Opus Dei, spiega come il testo appena citato faccia riferimento ad una precisa luce fondazionale, ricevuta durante la Messa il 7 agosto 1931, giorno in cui a Madrid si celebrava la festa della Trasfigurazione del Signore. Quale nuovo significato colse il sacerdote in quel si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum? Che cosa vuol dire per i fedeli mettere Cristo in cima a tutte le attività umane oneste? «Cristo, innalzato sulla croce per essere guardato dagli uomini, è segno di salvezza per molti. La guarigione redentiva dell’umanità guastata dal peccato dei nostri progenitori nel giardino terrestre, era già prefigurata dal serpente di bronzo che Mosè fece innalzare perché fossero risanati quanti erano stati morsi dai serpenti nel deserto. Così pure Cristo, inchiodato sulla croce, oggetto delle burle dei nemici e del dolore degli amici, è segno di contraddizione per molti. Ma non sta in questa visione del Salvatore, condannato a morte e vittima sul Calvario, il significato della locuzione ricevuta da don Josemaría nella festa 69 70

JOSÉ MIGUEL IBÁÑEZ LANGLOIS, Il Libro della Passione, Edizioni Ares, Milano 1990, L’ultima cena, 17. S. JOSEMARÍA ESCRIVÁ, È Gesù che passa, Edizioni Ares, Milano 2003, punto 105.

della Trasfigurazione, bensì nel fatto che Egli vuole che si stabilisca il dominio del suo amore attraverso le attività degli uomini. Affiora di nuovo sulle labbra del Fondatore il “regnare Christum volumus”: mettere ai piedi di Cristo tutte le attività degli uomini, il prodotto dei loro sforzi e la creatività della loro intelligenza, come piedistallo di lode (“Deo omnis gloria”), affinché regni sulle volontà degli uomini e domini tutto il creato. La potenza creativa dell’uomo, partecipazione del potere creatore di Dio, si mette in evidenza nella sua vocazione umana, nella sua vocazione professionale. È allora che lo spirito di laboriosità, alla ricerca dell’opera perfetta da offrire a Dio applicandosi al lavoro con la massima intensità, lo trasforma in mezzo di santificazione e di apostolato. Perciò, consacrando a Dio le opere delle nostre mani e della nostra intelligenza, eleviamo la vocazione umana all’ordine soprannaturale; operazione che, per azione della grazia, racchiude un effetto santificante che avvicina il cielo alla terra. Così realizziamo davvero la riconciliazione di tutte le cose con Dio; perché, dall’interno del mondo, l’intera creazione sarà attratta dalla Croce verso l’alto, per essere offerta da Cristo al Padre»71. Data la grandezza e il peso della scultura in legno è stata necessaria la risoluzione delle problematiche collegate realizzando una struttura metallica, fondata nella parete di separazione e rivestita di legno. La base evoca il Calvario, diviso in quattro settori perché la croce che si erge su di esso è l’albero della vita che si trovava al centro del Paradiso. Gesù ne ha riaperto le porte con la sua Passione, Morte e Risurrezione. Dalle radici dell’albero della vita hanno ripreso a sgorgare i quattro fiumi dell’Eden (Pison, Ghicon, Tigri ed Eufrate), che portano la sovrabbondante grazia della Redenzione ai quattro punti cardinali della terra72. Tutto ciò sarà a tutti evidente nella Gerusalemme celeste. «Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni»73. Dal grembo del Padre Abbiamo già detto della composizione spaziale della sacrestia. Per comprendere meglio perché abbiamo voluto conferire un aspetto solenne a questa parte della chiesa, ricorriamo alla citazione di una recente pubblicazione. «Oggi la sacrestia non è considerata “luogo sacro” – non viene neppure consacrata o benedetta insieme alla chiesa; in passato avveniva il contrario. Secondo il vescovo Durand: “La sacrestia, ovvero il luogo dove vengono depositati i vasi sacri o dove il sacerdote si riveste dei paramenti, è il seno della Vergine Maria, dove Cristo si è rivestito della Sua umanità. Il sacerdote, dopo essersi rivestito, avanza sotto lo sguardo del popolo perché Cristo, provenendo dal seno della Vergine, ha fatto il Suo ingresso nel mondo” 74. Quanto abbiamo perduto oggi! L’architetto deve prestare molta attenzione alla sacrestia per assicurare un’adeguata conservazione di una miriade di oggetti, per facilitare il movimento in abiti ingombranti e la manutenzione ordinaria della chiesa. […] Dato che rivestirsi è parte della preparazione per l’eucaristia, va appeso un crocifisso sulla parete sopra il ripiano come punto focale della preghiera. […] Il sacrarium, un lavabo con lo scarico collegato alla terra, serve per lavare i vasi sacri»75. Si può utilizzare anche per le abluzioni del sacerdote prima della Messa. Il lavabo che abbiamo progettato in questo caso è una complessa scultura, ricavata dal pieno di alcuni blocchi di marmo rosso. Comprende una base e una conca polilobate, nonché una nicchia a forma di embrione. 71

ANDRÉS VÁZQUEZ DE PRADA, Il Fondatore dell’Opus Dei. La biografia di san Josemaría Escrivá. Vol. 1: 1902-1936, Leonardo International, Milano 2003, pp. 403-405. 72 Cfr Genesi 2, 8-17. 73 Apocalisse 22, 1-2. 74 GUILLAUME DURAND DE MENDE, Rationale divinorum officiorum, a cura di G. F. Freguglia, Libreria Editrice del Vaticano, Città del Vaticano 2001, libro I, cap. I, n. 38. 75 STEVEN J. SCHLOEDER, L’Architettura del Corpo Mistico. Progettare chiese secondo il Concilio Vaticano II, L’Epos, Palermo 2005, pp. 148-149.

Per economizzare sui costi, è stato necessario riutilizzare gli armadi per i paramenti sacri che erano stati alloggiati nell’ufficio parrocchiale. La scelta è stata quella di creare una quintabasamento sormontata dalla grande croce, che domina anche questo ambiente. Abbiamo disegnato nuovi ripiani per la preparazione della Messa e nella cornice di coronamento è stata collocata in modo idoneo un’antica immagine della Madonna già in possesso della parrocchia. La composizione prosegue sulle pareti laterali dove sono stati collocati il quadro elettrico generale e i comandi degli impianti, inseriti in appositi armadi. Nella luce Nella teologia cristiana la luce ha un significato profondo, in quanto simbolo privilegiato di Dio. Le materie che la riflettono meglio e sembrano quasi possederla (oro, gemme, vetrate), come pure la luce architettonica (ampiezza e altezza della costruzione) sono guida e ascesa al divino. La luce, elemento essenziale per la fruizione di una architettura, diventa chiave di lettura e supporto per un intervento che si fa strumento di una funzione altamente complessa come la liturgia. Le scelte progettuali, radicalmente impegnate in un uso di materiali ed elementi decorativi fortemente connotati, rendono necessaria l’adozione di soluzioni che consentano l’illuminazione artificiale degli spazi senza che né i corpi illuminanti né effetti luminosi esasperati diventino essi stessi protagonisti o antagonisti delle architetture. Si è allora utilizzato uno schema di illuminazione che privilegia la riflessione, in modo tale da avere all’interno del presbiterio una luce diffusa, con l’elemento gerarchicamente privilegiato dell’altare, illuminato ad un livello più alto da due elementi spot opportunamente direzionati. L’illuminazione del presbiterio è affidata a proiettori posizionati in maniera da non essere visibili e che utilizzano la copertura stellata a foglia oro per ottenere una pioggia di luce calda che pervade tutto l’ambiente. Anche per il crocifisso, conclusione ottica del presbiterio e confine spaziale tra esso e la sacrestia, si sono utilizzati due corpi spot dal basso in modo da esaltarne la drammaticità e avere la possibilità in alcuni momenti di illuminarlo singolarmente. La sacrestia fruisce di una illuminazione locale affidata ad elementi neutri a parete, completati dalla luce diffusa proveniente da proiettori posti ad illuminare il catino absidale costolonato. Il linguaggio moresco Nel progetto del nuovo presbiterio non si trova traccia di arte “astratta”. Abbiamo cercato di essere “concreti”, inserendoci nel tempo e nello spazio, nel cosmo e nella storia della salvezza. In realtà il termine “astratto”, nell’accezione artistica moderna, è quanto mai ambiguo, perché viene impiegato nel senso di estraneo alla realtà materiale, di afferente al mondo dello spirito. L’espressione parla invece di “concetto”, di “forma”, di quella “essenza” delle cose reali che viene colta nel processo cognitivo. Accade qualcosa di simile con il vocabolo “laico”, che designa di per sé tutti i fedeli del popolo cristiano, ad eccezione dei ministri ordinati e dei religiosi. Esso viene usato invece dai mezzi di comunicazione per indicare coloro che ostentano il rifiuto della fede in Dio. Nelle premesse abbiamo parlato della ricerca di un’architettura “senza aggettivi”, né romanica, né gotica, né barocca, né moderna. In questo progetto abbiamo perseguito l’intento di fare emergere un’architettura libera dalle costrizioni illuministe degli “stili”. Ma libertà non vuol dire arbitrarietà, presunzione di fare a meno dell’immenso bagaglio della tradizione. Significa piuttosto capacità di utilizzare consapevolmente quei riferimenti storici che costituiscono un linguaggio perenne. Le immagini del progetto attestano in modo inequivocabile una scelta formale: impiegare le forme dell’arte bizantina e di quella moresca76, il cui vertice è probabilmente costituito 76

Questo linguaggio è frutto di un travaglio millenario. I romani, grandi costruttori, esplorarono le potenzialità monumentali dell’arco e delle volte da esso derivate. I bizantini esaltarono consapevolmente le valenze simboliche dello spazio architettonico, dilatandolo sapientemente con cupole e volte di varia foggia. L’arte islamica sviluppò con esuberanza prodigiosa gli aspetti ornamentali, impadronendosi gradualmente dell’audacia delle soluzioni costruttive bizantine. A noi il linguaggio moresco interessa più per la plasticità delle forme nello spazio che per la grafia –

dall’Alhambra di Granada. Quest’arte è frutto di una sintesi mirabile, resa possibile da circostanze che si potevano dare soltanto in aree specifiche del Mediterraneo, da Bisanzio passando per la Siria, il Maghreb e la Sicilia, fino a giungere alla Spagna. Non ci sembra casuale il fallimento del tentativo recente di ricostruire tali e quali in Arabia Saudita l’Alhambra, l’Albayzín, la Medina e altri quartieri della Granada islamica, precedenti alla conquista del 149277. Le geometrie ripetute nella pavimentazione, nella copertura, negli archi, nelle sedute, la cui base principale ma non unica è l’esagono, servono a inserire il nuovo presbiterio nelle proporzioni della chiesa esistente. Questa soluzione, lungi dal proporre sincretismi religiosi impossibili, è intesa a decorare significativamente il luogo senza ricorrere a sculture e pitture, data l’esiguità delle risorse economiche a disposizione, recuperando il patrimonio locale di forme legate alle edificazioni di epoca normanna Dal simbolo nasce la forma. Gli occhi proporranno alla mente delle forme aggraziate, con molteplici livelli di comprensione. Più verrà penetrato il senso più si godrà dell’insieme e delle singole parti. Si pensi alle cornici di gesso delle porte, dove sono evocate le presenze angeliche rivestite di dalmatiche diaconali nei mosaici del Duomo di Monreale. Impiegare oggi, nell’architettura per il culto, un linguaggio simbolico ancorato alla visione cristiana del creato è una sfida tremenda. In passato si trattava di codici condivisi da artisti, fedeli e teologi (si pensi alle grandiose interpretazioni date alla Bibbia dai Padri), registri di comunicazione radicati nella convinzione che il mondo reale fosse trascendente e conoscibile78. Il principio di immanenza ha spazzato via i simboli del reale, sostituendoli con un linguaggio gnosticheggiante ed elitario. Il nostro desiderio è che i fedeli si sentano a casa propria, la casa del Padre comune, lasciandosi coinvolgere gradualmente con tutto il loro essere – spirituale e corporeo – nella storia della salvezza evocata dalle varie parti del presbiterio. L’universo a cui alludono queste forme non è un qualunque spazio mentale degli intellettuali odierni, è il territorio della fede dei parrocchiani, lo spazio del credo del popolo cristiano. Ad ulteriore chiarimento delle difficoltà insite in tale tentativo citiamo un’opera di grande valore79. «È necessario, crediamo, distinguere accuratamente due tipi di simbolo molto diversi fra loro: il simbolo intenzionale (o convenzionale) e il simbolo essenziale. […] Quest’ultimo si definisce esattamente per il suo legame intimo e indissolubile che lega l’oggetto materiale alla sua significazione spirituale, per quell’unione gerarchica e sostanziale analoga a quella dell’anima e del corpo, della realtà visibile con l’invisibile, unione percepita dallo spirito come un tutto organico, un’ipostasi concettuale, una sintesi folgorante di conoscenza e un’intuizione quasi istantanea. Il simbolismo, in questo caso, non fa che esplicitare una realtà spirituale che esiste già implicitamente nell’oggetto, nel cuore dell’oggetto in cui abita come il suo essere intimo. Questo è il caso dell’acqua battesimale o del pane eucaristico. Occorre però introdurre a questo punto un’altra distinzione. Nei simboli essenziali, fondati sulla natura medesima degli oggetti, vi sono dei simboli d’ordine cosmologico e dei simboli d’ordine teologico. […] I simboli teologici, perlomeno i grandi simboli del genere che citeremo, sono dei simboli essenziali. Perché, allora, non li si percepisce in una sintesi folgorante, in quella intuizione istantanea di cui abbiamo parlato poc’anzi? Tale domanda ci porta a fare un’osservazione della più grande importanza. La risposta è che nel sistema mentale della maggioranza dei nostri contemporanei mancano tutta una serie di rappresentazioni cosmologiche, una “immagine del mondo”, o meglio, come diceva Duhem, un “sistema del mondo” per cogliere veramente queste figure. Nell’uomo moderno il mondo è percepito come un agglomerato di fenomeni, mentre per l’uomo tradizionale – in Occidente, grosso modo fino a Cartesio – il mondo è un organismo declinabile all’infinito – dei decori arabeschi. Il mudéjar, sviluppatosi nella penisola iberica man mano che procedeva la reconquista, è una parodia del moresco e non ne possiede la stessa potenza espressiva. 77 Cfr. JUAN CASTILLA BRAZALES, ANTONIO ORIHUELA UZAL, En busca de la Granada andalusí, Editorial Comares, Granada 2002. 78 Cfr. GÉRARD DE CHAMPEAUX, DOM SÉBASTIEN STERCKX, I simboli del medioevo, Jaca Book, Milano 1981; JURGIS BALTRUŠAITIS, Risvegli e prodigi. La metamorfosi del gotico, Adelphi, Milano 1999. 79 JEAN HANI, Il simbolismo del tempio cristiano, Edizioni Arkeios, Roma 1996.

armonioso e gerarchizzato, di cui si trova la formulazione cristiana in Dionigi l’Areopagita e che da lui risale a Platone. La concezione moderna è puramente quantitativa, ovvero il mondo è percepito come forza e materia che producono i fenomeni, e conseguentemente non c’è “chiave” del mondo, mentre la scienza moderna si inaridisce in scoperte senza dubbio spettacolari, ma che differiscono indefinitamente la speranza di una spiegazione reale delle cose. Al contrario, nella concezione tradizionale e qualitativa, si considerano di meno i fenomeni e le forze materiali rispetto la struttura interna del mondo, la sua architettura spirituale, dedotta da una metafisica, quella di Platone, adattata via via dai primi Padri. In quest’ultima visione del mondo, o cosmologia, l’unità quasi spirituale che unisce le parti dell’universo permette di scoprire, anzitutto, delle analogie e delle corrispondenze tra le parti e, in seguito, entro queste parti e il loro modello ontologico che è in Dio e attraverso il quale Dio le ha create, realizzate nell’ordine dello spazio e del tempo»80. Sarebbe stato bello prevedere immagini della Madonna e degli apostoli. Consideriamo sufficienti quelle delle vetrate e poi – lo ripetiamo ancora una volta – la spazialità creata (che esalta il grande crocifisso) è fortemente allusiva alla storia della redenzione e alla liturgia celeste. Il tutto è drammaticamente dinamico e studiato in rapporto alle celebrazioni. Le soluzioni architettoniche adottate possono apparire ossessivamente esasperate nella loro connessione. In effetti tutto ha un senso e una collocazione precisa, ma anche questo aspetto è radicato nella storia dell’architettura per il culto. Esistono numerosi esempi storici di stretto rapporto fra forma e significato. Si pensi alla compenetrazione spaziale delle parti architettoniche di San Vitale a Ravenna, probabile rimando alla perichorésis (in latino circumincessio), che spiega le relazioni fra la Trinità e le due nature, umana e divina, della Seconda Persona. Oppure al pavimento cosmatesco costruito attorno all’onfalo nella chiesa bizantina di S. Maria dell’Ammiraglio a Palermo. Oppure ancora ai pilastri che Borromini realizza per accogliere i dodici apostoli nella basilica di S. Giovanni in Laterano a Roma. Il fatto che a volte risultino episodi un po’ isolati dal complesso è dovuto agli adeguamenti successivi, che ne hanno offuscato la forza espressiva originaria. Eredi di una tradizione edilizia Come si espresse il commediografo Vaclav Havel, non credente, primo presidente della Cecoslovacchia dopo la caduta del regime comunista, accogliendo all’aeroporto di Praga Giovanni Paolo II, nella sua storica visita del 21 aprile 1990: «Non so, se so, cosa sia un miracolo. Nonostante ciò oso dire che, in questo momento, sto partecipando a un miracolo»81. La citazione è chiaramente esagerata. E tuttavia, mutatis mutandis, anche la realizzazione di questo presbiterio è stata una sorta di prodigio, permesso dall’equilibrio creatosi fra parroco, fedeli, impresa, artigiani, architetti, ingegneri, impiantisti. Un’opera architettonica realmente bella nasce anche così, anzi la coralità medievale del maragma è indispensabile. Davvero era difficile augurarsi all’inizio la riuscita di un intervento sul presbiterio così globale, complesso e armonioso. E questo è avvenuto nonostante i contrattempi prevedibili e i numerosi imprevisti. Il miracolo esplicitamente richiesto in fase di progettazione era che uno spazio non finito si trasformasse in un luogo sacro. Non bastava che una costruzione poco significativa divenisse un’architettura. Per questo risultato sarebbe stato sufficiente impegnarsi nella composizione formale. Era necessario dare vita ad una metamorfosi “sacramentale”, procedimento a cui dedichiamo ormai da vent’anni la nostra ricerca sugli spazi per la liturgia. La Chiesa in quanto istituzione è sacramento in senso analogico. «La Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano»82. La chiesa in quanto edificio è casa di Dio, luogo nel quale i fedeli – membra vive del Corpo Mistico del Signore – gli prestano culto. I segni architettonici debbono manifestare Cristo che in quel luogo è presente e agisce come Sommo ed Eterno Sacerdote. La chiesa visibile è simbolo della casa paterna verso la quale il Popolo di Dio è in cammino. 80

Ibidem, pp. 18-19. GEORGE WEIGEL, Testimone della speranza, Mondadori, Milano 1999, pp. 762-763. 82 CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, 21 novembre 1964, 1. 81

Uno dei fenomeni che colpisce di più i visitatori è che la trasformazione sembra essere scaturita spontaneamente dal luogo stesso. È come se il presbiterio avesse da sempre queste forme, dovesse averle avute da sempre così, necessariamente. I fedeli di Maria SS. Immacolata hanno avuto inoltre l’impressione che lo spazio si sia dilatato, nonostante la separazione fra santuario e abside, da un canto, e l’inserimento di elementi architettonici monumentali, dall’altro. Grande stupore poi ha provocato la nuova collocazione del crocifisso. Si avvera il sogno di una popolazione che ha iniziato con grandi sforzi la propria chiesa madre nel 1875 e ne ha affidato la prosecuzione a figli e nipoti. Chi ha progettato e realizzato il nuovo presbiterio ha esaltato le potenzialità intrinseche ai volumi edificati nell’arco di cento anni. È lecito coltivare il desiderio che l’intero complesso parrocchiale venga portato a termine con identico criterio. In fase di progetto di massima sono state già elaborate le caratteristiche essenziali dei due ambienti laterali. A destra dovrebbe trovare posto la cappella battesimale, collegata simbolicamente e fisicamente all’ambone. In tal modo si eviterà che gli spostamenti dall’ufficio parrocchiale alla sacrestia comportino l’attraversamento della cappella del SS. Sacramento. Quest’ultima verrà collocata a sinistra del presbiterio e funzionerà anche da cappella feriale. Il linguaggio e le proporzioni adottate per il presbiterio sono adattabili al transetto e alle navate, già studiate in linea generale in questa fase. Può avere contribuito alla buona riuscita dell’intervento anche il momento storico che stiamo vivendo. A più di quarant’anni dalla Sacrosantum Concilium83 è possibile affrontare il tema della riforma degli spazi liturgici con un metodo equilibrato, estraneo alle dispute faziose e passionali fra alcuni teologi e liturgisti. Gli uni vengono tacciati dai loro avversari di essere “progressisti”, fautori di un’ermeneutica della discontinuità. Gli altri vengono condannati a loro volta con l’etichetta di “pre-conciliari”, “reazionari”, “conservatori”, contrari ai grandi portati del Concilio Vaticano II. Oggi l’atmosfera è più rilassata e consente una ricerca più oggettiva. Un ringraziamento speciale va all’Arcivescovo di Monreale, S. Ecc. mons. Salvatore Di Cristina, che non ha messo fretta al parroco, affinché i lavori iniziati con l’incoraggiamento del suo illuminato predecessore, mons. Cataldo Naro, fossero portati a termine con diligenza. Va pure ricordata l’attenzione con cui è stato esaminato il progetto dal Direttore dell’Ufficio Liturgico della diocesi di Monreale, don Giacomo Sgroi, nonché dal titolare dell’Ufficio per l’Edilizia di Culto, don Davide Chinnici. I contributi dei parrocchiani sono stati pazientemente raccolti per anni. Inoltre l’accordo fra tutti ha fatto sì che costasse molto meno della metà di quanto avrebbe dovuto. Ci sembra doveroso pertanto ricordare tutti coloro che hanno collaborato all’avventura. Il geom. Salvatore Lomonte ha predisposto i disegni di progetto mentre l’arch. Stefano Agostano ha elaborato il rendering. Gli ingegneri Maurizio Galati e Giuseppe Patti si sono occupati del progetto strutturale. L’impresa di Aldo La Milia (Tonino Sciortino, Giuseppe Martorana, Giovanni Pannizzo, Riccardo Cucchiara, Giuseppe Miraglia, Giuseppe Ferrara, Gino Amato, Paolo Evola 84) ha eseguito i lavori e prestato la necessaria assistenza a tutti gli artigiani. La ditta di Michele Lo Bianco è intervenuta per le opere in marmo (da sottolineare l’opera insostituibile del marmista Maurizio Pellicano85, insieme a quella degli altri operai dell’azienda). Le opere in legno sono state realizzate dai falegnami Gaspare Amato e Paolo Francese. Quelle di gesso da Matteo Di Franco e Bartolo Mallia. Marco Lotà ha pazientemente realizzato la doratura in foglie similoro della volta a forma di stella. L’ing. Vincenzo Iannazzo ha progettato l’impianto 83

CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione sulla liturgia Sacrosantum Concilium, 4 dicembre 1963. Difficile trasmettere in queste righe la passione con cui hanno seguito le indicazioni dei progettisti. In alcuni momenti è stato commovente constatare come cercavano di cogliere i desideri degli architetti affinché la realizzazione fosse fedele alle intenzioni di progetto, a costo di smontare qualcosa già completato. Il loro comportamento è stato indotto e avallato da Aldo La Milia, il titolare dell’impresa, che si è speso generosamente per la buona riuscita dell’opera andando contro i propri interessi. 85 Vale anche per lui quanto detto per i muratori. 84

elettrico e Vito Cannella ha fornito i corpi illuminanti, oltre a ricuperare la verniciatura originale del crocifisso. Il maestro argentiere Benito Gelardi ha realizzato il reliquiario d’argento per l’altare, mentre il bicchiere di ottone per il candelabro pasquale è stato modellato dal maestro argentiere Piero Accardi.

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****** Ciro Lomonte e Guido Santoro, architetti I due progettisti palermitani, dopo una fase iniziale dedicata ad una pianificazione urbanistica attenta alla scala architettonica, messa alla prova fra l’altro nella redazione del Piano di Recupero del centro storico di Erice (TP), hanno preferito dedicarsi ad una clientela di privati che consentisse la cura artigianale dei dettagli architettonici. Nel 1988 hanno intrapreso l’attività di ricerca e progettuale nel settore dell’architettura per il culto. Lomonte ha pure curato l’edizione italiana di una monografia sul tema, STEVEN J. SCHLOEDER, L’Architettura del Corpo Mistico, Progettare chiese secondo il Concilio Vaticano II, L’Epos, Palermo 2005. Sono numerosi gli adeguamenti liturgici che hanno già realizzato, di cui il più completo è quello della parrocchia di Maria SS. delle Grazie a Isola delle Femmine (PA). Da una visione progettuale attenta ad ogni singolo elemento, discende l’interesse per la realizzazione di suppellettili per il culto, che si avvale della presenza a Palermo di alcuni dei migliori maestri artigiani dell’oreficeria sacra. L’attività in questo settore si è svolta attraverso un attento lavoro di ricerca e recupero sul campo, che ha portato Guido Santoro a curare tra l’altro la mostra ed il catalogo Argenti vivi - Tradizione ed attualità dell’argenteria di Sicilia, BSI SA, Lugano (CH) 2002, ed a contribuire alla mostra Pulcherrima res - Preziosi ornamenti del passato, Palermo 2006. L’amicizia instauratasi con gli artigiani dei metalli preziosi ha fornito ai due architetti gli spunti adeguati per dare vita ad una vera e propria scuola di argentieri ed orefici.

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