«Ma come d’animal divegna fante»: Dante tra Alberto Magno e Tommaso

July 25, 2017 | Autor: Giuliano Rossi | Categoria: Dante Studies, Filologia dantesca, Filologia romanza
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«Ma come d’animal divegna fante»: Dante tra Alberto Magno e Tommaso

1. Il canto XXV del Purgatorio, collocato al mezzo tra i due canti che ospitano l’incontro e il dialogo di Dante con i poeti, è consacrato per la gran parte al tema della generazione dell’anima umana, quindi alla dimostrazione della sua immortalità; eppure si configura certamente come punto di snodo più che come «intervallo»1 o «pausa dottrinaria» collocata al centro di quel discorso sulla poesia, coerentemente sviluppato tra XXIV e xxvi canto. L’argomento filosofico dimostra anzi, in questo caso, un’esatta pertinenza in chiave poetologica, tale che nel centro del canto si materializza la voce di Guido Cavalcanti, specie per il ricorso al decisivo sintagma «possibile intelletto», qui chiamato a rappresentare, come già riteneva probabile Gianfranco Contini, un trapianto dalla cavalcantiana Donna me prega2. In anni recenti soprattutto gli studi di Roberto Antonelli e Corrado Bologna hanno poi portato materiali puntuali a conferma di questa lettura, dimostrando che «la questione dell’unità dell’anima (…) posta com’è fra il canto di Bonagiunta (e del “nodo”) e quello di Guinizzelli e di Arnaut-Folchetto non è un riempitivo “inutilmente” formale, quale è finora apparso»3. 1. A. M. Chiavacci Leonardi, Introduzione a Purgatorio XXV, in Dante Alighieri, Commedia, con il commento di A. M. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Milano 1991-1997, II, Purgatorio, p. 727. 2. G. Contini, Cavalcanti in Dante, in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino 1970, pp. 433-445, a p. 443: «Da essa [Donna me Prega] è ricavata, proprio là dove si confuta l’averroismo, la clausola del possibile intelletto, ultima, ma quanto discretamente allusiva, citazione polemica di Guido nel poema». 3. R. Antonelli, Subsistant igitur ignorantiae sectatores, in Guittone d’Arezzo nel settimo centenario della morte, Atti del Convegno internazionale di Arezzo (22Critica del testo, XIII / 2, 2010

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Segnalata in Purgatorio xxv quale «punto»4 critico («quest’è tal punto, / che più savio di te fé già errante», vv. 62-635), la questione dell’unità dell’anima deve a sua volta essere inquadrata nel problema più generale di una definizione dello statuto attribuito alle facoltà costitutive l’individuo: l’intelletto e la volontà. Su questo piano il xxv canto del Purgatorio riprende a distanza, e precisa, un argomento già utilizzato nel canto xvi, in apertura del trittico consacrato al tema del libero arbitrio e alla definizione del rapporto possibile tra libertà e amore6 (anche in quel caso con esiti marcatamente anticavalcantiani). Stando alla spiegazione fornita da Marco Lombardo al pellegrino, il «libero arbitrio» o «libero voler[e]» degli uomini è garan24 aprile 1994), a c. di M. Picone, Firenze 1995, pp. 337-349, a p. 343. Si vedano anche Id., Cavalcanti e Dante: al di qua del Paradiso, in Dante da Firenze all’aldilà, Atti del terzo seminario dantesco internazionale (Firenze, 9-11 giugno 2000), a c. di M. Picone, Firenze 2001, pp. 289-302; C. Bologna, Beatrice e il suo ànghelos Cavalcanti fra Vita nova e Commedia, in «Per correr miglior acque…», Atti del Convegno di Verona-Ravenna (25-29 Ottobre 1999), pp. 115-141, Roma 2001. 4. Sulla funzione di “perno” di questioni ideologiche fondamentali svolta dal lemma «punto» nel poema si veda C. Bologna, Il «punto» che «vinse» Dante in Paradiso, in «Critica del Testo», 6 (2003), 2, pp. 721-754. 5. Per questa e le successive citazioni dalla Commedia si fa riferimento al testo dell’edizione nazionale curata da G. Petrocchi (La Commedia secondo l’antica vulgata, 4 voll., Milano 1966-1967). 6. Sulla centralità strutturale e tematica dei canti xvi-xviii del Purgatorio si vedano almeno, oltre al sempre fondamentale Ch. Singleton, The Poet’s Number at the Center, in «Modern Language Notes», 80 (1965) (trad. it. Il numero del poeta al centro, in Id., La poesia della Divina Commedia, Bologna, 1999, pp. 451462), A. Punzi, Centro e centri nella Commedia, in «Anticomoderno», 4 (1999), pp. 73-89; C. Bologna, Al centro della Commedia, in Studi sulle società e le culture del Medioevo per Girolamo Arnaldi, a c. di L. Gatto e P. Supino Martini, Firenze 2002, pp. 19-31 e Id., «Purgatorio» XVII (Al centro del viaggio, il vuoto), in «Studi Danteschi», 69 (2004), pp. 1-22; M. L. Palermi, «A questo punto voglio che tu pense». Note di lettura intorno a una serie rimica della «Commedia», in «Critica del Testo», 5 (2002), 2, pp. 569-593. Diversa la posizione espressa da E. N. Girardi (Al centro del Purgatorio: Il tema del libero arbitrio, in Il pensiero filosofico e teologico di Dante Alighieri, Milano 2001, pp. 21-38), il quale riconosce nel canto XVI «il centro della cantica, non del poema». Più in generale, sulla rilevanza e sullo sviluppo del tema nella Commedia, R. Mercuri, Comedía, in Letteratura Italiana, dir. da A. Asor Rosa, Le Opere, I, Dalle Origini al Cinquecento, Torino 1992, pp. 211-329, specie il paragrafo 3.1.2 - Il libero arbitrio, alle pp. 239-240.

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tito dalla provenienza dell’«anima razionale» direttamente da Dio, «maggior forza» e «miglior natura» che «cria / la mente» negli esseri umani senza “mezzo”: A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete; e quella cria la mente in voi, che ‘l ciel non ha in sua cura7.

Stabilita la provenienza dell’anima intellettiva almeno «partim ab estrinseco»8, slegata in qualche misura dal processo di generazione organica, essa si trova naturalmente sottratta alla «cura» del cielo, ovvero al potere degli astri. È il presupposto necessario di un ragionamento che, sviluppato nell’arco dei tre canti centrali del poema, culminerà con la definizione di «un’inedita fenomenologia dello spazio mentale»9, portata a compimento con Purgatorio XVIII e con il superamento ivi proposto del contrasto fra amore e libero arbitrio. Sanato questo contrasto, anche attraverso la ricomposizione della frattura fra amore e conoscenza, ovvero attraverso la confutazione di un «Amore che ha sede nell’anima sensitiva» e di una passione amorosa da cui «può derivare la fine della vita razionale e contemplativa»10. È in gioco, complessivamente, una definizione dello statuto della volontà e della ragione (quest’ultima radice della volontà stessa intesa come «appetitus rationalis»). Nell’ottica dantesca sarà l’apprensione dell’oggetto, combinata alla conoscenza del bene, a determinare la scelta da cui scaturisce l’atto di volontà; e l’intelletto, che ha per oggetto l’essere e il vero universale, muove la volontà presentandole il suo fine e garantendo così l’integrità del libero arbitrio in virtù del 7. Purg., XVI 79-81. 8. Mi servo di una formula utilizzata da Alberto Magno nel De natura et origine animae («Ostensum est enim ante dicta, quod substantia illa quae est anima hominis partim est ab intrinseco et partim ab extrinseco ingrediens», II, c. 4), testo chiave per l’interpretazione di Purgatorio XXV e nel quale B. Nardi individuò la fonte del ragionamento dantesco sulla generazione dell’anima umana. 9. Bologna, «Purgatorio» XVII cit., p. 3; su questi aspetti anche Id., Fisiologia del disamore, in «Critica del Testo», 4 (2001), 1 [= Alle origini dell’Io lirico: Cavalcanti o dell’interiorità], pp. 59-87. 10. I luoghi citati sono, rispettivamente, in R. Antonelli, Cavalcanti o dell’interiorità, ibid., pp. 1-22, a p. 9 e in M. Corti, La felicità mentale, in Scritti su Cavalcanti e Dante, Torino 2003, pp. 5-175, a p. 32-33. Critica del testo, XIII / 2, 2010

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suo essere disgiunto dall’anima sensitiva, che è invece sottoposta alle influenze celesti. In primo luogo sul piano della filosofia naturale, che più avanti rivelerà la sua inadeguatezza, si disegna dunque, al centro del poema, la preliminare definizione di quello «spazio mentale» nuovo in cui avviene la saldatura di amore, conoscenza e volontà, con la facoltà immaginativa posta al centro e l’integrità del libero arbitrio salvaguardata attraverso l’indispensabile riconoscimento dell’intelletto quale sostanza separata, non implicata con il mondo corporeo e insufflata nell’uomo direttamente da Dio. Come altri utilizzati da Dante nei canti centrali del Purgatorio, ha radici tommasiane anche questo argomento sollevato a garanzia dell’indipendenza dell’anima intellettiva (quindi della volontà) dagli influssi astrali: il filosofo, infatti, all’errata dottrina di coloro che «posuerunt corpora celestia directe imprimere in voluntatem humana» opponeva l’evidenza del fatto che «ratio autem est potentia animae non alligata organo corporali»11, il che la garantisce non soggetta all’influsso astrale. Quest’argomento utilizzato da Marco Lombardo, e autorizzato da Tommaso, risulta analogo a quello cui farà ricorso Stazio in Purgatorio xxv, nel momento in cui, dopo aver segnalato l’errore del «savio», anche attraverso l’allusione cavalcantiana, dovrà precisare la provenienza «partim ab extrinseco» dell’anima intellettiva, ovvero dello «spirito novo, di vertù repleto» (v. 72): Ma come d’animal divegna fante, non vedi tu ancor: quest’è tal punto, che più savio di te fé già errante, 11. Tommaso, Summa Theologiae I-II, q. 9 a. 5 resp.: «Respondeo dicendum quod eo modo quo voluntas movetur ab exteriori obiecto, manifestum est quod voluntas potest moveri a corporibus caelestibus, inquantum scilicet corpora exteriora, quae sensui proposita movent voluntatem, et etiam ipsa organa potentiarum sensitivarum, subiacent motibus caelestium corporum. Sed eo modo quo voluntas movetur, quantum ad exercitium actus, ab aliquo exteriori agente, adhuc quidam posuerunt corpora caelestia directe imprimere in voluntatem humanam. Sed hoc est impossibile. Voluntas enim, ut dicitur in III de anima, est in ratione. Ratio autem est potentia animae non alligata organo corporali. Unde relinquitur quod voluntas sit potentia omnino immaterialis et incorporea». Per il testo della Summa si fa riferimento a Summa theologiae, in S. Thomae Aquinatis, Opera omnia iussu impensaque Leonis XIII P. M. edita, t. 4-12, Ex Typographia Polyglotta S. C. de Propaganda Fide, Romae 1888-1906.

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sì che per sua dottrina fè disgiunto da l’anima il possibile intelletto, perché da lui non vide organo assunto12.

Libertà e immortalità trovano dunque un principio comune nella natura non corporale e non organica dell’anima intellettiva; e questa radice comune sarà ribadita, oltreché nella connessione a distanza tra Purgatorio xvi e Purgatorio xxv, nell’enunciazione sintetica in due terzine consecutive di Paradiso vii, in cui si fa nuovamente riferimento all’anima generata «senza mezzo» dalla «divina bontà» (v. 64): «Ciò che da lei senza mezzo distilla / non ha poi fine…» (vv. 67-68) e «Ciò che da essa senza mezzo piove / libero è tutto, perché non soggiace / a la virtù delle cose nove» (vv. 71-72)13. Esiste quindi una estrema connessione tematica tra la definizione di una fenomenologia dell’amore che consente di preservare intatta la libertà dell’individuo e la dinamica della generazione dell’anima umana, che determina quella stessa libertà. Il fraintendimento portato su uno di questi due aspetti investirebbe necessariamente anche l’altro, giacché il travisamento può originare solo, nell’uno e nell’altro caso, dalla mancata comprensione del medesimo «punto» critico: quello accuratamente segnalato, come detto, nel cuore di Purgatorio xxv. D’altra parte, la disposizione del canto xxv entro una linea che attraversa anche i canti centrali del Purgatorio non fa che accentuare la pertinenza del riferimento cavalcantiano e la funzione poetologica del canto stesso, precisandone la coerente collocazione nell’ambito del trittico di Purgatorio xxiv-xxvi. Così contestualizzata l’epifania cavalcantiana nel sintagma «possibile in12. Purg., XXV 61-66. 13. «Ciò che da lei senza mezzo distilla / non ha poi fine, perché non si move / la sua imprenta quand’ella sigilla. / Ciò che da essa senza mezzo piove / libero è tutto, perché non soggiace / a la virtute de le cose nove» (Par., VII 67-72): viene in questo modo ribadito che la libertà, così come l’immortalità, appartiene alle creature direttamente create e sottratte alle influenze celesti. I termini stessi di questo ragionamento, insieme alla contiguità d’argomento, rimandano proprio ai canti dell’esposizione della teoria del libero arbitrio, specie per quel “soggiacere” («non soggiace», al v. 71) che, prima delle tre occorrenze riscontrate in Paradiso (VI 84, VII 71 e XII 54), si trovava solo pronunciato da Marco Lombardo, nel momento in cui questi affermava la diretta creazione divina dell’anima come garanzia del «libero volere» («liberi soggiacete», Purg., XVI 80). Critica del testo, XIII / 2, 2010

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telletto» (confermata da una capillare presenza nel canto del lessico di Donna me prega, su cui tornerò) lascia supporre che questo sia anche un nucleo generante; ovvero ch’esso contenga il nodo problematico verso cui converge tutto il ragionamento di Purgatorio xxv, e dai cui, forse, il canto stesso nasce. 2. Intorno a questo centro, in primo luogo nello svolgimento lineare della dottrina sulla generazione dell’anima umana esposta da Stazio, Dante sembra collocarsi propriamente tra Alberto Magno e Tommaso, o meglio tra teoria albertina da un lato, e immagini e lessico tommasiani dall’altro. Non è necessario, per questo, rimettere in discussione il dato ormai acquisito della provenienza da Alberto della dottrina esposta nei versi danteschi, la cui fonte è stata individuata da Bruno Nardi nel De natura et origine animae14; si possono però laicamente riconoscere quelle immagini e quei significativi elementi di lessico che emergono nel procedere della spiegazione 14. Alberto Magno, De natura et origine animae, II, c. 4 (in Alberti Magni Opera omnia – De natura et origine animae; De principiis motus processivi; Quaestiones super de animalibus, Tomus XII, Monasterii Westfalorum, in aedibus Aschendorff, 1955): «Oportet autem scire, quod, sicut in aliis, ita etiam in homine inchoatio vegetativi est in materia et in esse primo substantiae animandae, et inchoatio sensibilis est in vegetativo, et inchoatio rationalis in sensitivo est quia aliter homo constitutus, sicut ante probatum est, esset multa et non unum (…) Ex his igitur patet, quod falsa est opinio Abubacher, qui dicit intellectum esse non de natura animae, sed continuari sibi eum ab extrinseco. Si enim hoc verum esset, non esset homo id quod est esse habens hominis nisi a sensibili. Quod enim nonnis extrinsecus continuatur, non est terminus exeuntis de potentia ad actum, nec per ipsum aliquid ponitur in numerum; sed per rationem et intellectum homo est homo et ponit in numerum. Est igitur rationalis esse hominis, et una substantia erit vegetativum et sensitivum in ipso. Ulterius patet, quod non potest esse unus intellectu in omnibus hominibus, cum secundum esse distinguatur per vegetativum et sensitivum cum quibus est una et eadem substantia. Ostensum est enim ante dicta, quod substantia illa quae est anima hominis partim est ab intrinseco et partim ab extrinseco ingrediens: quia licet vegetativum et sensitivum in homine de materia educantur mediante virtute formativa, quae est in gutta mater et patris, tamen haec formativa non educeret eas hoc modo prout sunt potentiae rationalis et intellectualis formae et substantiae, nisi secundum quod ipsa formativa movetur informata ab intellectu universaliter movente in opere generationis: et ideo complementum ultimum quod est intellectualis formae et substantiae non per instrumentum ex materia, sed per lucem suam influit intellectus primae causae purus et immixtus».

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dantesca e che non possono risalire ad Alberto (in quanto questi non vi fa ricorso), ma trovano invece riscontro esatto in Tommaso. Come si vedrà, si tratta in molti casi di elementi che puntellano i passaggi cardinali dell’esposizione della dottrina, a misura del suo approssimarsi al momento critico. La spiegazione di Stazio, dedicata ai passaggi principali del processo di generazione dell’anima umana, entra nel vivo al verso 37 e si conclude al verso 108, per una misura complessiva di una settantina di versi: Sangue perfetto, che poi non si beve da l’assetate vene, e si rimane quasi alimento che di mensa leve, prende nel core a tutte membra umane virtute informativa, come quello ch’a farsi quelle per le vene vane. Ancor digesto, scende ov’è più bello tacer che dire; e quindi poscia geme sovr’altrui sangue in natural vasello. Ivi s’accoglie l’uno e l’altro insieme, l’un disposto a patire, e l’altro a fare per lo perfetto loco onde si preme; e, giunto lui, comincia ad operare coagulando prima, e poi avviva ciò che per sua matera fé constare. Anima fatta la virtute attiva qual d’una pianta, in tanto differente, che questa è in via e quella è già a riva, tanto ovra poi, che già si move e sente, come spugno marino; e indi imprende ad organar le posse ond’è semente. Or si spiega, figliuolo, or si distende la virtù ch’è dal cor del generante, dove natura a tutte membra intende. Ma come d’animal divegna fante, non vedi tu ancor: quest’è tal punto, che più savio di te fé già errante, Critica del testo, XIII / 2, 2010

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sì che per sua dottrina fè disgiunto da l’anima il possibile intelletto, perché da lui non vide organo assunto. Apri a la verità che viene il petto; e sappi che, sì tosto come al feto l’articular del cerebro è perfetto, lo motor primo a lui si volge lieto sovra tant’arte di natura, e spira spirito novo, di vertù repleto, che ciò che trova attivo quivi, tira in sua sustanzia, e fassi un’alma sola, che vive e sente e sé in sé rigira.

Una cesura netta coincide con il punto che delimita lo spazio di “autosufficienza” della filosofia naturale, e si colloca dunque all’altezza delle due terzine in cui è spiegato l’intervento del «motor primo», che insuffla nel corpo ormai formato lo «spirito novo», ovvero l’anima intellettiva, nuova, appunto, e diversa per ognuno. Stazio espone dunque le prime tappe del processo di generazione facendo riferimento a principi comuni «a tutti gli scritti di embriologia del tempo di Dante»15, derivati dall’aristotelico De generatione animalium; così almeno fino al punto in cui (faccio riferimento alla nota di A.M. Chiavacci Leonardi ai vv. 55-57) si cominciano «a formare gli organi delle varie facoltà sensistive» e a sviluppare «gli organi propri dell’animale superiore»16. Non è possibile in questa sede analizzare nel dettaglio i singoli passaggi della prima parte dell’argomentazione di Stazio, della quale sarà sufficiente dichiarare l’aderenza alla teoria albertina per l’aspetto cardinale della generazione continua dell’anima, rispecchiata nella corrispondenza fra la «virtute informativa» del verso 41 e la «virtute attiva» del verso 52. Essa, «nel dare vita al coagulo [«comincia ad operare / coagulando prima, e poi avviva / ciò che per sua matera fé constare», vv. 49-51], ne diviene anima “qual d’una pianta”»; e questa «virtute attiva» sarà quindi, «senza dubbio possibile», quella stessa «“virtute informativa” che il “sangue perfetto” [v. 37] prese nel cuore paterno “a tutte membra umane” [v. 40]; 15. B. Nardi, Il canto XXV del Purgatorio, in Letture dantesche – Purgatorio, a c. di G. Getto, Firenze 1958, pp. 501-517. 16. A.M. Chiavacci Leonardi, in Dante Alighieri, Commedia, cit, p. 741.

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giacché di altra “virtù attiva” finora non s’era parlato»17. La medesima «virtù», derivata dal «cor del generante» (v. 59), «si spiega e si distende nell’organismo vivente che essa viene plasmando, come artefice non esterno ma interno all’organismo che costruisce, avvia ed informa»18. Su questo piano si misura, a grandi linee, la distanza della teoria albertina da quella che sarà di Tommaso: mentre il maestro di Colonia definisce uno sviluppo continuo della prima «virtute informativa», che dal «cor del generante» inizia la formazione dell’embrione e, per fasi successive, delle sue “anime”, Tommaso scandisce un succedersi di avanzamenti per corruzione dello stadio precedente, nel quale la virtù informativa resta distinta dall’anima vegetativa, e questa dalla sensitiva. Prima ancora che nelle conclusioni, quindi, la divergenza tra le due teorie è tutta racchiusa nell’iniziale definizione delle successive incohationes19 cadenzate da Alberto («Oportet autem scire, quod, sicut in aliis, ita etiam in homine inchoatio vegetativi est in materia et in esse primo substantiae animandae, et inchoatio sensibilis est in vegetativo, et inchoatio rationalis in sensitivo est»), nel procedere delle quali sarebbe inoltre sinteticamente prospettata la soluzione del «punto» critico inerente l’unione dell’anima razionale alla sensitiva: riconosciuta infatti l’«incohatio rationalis in sensitivo» procede in modo lineare la sanzione dell’errore averroista. Risulta manifestamente falsa, a questo punto, seguendo la via proposta da Alberto, l’opinione di coloro che ritennero l’«intellectum esse non de natura animae, sed continuari sibi eum ad extrinseco» e che sostennero, contestualmente, che «ex virtutibus, quae sunt in semine, non educit per generationem nisi animam sensibilem»20. L’argomen17. Nardi, Il canto XXV del Purgatorio cit., p. 510. 18. Ibid., p. 511. 19. B. Nardi, La dottrina di Alberto Magno sulla «incohatio formae», in Id., Studi di filosofia medievale, Roma 1960, pp. 69-101, p. 72. 20. Alberto Magno, De natura et origine animae, II, c. 4:«Averroes autem et Aubacher et Avampace et quidam philosophorum arabum, alia via incedunt. Horum autem sententia est, non eiusdem substantiae esse animam sensibilem et intellectualem in homine: propter quod dicunt ex virtutibus, quae sunt in semine, non educit per generationem nisi animam sensibilem; (…) intellectualem autem naturam esse separatam et irradiare super animam hominis sicut irradiat lux solis super perspicuum: et ex illa irradiatione dicunt fluere formas intelligibiles in animam, sicut ex lumine solis fluunt visibilia in perspicuum». Critica del testo, XIII / 2, 2010

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tazione è piana: posto l’ultimo passo della generazione dell’anima nel punto in cui la sensitiva stessa diviene l’anima intellettiva, pure riconoscendo ch’essa «partim ab extrinseco ingredie[t]», è del tutto eliminato il rischio che si possa disgiungere dall’anima il possibile intelletto, poiché «rationalis esse hominis, et una substantia erit vegetativum et sensitivum in ipso», anche per generazione. «Ammettendo che la stessa sensitiva, venuta per generazione, sia resa intellettiva dal Motor primo che spira in essa lo “spirito nuovo”, l’errore di far disgiunto da l’anima il possibile intelletto» è dunque «evitato tutto intero»21. Eppure Dante ha cura di segnalare la criticità residua del passaggio decisivo in cui resta da spiegare come «questo essere, divenuto animale, dotato di tutte le facoltà proprie degli animali, divenga fante», ovvero come quella «facoltà spirituale» che è l’intelletto possa «unirsi al corpo materiale»22. «Ma (…) non vedi tu ancor»: è l’espressione con cui Stazio segnala che si giunge ora all’aspetto decisivo e controverso, in qualche misura incrementando l’efficacia di questo avvertimento con il ricorso ad una formulazione tipica dell’argomentare filosofico, nel momento in cui si introduce la soluzione del «punto» primario e ancora in sospeso23. 3. Illustrato dunque il processo di formazione dell’organismo, ancora non è chiaro come avvenga l’unione dell’anima razionale al nuo21. B. Nardi, Il tomismo di Dante e il p. Busnelli S.J., in Id., Saggi di filosofia dantesca (1930), Firenze 19672, p. 341-380, a p. 373. 22. Chiavacci Leonardi, in Dante Alighieri, Commedia cit., p. 742, nota 61. 23. Tra gli innumerevoli casi di frasi “formulari” simili per struttura e funzione a quella utilizzata da Stazio per introdurre alla seconda parte della sua argomentazione, il cui oggetto viene al tempo stesso definito e dichiarato in sospeso, vorrei segnalare almeno due esempi riscontrabili in Tommaso, entrambi recanti una citazione del De anima di Aristotele (particolarmente significativa la seconda): «De intellectu autem et perspectiva potentia nihil est adhuc manifestum» (in Contra gentiles, II 61; fa riferimento a De anima, 413b) e «Hanc igitur dubitationem insinuat Philosophus cum post praemissa subiungit: “Amplius autem immanifestum si sic corporis actus anima sicut nauta navis”» (in De unitate intellectua contra averroistas; cita De anima, II, 413 a 8-9). Occorre anche non sottovalutare il peso del «Ma» che apre il giro di queste terzine: sul valore cardinale che possono assumere segnali sintattici di questo genere nell’argomentare dantesco è preziosa la segnalazione di M. Mocan (La trasparenza e il riflesso. Sull’alta fantasia in Dante e nel pensiero medievale, Milano 2007, alle pp. 167-173) relativa ai versi finali del poema.

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vo organismo e come, in conseguenza di questa unione, esso «d’animal divegna fante» (v. 61). È questo, esattamente, il passaggio in cui la dottrina della generazione dell’anima si rivela strettamente legata alla genesi dell’errore averroista sull’intelletto possibile, «disgiunto / da l’anima» (vv. 64-65). Si tratta di una connessione accuratamente indicata da Dante sul piano testuale con il ricorso alla consecutiva «sì che», che collega le due terzine consacrate l’una alla segnalazione dell’errore e l’altra alla sintetica spiegazione della sua natura e della sua origine: «perché da lui non vide organo assunto». L’errore discende dunque da una saldatura logica fallita nel momento in cui, risolto il percorso di generazione dell’anima sensitiva, si tratta di definire il passaggio ultimo, per cui appunto «l’animal» diviene «fante» in virtù del possesso dell’anima razionale. L’uomo è tale nel momento in cui davvero hic homo intelligit; quindi non prima che lo «spirito novo», che è l’«anima intellettiva», abbia attirato a sé le altre due (la vegetativa e la sensitiva) per farsi con esse «un’alma sola». La prima significativa immagine riconducibile a Tommaso precede immediatamente il «nodo» dell’unione dell’anima intellettiva e s’innesta nella descrizione del momento in cui è «Anima fatta la virtute attiva / qual d’una pianta» (vv. 52-53): questa immagine dell’anima che si fa «pianta», a questo stadio del processo di evoluzione, per poi divenire «animal[e]», e solo dopo «fante», riproduce le tappe fissate con icastica efficacia dall’Aquinate in uno dei luoghi della Summa contra gentiles consacrati al tema della generazione dell’anima umana. Vi si trova infatti esattamente scandita la successione «vivit vita plantae» – «vivit vita animalis» – «succedit anima rationalis ab extrinseco immissa»: Anima igitur vegetabilis, quae primo inest, cum embryo vivit vita plantae, corrumpitur, et succedit anima perfectior, quae est nutritiva et sensitiva simul, et tunc embryo vivit vita animalis; hac autem corrupta, succedit anima rationalis ab extrinseco immissa, licet praecedentes fuerint virtute seminis24.

Di questo passaggio da pianta ad animale, che è immagine emblematica del ragionamento tommasiano e della raffigurazione poe24. Tommaso, Summa contra gentiles, II 89, n. 11. Per il testo della Contra gentiles si fa riferimento a S. Thomae Aquinatis, Liber de veritate catholicae Fidei contra errores infidelium seu Summa contra Gentiles, t. 2-3, a c. di P. Marc, C. Pera, P. Caramello, Torino-Roma 1961. Critica del testo, XIII / 2, 2010

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tica dantesca, non vi è traccia nei testi di Alberto, e in particolare nel citato De natura et origine animae, che si attiene invece fedelmente all’aspetto “tecnico” dello sviluppo lineare e fluido della vegetativa in sensitiva. L’impianto dottrinario coerente si apre dunque ad accogliere un’immagine in qualche modo extravagante, che si può ipotizzare derivata da un’autorità inconciliabile con quella seguita fino a questo punto fedelmente; ma è, al tempo stesso, la medesima vena da cui derivano, proseguendo, alcuni degli elementi essenziali che puntellano la spiegazione di Stazio. Se il passaggio dall’anima che «vivit vita plantae» a quella che «vivit vita animalis», per Tommaso come per Dante, non pone problemi di rilievo, è invece significativo il dato da cui muove il ragionamento dello stesso Tommaso, iniziato con la segnalazione di un «punto» d’inciampo analogo a quello su cui sfocia la prima parte della spiegazione dantesca. Il capitolo 88 della Summa contra gentiles espone gli argomenti poi confutati nel capitolo successivo (secondo la struttura consueta del trattato) e muove proprio dalle «rationes ad probandum quod anima humana causetur ex semine». Tommaso, che denuncia l’errore di coloro che ricondussero alla virtù del seme la generazione dell’anima intellettiva muovendo da una lettura errata del trattato aristotelico De generatione animalium (fra questi proprio Alberto Magno), fa ricorso a un lemma, fetus, che è fondamentale in ottica dantesca e strategico nel canto della Commedia: Sicut docet Aristoteles in libro de generatione animalium, prius tempore est fetus animal quam homo. Sed, cum est animal et non homo, habet animam sensitivam et non intellectivam; quam quidem sensitivam non est dubium ex virtute activa seminis produci, sicut et in ceteris animalibus contingit. Illa autem met anima sensitiva est in potentia ut sit intellectiva, sicut et illud animal est in potentia ut sit animal rationale: nisi forte dicatur quod anima intellectiva superveniens sit alia in substantia, quod supra improbatum est. Videtur ergo quod substantia animae intellectivae sit ex virtute quae est in semine25.

È rilevante che la risposta di Tommaso, mirata a sovvertire la conclusione che i suoi oppositori traevano dal fraintendimento di Arisototele, non contesti la correttezza della prima parte dell’argomentazione: non si tratta dunque di negare l’azione del seme, ovvero della «virtù ch’è dal cor del generante», per dirla con parole di Dante 25. Ibid., II 88, n. 3.

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(o della virtute formativa, con il lessico sia di Alberto sia di Tommaso); si tratta, invece, di limitare la validità di quell’azione del seme alla generazione dell’anima sensitiva, fino al punto in cui il fetus concepito è propriamente animale («vivit vita animalis»), ma non è ancora uomo. Il che conduce precisamente al momento indicato da Dante, in cui ancora resta da spiegare come avviene l’unione con l’anima razionale, che si verifica solo dopo la completa formazione del «feto»: «sì tosto come al feto / l’articular del cerebro è perfetto, / lo motor primo a lui si volge lieto / sovra tant’arte di natura, e spira / spirito novo…» (vv. 68-72). La criticità di questo passaggio in relazione alla genesi dell’errore del «savio» di Cordoba, cui si imputa di aver travisato il significato autentico del testo aristotelico De generatione animalium, è confermata da un ragionamento che Tommaso stesso conduce nel suo De unitate intellectus contra averroistas, sempre muovendosi attorno alla questione del «feto»: [41] Adhuc autem ad sui erroris fulcimentum assumunt quod Aristoteles dicit in libro De Generatione Animalium, scil. «intelluectum solum de foris advenire et divinum esse solum». Nulla autem forma quae est actus materiae, advenit de foris, sed educitur de potentia materiae. Intellectus igitur non est forma corporis. (…) [44] Horum autem solutio in promptu apparet secundum praemissa. Cum enim dicitur quod omnis forma educitur de potentia materiae, considerandum videtur, quid sit formam de potentia materiae educi. Si enim hoc nihil aliud sit quam materiam praeexistere in potentia ad formam, nihil prohibet sic dicere materiam corporalem praeextitisse in potentia ad animam intellectivam; unde Aristoteles dicit in libro De Generatione Animalium: «Primum quidem omnia visa sunt vivere talia (scil. separata fetuum) plantae vita. Consequenter autem palam quia et de sensitiva dicendum anima et de activa et de intellectiva; omnes enim necessarium potentia prius habere quam actu»26.

Ancora Tommaso produce, nuovamente nella Summa contra gentiles e sempre partendo dalla formazione del «feto», l’indicazione sintetica dello stato della questione a quest’altezza del ragionamento, servendosi di alcune immagini e di un lessico che, data la pertinenza delle corrispondenze, potrebbe aver fornito materiale utile ai versi di Dante: 26. Tommaso, De unitate intellectus contra averroistas, I, 41-44; per il testo del De unitate intellectus contra averroistas si fa riferimento a Id., Unità dell’intelletto contro gli averroisti, a c. di A. Ghisalberti, Milano 2000 (i passi citati si trovano alle pp. 96-98). Critica del testo, XIII / 2, 2010

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Giuliano Rossi Quod processus generationis ostendit: primo enim in generatione est fetus vivens vita plantae, postmodum vero vita animalis, demum vero vita hominis. Post hanc autem formam non invenitur in generabilibus et corruptibilibus posterior forma et dignior27.

Che il fetus, una volta di più presente nel testo tommasiano, costituisca davvero un elemento centrale, in coincidenza con un passaggio (quello dell’unione dell’anima razionale all’organismo) segnalato per la sua criticità sia nel ragionamento complessivo di Tommaso sia nel canto di Dante, è confermato dal fatto che l’aderenza lessicale stabilita dal feto / fetus presenta ragioni notevoli di esclusività rilevabili su due diversi piani, l’uno “interno” e l’altro “esterno”, relativi entrambi all’intertesto filosofico del passo dantesco. In primo luogo, l’occorrenza dantesca del lemma «feto» costituisce un’hapax nella lingua poetica; ed anzi, in Purgatorio xxv cade in assoluto la prima occorrenza del vocabolo nella lingua italiana (esso non figura quindi, per restare a Dante, neppure nel Convivio, dove pure nel Trattato iv viene affrontato il tema della generazione dell’anima umana). Di feto poi, per quanto riguarda l’aspetto “esterno”, non parla neppure la “fonte” di Dante, ovvero Alberto Magno. Quanto meno, non ne parla nell’oposculo indicato come modello del ragionamento dantesco, il De natura et generatione animae; mentre alcune rare occorrenze presenti nel De animalibus non sono funzionali, contrariamente a quella di Tommaso, alla spiegazione del “ciclo” di generazione dell’anima umana. Un quarto riferimento al fetus, invece, ed è forse il più significativo, si trova ancora in Tommaso. Mentre, però, i primi casi menzionati coincidono con l’estremo punto di cedimento della capacità esplicativa della filosofia naturale, fatto che si rispecchia anche nell’occorrenza della Commedia, l’ulteriore utilizzo del lemma da parte di Tommaso proietta oltre questo limite e attrae nel contesto dei commenti biblici. Attrae quindi, con riferimento ancora a Dante, verso quel contesto che meglio si adatta a spiegare il provvidenziale intervento del «motor primo», da cui dipende il passaggio da «animal» a «fante» «sì tosto come al feto / l’articular del cerebro è perfetto». Secondo quanto spiega Tommaso nella Expositio super Iob ad litteram, nella dinamica di generazione dell’essere umano «quar27. Id., Summa contra gentiles, III 22 n. 7.

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tum (…) est animatio fetus» e l’anima razionale «non infunditur nisi post organisationem», dove il «post organisationem» segna la tappa conclusiva del processo iniziato con «l’organar le posse», per usare parole di Dante (v. 57), ovvero con la formazione degli organi delle diverse facoltà sensitive: Tertio autem occurrit distinctio organorum, quorum quidem consistentia et robur est ex nervis et ossibus, circumdantur autem exterius a pelle et carnibus, unde dicit pelle et carnibus vestisti me, ossibus et nervis compegisti me. Quartum autem est animatio fetus, et praecipue quantum ad animam rationalem quae non infunditur nisi post organisationem; simul autem cum anima rationali infunduntur homini divinitus quaedam seminaria virtutum, aliqua quidem communiter omnibus, aliqua vero specialiter aliquibus secundum quod homines quidam sunt naturaliter dispositi ad unam virtutem, quidam ad aliam…28.

4. Il debito contratto da Dante nei confronti di Alberto Magno sul piano dottrinario sembra non escludere, in conclusione, il ricorso ad immagini e lessico provenienti da Tommaso, pure in un contesto in cui le posizioni assunte dal maestro e dall’allievo non sono conciliabili; e si tratta, nel complesso, di elementi che collocano in una diversa prospettiva la questione di Dante “tra Alberto Magno e Tommaso”, sottraendola alla polemica intorno al presunto tomismo di Dante (o antitomismo di Nardi, per usare una formula del Parodi). Inoltre, il peso specifico di quelle immagini e di quel lessico, certamente associato al peso dell’autorità di Tommaso, concorre a spiegare l’assoluta sicurezza con cui alcuni commentatori antichi, che pure mostrano di conoscere Alberto, indicano nella Contra Gentiles la fonte di Dante29. Su un piano più generale, la possibile so28. Id., Expositio super Iob ad litteram, cap. 10; per il testo si fa riferimento a S. Thomae de Aquino, Opera omnia iussu Leonis XIII P. M. edita, t. 26: Expositio super Iob ad litteram, Ad Sanctae Sabinae, Romae 1965. 29. È il caso, fra gli altri, almeno dell’Ottimo (L’ottimo commento della Divina Commedia, 3 voll., a c. di F. Mazzoni, II) e dell’Anonimo Fiorentino (Commento alla Divina Commedia d’Anonimo Fiorentino del secolo XIV, 3 tomi, a c. di P. Fanfani, Bologna 1866-1874). Come suggerisce Z. G. Baranski (Le fonti e l’esegesi medievale della Commedia, in «Per correr miglior acque …» cit., pp. 569-600, alle pp. 571-572), i commenti meriteranno di essere considerati almeno quali «“documenti” che aiutano a ricostruire il mondo culturale e gli orizzonti ideologici di Dante (…), posti alla pari di qualsiasi altro documento originale che fornisce testimonianze ed elementi relativi alla comprensione del passato», senza per questo presupporre ch’essi siano portatori di una «testimonianza “oggettiva”» e Critica del testo, XIII / 2, 2010

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vrapposizione di dottrina e immagini di diversa provenienza invita ad una complessiva riflessione sulle particolari modalità di fruizione del testo filosofico in sede poetica, dove l’affiorare dell’immagine può talvolta precedere o “contaminare” la dottrina. Chiudo formulando un’ipotesi sull’origine possibile di queste infiltrazioni tommasiane nel tessuto di un apparato dottrinario ricavato da Alberto; e torno, per questo, al punto di partenza, ovvero a quel centro problematico di Purgatorio xxv accuratamente segnalato da Stazio a Dante. Le due terzine che accolgono in estrema sintesi il riferimento al «savio» di Cordoba, incarnato nella genesi del suo errore filosofico, costituiscono, nel corpo del canto, una porzione non solo centrale ma in qualche misura separata: esse infatti dialogano in modo significativo con Tommaso, tanto sul piano del lessico quanto su quello della dottrina. È utile, in quest’ottica, seguire le modalità di segnalazione e confutazione dell’errore averroista, precisamente individuato nel fraintendimento di chi «per dottrina fé disgiunto / da l’anima il possibile intelletto, / perché da lui non vide organo assunto» (vv. 64-66). L’errore deriva dalla falsa conclusione che Averroè trasse da un termine aristotelico certo, già posto da Dante (attraverso Tommaso) a fondamento del discorso con cui Marco Lombardo sottraeva la volontà degli uomini all’influsso astrale: l’intelletto «non habet organum, sicut sensus» (non ha «organo assunto»)30. Si trova in Tomche «riescano ad evidenziare qualcosa di ugualmente “oggettivo”, cioè il pensiero reale dell’Alighieri e il significato vero dei suoi versi». 30. Merita rilevare che il discorso di Marco Lombardo sul libero arbitrio, preservato in ragione della dipendenza diretta da Dio della mente – quindi dell’anima umana con le sue facoltà costitutive (l’intelletto e la volontà) – si innesta nel cuore di un ragionamento di ordine eminentemente politico (il che, per altro, non sorprenderà, considerato che al trattato sulla Monarchia Dante affida la definizione distesa della sua concezione del libero arbitrio come «liberum de voluntate iudicium»). È interessante notare che proprio Tommaso, esattamente nel De unitate intellectus contra averroistas, già insisteva sull’urgenza civile delle questioni legate alla concezione dell’anima umana, precisando il carattere potenzialmente corrosivo, anche in questo senso, dell’interpretazione averroista sulla questione dell’intelletto separato. Muovendo dal riconoscimento dell’implicazione reciproca fra unità dell’intelletto e unità della volontà, l’Aquinate avvertiva che «si igitur unus sit intellectus omnium, ex necessitate sequitur quod sit unus intelligens, et per consequens unus volens (…). Et ex hoc sequitur quod nulla differentia sit inter homines quantum ad liberam voluntatis electionem, sed eadem sit omnium», cosicché ne è distrutta «totam scientiam moralem et omnia que pertinet ad conservationem civilem…» (De

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maso la puntuale contestazione dell’errore averroista scaturito, ritiene l’Aquinate, dell’errata lettura del testo aristotelico sul piano specifico della relazione fra l’intelletto e l’organo, derivata dal fraintendimento del passo del De anima (429b5) in cui Aristotele definisce «separato» l’intelletto in quanto privo di organo (il che, però, non lo rende «disgiunto», per usare le parole di Dante). Secondo quanto denuncia Tommaso è questo preciso passaggio che gli “averroisti” «maxime assumunt ad sui erroris fulcimentum», perché vedono che l’intelletto «non habet organum sicut sensus»: Et hoc secundum [neque misceri est rationabile ipsum corpori] probat per primum quod supra probavit, scilicet quod intellectus non aliquam in actu de naturis rerum sensibilium. (…) Sic ergo intelligitur illud non misceri corpori, quia non habet organum sicut sensum. (…) Hoc autem ultimum verbum [sensitivum non est sine corpore, sed intellectus est separatus] maxime assumunt ad sui erroris fulcimentum, volentes per hoc habere quod intellectus neque sit anima, neque pars animae, sed quaedam substantia separata. Sed cito oblivisscuntur eius quod paulo supra Aristoteles dixit. Sic enim hic dicitur quod «sensitivum non est sine corpore et intellectus est separatus» (…). Ea igitur ratione hic dicitur quod sensitivum non est sine corpore, intellectus autem est separatus, quia sensus habet organum, non autem intellectus. (…) Sic ergo intellectus separatus est, quia non est virtus in corpore, sed est virtus in anima; anima autem est actus corporis31.

Sono dunque di esatta pertinenza tommasiana, da un punto di vista filosofico, sia l’impianto dottrinario sia il lessico tecnico mobilitato nei versi cardinali di Purgatorio xxv, imperniati su questa relazione «possibile intelletto»-«organo»-«errore». In questo modo, davvero, tutto il contesto si trova a ruotare attorno a quel sintagma «possibile intelletto», che costituisce un puntuale riferimento alla dottrina di Averroè e si configura, al tempo stesso, come trapianto esatto dal verso 22 di Donna me prega, unico unitate intellectus contra averroistas, IV, 87, p. 148). Sul riconoscimento degli esiti politici dell’averroismo, che pure non produsse mai, probabilmente, una teoria «che [avesse] per oggetto la polis, la città e la forma della convivenza dei corpi umani», si trovano pagine notevolissime in E. Coccia, La trasparenza delle immagini: Averroè e l’averroismo, Milano 2005 (il luogo citato è a p. 185). 31. Tommaso, De unitate intellectus contra averroistas, I 24-26, pp. 76-80. Critica del testo, XIII / 2, 2010

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altro caso di utilizzo in poesia dello stesso sintagma. Il «più savio» caduto in errore proprio su questo punto sarà dunque Averroè, ma sarà anche, attraverso il filosofo di Cordoba, Cavalcanti, che già nel x dell’Inferno, unico canto (con Purgatorio xi) in cui sia pronunciato il nome di Guido, era stato riconosciuto, per l’«altezza» del suo «ingegno», almeno pari a Dante. La rete di corrispondenze fra Inferno x e Purgatorio xxv32 è del resto abbastanza fitta da dare consistenza concreta a un rilievo di carattere generale, ma spesso sottovalutato, che riguarda l’accostamento correntemente stabilito tra averroismo ed epicureismo quali dottrine associate nel segno della negazione dell’immortalità dell’anima; al punto che André Pézard, forse estremizzando, arrivò a sostentere l’identificazione di Averroè quale «patron des épicuriens du xiii siècle, négateurs de l’immortalité de l’âme»33. Certamente, la dottrina della generazione dell’anima esposta in Purgatorio xxv contiene tutta intera la definitiva risposta a coloro «che l’anima col corpo fanno morta» (Inf., x 15). Attraverso questo sistema di richiami il «primo amico» si trova ad occupare in modo visibile il «nodo» centrale di Purgatorio xxv e, in questa posizione, opportunamente si colloca «fra il prima e il poi, fra il canto di Bonagiunta e di Guittone (…), e quello del maestro Guinizzelli e di Arnaut, maestro di lui»34. 32. Per una puntuale ricognizione di queste corrispondenze rinvio ancora a Bologna, Beatrice e il suo ánghelos Cavalcanti cit. 33. A. Pézard, Un Dante èpicurien?, in Mélanges offert à Étienne Gilson, Toronto-Paris 1959, pp. 499-536. Con maggiore prudenza, ma muovendosi nella stessa direzione, M. Corti (Tre versioni dell’aristotelismo radicale nella Commedia [1981], in Scritti su Cavalcanti e Dante, Torino 2003, pp. 327-347, pp. 330-331) suggerirà un «supplemento di riflessione» intorno ai due aspetti della «definizione di quel tipo di eretici che sono i “seguaci di Epicuro”» e della «denuncia aperta dell’avvenuto distacco fra i due poeti, Guido e Dante, nell’ambito della riflessione filosofica», rilevando che «lentamente si verifica un’estensione della marca “epicureo” di siffatto tipo: se gli epicurei sono i negatori ufficiali e tradizionali dell’immortalità dell’anima, chiunque neghi tale immortalità è epicureo. Anche senza giungere alle drastiche affermazioni di Renucci, che identifica epicurei e averroisti (cfr. P. Renucci, L’aventure de l’humanisme européen au Moyen Âge, ive-xive siècle, Clermont-Ferrand 1953, pp. 152-154), una certa pratica con le quaestiones disputatae dei secoli XIII e XIV (…) conferma che (…) il vocabolo “epicureo” è applicabile a qualsiasi posizione filosofica che metta in dubbio l’immortalità dell’anima e, a maggior ragione, all’aristotelismo radicale». 34. Bologna, Beatrice e il suo ánghelos Cavalcanti cit., p. 132.

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Muovendo, infine, dallo stesso centro problematico del canto xxv, in cui la voce di Guido parla, anche se il suo nome è taciuto, lessico e stilemi di Donna me prega pervadono tutto il ragionamento dantesco sul passaggio da «animal[e]» a «fante», «scandito sulle serie filosofico-poetiche di “virtù” (vv. 41, 52, 59, 73, 80, 89), “sustanzia” (v. 74), “potenze” (v. 82), “memoria, intelligenza e volontade” (v. 83)»35. È questa rete di corrispondenze intessuta tra il canto della Commedia e Donna me prega, contestualmente al rilievo dato alle terzine in cui è accolto, dalla stessa canzone, il trapianto letterale del sintagma-chiave «possibile intelletto», che colloca Cavalcanti al centro del canto e illumina il senso della posizione poetologicamente coerente di Purgatorio xxv nel contesto del trittico xxiv-xxvi. Il riferimento a Guido, colpito attraverso un argomento decisivo della sua canzone filosofica precisamente identificabile con una nozione chiave dell’aristotelismo radicale, è dunque ipotizzabile quale ratio e nucleo dell’intero canto, utile anche a spiegare il ricorso alla dottrina e al lessico di Tommaso al centro di un discorso complessivamente modellato su una fonte diversa e contrastante (Alberto Magno). La contestazione mossa a Cavalcanti attraverso la denuncia dell’errore sul «possibile intelletto» sembra richiedere il ricorso all’autore e ai testi cardine della polemica contra averroistas: ovvero a Tommaso, e principalmente al suo De unitate intellectus. Quindi, come il lessico della canzone di Guido muove dal fuoco centrale per diffondersi sull’intero canto, immagini e lessico di Tommaso si espandono da quel centro in direzione dei versi vicini.

35. Ibid. Critica del testo, XIII / 2, 2010

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