Mapu Domo

July 22, 2017 | Autor: A. Trivero Rivera | Categoria: Mapuche, Antropologia culturale
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Descrição do Produto

Alberto Trivero

Mapu domo

1999

INDICE

Prologo: Ngenechén

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kiñe troy: Thrauco epu troy: Millaray

11 24

Dialogo primo: Kaikaivilú

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küla troy: Pincoya meli troy: Lalén Kusé

98 117

Dialogo secondo: Tentenvilú

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kechu troy: Kurüfil kayu troy: Likarayén

183 213

Epilogo: Küla Wangülén

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Glossario

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prologo

NGENECHÉN Al principio dei tempi, prima ancora che il tempo avesse inizio, solo esisteva la grande oscurità. La terra era oscura. Nera era la terra e priva di ogni rilievo. Nessun colle interrompeva il lontano orizzonte, nessun mare lambiva le sue coste. Non c’erano boschi né animali che in essi potessero cercare un rifugio. Non c’erano acque nelle quali i pesci nuotassero con la loro coda sinuosa. Il cielo era oscuro. Buio era il cielo, ed ancora le stelle non avevano fatto la loro comparsa. Nessun chiarore interrompeva il profondo sonno dei cieli, nessuna alba sopraggiungeva dopo la lunga notte. Non c’erano nuvole gravide di piogge, né esistevano farfalle o uccelli che gareggiassero nel volo. Lontano, ma molto lontano; alto, ma molto in alto; oltre il cielo che sovrasta la terra piatta e sterile e già da ancor prima che nascesse il tempo, si trova la dimora degli spiriti ancestrali. La dimora degli spiriti è luminosa. Luminosa è la dimora degli spiriti ancestrali e splendente di luci e colori, poiché la luce è generata dagli spiriti ancestrali, poiché essi sono la luce medesima. Gli spiriti ancestrali, infatti, non hanno corpo né forma, anche se possono assumere qualunque corpo e qualunque forma. Gli spiriti sono fatti di luce e di passioni. Ngenechén è il più grande tra tutti gli spiriti ancestrali. Egli è anche il più vecchio, ma allo stesso tempo è giovane e aitante, poiché gli spiriti non hanno età. Egli è il più saggio degli spiriti poiché è il più vecchio e già dimorava oltre il cielo prima che giungessero gli altri spiriti ancestrali. Ma, soprattutto, Ngenechén è il più luminoso degli spiriti giacché è il più potente. O forse è il più potente poiché è il più luminoso. Splendido è il colore di Ngenechén che è simile all’oro. Ngenechén è così luminoso che illumina tutti gli altri spiriti. Nella dimora divina vi sono numerosi spiriti ancestrali, ma tutti sono stati generati dalla luminosità di Ngenechén. Fu così che un giorno, ma quanto tempo da allora è trascorso!, Ngenechén decise di prendere moglie. Tutte le antenate avrebbero voluto essere la prescelta di Ngenechén, poiché egli è il più luminoso tra tutti gli spiriti ancestrali e le donne, come ben si sa, sono vanitose. Tutte le sacre antenate avrebbero voluto essere la prescelta di Ngenechén, poiché egli è il più potente tra tutti gli spiriti ancestrali e le dee, come ben si sa, sono ambiziose. Ngenechén, che è saggio, scelse come sposa la bellissima Küyén. Giustamente scelse Ngenechén: poiché Küyén è la più anziana e la più giovane tra le sacre antenate e, certamente, è la più luminosa e la sua luce ha il colore dell’argento. Küyén fu felice di essere scelta tra tutte quale sposa del grande e potente Ngenechén. Ma per una antenata resa felice, ve ne furono moltissime rese scontente. Alcune abbassarono il capo e rispettarono la volontà di Ngenechén. Ma ve ne furono altre che, invece, vollero contestare questa scelta e, prima sottovoce e nascostamente, poi rese sempre più ardite dall’impunità,

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cominciarono a mormorare contro Ngenechén e tanto dissero e a tanto giunse la loro superbia che il mormorio crebbe come un fiume ingrossato dalla pioggia sino a trasformarsi in aperta ribellione. Mai, prima di allora, vi fu nei cieli aperta ribellione contro la volontà di Ngenechén. Mai, prima di allora, gli spiriti ancestrali osarono dubitare della sua saggezza e del suo giudizio. Mai, prima di allora, l’insofferenza di molti spiriti ancestrali si manifestò e sfociò in dichiarata opposizione. Se ciò avvenne, lo si deve anche a Peripillán. Peripillán è uno spirito molto importante e potente, come ben sappiamo. Ma così come l’oro è il colore della luminosità di Ngenechén, il sangue è il colore della luminosità di Peripillán. Forse Peripillán fu sempre invidioso dell’aureo splendore di Ngenechén. Forse Peripillán non amava il proprio colore che è quello della fiamma. Forse Peripillán voleva distruggere l’armonia di colori della dimora divina. Comunque fosse, Peripillán divenne il portavoce dei ribelli e fu colui che più di ogni altro fomentò la divisione tra gli spiriti ancestrali, cosicché l’armonia dei colori venne a meno, allo stesso modo come viene a meno l’armonia della danza quando i tamburi dalla pelle ben tesa non vengono percossi a tempo. Quello che sino ad allora era stato uno splendido arcobaleno, una straordinaria armonia di colori, si convertì prima nel grigiore della nebbia, poi nel buio della tempesta, solcata dai lampi dell’ira di Ngenechén. Ngenechén si adirò moltissimo. Affrontò prima di ogni altro Peripillán e lottò strenuamente con lui. Non tutti gli spiriti ancestrali si erano lasciati corrompere dalle adulatrici parole delle sacre antenate, invidiose della lieta sorte di Küyén. Non tutti gli spiriti ancestrali avevano ceduto alle vuote lusinghe di Peripillán, geloso del primato di Ngenechén. Molti tra gli spiriti gli restarono fedeli e lottarono al suo fianco. Fu una lotta strenua e durissima. Tutta la dimora divina echeggiò per le grida di orrore: orrore di coloro che ebbero l’ardire di alzar la mano contro Ngenechén; orrore di coloro che videro giungere il giusto e meritato castigo. A lungo lottarono gli spiriti ancestrali ribelli prima di soccombere di fronte a Ngenechén ed a quelli che gli erano rimasti fedeli. Ma, uno ad uno, dovettero soccombere e l’ultimo a cedere fu Peripillán. Terribile fu l’ira di Ngenechén: nulla poteva placarne lo sdegno. Terribile fu il castigo che Ngenechén impose agli spiriti sconfitti: nulla poteva mitigarne la durezza. Ngenechén fu cieco ad ogni pianto. Ngenechén chiuse il suo cuore ad ogni supplica. Ngenechén fu sordo ad ogni parola di pentimento. Uno alla volta, afferrò gli spiriti traditori oramai vinti e li abbatté sulla buia superficie della terra. Poi calpestò i loro corpi stesi al suolo ed ancora ed ancora, sino a che i corpi degli spiriti sconfitti penetrarono nella buia e liscia superficie terrestre. Ancora schiacciava Ngenechén i loro corpi, che sprofondavano sempre più nelle viscere del suolo. Ancora calpestava Ngenechén i loro corpi ormai privati della luce e resi infuocati. Il rosso colore di Peripillán divenne il colore di tutti gli spiriti ancestrali sconfitti e costretti nelle viscere del suolo. Non più di luce sono le sacre antenate e gli spiriti ancestrali sconfitti, ma di fuoco. I loro immensi corpi si contorcono nelle viscere del suolo e la superficie

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trema violenta sotto la spinta di queste immani scosse mentre la terra, un tempo piatta e liscia, ora è ondulata a causa della loro sotterranea presenza. Guardando l’immensa altezza delle Ande possiamo immaginare quanto enormi sono i corpi degli spiriti ancestrali occulti nella profondità del suolo. Talvolta gli spiriti ancestrali sconfitti tentano di scappare dalla loro prigione di roccia: il loro corpo fiammeggiante perfora le vette delle montagne più elevate e le loro membra di fuoco scivolano come immani serpenti lungo i pendii delle loro dimore di pietra. Ma è inutile poiché non possono sfuggire al castigo di Ngenechén: il loro corpo anziché ridivenire luce, si spegne e si converte in roccia. Grande fu l’ira di Ngenechén e terribile fu il suo castigo. Tuttavia alcuni tra gli spiriti che osarono ribellarsi compresero il loro errore e si pentirono amaramente ed elevarono a Ngenechén il loro pianto e la loro disperazione. Grande fu l’ira di Ngenechén e terribile fu il suo castigo. Tuttavia non rimase insensibile al pentimento di coloro che sinceramente avevano compreso la loro terribile colpa. Agli spiriti pentiti fu consentito di abbandonare la tomba di roccia nella quale, pur viventi, erano stati rinchiusi. Ngenechén è giusto e terribile: ma è anche pietoso. Permise dunque agli spiriti pentiti di fuoriuscire dalle viscere della terra e nuovamente il loro corpo divenne di luce. Ma come era pallida, ora, la loro luce! Come erano poveri i loro colori! Immense divinità che un tempo brillavano più di mille foreste in fiamme, ora luccicavano appena come un piccolo tizzone incandescente. Ngenechén perdonò gli spiriti ribelli che dimostravano il loro pentimento, ma più non li riammise alla sua presenza. Coloro che furono perdonati, non furono tuttavia riammessi nella dimora divina ed allora dovettero cercarsi una nuova e diversa dimora. La trovarono nel cielo e fu così che si riempì di piccole luci. Gli spiriti soffrivano per non essere stati ben accetti alla presenza di Ngenechén e piansero a lungo e le loro lacrime caddero dal cielo raggiungendo la superficie della terra, non più piatta ma solcata da valli e da grandi conche ed interrotta da altissime catene montagnose o da dolci pendii collinosi. Le lacrime degli spiriti caddero sulle cime delle montagne, scivolarono lungo le pendici, solcarono le valli come lunghe serpi d’argento. A lungo piansero gli spiriti addolorati per non essere stati più riammessi alla presenza di Ngenechén. E le loro lacrime riempirono gli avvallamenti più grandi e si formarono i mari; e poi ancora riempirono le conche meno grandi e si formarono i laghi; e poi ancora il freddo gelò le loro lacrime e la terra fu coperta di nevi e le montagne di ghiacci perenni. A lungo piansero gli spiriti addolorati per non essere più ben ben accetti al fianco di Ngenechén: egli è pietoso e perdona gli spiriti pentiti, ma egli è anche giusto e pertanto non tollera più la loro presenza nella dimora divina. Piangono ancor oggi gli spiriti pentiti: ma il loro pianto è inutile, poiché non può più restituirli all’antica condizione; ma il loro pianto è anche utile, poiché bagna la terra e dà la vita. * * *

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Giacque Ngenechén con Küyén e dalla loro unione nacque un figlio al quale venne data la terra come dimora. Anche altri spiriti giacquero con le sacre antenate e così ebbero origine molte creature: alcune erano grandi, altre piccole. Alcune avevano una lunga coda e dimoravano nelle acque, altre avevano corte gambe e si rifugiavano nelle selve. Altre avevano ali oppure potevano rendersi leggere come il vento e farsi trascinare in alto da questo. Molte delle creature generate dagli spiriti erano più forti o più veloci o più potenti dell’uomo: ma solamente il primo uomo fu generato da Ngenechén, il più grande tra gli spiriti , il più splendente. L’uomo, tuttavia, vide di essere solo in un’immensa regione sterile e buia, sotto un cielo nero nel quale solamente brillavano debolmente i globi infuocati degli spiriti pentiti, ora trasformati in stelle. L’uomo non si compiacque della sua dimora, ma soprattutto pianse a causa della sua solitudine. Egli, dunque, si rivolse a sua madre, Küyén, dicendo: “Tutti gli spiriti si accompagnano ad una dea ed anche ogni strana creatura che vive sulla terra, nelle acque o nell’aria ha una compagna e non soffre solitudine. Soltanto io, il figlio di Ngenechén, il più grande tra gli spiriti , soltanto io, il figlio di Küyén, la più grande tra le dee, devo soffrire per questa solitudine?” E Küyén ebbe pena per le parole del figlio uomo e si rivolse al suo sposo Ngenechén. Egli ascoltò quanto gli veniva riferito ed ebbe compassione della solitudine del figlio. Tra le numerose sacre antenate pentite della loro ribellione e trasformate in stelle, Ngenechén ne scelse una assai bella e la inviò sulla terra affinché fosse la compagna del primo uomo. La dea acconsentì, venne sulla sterile terra e si convertì nella prima donna. In quel tempo il mondo era corrugato dalle alte catene montagnose, solcato da profondi valli dove scorrevano impetuosi i fiumi, mentre le onde dei mari si infrangevano sulle sue spiagge: ma la terra era nuda e sterile ed ancora non conosceva il verdore dell’erba né il grigio argento del cipresso né le variopinte corolle dei fiori. Solamente la nuda roccia e l’arida terra si stendevano buie sotto il cielo immerso nell’eterna notte. La prima donna, allora, cominciò a camminare. Camminò lungo le vallate e salì i pendii delle montagne, percorse infaticabile le ampie pianure e giunse sino alle sponde di tutti i mari: e dove la donna poggiava il suo piede nudo, ecco che la terra non era più sterile e l’impronta del suo piede vedeva germogliare erba e fiori. Così fu, poiché la donna genera la vita. La prima donna, allora, sfiorò con le sue mani i teneri fili d’erba e questi immediatamente crebbero e si moltiplicarono trasformandosi in querce ed araucarie, in cipressi ed in fucsie ed in ogni altro albero che esiste sulla terra. La prima donna sfiorò ancora i fiori delicati e subito questi si convertirono in uccelli e farfalle, in guanachi e nutrie ed in ogni altra specie animale. Così la terra traboccò di vita e più non conobbe sterilità. Ngenechén ebbe curiosità per l’operato della prima donna: volle osservarlo e per ammirarlo con maggior comodo aprì un foro nel cielo e attraverso questo sporse il suo volto. Che meraviglia! Il volto di Ngenechén è così luminoso e radiante che tutta la superficie della terra fu inondata di luce e di colori e di caldo tepore. Questo foro si chiama Antü ed anche noi, attraverso di esso,

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possiamo osservare il volto di Ngenechén che è così luminoso che acceca chi lo osserva e che riscalda i fiori ed i mari, le foreste e le montagne e tutti gli animali. Ecco che Ngenechén si compiacque moltissimo dell’operato della prima donna e manifestò così apertamente la sua soddisfazione e la sua allegria che anche Küyén ebbe curiosità di osservare. Ma Ngenechén è geloso della bellezza della terra e vorrebbe essere il solo ad ammirare tutte le meraviglie generate dall’operato della prima donna. Ma si sa che le sacre antenate sono scaltre e testarde. Perciò Küyén non rinunciò al suo desiderio, attese che il suo sposo fosse preda del sonno ed allora anch’ella aprì un foro nel cielo ed osserva ammirata la fertile terra. Questo foro si chiama Küyén ed attraverso di esso anche noi vediamo il volto della sposa di Ngenechén che tuttavia è molto meno luminoso di quello del marito ed ha il colore dell’argento ed è freddo poiché solamente la luce di Ngenechén è ardente. Da allora Ngenechén e Küyén si alternano ad osservare, attraverso i varchi che essi stessi hanno aperto nel cielo, la terra e le sue creature. Piacque così tanto a Ngenechén la terra che decise di farne la sua dimora. Chiamò dunque il primo uomo e la prima donna e disse loro: “Un giorno verrò insieme agli spiriti che mi hanno dimostrato la loro fedeltà a dimorare nella terra. Sino ad allora, tuttavia, voi ne sarete i guardiani, così come i vostri figli ed i figli dei vostri figli e così sino a quando ci piacerà venire a dimorare qui, insieme ai vostri discendenti. Voi sarete, dunque, i guardiani della terra: vi nutrirete con i suoi frutti ma rispetterete ogni forma di vita. Coglierete il necessario per sfamarvi ma nulla di più, poiché la terra non appartiene all’uomo ma agli spiriti ”. Fu così che Ngenechén creò i mari e le montagne ed il primo uomo. E fu così che la prima donna creò i boschi e gli animali e diede vita alla terra che era cosa morta. E fu così che la terra divenne bella e viva e che gli uomini ebbero dagli spiriti l’incarico di esserne i fedeli guardiani. * * *

Il primo uomo e la prima donna vissero nella terra, sulle rive del mare: e la terra ed il mare, obbedendo al comando di Ngenechén, offrivano ai primi uomini i loro frutti. Cosicché questi poterono soddisfarsi e non conobbero privazioni. Giacquero insieme il primo uomo, figlio dello splendente Ngenechén, e la prima donna, dea convertita nella compagna dell’uomo. Giacquero insieme ed ebbero dei figli ed i loro figli ebbero dei figli e così i figli dei loro figli finché la terra fu popolata dai discendenti del figlio di Ngenechén: questi furono i lituche, il popolo delle origini. I lituche vivevano in pace, fedeli guardiani della terra, osservando il comandamento di Ngenechén e rispettando ogni forma di vita e cogliendo solamente quanto necessario per la loro sopravvivenza e non abusando dei doni della terra e del mare. Fu un tempo felice.

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Fu un’epoca serena, il tempo dei lituche. Ma tuttavia giunse al suo termine. La colpa fu delle donne. Venne infatti il tempo in cui le donne non vollero più obbedire ai comandi degli uomini e più non rispettarono la volontà di Ngenechén. Le donne, anziché contentarsi dei frutti della terra, ferirono la terra medesima, tracciando in essa il solco e depositando nel solco la patata. Abbandonarono le donne la devozione dovuta a Ngenechén. Trascurarono le donne di celebrare i sacri ngillatún. Prestarono maggior cura, le donne, al volere di Ngenemapu, dio della terra fertile, che al volere di Ngenechén, dio della luce. Nella profondità del suolo, occulto dove le montagne hanno le loro radici, Peripillán meditava la sua rivincita e forse non era estraneo all’incauto comportamento delle donne. Ngenechén fece cadere dal cielo una pillán toki per ammonire gli uomini e ricordare loro il patto stipulato. Molti videro giungere la pillán toki: venne di notte e scese dal cielo con un sibilo; era incandescente, aveva il colore di Ngenechén, e lasciava dietro di sé una traccia luminosa che presto scompariva; precipitò al suolo con grande fragore. Trovarono gli uomini il messaggio di Ngenechén: era trasformato in pietra, nera e brillante. Poiché non fu sufficiente, ancora una volta Ngenechén fece udire la sua voce. Ed il suo messaggio venne dal cielo con molto clamore. Giunse al suolo. Incendiò la foresta. si ruppe in frammenti di pietra, il maggiore dei quali aveva la forma di un uomo e per questa ragione sin dal lontano tempo dei lituche fu chiamato chelkura, ossia uomo di pietra. Molti videro la chelkura. In tanti furono testimoni dell’ira di Ngenechén. Ma non rinunciarono le donne ai loro insani propositi. Al contrario, crebbe il loro ardire e non si contentarono con ferire la terra per introdurre in essa il seme, ma giunsero a recintarla con quinchos, dapprima affinché gli animali non calpestassero le giovani piante o ne mangiassero i frutti, quindi per impedire agli uomini di altre famiglie di accedere liberamente e di godere dei frutti che la terra generava. Gravissima fu la colpa delle donne che vollero fare della terra oggetto di proprietà mentre la terra appartiene solamente alle divinità ed al luminoso Ngenechén, il più lucente tra gli spiriti , la cui luce ha il colore dell’oro. Ecco che allora gli uomini ebbero timore della vendetta di Ngenechén e decisero di punire le loro donne. Si misero d’accordo ed una notte uccisero tutte le donne utilizzando gli affilati coltelli di ossidiana e le pesanti asce di pietra. Tutte le donne furono uccise in quella infausta notte: solamente risparmiarono le fanciulle più giovani, quelle che ancora non avevano conosciuto l’uomo. Una donna, tuttavia, riuscì a fuggire: la sua ruka era in riva al lungo e stretto lago di Huillinco e la donna poté dunque attraversarlo a nuoto, mettendosi a salvo. Ma mentre la donna nuotava nelle gelide acque del lago, una enorme serpe si avvolse intorno alle sue gambe e la possedette. Era Kaikaivilú, un gigantesco serpente marino figlio di Peripillán che, come il padre, normalmente viveva nelle profondità del sottosuolo ma che tuttavia poteva anche uscirne per nuotare nelle acque profonde dei mari e dei laghi. Fu

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così che la donna fu posseduta da Kaikaivilú e con l’aiuto dell’immensa serpe poté raggiungere l’altra sponda del lago e mettersi a salvo. Rimase nascosta nella foresta e trascorse il tempo. Quando giunse il suo momento la donna ebbe due gemelli. Appena la donna vide le due creature che aveva partorito ne ebbe grande timore: infatti i due neonati non avevano la pelle come la madre, ma erano completamente bianchi; anche i capelli erano del colore dell’argento e gli occhi, anche gli occhi erano pallidi, sprovvisti di ogni colore. E la pelle bianca era così trasparente, che era possibile osservare, attraverso di essa, il sangue percorrere palpitando le loro vene. Ebbe timore, la donna, poiché Küyén che è la più grande e la più luminosa tra le sacre antenate ha la pelle bianchissima. Ebbe timore, la donna, per aver partorito due gemelli la cui pelle aveva lo stesso colore della sposa di Ngenechén. Offrì dunque a Ngenechén le sue due creature e le sacrificò alla divinità. Ma nuovamente tornò Kaikaivilú ed ancora giacque con la donna. E quando giunse il suo momento la donna partorì: questa volta il bimbo aveva la pelle scura e gli occhi neri; le sue gambe erano corte e tozze e le sue braccia stranamente lunghe. Fragile sembrava il fanciullo, e quasi deforme: ma era invece forte e solido come la roccia. Si rallegrò la donna e Thrauco fu il nome del bimbo. Fu così che il Thrauco nacque e crebbe nascosto nella foresta. Figlio di Kaikaivilú e della violenza, violento lui medesimo. Figlio del figlio di colui che più di ogni altro dio si oppose a Ngenechén, anche il Thrauco crebbe senza rispettare la volontà dello Splendente. Frattanto le fanciulle sfuggite al castigo degli uomini crebbero e divennero donne. Crebbero e partorirono dei figli. Ma continuarono, come le loro madri, a ferire la terra deponendo nel solco il seme. E gli uomini si rassegnarono ed anche si compiacquero poiché trovarono più comoda la nuova vita e si impigrirono e costruirono le loro ruka in modo più solido poiché non le abbandonavano più per andare alla ricerca dei frutti della terra e del mare. Sicché anche gli uomini costruirono quinchos per cintare la terra e vollero impedire ad altri uomini di accedere alla terra per coglierne il frutto e chiamavano propria la terra e giunsero ad uccidere per mantenerne il possesso. * * *

Violento è il Thrauco, figlio egli stesso della violenza. Il Thrauco, figlio di Kaikaivilú, figlio di Peripillán, è piccolo e deforme. La sua statura raggiunge appena i cinque piedi ed i suoi piedi sono informi: privi di dita e di tallone, sono come due moncherini che lo obbligano ad una andatura incerta aiutandosi con un bastone nodoso e contorto che si chiama pahueldùn. Vive nascosto nei boschi, sempre prossimo ad acque lacustri o marine, dimora del padre suo. A differenza degli uomini, il Thrauco non ama vivere sul suolo: ad esso preferisce i grossi rami degli alberi, sui quali si arrampica con sorprendente agilità. Non solamente è agile il Thrauco, ma anche molto robusto. Con la sua rustica ascia di pietra malamente sgrossata, - come è diversa dalle nostre asce così a lungo levigate con la sabbia da divenire piacevoli da accarezzarsi! - riesce

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ad abbattere qualunque albero, sia esso un alto cipresso o una possente sequoia, una quercia contorta o una profumata araucaria. Veste una corta manta di lana di guanaco e ripara la sua testa, sproporzionatamente grossa rispetto al corpo tozzo, con un cappuccio appuntito. Il Thrauco è un grande amatore: egli osserva nascostamente le giovani fanciulle e quando si imbatte in una donna che accende la sua passione usa uno dei suoi magici poteri e, mentre la giovinetta dorme, si introduce nei suoi pensieri e le suggerisce sogni erotici, in modo da addolcirla e renderla più facile preda delle sue mire. Lo ottiene facilmente, poiché, nonostante il suo goffo aspetto, il Thrauco risulta spesso straordinariamente attraente per le giovani donne, che non sanno come resistere alle sue profferte amorose. Se poi non ottiene di soddisfare con l’occulta persuasione i suoi desideri, li appaga con la forza, che non esiste donna né uomo capace di resistergli. Con il suo pahueldún il Thrauco “soffia” la sua vittima lasciandola così ingravidata. Dopo averle usato violenza la dimentica e più non torna a molestarla. Molto diverso è il comportamento del Thrauco con i suoi nemici o, semplicemente, con chi ha la disavventura di imbattersi con lui: il figlio di Kaikaivilú, il nipote di Peripillán, fissa immobile la sua vittima che a volte muore immediatamente, oppure rimane con il volto deforme, ritorto all’indietro, e muore comunque entro pochi mesi dopo tale incontro. Giustamente è temuto il Thrauco, tanto dalle giovani donne come da ogni altro essere umano. E fu così che egli divenne lo strumento del castigo di Ngenechén.

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kiñe troy

THRAUCO Era il tempo di wefun-küyén, il mese in cui il fiore del ramo inizia a convertirsi in un dolce frutto e nascosta nell’erba rosseggia la fragola. L’incessante vento del nord, greve di pioggia, ora cede il passo al vento del sud, più fresco ma più asciutto. Le giornate si allungano e l’aria si riempie di nuovi profumi e di mille suoni. L’allegria della primavera entra in ogni ruka, ora che non è più necessario tenere acceso il fuoco anche durante il giorno, ed anche nel mare i cahuél volteggiano sulla spuma delle onde e ricadendo in mare sollevano arcobaleni di spruzzi ai raggi del sole. I tessuti di lana, le coperte, i mantelli e le vesti vengono stesi tra i rami affinché il sole ed il vento meridionale allontanino finalmente l’umidità del lungo inverno. Era, dunque, una tiepida giornata di wefun-küyén, quando una bellissima giovanetta si avvicinò alle sponde del mare, nei pressi della punta di Chequián: sorrideva serena pensando al matrimonio che l’attendeva, ormai prossimo. L’andirivieni delle onde sulla stretta spiaggia, rosa per i frammenti di mille conchiglie, invitava la fanciulla a bagnarsi, mentre un tricheco si crogiolava al sole, indifferente alla presenza della fanciulla. Credendosi non vista, si tolse la semplice tunica di lana grezza che le avvolgeva il corpo e si immerse lentamente e voluttuosamente nel mare. Tuttavia, nascosto dietro i canneti prossimi alla riva, già da un buon tempo il Thrauco era intento ad osservarla. Lentamente, molto lentamente, un dolce suono si insinuò a poco a poco nell’eco delle onde che andavano a morire sulla spiaggia: sembrava un suono di flauto, ma era assai più grave, triste e profondo. Inizialmente quasi impercettibile - più una sensazione che un suono - a poco a poco cresceva di intensità riempiendo l’animo della ragazza di timore, ma anche di curiosità. Fu così che riguadagnò la riva e, attratta dal suono, andò alla ricerca della sua fonte tra i canneti, da dove pareva sorgere, lasciando sulla riva la sua tunica. Ecco che ben presto lo vide: appoggiato ad un albero, proprio dietro la fila di canneti, il Thrauco la guardava, soffiando dolcemente nel suo pahueldún. Era orribile a vedersi, eppure irresistibilmente attrattivo. La sua deformità lo rendeva più simile ad un animale che ad un essere umano: ciò non di meno, sembrava possedere una sua umanità tanto profonda quanto disperata. L’umanità di un essere divino che invidia la bellezza di un mondo che gli è precluso. La testa era enorme, grande quasi quanto il robusto torace. I suoi occhi nerissimi risaltavano per l’inattesa bellezza in un viso tozzo e ripugnante. Portava solo una corta mantellina di lana appoggiata sulle spalle ed un cappuccio a forma di cono sulla sua testa calva, così alto ed allungato che si ripiegava e scendeva alle sue spalle, più lunga del suo mantello. La fanciulla voleva fuggire lontano da quella apparizione mostruosa e temuta. Ma era impossibile. Le gambe non erano più sue, obbedivano ad altri comandi, o forse era lei che subiva l’attrazione di quell’essere piccolo e deforme, eppure capace di un fascino incredibile. Mentre il suo pensiero era volto solo alla fuga, i suoi passi continuavano a dirigersi verso il Thrauco ed i suoi occhi non riuscivano ad allontanarsi da quegli splendidi occhi nerissimi e profondi, nei quali sembrava di poter scorgere l’infinita profondità dell’oceano. Il Thrauco la attendeva: immobile, sempre appoggiandosi all’albero. Non era minaccioso, ma neppure sorrideva. Tuttavia il suo sguardo fermissimo ed attento emanava un senso di calma e di serenità che calamitava la fanciulla verso di lui.

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Il Thrauco la possedette. Senza violenza alcuna, senza alcun bisogno di ricorrere alla sua enorme forza, la possedette. Solamente grazie al suo incredibile fascino, superiore ad ogni ripugnanza, la possedette. Inutilmente la giovinetta tentò di difendersi, che non dal Thrauco doveva difendersi, ma da se stessa. Inutilmente gridò, pianse, maledì, ma allo stesso tempo gioì, sì, gioì come mai avrebbe creduto che fosse possibile. Fu posseduta a lungo dal Thrauco, con forza ma anche con una incredibile, tenerissima dolcezza, sino a quando egli, soddisfatto il suo desiderio, si allontanò lasciandola distesa sulla spiaggia arenosa. * * *

Il tempo trascorreva lentamente, ma la fanciulla non riusciva a scuotersi dal torpore che l’aveva assalita. A poco a poco il cielo si riempiva di nuvole: prima leggere e luminose, poi grigie e cariche di pioggia. Era ancora distesa sulla spiaggia, dietro i canneti, quando caddero le prime gocce. Erano pochi e grossi goccioloni freschi che cadendo sul suo corpo nudo davano refrigerio all’arsura che l’aveva invasa, quasi una violenta febbre. Poi a poco a poco si fecero più minuti e più frequenti, sino a trasformarsi in una pioggerellina nebbiosa e continua, che creava tanti rigagnoli sulla sua schiena: rigagnoli che si univano e si separavano, per poi continuare a rincorrersi avanzando allegramente sino alle onde che lambivano la spiaggia e perdendosi nel mare. Ma la fanciulla continuava a rimanere immobile, senza riuscire a scuotersi dal suo torpore. Fu così che la trovarono: quando già Antü cedeva il passo a Küyén e la sua luce tenue copriva ogni cosa di un velo d’argento. Distesa supina, immobile, con gli occhi sbarrati dal terrore ma anche da una indescrivibile gioia, la veste sulla spiaggia, oltre il canneto, ogni spiegazione era superflua, inutile. Tutto era così chiaro. La madre distese la veste sul corpo bagnato della fanciulla. Quando le sue dita la sfiorarono, quasi si ritrassero talmente era rovente di febbre la pelle della fanciulla. Tentarono di farla emergere dal suo stato di sogno, ma fu inutile. Il corpo, pur vivo, rimase immobile e incapace di reagire: ogni muscolo del suo corpo sembrava scomparso, annullato dalla volontà del Thrauco. Il padre dovette porla sulle proprie spalle e in questo modo finalmente ricondurla alla sua ruka. Faticosamente, giunse finalmente alla sua abitazione. Scostò la barriera di canne che fungeva da porta, entrò nella scura ruka, appoggiò esanime il corpo della figliola sulle morbide pellicce di guanaco distese sulla nuda terra. Gli anziani nonni paterni della ragazza, seduti intorno al focolare, balzarono in piedi e si rivolsero al figlio con una muta domanda. “Il Thrauco” fu la brevissima risposta. Anche la madre si mise al fianco della ragazza. Le bagnò con un ciuffo di lana la fronte per rinfrescarla: così facendo, osservava silenziosamente gli occhi ancora sbarrati, cercando di scorgere nelle scure pupille quanto accaduto... o, forse, le inevitabili conseguenze. Non era la prima volta, infatti, che il Thrauco ingravidava una donna, giovane o meno giovane. Qualche volta il frutto della gravidanza giungeva al suo termine, ma generalmente il neonato risultava deforme. Ed anche se così non fosse stato, la piccola comunità di Chequián dove tutti erano strettamente imparentati tra loro e vivevano in poche capanne a qualche distanza l’una dall’altra, sufficientemente vicine da essere quasi a tiro di voce, sufficientemente lontane da consentire lo spazio necessario per qualche misero campicello di patate, non avrebbero consentito certamente ad una creatura figlia del wekufe di poter vivere tra loro. Sicché se l’aborto non interveniva spontaneamente, non sarebbero mancate certamente le giuste erbe e gli infusi per provocarlo.

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La fanciulla rimaneva immota e non sembrava mostrare di ricomporsi: solamente i brividi di una violenta febbre scuotevano il suo corpo, interrompendo quell’immobilità così estrema. Inutilmente tentò la madre di introdurre poche gocce di acqua tra le labbra strette e rigide. Intanto, chissà come, la notizia si spargeva di ruka in ruka e, ad uno ad uno, i parenti giungevano ad offrire la solidarietà della loro silenziosa presenza. Sebbene grande, la fumosa capanna fu presto piena di gente. Il fuoco ardeva nel focolare posto vicino all’ingresso della ruka: volute di leggero fumo s’innalzavano verso il foro posto alla sommità del tetto di paglia della capanna, ma scuriva tutto l’ambiente interno, del tutto privo di altre aperture, oltre a quella che fungeva da ingresso. Sopra il focolare, da un intreccio di canne annerite e fuligginose pendevano numerose cordicelle vegetali nelle quali erano infilate cozze e vongole, ormai secche per l’affumicatura. Qualche pesce, tenuto ben aperto per mezzo di alcuni bastoncini che lo attraversavano, pendeva ugualmente dal trespolo: ormai il suo colore era quello del larice rossiccio. Alcuni canasti di vimini, ma anche un recipiente di legno faticosamente scavato con il fuoco, l’oggetto forse più ricco della famigliola, conservavano ancora alcuni legumi residui, da consumarsi lentamente in attesa del prossimo raccolto, ancora lontano. Alcuni si sedettero, sempre in silenzio, sulle pelli di tricheco, spesse ed impermeabili, distese sul pavimento di terra battuta. I più rimasero in piedi, osservando la pallida fanciulla e scuotendo lentamente la testa. I due fratelli e la sorella della ragazza, tutti più giovani, rimanevano anch’essi in silenziosa aspettativa, attendendo un ordine ed un incarico che non giungeva. L’anziana nonna, accucciata in un angolo della capanna, scuoteva lentamente la testa. Nonostante la capanna fosse piena di parenti ed amici, regnava il silenzio, interrotto solamente dal rumore del fuoco e della pioggia che scivolava sul tetto di paglia. Poi, ormai era notte, ad uno ad uno tutti se ne andarono facendo col capo un breve cenno di saluto, silenziosamente così come erano giunti. Passò la notte, quindi spuntò l’alba, senza che cessasse la pioggia e senza che la fanciulla si riavesse dal suo torpore. La giornata trascorse grigia e lenta. La pioggia, non forte ma insistente, cessò solo per brevi tratti, senza che il cielo avesse il tempo di schiarire, che già nuovi nuvoloni grigi prendevano il sopravvento. Nella ruka tutta la famiglia attendeva le abituali incombenze della primavera, non molte, invero, quando la stagione era appena all’inizio. Mariñamko, il maggiore dei due fratelli, dedicò buona parte della giornata per costruirsi un amo di osso con l’aiuto di una scheggia di ossidiana, prezioso dono giunto dalla innevata cordigliera andina, che nelle giornate soleggiate fa da splendido sfondo alle numerose isole dell’arcipelago. Antüñamko, il minore, quando la pioggia momentaneamente cessava o comunque si faceva meno insistente, andava con suo padre a riparare e rinnovare con rami nuovi il quincho che delimitava il campicello di patate, nel quale le tenere piantine già facevano la loro comparsa. L’altra sorella si chiamava Millaray. Era ancora una bambina. Tuttavia era già sufficientemente grande per rendersi sempre utile. Soprattutto il suo compito quotidiano era quello di aiutare la madre a preparare il cibo per la giornata: sopra una pietra vulcanica, nera e porosa, grattugiava energicamente le patate che coglieva da un canestro e riponeva la poltiglia che rapidamente scuriva con l’aria su un piatto di legno, mentre spesso inclinava la pietra in modo che il liquido che impregnava la sua superficie scorresse su una pelle di tricheco posta in modo tale da formare una conca. Di quando in quando, versava il liquido nel recipiente di legno, ormai pieno per oltre un terzo del suo volume. Finalmente, quando le patate furono tutte ridotte in poltiglia, impastò questa con

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le mani formando dei gnocchi grandi poco più di un palmo, che poi schiacciava e stendeva su una grande foglia che fungeva da ripiano. Intanto, sul focolare sempre accesa delle pietre piatte diventavano sempre più calde. Quando le parve che fosse giunto il momento, stese una sfoglia di impasto su ogni pietra rovente, affinché potesse lentamente cuocere. La madre, Trayllanka, dedicava le sue inutili cure alla sua figlia prediletta, la quale restava esanime, come se la vita l’avesse abbandonata. La febbre era cessata e gli occhi non più sbarrati come la sera precedente. Alla rigidità di ogni muscolo del viso, ora si era sostituito un rilassamento totale di tutto il volto, oltre che del corpo, come se la fanciulla dormisse. Non sembrava agitata: anzi, pareva quasi serena e di tanto in tanto muoveva la bocca come a pronunciare mute parole inintelligibili. Fu solamente alla sera che, senza fare sforzo alcuno, la madre le aprì un poco la bocca, appena quanto era sufficiente per infilarle nella bocca una mescolanza quasi liquida di acqua e pesce secco tritato. Era ben poco alimento, ma ciò fu tutto quanto riuscì a farle mangiare in quella prima giornata piovosa che sembrava non dovesse terminare mai, tanto trascorreva lentamente e silenziosamente. Il resto della famiglia, infatti, partecipe al dolore della madre evitava ogni rumore inutile, né vi era l’abitudine di parlare senza necessità Nello stesso modo, trascorse il giorno successivo, e quello successivo, e poi ancora quello successivo. * * *

La fanciulla rimaneva inerte e abbandonata, quasi fosse morta, senza nulla mangiare e bere, se non quel poco che con tanta difficoltà la madre riusciva a farle inghiottire. Poiché non sembrava vi fosse modo che si riprendesse da sola, Kallfukura, suo padre, si decise a rivolgersi al powgtén, chiedendo il suo aiuto. Il powgtén era un anziano pescatore che viveva sulla collina di Putique, nel cuore dell’isola di Quinchao: pur non essendo un machi, tuttavia sapeva comporre lo spavento che seguiva agli incontri con il Thrauco o con altri wekufe. Partì con l’alba, e quando tornò con l’anziano il sole era ormai ben alto. Finalmente, dopo numerosi giorni, la pioggia era cessata e la primavera tentava nuovamente di imporsi. Il vecchio si stese accanto alla fanciulla, coricata e immobile sul suo giaciglio di pellicce di guanaco. Senza sforzo alzò le palpebre che chiudevano i suoi occhi. prima una, poi l’altra. Lo sguardo della fanciulla, tuttavia, rimaneva totalmente assente, come se ella stessa si trovasse assai lontano, nel wenupamu, il cielo dove vivono gli spiriti degli avi e dove il cerchio di Antü rincorre senza posa quello di Küyén. Il powgtén provò a sfregare la pelle della ragazza con delle piccole e tonde pietre colorate che aveva con se. Prima sfregò a lungo nell’avvallamento del seno, sopra il cuore; quindi sul ventre sodo e giovane; infine sulla fronte della ragazza, ora sfebbrata. Ma tutto fu inutile. Nonostante la sua insistenza, nonostante le sue preghiere agli spiriti ancestrali, la fanciulla rimase inerte e come morta. Quando vide che tutto era vano, scrollò la testa in direzione del padre che osservava la scena con muto rispetto. Accettò un sorso di succo fermentato di fragole che gli venne offerto da un otre di pelle, e quindi s’incamminò per tornare alla sua solitaria capanna. * * *

E venne afün-küyén, il tempo dell’estate. La patata giunse a maturazione, raccolsero i fagioli, le maree calanti offrirono i loro salati frutti nelle dure conchiglie, la pioggia sempre più spesso cedeva il passo al sole, la

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vita trascorreva seguendo l’ordine fissati sia dai più antichi tempi dagli spiriti ancestrali. Ma la fanciulla rimaneva inerte e priva di conoscenza. Il suo ventre, invece, ingrossava: nonostante l’alimentazione scarsissima della ragazza, ormai così magra che la pelle sembrava posata direttamente sulle sue ossa, nonostante le ripetute e diverse pozioni che la madre le aveva fatto forzatamente inghiottire per disfarsi di una creatura figlia del wekufe, l’indesiderato feto cresceva e ingrossava il ventre della fanciulla. Al vederlo, cresceva l’odio dei suoi genitori verso il Thrauco e, con esso, il desiderio di impedire con ogni mezzo che quell’immonda gravidanza potesse giungere a compimento. Tuttavia, una notte Trayllanka, la madre della fanciulla addormentata, ebbe un perimontún, un sogno nel quale gli spiriti ancestrali le rivelarono quanto doveva sapere. Lo spirito che le parlò nel sonno fu la stessa Küyén. Le apparve bellissima e luminosa quale era, la pelle d’argento incorniciata dai lunghi capelli nerissimi, intrecciati a formare due trecce che scivolavano sulle sue spalle. L’inattesa apparizione dello spirito non la turbò, poiché ben conosceva i favori che lo spirito lunare riserva a coloro che si mantengono fedeli all’admapu: tanto più nel suo caso, essendo sempre stata assai devota a Küyén ed avendo sempre offerto ad essa i migliori sacrifici di frutti, di carni e di pesci. Le parole pronunciate da Küyén la sorpresero: lo spirito lunare, infatti, la invitò a desistere da ogni tentativo per impedire che l’indesiderata gravidanza giungesse al suo compimento. “Nascerà una bimba - le disse - ed essa sarà chiamata ad essere una messaggera tra gli uomini viventi e gli spiriti ancestrali. Questo è il suo destino ed esso si deve compiere”. Il perimontún ebbe l’effetto di placare la disperazione della madre. Quando il chiarore dell’alba filtrò tra le rustiche travi della ruka, si affrettò a scostare la rozza pelle che ne proteggeva l’ingresso. Il sole non era ancora spuntato, ma la luce del giorno era già vivida e rischiarò il volto della fanciulla distesa sempre immobile sul suo giaciglio. Il suo volto, ora, sembrava disteso e sereno. Gli occhi si mantenevano chiusi, eppure sembrava che si potesse indovinare un continuo movimento delle pupille sotto le palpebre abbassate. Il respiro, appena accennato, ora era regolare, non più convulso come nei primi giorni. Anche i muscoli del suo corpo erano profondamente rilassati. Sembrava profondamente addormentata. La madre posò delicatamente il palmo della sua mano sulla fronte della fanciulla: era fresca. Le fece una leggera carezza, quasi timorosa di svegliarla da un sogno sereno. “Sogna, sogna, figlia mia - mormorò quasi senza emettere alcun suono - che gli spiriti accompagnino il tuo sogno, che gli spiriti che vivono nel wenumapu proteggano il tuo sogno e ti siano propizi e ti aiutino a tornare nel mapu”. La fanciulla era immersa in un sogno profondissimo, quasi a dare ragione alle parole della madre. Nel sogno le pareva di essere un naufrago. Era distesa su una spiaggia pietrosa: non era quella di Chequián, ma si trovava in un posto sconosciuto. Il mare, davanti a sé, era vastissimo, non più interrotto dalle cento isole dell’arcipelago, ma da una sola isola, molto grande e coperta di foreste. Oltre il mare, lontanissimo, vi era solamente la linea dell’orizzonte, appena appena visibile, quasi a dividere il celeste del cielo dal blu dell’oceano. La cordigliera andina, non era davanti a lei, oltre le onde, ma alle sue spalle, dietro le colline al limitare della spiaggia, molto distante. E non riconosceva i profili noti: essa appariva come un volto sconosciuto. Un vulcano incombeva imponente e minaccioso su tutti gli altri. La sua vetta era coperta da lingue di ghiaccio che scendevano lungo i suoi fianchi, insinuandosi e perdendosi nei boschi di conifere. Un leggero pennacchio di fumo si sollevava verso il cielo nitido e senza nubi. Era una scena serena, eppure minacciosa. Il vulcano attirava il suo sguardo: le sembrava noto, eppure tutta la

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catena andina era sconosciuta. Improvvisamente lo riconobbe: “Peripillán!” esclamò. Era lui, certamente, ma si trovava nel luogo sbagliato. E forse era proprio ciò a suscitarle una profonda inquietudine. O forse era qualcosa di più profondo e di più lontano. O più vicino. Non lontano da dove si trovava, un vasto fiume si perdeva nell’oceano con una ampia foce. Le sua acque si spingevano in quelle marine, più scure, formando una corrente chiara che si prolungava verso l’orizzonte, sino a perdersi. Oltre il fiume, un fitto bosco. Querce, piccoli larici, piante sconosciute, dietro le quali si scorgeva l’alto e isolato profilo di un rosso alerce o di qualche scuro cipresso. La spiaggia era deserta. Ovunque guardava, non vedeva alcuna forma di vita. Neppure nel cielo era possibile scorgere alcun gabbiano, e sulle onde del mare, sebbene invitanti, non vi danzava nessun delfino. Il silenzio era assoluto. Nessun insetto lo turbava con il brusio delle sue ali ed anche le pacifiche onde, nonostante fossero assai più lunghe ed alte di quelle a lei famigliari, si perdevano sulla spiaggia sassosa con il loro andirivieni in assoluto silenzio. “Forse ora sono un’anima - pensò la fanciulla - forse mi trovo nel wenumapu”. Passò un lungo tempo. La fanciulla rimaneva immobile nel paesaggio silenzioso. Sapeva che doveva attendere, sebbene non comprendesse perché. E neppure chi o che cosa. Finalmente un canto sconosciuto giunse ad interrompere il silenzio. Dapprima così tenue da far dubitare di averlo udito, poi a poco a poco divenne sempre più nitido, pur rimanendo leggero leggero, come il battito delle ali di una farfalla. Il canto era strano, incomprensibile, ma bellissimo. La fanciulla lo ascoltava rapita. Quindi apparvero due anziane donne vestite con delle tuniche bianchissime. Forse erano loro, a cantare, ma la fanciulla non ne era certa, poiché al loro apparire il canto cessò. Le anziane si avvicinarono lentamente verso di lei, sino a sedere al suo lato. Ora che erano vicine, la fanciulla vide che il loro volto era ricoperto da una incredibile ragnatela di rughe. “Come sono vecchie! - esclamò senza proferire parola - forse sono gli spiriti più antichi!”. Le due vecchie vestite di bianco sedettero in silenzio accanto a lei. Parvero rimanere in attesa di una richiesta. L’osservarono con una muta domanda negli occhi, senza tradire nessuna sorpresa, senza un sorriso. Tuttavia non suscitavano inquietudine alcuna. Attendevano, serie ed attente, la richiesta della fanciulla. Ella, tuttavia, non sapeva cosa domandare loro, ed era cosciente che vi era qualcosa di sbagliato in tutto ciò. Il tempo trascorreva, in silenziosa attesa. Finalmente una delle due anziane si scosse e chiese alla fanciulla: “ce l’hai una llanka?”. Ma la fanciulla non comprendeva. Allora l’anziana ripeté la sua domanda. Disse allora la giovane: “ma voi chi siete? che cosa vuol dire ciò che mi chiedi?”. “Siamo le tempulkalwe e il nostro compito è di traghettare le anime verso l’isola sacra che si trova di fronte a questa spiaggia e la llanka è una piccola pietrolina, un sassolino arrotondato dal bel colore”. Allora la fanciulla si guardò intorno e vide che la spiaggia era cosparsa di pietre tra le quali alcune, arrotondate dal mare, avevano i colori dell’arcobaleno. Ne colse alcune, quelle che le parvero più belle, e le offrì alle due vecchie: “queste vanno bene?”, chiese. Una delle due non rispose nulla, ma accettò le pietre e le mise in un sacchetto bianco che portava appeso al collo. “Vieni disse l’altra anziana - non perdiamo più tempo” e l’aiutò a rialzarsi. Quindi le tre donne si diressero verso il mare. Quella con il sacchetto con le llanka entrò in mare. Quando l’acqua giunse all’altezza dei suoi fianchi, la fanciulla si accorse che la bianca tunica si avvolgeva intorno alle sue gambe, formando una grande coda di pesce. L’anziana continuava ad entrare nell’acqua e la veste le si avvolgeva intorno, come una seconda pelle. Quando fu totalmente immersa,

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era convertita in una piccola balenottera. La fanciulla osservava stupita, ma senza timore. In un certo senso, le pareva che quanto avveniva fosse del tutto naturale, che fosse la cosa giusta. “Presto, sali sul suo dorso, che ci stanno aspettando” disse l’altra anziana, salendo anche lei ed aiutandola. La fanciulla sedette sul dorso della balenottera e questa cominciò a dirigersi con un nuoto calmo ma veloce verso la grande isola coperta di foreste. “Dove andiamo” chiese la fanciulla all’anziana che l’accompagnava. “A Ngülchenmaywe”, fu la risposta. Ma ormai vedevano biancheggiare la spuma delle onde che andavano a morire sulla spiaggia della grande isola. Sempre accompagnata dall’anziana, la fanciulla scese dal dorso della balenottera e camminò lungo la spiaggia sino ad uscire dall’acqua. Anche la balenottera risaliva la riva e a mano a mano che l’acqua diventava meno profonda la sua pallida pelle tornava a convertirsi in una veste candida. Quindi le tre donne sedettero sulla spiaggia, nuovamente in attesa. Questa volta, l’attesa fu breve. Un corteo di anziane donne, tutte vestite con tuniche bianchissime, giunse ben presto sulla spiaggia. Quella che apriva la lunga fila, altissima ed imponente più di tutte le altre, si avvicinò alla fanciulla e l’osservò attenta. “Sei giunta troppo presto - disse alla fanciulla - non potrai mai iniziare il percorso verso gli spiriti degli antenati, poiché non hai ancora partorito la bimba che porti nel tuo ventre. Sei giunta troppo presto!”. “Ma io non voglio ancora iniziare il mio percorso. Io devo dare alla luce questa mia bimba, lo so che io devo farlo” rispose la fanciulla. “Ma ormai sei giunta qui. Non avresti dovuto venire”. “Io non avrei voluto venire. Io non so perché sono qui”. “Non importa: ormai sei qui. Il tuo destino è compiuto”. “Ma io non voglio... io non posso... già si avvicina il tempo della mia creatura... il mio ventre è già grosso. Lasciatemi tornare indietro. Vi prego, lasciatemi tornare indietro!”. “Non è possibile dissero in coro tutte le altre anziane che intanto si erano disposte intorno alla fanciulla ora devi restare qui con noi!”. La ragazza piangeva disperata. Supplicava. Spiegava che non era ancora giunto il suo momento, che doveva tornare indietro, lei era certa che doveva tornare indietro. La più anziana le carezzò il volto e le asciugò le lacrime: “sei certa che non sia ancora giunto il tuo momento? Forse... - aggiunse titubante - potresti attraversare nuovamente questo mare e tornare nel mapu”. “Ti prego, ti supplico, ti scongiuro... fammi tornare indietro”. “Ma questa volta ci vogliono cinque llanka - disse ancora l’anziana - ma questa volta devono avere i colori giusti. Se sbagli, non potrai più ritornare in vita”. “Quali sono i giusti colori?”. “Io non te li posso svelare, ma se è nel tuo destino tornare indietro, Küyén guiderà la tua scelta”. La fanciulla, allora, si guardò intorno, e vide che nella spiaggia, ora arenosa, brillavano tanti sassolini arrotondati dai mille colori diversi. Si chinò e cominciò ad osservarli attentamente. Il suo sguardo venne attratto da una pietrolina intensamente azzurra, con il colore del mare e del cielo. La raccolse e la porse all’anziana. Ella la prese nelle sue mani, la scrutò con cura ed approvò la scelta: “kalfü è il colore di questa llanka. Esso rappresenta la vita, l’ordine e l’abbondanza: è il simbolo dell’universo”. Lo sguardo della fanciulla, ora, venne attratto da un altro sassolino arrotondato, candido come le tuniche delle vecchie che l’osservavano in silenziosa attesa. Lo porse all’anziana, che nuovamente approvò la scelta: “ayong-lik è il colore di questa llanka. Esso rappresenta la pulizia, la guarigione e la longevità: è il simbolo della sapienza e della prosperità”. Ora la fanciulla era più serena: sentiva che Küyén guidava le sue scelte e che non poteva sbagliare. Raccolse, dunque, una pietra dalla forma ovale e dal colore

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intensamente giallo e lo depose nelle mani dell’anziana. “Va bene - disse questa - chod è il colore di questa llanka. Esso rappresenta il rinnovamento e la rinascita: è il simbolo di Antü, il disco solare, che è lo sguardo di Ngenechén, il primo ed il più antico degli spiriti degli antenati, colui che ha generato i primi spiriti ancestrali”. La fanciulla osservò intorno a lei, ma nonostante le mille pietroline colorate che risaltavano sulla sabbia, nessuna le parve giusta. Allora si rimise in piedi e cominciò a camminare sulla sabbia. Osservava attenta, poi si chinò nuovamente, raccolse un sassolino rosso, più piccolo dei precedenti, ma perfettamente rotondo, e lo porse all’anziana. Ancora una volta incontrò la sua approvazione: “kelü è il colore di questa llanka. Esso rappresenta la forza ed il potere: è il simbolo della nostra storia, del trascorrere del tempo, del passato, del presente e del futuro”. Ne mancava ancora uno, ma adesso la fanciulla si sentiva sicura, e, poco più oltre, raccolse una pietrolina dal colore profondamente verde e la consegnò sorridendo all’anziana: sapeva di aver superato la prova. Ora, per la prima volta, anche l’anziana le sorrise: “karü e il colore di questa llanka. Esso rappresenta la natura vivente, ma anche la sapienza, la fertilità e la capacità di guarire i mali: è il simbolo dell’arte del machi”. Quindi l’anziana donna dalla bianca tunica si voltò e si incamminò verso la spessa foresta che limitava la spiaggia e, silenziosamente, tutte le altre donne la seguirono in ordinata fila. Rimasero sulla spiaggia solamente la fanciulla e le due tempulkalwe. Queste si avviarono verso le onde e s’introdussero nel mare. La fanciulla le seguì e quando una delle due nuovamente si trasformò in balena, salì sul suo dorso e fu velocemente riportata sulla riva del mondo dei vivi. Qui la fanciulla sedette sulla sponda sassosa, nuovamente stupito per l’assoluto silenzio, e osservò le due anziane allontanarsi con la loro bianca tunica che oscillava al vento, sino a perdersi tra gli alberi. Il cielo, fino ad ora intensamente blu, si coprì rapidamente di nuvole grigie ed iniziò a piovere pigramente. L’acqua scivolava dolcemente sul nudo corpo della fanciulla disteso sulla spiaggia, accarezzando il suo ventre gravido. Gli occhi le si fecero pesanti e presto si assopì profondamente. * * *

E venne rimu-küyén, il tempo dell’autunno in cui la luna vede fiorire il chilco e le piogge si fanno noiose ed insistenti. Il paesaggio ormai sempre più spesso appariva confuso dietro la pioggia sottile, ma anche addolcito. L’umidità penetrava nelle ruka nonostante il fuoco costantemente acceso tra le pietre del focolare posto al suo ingresso. Lo scarso raccolto di fagioli in parte immagazzinato nei recipienti di legno e di pelle ben disposti all’interno della capanna, mentre una parte delle patate era disposta sull’intelaiatura di canne posta sopra il focolare. Le patate erano appoggiate su grandi dischi di giunco intrecciato che lasciava filtrare il fumo odoroso di resina; man mano che seccavano al fumo andavano a riempire otri di pelle, in attesa di essere mangiate quando fossero terminate quelle fresche. Ma dall’intelaiatura sopra il focolare pendevano numerosissime collane di frutti di mare di forme, dimensioni ed aspetto diversi, insieme ad numerosi pesci ormai bene affumicati. Disposti in bell’ordine nella ruka vi erano anche pani pressati di alghe secche dal colore nerastro e fasci di sargassi rossicci, anch’essi ormai secchi. La pioggia insistente dissuadeva dallo stare all’aperto senza necessità. Tuttavia veniva volentieri sfidata quando le lunghe maree lasciavano ampi tratti di spiaggia scoperta, permettendo una facile ed abbondante raccolta di conchiglie marine, granchi, alghe e non di rado anche qualche pesce intrappolato in qualche minuscola pozza di acqua marina.

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Nonostante il tempo, tra la dispersa popolazione insulare regnava l’eccitazione: si avvicinava ormai il mese di thor-küyén, quando si celebrava il solstizio d’inverno ed iniziava un nuovo anno. Era la festa di We Tripantü, quando da tutte le isole circostante uomini e donne, vecchi e bambini, ma soprattutto giovani e giovanette in età di maritarsi confluivano nell’isola di Caguach per celebrare i riti propiziatori per il nuovo anno e, soprattutto, per combinare nuovi matrimoni. Nella sua ruka, la fanciulla non si destava dal suo profondo sonno. La madre, tuttavia, aveva notato già alcune lune prima un netto cambiamento, che non avrebbe saputo descrivere. All’apparenza sembrava tutto immutato, eppure sentiva che la fanciulla era serena. Quando la madre le inseriva qualche sugosa cozza tra le labbra o la stimolava ad inghiottire il succo ricco di fecola della patata sfregata sulla pietra vulcanica, la ragazza, pur senza dar segno alcuna di coscienza tuttavia inghiottiva quanto aveva in bocca e, sia pure di poco, in qualche modo si alimentava. Ora era molto magra, quasi scheletrica, eppure non sembrava del tutto deperita. Il suo ventre era ormai molto ingrossato e si avvicinava il momento del parto. Trayllanka la scrutava, immedesimata nei suoi pensieri. Ella era la seconda dei suoi figli, ma solamente ora, che pareva prossima a morire, si rendeva conto sino a che punto le fosse cara. Non era giusto, ma la prediligeva a Millaray, la quepuche, l’ultima nata. E la preferiva anche ai due figlioli maschi, che pure erano buoni e coraggiosi come il padre. “Ero troppo giovane quando ebbi questa figliola pensava - e man mano che le stagioni trascorrono mi è sempre più vicina: ormai è quasi più una sorella che una figlia. Non devo perderla, non proprio questa! non è giusto! Ho vissuto con giustizia, ho rispettato i costumi della nostra gente, gli spiriti non possono farmi questo, non possono, non devono...”. E sentiva vergogna per il proprio pensiero, per preferire così tanto questa figlia agli altri figli. Kallfukura, suo marito, assai meno giovane di lei, cercava di scuoterla dal suo torpore. S’arrabbiava. A volte era costretto ad alzare la voce, lui, sempre così calmo e pacato. Eppure gli pareva che non vi fosse altro modo per riportare la propria sposa alla realtà dei tanti doveri quotidiani. Egli sembrava prendere la situazione con distacco. Eppure la sua sofferenza non era da meno di quella della moglie. Anche lui stravedeva per questa figliola, sebbene trascorresse gran parte della giornata con i due figlioli maschi. Ma non mostrava alcun segno esterno del suo dolore. Era un uomo, un mapuche, pronto ad affrontare il combattimento con altre tribù, se necessario. Non poteva mostrarsi debole, far vedere i propri sentimenti come se fosse una donna. I due fratelli maschi, Mariñamko ed Antüñamko, contrariamente al carattere schivo e silenzioso proprio della loro gente, ora spesso scherzavano tra loro, eccitati alla prospettiva del breve viaggio alla vicina isola dei matrimoni, che solo un canale neppure tanto largo separava dalla punta di Chequián. Il profondo braccio di mare era interrotto da un piatto isolotto basso e disabitato e ricoperto da uno spesso bosco di conifere e di querce, mentre altre piccole isole sembravano voler prolungare in mare la già lunga penisola di Chequián. Non dimenticavano certamente lo stato in cui il Thrauco aveva gettato la loro sorella, ingravidandola: ma erano convinti che ormai non vi fosse soluzione alcuna. Era già così strano che fosse ancora viva, senza quasi alimentarsi da così tante lune, ma comunque sarebbe morta non appena fossero sopraggiunte le doglie. Bisogna rassegnarsi di fronte alle sventure che non si possono evitare. Cosicché l’eccitazione per i festeggiamenti del We Tripantü, il solstizio d’inverno, faceva loro dimenticare la tristezza che aleggiava nella loro ruka, dove la sorella maggiore giaceva immota. Nonostante la pioggia, spesso andavano sulla vicina spiaggia per rifinire con cura la dalka, una rozza imbarcazione ma efficace con la quale sarebbero andati a Caguach. Ne

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miglioravano la galleggiabilità inserendo fibre di corteccia di larice tra i tre grossi tavoloni, anch’essi di larice, che costituivano l’imbarcazione, legati con resistenti fibre di piante acquatiche ai rami che ne costituivano l’intelaiatura. Infine rinnovavano il mastice di resina che chiudeva i fori nelle assi che permetteva di cucirle tra loro. Sebbene non avessero ancora gli anni giusti per il matrimonio, tuttavia si eccitavano vicendevolmente pensando alle ragazze che avevano già conosciuto in occasione dei precedenti festeggiamenti del We Tripantü. L’anno precedente aveva fornito l’occasione al maggiore dei due fratelli di conoscere una fanciulla di Apiao, un’isola non distante da Chequián e da Caguach. Possedeva due belle trecce nerissime, una pelle morbida e ramata, le labbra fini ed era già prossima all’età di accasarsi. Nonostante la pioggia, avevano trascorso parte della notte sulla spiaggia, lontani dai falò e da sguardi indiscreti, ed entrambi avevano conosciuto il piacere del loro primo amplesso. I genitori fingevano di non sapere, ma approvavano il matrimonio, non appena il ragazzo avesse avuto l’età giusta. Doveva attendere ancora l’alternarsi di due cicli completi di stagioni, dunque, e poi avrebbe affrontato le prove rituali necessarie per poter sposare la ragazza. L’eccitazione del ragazzo era naturale, e contagiava il fratello minore, anch’esso impaziente di conoscere qualche ragazzina. Millaray, la più piccolina, non partecipava dell’allegria dei fratelli. Un po’ perché era troppo giovane. A Caguach, lei rimaneva con i bambini e se il tempo era bello (o almeno discreto), allora si sarebbe anche divertita: ma We Tripantü ricorreva nella stagione in cui le piogge erano più insistenti, e da quando si ricordava trascorreva la notte di festa cercando di scaldarsi al lato del fuoco, ma, soprattutto, di proteggersi dalla pioggia insistente e gelida, che non di rado si convertiva in nevischio. Anche Millaray, nei rari momenti in cui non era presa dalle incombenze quotidiane, sedeva accanto alla sorella. Le rivolgeva qualche parola, anche se inutilmente: ma il fatto di parlarle la rassicurava. Le accarezzava anche una mano, dolcemente e con leggerezza, quasi come se temesse di svegliarla da un sogno sereno o da un perimontún complesso e delicato, che non doveva essere disturbato. I suoi sentimenti verso la sorella erano contraddittori: soffriva percependo la preferenza della madre per la figlia maggiore e provava, pertanto, un sentimento di rassegnata ingiustizia; tuttavia era proprio nella sorella maggiore che aveva sempre trovato calore ed affetto, più ancora che nella madre. “E’ lei la mia vera mamma pensava - ed adesso che dovrà morire mi sentirò tanto sola”. Il padre della fanciulla attese sino all’ultimo momento prima di costruire una piccola capanna per il parto. Veramente, non avrebbe voluto farla: a cosa poteva servire? che speranza c’era che potesse sopravvivere? Eppure nel profondo del suo cuore egli sperava sempre che la fanciulla potesse svegliarsi dal suo profondo torpore e potesse riprendersi e partorire la sua creatura, per mostruosa che essa potesse essere. Finalmente, un po’ per rispetto della tradizione e un po’ per non rinunciare alla speranza, si decise a costruire una modesta capanna sulla vicina spiaggia. Alla moglie spiegò che lo faceva solamente per rispettare la tradizione, anche se era un’opera inutile: non voleva suscitare speranze nella donna che lui stesso ormai aveva rinunciato ad avere. Avrebbero solamente contribuito a crescere il dolore di fronte all’inevitabile conclusione. Costruì, dunque, una capanna molto rozza e modesta, ben diversa da quella che avrebbe voluto realizzare per il suo primo nipotino: quattro bastoni piantati nel suolo sabbioso, poche frasche intrecciate per delimitare tre pareti ai lati, le canne poste a copertura del tetto insufficienti per fermare anche una modesta pioggerella, ridicole quindi nella stagione invernale. La madre neppure volle vederla, né domandò in che luogo si trovasse, né volle mai nominarla. * * *

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E venne il giorno della partenza per Caguach: era thor-küyén, il mese in cui inizia l’inverno e le onde del mare diventano schiumose. Partirono sulla dalka in quattro: i genitori e i due figli maschi. Millaray, invece, rimase nella ruka ad accompagnare la sorella: né la cosa le dispiacque. Infatti pioveva fittamente e quando partirono la giornata era nella sua parte centrale, tuttavia era tutto avvolto in un grigiore quasi crepuscolare. Nella ruka il fuoco sempre acceso scaldava l’ambiente, l’abitudine al fumo aveva cancellato ogni fastidio, e le pelli di tricheco sulle quali dormivano impedivano all’umidità del suolo di filtrare. La madre avrebbe voluto rimanere: ma non era possibile. Per il figlio maggiore ormai bisognava prendere gli accordi con i genitori della ragazza amata, anche se il matrimonio non era ancora prossimo. Rimanere a Chequián, dunque, non era possibile. E non sarebbe servito a niente. Infatti non era cambiato nulla e la fanciulla rimaneva stesa immota, anche se ormai il momento del parto non doveva essere più molto lontano. Dunque era Millaray che doveva restare, e così fecero. La quepuche era distesa accanto alla sorella. Era già trascorso un buon tempo da quando la famiglia aveva spinta in mare la dalka ed ora la notte iniziava la sua battaglia con il giorno. Antü, lo spirito solare, ora permetteva alla sua sposa Küyén, lo spirito lunare, di avere il sopravvento. La fiamma che ardeva tra le pietre che delimitavano il focolare non più alimentata da legna fresca era appena appena accennata. Ma dalle braci incandescenti si alzavano alcune sottili volute di fumo che andavano a perdersi tra i tralicci della struttura di legno posta sopra il focolare. A Millaray piaceva molto questo momento della giornata, quando ormai era conclusa, e attendeva a lungo, fantasticando alla luce del focolare che moriva a poco a poco: osservava le danze dei fili di fumo ed il loro intrecciarsi con le scure filze appese, piene di cozze e di vongole ormai completamente rinsecchite. Ma soprattutto le piaceva ascoltare il rumore intenso della pioggia che scrosciava sull’erboso tetto della ruka. I piccoli mannelli di fieno erano stati rinnovati durante il recente autunno e disposti con molta cura, sicché era bello ascoltare i mille suoni dei rigagnoli di pioggia senza che neppure una goccia filtrasse sui giacigli distesi sulla nuda terra. La giovane quepuche osservò il volto così smagrito della sorella: per la prima volta da ormai oltre otto mesi sembrò acquistare vita. Non si mosse, gli occhi rimasero chiusi, nessun accenno di movimento. Eppure Millaray ebbe l’impressione che qualcosa fosse mutato, anche se non avrebbe saputo dire cosa, che finalmente stava riprendendo vita. Era solo una sensazione: la scarsa luce della brace del focolare permetteva appena appena scorgere i lineamenti. “E’ solo un’impressione”, mormorò tra sé la ragazzetta, “non è cambiato nulla”. Eppure l’aveva assalita una enorme inquietudine, dove si mescolava speranza di rivedere la sorella come un tempo e paura di quanto sarebbe potuto succedere. Sentì freddo. Si alzò e pose un paio di sottili rami sulle braci incandescenti. Bastò un breve soffio, perché i due legni s’accendessero: una fiamma tremolante e incerta produsse una chiarore rossastro che si riflesse sul volto della sorella. “Il colore di Peripillán” borbottò Millaray, e subito se ne dolse ricordando come il Thrauco discendesse da Peripillán. Osservò meglio il volto immobile. Ora i lineamenti apparivano meno incerti grazie alla fiammella accesa. Ma il guizzare delle ombre dava un senso di vita che contrastava con l’assoluta immobilità di ogni muscolo. “Ascoltami. Sono io. Millaray” disse forte mentre afferrava e stringeva la fredda mano della sorella, tentando intensamente di scorgere una reazione, per minuscola che fosse. Nulla. Nessun segno di vita. Eppure... si... la mano era fredda, inerte, ma non era più così fredda come prima. Ma forse era solo

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il desiderio a farglielo credere. No. Non era il desiderio, era veramente meno fredda. Le accarezzò una guancia: nuovamente la sensazione di una traccia di vita, di un poco di calore. Tolse la morbida pelle di guanaco che copriva il corpo disteso e con la sua mano percorse leggera il corpo di sua sorella, indugiando sul ventre gonfio per la gravidanza ormai volta al termine. Percepì distinto il movimento. Del feto? Ma anche il feto in tutti questi mesi non aveva mai dato alcun segno di vita. Se non fosse per il costante ingrossamento del ventre, si sarebbe potuto pensare che fosse morto. E poi non era giunto il momento del parto: mancava ancora quasi un’intera luna perché si compisse il suo tempo. Si allontanò per qualche istante, il tempo di aggiungere altra legna al focolare e di produrre, ora, una fiamma viva ed un chiarore sufficiente. Tornò a chinarsi per osservare attentamente la sorella. Ora vedeva chiaramente come il suo ventre si muoveva. Un brivido le percorse la schiena. “Spiriti degli antenati, aiutatemi!” mormorò con una silenziosa preghiera mentre si chiedeva cosa fare. Chiedere l’aiuto di qualcuno: ma tutti erano a Caguach a festeggiare il nuovo anno che nasceva. Qualche anziana era sicuramente rimasta, ma dove? Le capanne erano sparse in mezzo al bosco, non troppo vicine le une alle altre. Avrebbe dovuto passare da una ruka all’altra prima di trovare chi potesse aiutarla. Ma non osava lasciare sola la sorella. Le afferrò nuovamente la mano abbandonata e le parve che a sua volta le restituisse la stretta. Appena appena un accenno, ma ora Millaray ne era certa: la sorella tornava alla vita dopo il suo lungo e confuso soggiorno a Ngülchenmaywe. * * *

A Caguach decine e decine di dalka erano stato tirate in secca sulla spiaggia. La marea stava ritirandosi, lasciando un ampio spazio tra le rustiche imbarcazioni e il bagnasciuga. La pioggia gelida e pesante picchiava insistente sulle tavole di legno degli scafi e rimbalzava. Poi cedette il posto ad un nevischio fradicio, fatto di grossi goccioloni pastosi che tuttavia cominciarono ben presto a imbiancare i rami delle querce. La grande radura erbosa e priva di alberi (erano stati bruciati proprio per creare quello spiazzo) era affollata di capanne di frasche, montate rapidamente e senza cura in quanto destinate a durare una sola notte, con le pelli distese sopra a formare un modesto riparo dalla pioggia e dal nevischio. Nonostante il freddo ed il tempo, a Caguach regnava un confuso entusiasmo. Alcuni falò mantenuti faticosamente accesi allietavano l’ambiente e giovani e vecchi e fanciulle sfidavano volentieri la pioggia per manifestare la loro allegria. Sotto la protezione di una capanna più grande delle altre, era stata fatta una grossa buca. Già era trascorso la metà della notte da quando sul suo fondo erano state poste grosse pietre roventi, sopra le quali, separate da una grossa foglia di pangui, erano state adagiate numerose grandi cozze: e poi un’altra foglia e quindi grossi gnocchi di patate, e fagioli rammolliti nell’acqua, e alcuni pesci affumicati ed anche freschi, e infine numerosi pezzi di carne, grossi poco più di una noce. Numerose foglie di pangui coprivano la buca, che era stata ben chiusa da uno strato di sabbia. Ora che la notte di festa volgeva al culmine, incuranti del nevischio che adesso imbiancava anche la sabbia della spiaggia, la fossa veniva scoperta ed un profumo di carne e di mare allietava i presenti. Le prime prese di carne e di pesce venivano appoggiate su delle altre foglie di pangui, usate a mo’ di piatto, e già c’era chi mangiava senza fare caso al calore del cibo che bruciava le dita. Il curanto, il pranzo delle feste fatto nelle buche nella sabbia, almeno quello non mancava!

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Si, almeno quello. Infatti i giochi, le gare di lotta, i balli, tutto era reso impossibile, prima dalla pioggia insistente, ora dalla neve che trasformava tutto in pantano. Ma il maltempo non aveva impedito l’ardore dei più giovani, che correvano dietro alle fanciulle non ancora maritate né promesse in matrimonio, le quali erano ben contente dell’assedio che dovevano subire. Mariñamko e Antüñamko erano scomparsi, chissà dove, e i loro genitori rimanevano in disparte, poco desiderosi di compartire l’allegria degli altri. Poche volte dovettero dare spiegazioni per l’assenza della figliola, poiché quasi tutti già sapevano ed evitavano di porre inutili domande. Il padre aveva già incontrato i genitori della fanciulla ambita dal Mariñamko ed il matrimonio era stato ormai concordato: avrebbero atteso ancora il trascorrere di due interi cicli di stagioni e poi la fanciulla sarebbe andata a vivere con i suoceri, in attesa che lo sposo costruisse la sua ruka. La madre sentiva crescere dentro di sé sempre di più una profonda inquietudine e un’ansia di tornare a Chequián. Quando le si avvicinò con circospezione uno dei numerosi machi che dimoravano nell’isola di Quinchao, la sua ansia crebbe, mentre rimaneva in attesa di quanto le avrebbe detto. “Sbrigati, donna, torna subito da tua figlia che ho sognato che il tempo che doveva compiersi si è compiuto”. Non ebbe bisogno neppure di dare delle spiegazioni al marito, poiché vedendo il machi avvicinarsi anch’egli era subito accorso per ascoltarlo. Non attesero neppure che qualcuno andasse a cercare i loro figlioli - non mancavano certamente altre dalka per fare ritorno alla loro isola - ma immediatamente cominciarono a spingere in mare la loro imbarcazione, spettrale per il velo di neve che la ricopriva e che luccicava al chiarore dei grandi fuochi accesi. Cento mani si affrettarono ad aiutarli, comprendendo tutti le ragioni dell’affrettato ritorno. Un paio di robusti uomini di Matao, una spiaggia non molto lontana da Chequián, salirono sulla dalka con loro e, senza proferire neppure una parola, i quattro iniziarono a vogare con quanta forza avevano in corpo. Il rumore delle onde che andavano a perdersi sulla spiaggia ed il biancore degli spruzzi di quelle che si rompevano sugli scogli indicò loro la rotta, nonostante il buio. Giunsero a Chequián che cominciava già ad intuirsi il chiarore dell’alba. Quando approdarono, lasciarono che i due volonterosi amici trascinassero sulla sabbia l’imbarcazione. Già si erano avviati verso la loro ruka, quando un suono strano e primitivo produsse loro un fremito. Pareva il suono di un flauto, ma assai più profondo, come se sorgesse dalle viscere della terra. E contrariamente a quello, pareva possedere solamente tre note, che si rincorrevano in una lentissima danza, quasi in gara a quale fosse più grave. Con l’animo colmo di angoscia, la madre si mise a correre sulla riva innevata verso l’origine del suono, quella capannina predisposta per il parto che non aveva mai voluto vedere. Inseguendo le note del flauto, volando per precederle, ben presto giunse con il marito accanto alla piccola costruzione di rami. Il vagito di un neonato confermò il presagio del machi e diede ragione alla fretta del loro ritorno. Silenzioso e nascosto tra gli alberi, indifferente e insensibile alla neve che scendeva abbondante ad imbiancare il suo cappuccio, il Thrauco osservava attentamente la ruka mentre traeva dal suo rustico pahueldún quelle tre note così gravi, così tristi, così foriere di lutto.epu troy

MILLARAY Era nata. Ma lo sguardo della madre non si soffermò sulla minuscola creatura in grembo a Millaray, bensì corse immediatamente alla ricerca della sua figlia prediletta. La fanciulla giaceva supina, come da ormai troppi mesi, su una improvvisata slitta di canne.

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Era immobile come sempre, eppure questa volta la madre sentì che ora quell’immobilismo era definitivo. Non ebbe bisogno di rivolgere gli occhi verso il volto di Millaray, solcato dalle lacrime, né dovette far caso ai singhiozzi della bimba, ormai radi e spossati come quelli di chi ha già pianto troppo a lungo. Non ebbe bisogno di osservare nulla in quell’incerto chiarore del mattino che ancora non aveva scacciato la notte per comprendere che il dramma si era ormai compiuto. Incapace di guardare la piccola creatura che gemeva tra le inesperte braccia della bimba costretta a diventare troppo presto donna, incapace di pronunciare una qualche parola di conforto verso la quepuche, incapace sia piangere che di emettere qualunque suono, si distese accanto alla figlia morta. L’abbracciò: dapprima teneramente, poi stringendola sempre più strettamente a sé, quasi con violenza, come se volesse costringerla a rientrare da quelle sue viscere da dove avrebbe voluto che non fosse mai uscita. Il padre si avvicinò a Millaray. Le carezzò le guance, asciugandole le lacrime con la sua mano, e fece il gesto di cogliere la piccola creatura dalle braccia della sua figliola ancora bambina. Ma Millaray lo impedì: inaspettatamente, strinse a sé il neonato, protettiva e precocemente materna. Senza rabbia, ma determinata a trattenere con sé il frutto di quel parto che le aveva portato via la sorella amata. Nessuno le chiese come avesse potuto trascinare sino alla capanna la sorella, lei così piccola e minuta. Nessuno le chiese neppure come avesse trovato la capanna, lei che non l’aveva mai vista prima. Nessuno volle vedere con più attenzione quella mostruosa creatura, figlia del Thrauco. Intanto giunsero alla capanna anche i due vogatori che avevano accompagnato i genitori della fanciulla. Stettero in silenzio, mentre la neve filtrava dal tetto di frasche mal fatto e si scioglieva sui corpi dei presenti, inzuppando ogni cosa di acqua. Millaray sollevò la sua tunica e appoggiò il tenero corpicino della creatura - ma quant’era piccola! - sul suo petto per trasmettergli un poco del suo stesso calore. Quindi lo coprì riabbassando la sua veste: sembrava che volesse proteggerlo anche dagli sguardi dei presenti. Il bimbo smise di lamentarsi, per il calore che riceveva dalla sua giovanissima nutrice, o forse semplicemente perché si sentì amato. I due giovani aiutanti volsero lo sguardo verso il padre della fanciulla, con una muta domanda. Un cenno del capo, fu la risposta. Allora assicurarono bene il corpo esanime ragazza al letto di canne sul quale giaceva e s’incamminarono verso la ruka, trascinandolo con l’improvvisata slitta. Il padre, la madre e Millaray con la sua creatura stretta sotto la sua veste seguivano dietro, formando un mesto corteo. Quando giunsero alla ruka, i due giovani deposero il corpo della fanciulla sul suo giaciglio e si allontanarono per andare a dare la triste notizia. Quindi la madre lavò il sangue che sporcava le sue cosce e intanto osservava il volto della sua figliola morta appena divenuta madre: era sereno, disteso, pareva sorridere. Finalmente si rivolse alla quepuche: “povera figlia mia” e non era chiaro a chi si rivolgesse, se alla maggiore o alla minore. O forse a sé stessa. Millaray adagiò la piccola creatura sul proprio giaciglio e cominciò a lavarla, passando teneramente sul suo corpicino così minuto una morbida pezza di pelliccia di guanaco inzuppata d’acqua. Passava la pezza con delicatezza, timorosa di danneggiare quelle membra che sembravano così fragili. La madre si avvicinò per aiutare la figlia. Tuttavia non riuscì a trattenere un moto di repulsione mentre si chinava sulla piccola creatura. “Lo faccio io, mamma” disse Millaray, e ancora una volta impedì che la toccassero. La madre si sentì sollevata, ma anche in colpa. Le ripugnava toccare quella creatura mostruosa e demoniaca, come ogni frutto del Thrauco, e la odiava per aver causato la morte della sua prediletta. Ma sentiva anche il peso della ingiustizia che

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commetteva scaricando ogni incombenza sulle spalle di una figliola ancora così giovane: appena otto volte aveva visto l’avvicendarsi delle stagioni durante la sua ancor breve vita. “Non è una wekufe - disse Millaray come se avesse intuito il pensiero di sua madre è una bimba. Anzi: è un fiore, un bellissimo fiore”. Solo allora la madre osservò bene la piccola nata. E’ vero: non era una creatura mostruosa. Al contrario: era una bambina bellissima. Così piccola e minuta da sembrare ancora un feto, ma bellissima. Tuttavia era strana: il suo volto era bianco e luminoso, come la neve che ancora cadeva dal cielo, come la luna piena nelle notti estive, ma i suoi occhi e i pochi capelli che le coprivano la nuca erano rossi come la brace del focolare. Eppure era così bella che sembrava veramente un fiore. Una bellezza che anziché placarla, irritò ancor di più l’ira della nonna. Avrebbe voluto che fosse nata morta, che fosse un essere mostruoso da sacrificare al più presto, sgozzandolo sul sacro rewe. Non aveva diritto di vivere quella maledetta creatura del Thrauco che aveva ucciso la sua prediletta. Eppure Millaray aveva ragione: non era una wekufe, ma quella pelle così bianca suscitava arcani timori e riportava alla mente antiche memorie. Intanto erano giunti anche i fratelli. In silenzio, osservarono la sorella morta. Quindi rivolsero lo sguardo verso la bimba che Millaray aveva terminato di lavare: ma ella la coprì ancora una volta con la sua tunica, per ripararla dal freddo, ma anche gelosa degli sguardi dei suoi fratelli. Quel minuscolo fiorellino era solo suo: sua sorella glielo aveva affidato e lei avrebbe saputo compiere quella sua silenziosa promessa. Poi Millaray staccò da una trave il filo sottile e lucente di una ragnatela e lo avvolse attorno al minuscolo polso della neonata: “così Lalé Kusé ti proteggerà e un giorno sarai una bravissima tessitrice” pensò mentre compiva quel gesto di affetto. Ormai era giorno. La neve aveva nuovamente lasciato il posto alla pioggia che scrosciava rumorosa sul tetto di fieno della ruka e riempiva l’ambiente di una grigia e gelida nebbiolina che penetrava ovunque. La luce piovosa filtrava attraverso le canne della ruka, rischiarando debolmente l’interno della capanna. Le ombre erano appena accennate e tutta la scena si dissolveva in mille sfumature di grigio e di perla. Insieme al monotono ed insistente rumore della pioggia, tutto contribuiva ad annebbiare i sensi, senza tuttavia lenire il dolore. Tutti rimanevano in silenzio intorno al cadavere della giovane, tranne Millaray che, seduta su una delle grosse pietre che delimitavano il focolare cullava quel minuscolo esserino che nascondeva sotto la sua tunica. Le lacrime le scivolavano copiose sulle sue guance per poi perdersi nella tunica ancora fradicia di pioggia. Ma anch’essa rimaneva bel più assoluto mutismo, senza neppure un singhiozzo a sfogare la sua trattenuta disperazione. La madre guardava il corpo esanime della figliola: smagrito dal lunghissimo digiuno, dal grigiore ormai cadaverico, eppure sereno, con l’espressione decisa, quasi soddisfatta, come quella di chi ha portato a termine con successo una difficile missione. La madre rifletteva. Pensava alla bimba, piccola come un feto, eppure straordinariamente bella. Ma quella pelle così bianca! Certamente era assai sgradita a Küyén, lo spirito lunare: non poteva che essere così. E quegli occhi e quei capelli di fuoco! Non doveva vivere, quella figlia del Thrauco, per nessuna ragione: la sua esistenza offendeva tutti gli spiriti e le tradizioni e avrebbe scatenato l’ira dei wekufe. Ma ci avrebbe pensato ben presto il ngenpín a decretarne la morte. Per fortuna non toccava a lei deciderlo o farlo. E se così non fosse stato, la bimba sarebbe comunque morta lo stesso. Era troppo debole per sopravvivere. E poi con che cosa? Chi le avrebbe dato il suo latte? Quale donna avrebbe offerto il suo seno alla creatura del Thrauco? La odiava, quella bambina che aveva ucciso la sua figliola ormai alla vigilia delle sue nozze. Eccola lì, distesa sul suo giaciglio, immobile per sempre. Una lunghissima agonia

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durata quasi nove mesi, durante i quali era morta ogni giorno, ogni istante, dieci, cento, mille volte. Ma ora era per sempre. Prima c’era ancora un poco di speranza: ma forse era solamente lei l’unica a crederci. Sterile. Così era morta quella sua figliola. Dunque, senza figli che onorassero la sua memoria, senza figli che avendola per madre le permettessero di potere avviarsi sulla strada dei sette cieli, i wenumapu, al termine della quale ella si sarebbe convertita in uno spirito ancestrale, almeno finché ci fossero stati dei discendenti che l’avessero ricordata, riverita e amata. L’impossibilità di divenire uno spirito ancestrale che rendeva più dolorosa di qualunque altra cosa la morte della giovane promessa sposa. O chissà. Se quella bimba mostruosa fosse sopravvissuta, allora la sua figliola avrebbe potuto ancora avere una discendenza. Ma no. Non doveva farsi illusioni inutili e assurde. Ci avrebbe pensato il ngenpín a porre immediatamente termine a quella vita nata rubandone un’altra. Forse oggi stesso, prima che giungesse un’altra volta la notte, prima che Küyén potesse offendersi per il colore di quella pelle e potesse scatenare i wekufe contro tutto il clan. E comunque, sarebbe morta ugualmente. Nonostante gli sforzi di Millaray, che lei non riusciva davvero a comprendere. Proprio Millaray, che stravedeva per la sorella, proprio lei riusciva a sentire affetto per quell’esserino che ne aveva causato la morte. E che affetto profondo che le stava dimostrando, lei, sempre così introversa, così restia a mostrare i suoi sentimenti, che sembrava sempre rifiutare da tutti, tranne che dalla sorella ora morta, una carezza, a volte anche un sorriso. Eppure ora era lì a proteggerla e scaldarla col suo stesso corpo, quella creaturina, anziché maledirla e odiarla. Ma sapeva bene, lei che era sua madre, quanto Millaray si sentisse disperata in quel momento, quanto avesse bisogno di conforto e non solamente di confortare. La madre si alzò dal freddo giaciglio, si avvicinò e si chinò verso la quepuche. Le carezzò il viso, asciugandole le lacrime. Le sorrise. Millaray alzò verso di lei il suo sguardo, velato dalle lacrime che continuavano a sgorgare. “Io devo proteggerla, mamma, io voglio amare questo fiorellino bianco. Me l’ha chiesto mia sorella mentre moriva. Io sono rimasta zitta, ma lei lo sa che glielo ho promesso. Lei ci conta, mamma, lei conta su di me. Non posso tradirla, ora che è morta. Io devo farla vivere questa bambina. Non voglio che mia sorella muoia senza discendenza. Mia sorella lo ha compreso. E’ per questo che il suo volto ora è sereno. Sa che io sarò di parola”. La madre ascoltava silenziosa lo sfogo della figlia. Continuava ad accarezzarle le guance, asciugando le lacrime che continuavano a rigare il suo volto. Era dibattuta. Erano giusti e buoni, i sentimenti e le intenzioni di Millaray. Ma senza alcuna speranza. Voler bene a quella pallida creaturina era aggiungere altra sofferenza quando essa sarebbe morta, per mano del ngenpín o della madre natura. Ma non le disse nulla. Non poteva dirle nulla, in quel momento. Poteva solamente rimanerle vicina. * * *

Ma fu per poco: ormai cominciavano a giungere i parenti, gli amici, i vicini, l’intero clan. Con loro, anche il lonko, il capo dell’intero clan, ed il ngenpín. Non uno dei tanti machi, bensì il sacerdote più anziano, più rispettato ma anche più temuto. Solenne, vestito come una donna con una tunica colorata, con il suo kultrún dalla pelle ben distesa e dai rossi disegni e dal suono grave, entrò nella capanna, guardò velocemente il cadavere disteso sul suo giaciglio, quindi si avvicinò a Millaray, sedette accanto a lei, su un’altra pietra del focolare e posò con delicatezza il kultrún ai suoi piedi. Rimase in silenzio. Allora la madre si allontanò e li lasciò soli. Solo allora il ngenpín le disse: “mostrami”. A bassa voce, ma con la decisione di chi è abituato ad essere obbedito senza esitazioni. Ma con dolcezza. Millaray sollevò la sua

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tunica e gli mostrò la bimbetta. Egli la osservò con molta attenzione, riparandola con il suo stesso corpo dalla curiosità degli altri presenti. Scrutò senza mostrare sorpresa il pallore della sua pelle, già liscia nonostante la vicinanza del parto. Con grande cautela e leggerezza fece scivolare il dorso della sua mano su quel corpicino. Quindi si rivolse ancora a Millaray: “coprila”, le disse, e la ragazzina si affrettò a nascondere il suo bianco fiorellino sotto la sua tunica. La madre, in disparte, osservava timorosa per la disperazione che avrebbe colto la quepuche nel momento in cui le avessero portato via la creatura. Ma quel momento non era ancora giunto. Il ngenpín si alzò, indicò a Millaray che facesse lo stesso, e insieme si avvicinarono al lonko che stava in mezzo agli anziani, stretti nella modesta ruka. Solo ora guardò più attentamente la ragazza morta. Si rivolse nuovamente a Millaray: “mi hanno detto che eri sola”. La bambina, sempre stringendo a sé la creaturina nascosta sotto la sua tunica, fece un gesto di assenso. Tutti i presenti ascoltavano in un teso e attento silenzio. “L’hai trascinata con una slitta improvvisata” disse ancora il ngenpín a Millaray. Ma non era una domanda. Glielo avevano raccontato e aveva visto la slitta appoggiata sul fianco esterno della ruka. “Come ci sei riuscita?”. “Non lo so - rispose con un filo di voce Millaray, dopo qualche tentennamento - non lo so. Ho sentito che dovevo fare così. Mi sembrava che mia sorella mi chiedesse di portarla alla capanna del parto. Ho cominciato a trascinarla, e mi sembrava così leggera... No, non era tanto leggera, ma era come se mani più forti delle mie mi aiutassero a sollevarla, a deporla sulla slitta, e poi a spingerla sulla fanghiglia nevosa”. “Sapevi dov’era la capanna del parto?”. “No”. “E allora, come l’hai trovata?” le chiese il ngenpín, ma senza farle fretta, a bassa voce, con pazienza e gentilezza. “Quando sono uscita ho sentito un suono lontano: sembrava un flauto, ma con un tono molto più grave e profondo, come se fosse uscito dalla terra, e veniva dalla foce del ruscello. Mi faceva paura, ma ero convinta che dovevo seguire quel suono. Lo seguii trascinando mia sorella sulla neve, e man mano che mi avvicinavo alla spiaggia ed al ruscello, il suono diventava più forte e mi sembrava che, invece, mia sorella fosse sempre più leggera. Avevo paura che iniziasse a partorire lì, sotto la neve, che le acque le aveva già perse nella ruka. O che mi morisse. Sapevo che dovevo fare in fretta. Gli ultimi passi li ho percorsi correndo e mi sono imbattuta così nella capanna del parto. L’ho trascinata dentro che già stava nascendo. Era così piccola la creaturina che è nata senza sforzo alcuna, senza nessun bisogno di aiuto. L’ho raccolta e l’ho mostrata a mia sorella. Sino ad allora, era sempre rimasta come morta, senza un lamento, senza emettere nessun suono. Ma quando gliel’ho mostrata, ha aperto gli occhi e mi ha sorriso e mi ha detto «questo è il mio fiore: lo lascio a te, proteggilo sempre». Mi disse proprio così, mia sorella: questo è il mio fiore... lo lascio a te... proteggilo sempre. Queste sono le uniche parole che ha pronunciato. Poi ha cercato di stringermi forte la mano che io avevo lasciato nella sua... e basta... è morta...”. “Non è vero! Non può essere! Come puoi dire che la figlia del Thrauco è un fiore!” la interruppero in molti stizziti. Millaray non osò ribattere nulla, intimidita da tanta gente. Piangendo silenziosamente, stringeva stretta a sé la bimbetta dalla pelle bianchissima, decisa a proteggerla a qualunque costo. Ma uno sguardo severo del ngenpín fece sì che tutti tacessero. Egli, tuttavia, rimaneva immerso nei suoi pensieri. Sembrava non prestare alcuna attenzione, né all’accorato gesto di Millaray, né alla rabbia di coloro che prima avevano interrotto Millaray. Dopo aver atteso a lungo, finalmente disse con tono grave e solenne: “Millaray, mupindunguimi: feichi pichiche domo kiñe rayén reke ngey”. E dopo aver

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squadrato severamente tutti i presenti, si rivolse nuovamente alla giovinetta e ripeté una seconda volta: “Millaray, hai detto il vero: la piccola bimba è un fiore!”. Alle parole del ngenpín, tutti rimasero allibiti, anche il lonko. L’essere figlia del Thrauco poteva già essere una ragione sufficiente per sopprimere la neonata. Ma, non si sa come e non si sa da parte di chi, la notizia di quella pelle così bianca, era circolata di bocca in bocca, come di un infelice prodigio. Come poteva gradire Küyén l’esistenza di quella creatura? Nessuno, tuttavia, osava contraddire il potente ngenpín, da tutti temuto, ma il dubbio serpeggiava evidente. Millaray percepiva la paura del clan per quell’esserino che continuava a nascondere sotto la sua tunica e a stringere forte al suo petto. Sentiva battere il suo piccolo cuore, assai più velocemente del suo, e ciò le procurò uno strano sentimento. Intuiva che in qualunque momento la paura di alcuni avrebbe potuto trasformarsi in violenza: voleva impedirlo. Ma come? Solo allora intervenne la madre. Forse mossa più dalla solidarietà nei confronti di Millaray, piuttosto che per pietà verso la minuscola creatura, immobile sotto la grezza tunica della quepuche. O forse solo allora ricordò quel perimontún che ebbe durante l’estate. Parlò, dunque, e disse come le apparve nel sogno la stessa Küyén, e come lo spirito lunare l’avesse rassicurata. Ma, soprattutto, ora rammentava le parole che esso aveva pronunciato nel sogno. “Quali erano le esatte parole?” chiese improvvisamente il ngenpín, che sino ad allora era rimasto silenziosamente in disparte. “Non le ricordo esatte, ma mi ricordo che mi disse che sarebbe nata una bambina e che essa aveva un destino”. “Quale destino?”. “Aspetta, ngenpín, sto cercando di ricordare le parole esatte. Ecco, sì, ora ricordo bene: mi disse che questa bambina sarebbe stata una messaggera tra gli uomini e gli spiriti del wenumapu. Mi pare che Küyén mi avesse detto proprio queste parole”. “Certamente, tu ricordi il giusto. Ecco che tutto coincide. Una messaggera, un fiore. Ha ragione Millaray. La bimba è veramente un fiore, feichi pichiche domo rayén reke ngey! mupindunguy!”. Quindi il ngenpín guardò con molta severità tutti coloro che erano presenti, ad uno ad uno, squadrandoli fissamente negli occhi. E poi aggiunse: “guai a chi attenterà alla vita della bambina prima che i suoi giorni si siano compiuti. Se è nel suo destino vivere, vivrà. Se è nel suo destino morire, morirà. Ma che viva o che muoia, sarà opera di Ngenemapu, il grande spirito della madre terra, e non dell’uomo. Maledetto chi tenterà di imporre la sua volontà senza attendere che sia Ngenemapu a compiere la sua!”. Millaray ascoltava impietrita e confusa. Tutte queste parole erano più grandi di lei, che era intenta a percepire con tutto il suo corpo il debole ma veloce battito del cuoricino che batteva appoggiato sul suo. Aveva solo capito una cosa: il ngenpín era dalla sua parte e voleva che questa minuscola creatura potesse farcela. Sentì nel profondo della sua anima che se così non fosse stato, per difendere quel pallido feto avrebbe osato sfidare la volontà e la potenza del ngenpín, e fu terrorizzata dal suo pensiero. E proprio in quel momento, il ngenpín le afferrò bruscamente il braccio e la fece allontanare di qualche passo. Quindi, senza che nessuno potesse udirlo, le disse: “bambina, non pensare mai più neppure una sola volta nella tua vita di poter sfidare la volontà e la potenza del ngenpín, che molto male te ne incorrerebbe!”. La rimproverò molto severamente, ma senza durezza. Più come un padre che come un sacerdote. E quasi a mitigare l’asprezza delle sue parole, con la sua mano carezzò brevemente i lunghi capelli di Millaray. Poi si volse e senza dire più nulla e senza un cenno di saluto per nessuno, uscì dalla ruka e si allontanò velocemente. Incurante della pioggia che scendeva fitta, prese uno stretto sentiero tra gli alberi e l’ultima cosa che si vide del ngenpín era la sua ricca e variopinta tunica femminile che si perdeva tra il fogliame del sottobosco. * * *

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Come se l’uscita del ngenpín fosse un segnale, ad uno ad uno i presenti si accomiatarono dai genitori della giovane morta e presero la volta delle loro capanne. Millaray, i suoi fratelli, suo padre e sua madre rimasero nuovamente soli e silenziosi. Le parole del ngenpín risuonavano nelle loro menti insieme a mille domande alle quali non riuscivano a dare una risposta. Millaray tornò a sedere su una delle pietre del focolare che, in segno di lutto, rimaneva spento. Il rumore della pioggia che batteva intensamente sul tetto di fieno della ruka faceva da sottofondo ai loro pensieri. Rimasero così per un bel pezzo, senza proferire nessuna parola e senza fare alcun movimento. Poi, improvviso, un vagito fortissimo li riscosse, ed un altro fece seguito, e poi ancora. Millaray sollevò la sua tunica ed appoggiò la minuscola bimba su una morbida pelliccia di guanaco. Poi interrogò con lo sguardo sua madre. Comprendendo la muta richiesta della sua quepuche, Trayllanka disse: “vado a cercare Ayelén: il bimbo che allattava è morto”. Ed uscì nella pioggia. Millaray, intanto, prese una piccola patata affumicata dall’intreccio di rami posto sopra il focolare, ne spezzò una parte con i suoi denti, e poi si mise a masticarla ben bene. Intanto cercava di calmare i pianti della neonata dondolandola nella calda pelliccia di guanaco nella quale l’aveva depositata. Inutilmente. Finalmente quando le parve che fosse sufficiente, sputò la poltiglia di patata e saliva in un piccolo recipiente di legno. Poi, tenendo sempre in braccio la neonata, con la mano libera prese un’ascia di pietra ed usandola dal lato dell’impugnatura schiacciò ben bene la poltiglia nell’improvvisato mortaio. Finalmente aggiunse dell’acqua e diluì il tutto. Quindi infilò nel recipiente l’estremità di una corda fatta con le fibre del giunco acquatico e l’estrasse che grondava per il liquido grigiastro che aveva assorbito. Appoggiò sulla minuscola bocca della neonata l’estremità della improvvisata tettarella ed ella vi si attaccò con una forza che nessuno avrebbe immaginato e cominciò a succhiare quel liquido ricco di fecola e di saliva. Ogni tanto, Millaray tornava a impregnare con l’improvvisato beveraggio l’estremità della cordicella, che poi offriva alla neonata, la quale la succhiava avidamente. Andò avanti così per un lungo tempo. Ormai il cielo cominciava ad oscurarsi. La ruka era immersa nella silenziosa penombra e solamente l’incessante rumore della pioggia faceva loro compagnia. Erano tutti stupiti dal mancato ritorno della madre. Allora la pichiche domo sembrò averne abbastanza del beveraggio di patata, e si riaddormentò tranquilla tra le braccia di Millaray. Il padre ed i figli, intanto, mangiucchiavano delle grosse cozze affumicate che avevano precedentemente ammollito nell’acqua e ne offrirono a Millaray. Era quasi notte quando la madre di Millaray fece ritorno. La pioggia, che era caduta incessantemente durante tutta la giornata, si era nuovamente convertita in neve: una neve spessa, a fiocchi grossi, che copriva ogni cosa, piegava i rami degli alberi e rendeva difficile il cammino. Entrò la donna nella ruka, dopo essersi scrollata la neve di dosso. Si stupì di trovare il fuoco acceso, nonostante il lutto. “Ormai era buio e tu non tornavi ancora... e poi c’è la bambina...” rispose il marito alla muta domanda della moglie. Lei interrogò Millaray con il suo sguardo, stupita di non sentire il pianto della neonata, e forse credendola già morta. Ma la bimba dormiva: avvolta nella morbida e spessa pelliccia di guanaco, presso il tepore del focolare. Aveva afferrato con la sua minuscola manina il dito della sua giovanissima zia e lo stringeva fortemente. Sembrava tranquilla, ma impressionavano tanto la sua piccolissima dimensione, quanto il pallore della sua pelle. “Sono andata da Ayelén, ma non ne vuole sapere. Dice che ha paura anche solo a toccarla, la figlia del Thrauco. Poi sono arrivata fino a Quinchao, e poi ancora a Coñab e

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poi anche lungo la spiaggia di Achao. Nessuno vuole allattarla, questa bambina: hanno tutte paura a darle il loro seno... io non so cosa farci”. Si avvicinò a Millaray e le posò una mano sulla spalla: “bambina mia - le disse con dolcezza - non puoi farci nulla, figlia mia. E’ tutto inutile. L’ha detto anche il ngenpín: sarà la natura a decidere. E’ troppo piccola per sopravvivere: sarebbe impossibile anche se ci fosse una donna disposta ad allattarla...”. Ma non poté finire perché Millaray la interruppe bruscamente, quasi gridandole: “non è vero! non è vero! Sei tu che non la vuoi. Tu la odi, ma lei non ne può niente. Non è colpa sua se sua madre è morta, non è colpa sua se è figlia del Thrauco. Lasciala stare. Tu la odi, ma io invece la farò vivere, io la farò vivere, gliel’ho promesso a mia sorella, io la farò vivere...” ed alzava la voce, man mano che parlava con sempre maggiore foga. La madre rimase in silenzio, sorpresa dalla rabbia di Millaray. I fratelli si scossero increduli per la mancanza di rispetto della bambina. Ed il padre si alzò bruscamente in piedi e si mise di fronte a Millaray: “ora basta! Non permetterti mai più di parlare in questo modo a tua madre. Mai più. Per nessuna ragione. Guai a te se ci riprovi. Il rispetto versi i genitori è il primo dovere di ogni huilliche ed è la più importante legge dell’admapu. E’ forse in questo modo che credi di farle da madre a questa bambina? Se vivrà, vivrà, e se no, morirà. Né io, né tu, né tua madre ci possiamo fare niente. Ciò che possiamo fare, l’abbiamo fatto. Tua madre è qui, bagnata fradicia per cercarle il latte, a questa bimba, e tu la insulti? Questo è quello che hai imparato? Questo è quello che vuoi insegnarle a questa bambina, ammesso che riesca a vivere? Se vuoi farle da madre, fallo. Ma allora sii donna e rispetta la tradizione. Sarai una buona madre per questa bambina se con il tuo esempio di tutti i giorni le insegnerai a vivere conformemente all’admapu, a rispettare gli anziani: allora sarai una buona madre. Ma se anche riuscissi a farti scendere il latte dal seno che noi hai e riuscissi a trasformare le patate in cibo per svezzarla, e la facessi diventare grande e grossa come nessun’altra bambina, ma incapace di comprendere le nostre usanze, di vivere nei rispetto della nostra tradizione, allora saresti una pessima madre, indegna di appartenere al nostro clan. Ti perdono, per questa volta, poiché capisco che sei sconvolta. Ma che non succeda mai più. Mai più!”. Era dura, la voce di Kallfukura. Ben conscio del proprio dovere di genitore non poteva permettere che la figlia rivolgesse simili parole alla propria madre: intollerabili se anche fossero giuste, tanto più inaccettabili in quanto profondamente ingiuste. Ma era il primo a dolersi della durezza del suo rimprovero. Non solo perché il comportamento di Millaray aveva la sua ragione d’essere nell’affetto della bambina verso la propria sorella, ma anche perché l’impegno dimostrata dalla quepuche, prima per aiutare la sorella nel parto, poi per salvare comunque quella pichiche domo che non aveva come salvarsi lo commuoveva. Era sempre stata una bambina molto difficile, Millaray: ombrosa, introversa, ribelle. Non compartiva neppure i giochi, con gli altri bambini della sua età. Però era anche molto attiva. Non c’era mai stata la necessità di sollecitarla perché desse una mano. Al contrario. Pur così giovane, assumeva spontaneamente tutti quegli impegni domestici consoni alla sua età, e forse anche qualcosa di più. Chiusa, ma piuttosto matura. Ed ora manifestava quest’improvvisa carica di sentimenti che in qualche modo venivano fuori. Anche per quello, la rimproverò duramente. Temeva questo affezionarsi ad un esserino che non aveva possibilità di sopravvivere: sarebbe stato un altro dolore, per Millaray, già disperata per la morte della sorella alla quale si era sempre dimostrata così attaccata e nella quale aveva voluto trovare una vera e propria madre. Millaray tremava per l’ira del padre. Rimase a testa china, vergognosa per il suo comportamento: sebbene la sua vita avesse compiuto solamente otto estati, tuttavia

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comprendeva bene quanto fossero state gravi e ingiuste le sue parole e quanto meritato fosse il rimprovero del padre. Eppure sentiva di doverla difendere in ogni modo, quella bambina, a qualunque costo, anche se per farlo avesse dovuto trasgredire l’admapu. “Sei sconvolta e ti capisco - le disse ora la madre - sei stata eccezionale con tua sorella: nessun adulto avrebbe saputo fare meglio di te quello che hai fatto. Tuo padre ha ragione, ma so anche che non pensi ciò che hai detto. Adesso riposa, che sei sfinita”. “Perdona, mamma, non volevo dirti quello che ti ho detto. Ma io non voglio che muoia... non voglio”. Vi fu una esitazione, poi proseguì con voce incerta: “ma ora posso prepararle ancora qualcosa alla bambina? Non sono stanca, mamma, veramente, non riuscirei neppure a riposare, ora...”. “Ma cosa vuoi prepararle, figlia mia? non puoi fare nulla...”. “Voglio ancora masticare una patata fino a scioglierla bene con la mia saliva e poi diluirla con un poco di acqua... prima ho fatto così, ed è servito...”. La madre le fece un cenno di assenso e sospirò. Non voleva dirle quanto fosse inutile il suo tentativo: lo avrebbe compreso da sola sin troppo presto. Quindi raggiunse il marito che si era allontanato, sedette accanto a lui e cominciarono a parlare del funerale della figlia. Intanto il fuoco non alimentato si stava spegnendo e quando l’uomo e la donna cessarono di parlare, la ruka piombò in un profondo silenzio, accentuato dall’incessante cadere della neve che soffocava ogni rumore esterno. Solo ogni tanto giungeva il rumore ovattato della neve che cadeva dai rami degli alberi. * * *

Tutti dormivano nell’innevata isola di Quinchao. Ma non dormivano i wekufe, perchè i demoni non dormono mai. Di giorno fanno le loro malvagità. Di notte, suggeriscono i sogni che poi generano altre malvagità. Sognavano, dunque, tre giovani di Putique che non erano stati presenti quando il ngenpín aveva parlato e aveva maledetto colui che avesse attentato alla vita della pichiche domo. Sognavano proprio la pallida bambina con la pelle del colore della luna, di cui tutti avevano parlato il giorno precedente. E nel sogno, parve loro che la bimbetta stessa fosse il feto di un wekufe. Certamente: come negarlo, se era figlia del Thrauco? No. Quell’essere mostruoso e deforme - perché non l’avevano vista, è vero, ma certamente doveva essere deforme come un invunche - doveva morire, altrimenti avrebbe portato sventura a tutte le case dell’isola. La carestia: quello sarebbe stato il castigo per il clan se avesse tollerato che quell’essere immondo vivesse. Se gli altri non osavano, ci avrebbero pensato loro a porre fine a questa vicenda. Ma anche i pillán vegliano durante la notte. Ed anche loro ispirano i sogni. Quelli dei ngenpín, per esempio. E fu così che quella stessa notte il grande ngenpín sognò che tre giovani volevano uccidere quel bellissimo esserino protetto da Küyén, nonostante le parole che lui aveva pronunciato. Si svegliò, dunque, il ngenpín con il sogno fisso nella sua memoria. Aveva sognato tutto come se quello che ancora doveva avvenire fosse invece già avvenuto, lì, proprio davanti ai suoi occhi. Aveva visto, nel suo sogno, chi erano i tre ragazzi intenzionati ad uccidere il fiorellino bianco. Ma lui sapeva come fermarli, e lo avrebbe fatto in modo tale da dare un messaggio all’intero clan. Ecco, sì: quei tre giovani avrebbero giovato alla protetta di Küyén e sarebbero risultati utili ai suoi disegni, che nessun essere umano poteva conoscere e, forse, neppure comprendere. L’alba del giorno seguente portò il gelo ma anche il bel tempo. La nevicata era stata abbondante, ma era cessata. Si era formata una crosta gelata che copriva i fiocchi compatti e duri, sostenendo il piede nudo dei rari viandanti. Scarseggiava spesso il cibo, nell’isola, ma sempre abbondava la legna: perciò tutte le capanne erano ben riscaldate ed il fumo dei focolari rimasti accesi per tutta la notte filtrava tra le canne dei muri. Alcuni

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uomini erano intenti a far scivolare la neve giù dai tetti, prima che il suo peso li sfondasse e che, sciogliendosi, filtrasse all’interno. Ma era thor-küyén, il primo mese dell’anno, il più freddo, ma anche quello in cui c’erano ben pochi compiti da svolgere, tranne quando le maree più pronunciate lasciando scoperti ampi tratti di spiaggia fornivano improvvisi e graditi doni. I più, durante quel periodo, passavano gran parte del tempo nelle tiepide ruka, almeno quando non giungeva il gelido vento del sud che portava sì il tempo bello, ma che si insinuava tra le canne delle leggere pareti e obbligava tutti ad avvolgersi nelle calde pellicce di guanaco anche all’interno delle capanne. S’incontrarono, i tre giovani, quella mattina. Fu un incontro casuale, ma durante il quale si raccontarono i reciproci sogni. La coincidenza di questi li convinsero di essere nel giusto. Non potevano essere che gli spiriti ad aver inviato loro uno stesso sogno. Era un messaggio: più esattamente, era un invito a compiere senza indugio ciò che dovevano compiere. Si misero dunque d’accordo. Sarebbe stato nelle prime ore del pomeriggio, quando facesse meno freddo e la crosta ghiacciata sulla neve si fosse un poco ammorbidita, che ora si rompeva sotto il peso dei loro piedi nudi ferendoli con i suoi spigoli taglienti. Si ritrovarono dopo il pasto della giornata e s’incamminarono in direzione di Chequián, percorrendo veloci quel noto sentiero che si era formato a furia di essere percorso. Giunsero rapidamente nei pressi della ruka dove doveva compiersi il destino della figlia del Thrauco e, per far prima, si introdussero tra gli alberi della fitta boscaglia. Erano vicinissimi e lontano, la Cordigliera delle Ande faceva loro da riferimento, almeno quando riuscivano a scorgerla attraverso gli alberi in una improvvisa radura. Camminarono. Tuttavia non giunsero subito alla ruka. Non compresero come, ma dopo aver camminato inutilmente a lungo, si ritrovarono nella stessa radura, prossima al punto in cui avevano abbandonato il sentiero e da dove avevano scorto l’innevata catena di montagne. “Com’è possibile che ci siamo sbagliati? E’ solo lì, davanti a noi, pochi alberi ci separano dalla capanna. Su andiamo!” e si affrettarono a riprendere la loro strada. Camminarono nuovamente e a lungo. Non si spiegavano come fosse possibile dimorare così tanto per fare un tratto così breve. Eppure il luogo era conosciuto e la Cordigliera, quando la scorgevano, rassicurava loro che la direzione era quella giusta. Ma anche le ombre degli alberi servivano ad orientarli: non c’era modo di perdersi neanche a volerlo. Eppure il giorno già volgeva al suo termine quando si ritrovarono, ancora una volta, nella medesima radura dalla quale erano partiti. Per la seconda volta, dunque, avevano percorso un lungo giro intorno alla ruka senza tuttavia dare con essa. Si guardarono l’un l’altro perplessi. Ma era veramente la stessa radura dalla quale erano partiti? Sì, certamente: le stesse impronte lasciate dai loro piedi nudi sulla neve lo dimostrava. “Qualche wekufe ci sta ingannando” disse uno dei tre, e gli altri due annuirono. “Sbrighiamoci, che tra un po’ si farà buio”. E ripresero il loro cammino. Ormai la notte avanzava e sulla neve nuovamente si formava una dura crosta di ghiaccio che, spezzandosi sotto il loro peso, faceva sanguinare i loro piedi, resi bluastri e insensibili dal gelo. Camminavano veloci, che ormai la neve li sosteneva bene. Küyén splendeva nel cielo sereno, circondata dalle luci di mille spiriti degli antenati, e rischiarava i loro passi, ma anche creava un velo di pallida luce sulla lontana Cordigliera, sicché permetteva loro di orientarsi. Ma quella pallida luce fece loro vedere le loro stesse impronte: ancora una volta si ritrovavano nella radura dalla quale si erano incamminati. Ma ora era notte fonda. * * *

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Ma nella ruka nessuno dormiva. Un loro parente, la cui capanna sulla spiaggia non distava molto dalla loro, era lì e invitava il padre e i suoi due figlioli a sbrigarsi. Un grosso tricheco aveva assalito una dalka e l’aveva capovolta. Delle tre persone che c’erano sopra, una era giunta a nuoto fin sulla spiaggia e aveva dato l’allarme: ma delle altre due persone non c’era traccia, né si poteva sperare che potessero resistere a lungo nell’acqua gelata. I tre uomini si avvolsero una calda pelle di guanaco sopra la loro veste tessuta al telaio e si affrettarono dietro al vicino, verso la spiaggia, sperando di poter soccorrere i due sventurati. Le due donne rimasero sole. Allora Millaray riprese a dare quella acquosa poltiglia di patate e saliva alla neonata affamata, che si era rimessa a piangere mentre sua madre si stupiva che quell’assurda bevanda potesse servire a placare la fame della neonata. La capanna era rischiarata dalla fumosa fiamma che danzava sulla punta sfilacciata di un ramo, impregnata di resina. Fuori, invece, vi era la luce della luna piena a rischiarare i passi dei quattro uomini che ben presto giunsero alla spiaggia. * * *

I tre ragazzi, intanto, per la quarta volta s’incamminarono alla volta della ruka, decisi più che mai a portare a compimento il loro violento proposito. E questa volta ci riuscirono. Ecco che la capanna fu immediatamente davanti a loro: era a pochi passa dalla radura e non potevano comprendere come fosse stato possibile perdersi in così poca strada. Comunque ora erano giunti e avrebbero fatto ciò per cui si erano incamminati. Entrarono improvvisamente nella capanna. Il focolare era spento, come era giusti in attesa del funerale, ma il ramo acceso rischiarava l’ambiente. Sul suo giaciglio era steso il cadavere della fanciulla. Seduta al suo lato, la madre lo vegliava. In un angolo riparato, una bambina porgeva qualcosa ad un esserino deposto su una pelliccia di guanaco. Doveva essere sicuramente quella la mostruosa creatura del Thrauco. Com’era possibile che anziché abbandonarla sulla spiaggia o far sgorgare il sangue dalla sua gola, qualcuno l’accudisse? Millaray lanciò un grido di paura e la madre si alzò prontamente in piedi. Riconobbero i tre giovani e non comprese cosa volessero e come potessero entrare non invitati nella loro ruka, e in piena notte. I ragazzi, dal canto loro, volevano solamente non perdere tempo e uccidere subito quel mostro che giaceva accanto alla bambina e che, nonostante il trambusto, era rimasto silenzioso. Uno aveva in mano una lama di ossidiana. Le due donne compresero le intenzioni dei tre ragazzi. “No, non fatelo!” gridò la madre. Millaray si tirò col suo corpo sulla neonata, per impedire loro di prenderla. “Lascia stare quel mostro. Dobbiamo ucciderlo. Altrimenti gli spiriti ci castigheranno, non lo capisci?” disse il giovane con il coltello in mano alla bambina. “Togliti di lì”, insistette il secondo, afferrando la bambina da un braccio. Ma Millaray gli rispose piantando i suoi denti nella sua mano con tutta la sua forza. Anche la madre era intervenuta, scagliandosi contro quello che stringeva la lama nella sua mano destra, facendogliela cadere al suolo. Ne nacque una mischia furibonda. I tre giovani non volevano fare male alle due donne, ma queste non intendevano permettere ai ragazzi di uccidere la pichiche domo. “Ma non capisci che dobbiamo farlo? Avreste già dovuto farlo voi” gridò uno dei tre alla donna, la quale per tutta risposta gli spense il ramo infuocato sulla faccia. Il ragazzo gridò per il dolore, ma afferrò saldamente la donna e la immobilizzò. La ruka piombò in una profonda oscurità che i scarsi raggi lunari che filtravano attraverso l’ingresso rimasto aperto non riuscivano ad interrompere. Il secondo giovane, frattanto, cercava in qualche modo di tenere ferma Millaray che mordeva e graffiava e scalciava, continuando a coprire la neonata con il suo corpo e impedendo che la sollevassero da terra. Il terzo, al

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buio, cercava la lama di ossidiana che era caduta al suolo e finalmente la trovò. Intanto quello che cercava di tenere ferma Millaray e di farla voltare, picchiò duramente la bambina con violenti pugni: sul volto, sulle braccia, sulla pancia, ovunque cadessero. Ma la ragazzina non cedeva e continuava a impedire che potessero raggiungere la sua creaturina. Ma non fu difficile, con la violenza delle botte, aver ragione dei pochi anni della bambina e riuscì presto ad afferrare la neonata per una gambetta. “No! No! No!” gridava Millaray al buio sentendo che il corpo che voleva proteggere scivolava via da sotto il suo. Ma era inutile. Il ragazzo sollevò la creaturina, sempre tenendola per una gamba, e la porse al compagno che appena intravedeva nel buio. La neonata strillava, a testa in giù, offrendo il suo minuscolo collo alla lama di ossidiana che si avvicinava. Ma nel buio della capanna, apparve una debole luce: era il corpicino della pallida pichiche domo che splendeva di un debole pallore, uguale al colore della sacra Küyén. Tutti videro il prodigio. Rimasero attoniti, nel più assoluto silenzio. Solo gli strilli della neonata rimbombavano nella capanna, amplificati dalla neve che copriva il suo tetto di fieno. I tre ragazzi furono colti dal terrore: “è lo spirito di Küyén! è lo spirito di Küyén!” gridò quello che la teneva afferrata dalla minuscola un gambetta, lasciandola andare. Ma Millaray fu pronta ad afferrarla tra le sue braccia e a stringerla stretta contro il suo corpo, pronta a riprendere la lotta, anche a farsi ammazzare, piuttosto che a permettere loro di uccidere la bimbetta. Ma il terrore si era impadronito dei tre ragazzi. Solo volevano fuggire, ora, e dopo aver guadagnato l’apertura della ruka si misero a correre sulla neve, resi folli dalla paura. Millaray gridava e piangeva. Sua madre corse accanto a lei e l’abbracciò unendo le sue lacrime alle sue. Poi, passato il momento di panico e comprendendo che ormai i tre ragazzi non sarebbero più tornati, le due donne furono colte da una risata isterica e irrefrenabile, restando abbracciate al buio, mentre la minuscola creatura si calmava ed il suo cuoricino batteva veloce, per la prima volta all’unisono con quello di Millaray. Si riscossero, infine, quando la neonata cominciò a strillare per la fame. La madre preparò un’esca con paglia ben secca e sfregò le due preziose pietre focaie, sino ad accenderla. Quindi approfittò di quella breve fiammella per riaccendere la torcia e rischiarare l’ambiente della ruka. Millaray, intanto, esaminava con cura la pichiche domo: non sembrava aver riportato danni. Infatti era solo la fame che la faceva strillare con una forza sproporzionata all’esilità del suo corpicino. La bambina sollevò la neonata con le sue braccia e si rivolse al corpo rigido della sorella. “Sorella mia - le disse mentre le lacrime nuovamente rigavano il suo volto - lo vedi anche tu che sono di parola. Non permetterò che succeda nulla, a questo fiore che tu mi hai affidato. Dormi tranquilla. Inizia il tuo lungo percorso nel wenumapu perché avrai anche tu la tua discendenza. Te lo giuro, sorella mia”. La madre ascoltava in silenzio. Poi si avvicinò con la torcia e volle anch’essa assicurarsi che la neonata, i cui strilli non cessavano, stesse bene. Passò la sua mano, certamente più esperta di quella della quepuche, sulle braccine e sulle minuscole gambette, esplorando ogni osso ed ogni articolazione. Osservò il frammento di cordone ombelicale che pendeva dal suo pancino e che Millaray aveva troncato con i suoi stessi denti. Ma tutto sembrava in ordine. Gli strilli disperati erano dovuti solamente alla fame che attanagliava la creaturina. Provò a prenderla tra le sue braccia. Era dibattuta tra sentimenti opposti, inconciliabili. Da un lato la ripugnanza per una creatura che, per quanto bellissima, era comunque figlia di un odioso essere, più simile a un wekufe che al discendente della stirpe di Peripillán. Eppure nella bellezza del fiorellino, come lo chiamava Millaray, non c’era nulla di demoniaco. Ma neppure non vi era traccia dei lineamenti di quella sua

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madre che pure l’aveva tenuta in grembo per più di otto lune e che era morta partorendola. Eppure era sua nipote. Doveva accettarla, non poteva rifiutarla. “Io ho amato tantissimo questa mia figlia che ora è distesa qui, sul suo giaciglio, freddo cadavere - pensava e intanto le lacrime scendevano copiose sulle sue guance - l’ho ingiustamente preferita a Millaray... non è giusto, ma non posso farci nulla... ma ora sono qui che dubito che l’amore di Millaray per sua sorella sia ben più grande del mio amore di madre, se io non sono capace di accettare questa creaturina che se riuscisse in qualche modo a sopravvivere forse un giorno potrebbe dare una discendenza a mia figlia... potrebbe impedire che la sua anima muoia perché il suo corpo non ha lasciato una stirpe...”. Le due donne, la madre e la quepuche, rimasero l’una vicina all’altra, accanto al cadavere di colei che era loro figlia e sorella, finalmente unite da un pianto liberatore, mentre la pichiche domo strillava per una fame incontenibile. * * *

Tornò il padre. Era solo e portava una cesta di vimini piena di carne. “Sono rimasti ad aiutare - disse riferendosi ai figli - li abbiamo salvati, quei due. Erano sugli scogli e stavano morendo dal freddo. Poi abbiamo trovato il tricheco: era una femmina gravida. Probabilmente stava raggiungendo la spiaggia per partorire, è stata disturbata e per questo ha assalito la dalka, rovesciandola, ma è morta per le ferite subite e poi si è arenata sulla spiaggia. L’abbiamo già macellata...”. E si interruppe vedendo il gran disordine che c’era nella ruka e i lividi sul corpo della sua figliola. “Ma cosa è successo, qui?”. A mano a mano che la donna raccontava gli eventi, l’uomo sentiva crescere dentro di sé la rabbia per quei tre ragazzi che non solo avevano osato violare l’intimità della sua ruka e aggredire la sua bambina, ma avevano voluto infrangere il comando del ngenpín. Ma sentiva anche crescere l’orgoglio per come la sua quepuche, ancora così piccola, si fosse battuta per difendere la nipotina. “Non la passeranno liscia. Non finirà così. No di certo!” continuava a ripetere interrompendo ad ogni momento il racconto della moglie. Ma anche si rivolgeva a Millaray sorridendole e ripetendole più volte “brava, Millaray” contento di avere l’occasione per riequilibrare il duro rimprovero che prima aveva dovuto muoverle. Ma Millaray non gli prestava attenzione e lo interruppe: “Papà: hai detto che era una femmina di tricheco... che era gravida... ma allora ha del latte!”. “Figliola mia: se anche ci fosse già del latte nelle sue tette, esso non può servire per un essere umano”. “Ma se non troviamo nient’altro? Almeno dobbiamo provarci. Lasciami provare, ti prego. Ti chiedo scusa per aver offeso la mamma, non volevo. Ti prometto: non lo farò più. Mai più. Ma ora lasciami, ti prego, lasciami andare a prendere le tette della tricheca. Forse servono. Lasciami provare, ti prego”. “Va, dunque. I tuoi fratelli sono ancora in spiaggia. Vicino agli scogli della punta, sotto la grotta sacra. Ci sono altre persone e poi ci sono molte torce accese”. Ma si accorse che ormai stava albeggiando. “Beh, ora le avranno spente” aggiunse, ma Millaray non aveva fatto a tempo a sentirlo perché stava correndo già verso la spiaggia, scivolando sulla neve gelata. “Se qualcuno può far vivere questa creatura - disse ancora il padre rivolgendosi alla moglie - è proprio Millaray. Che volontà forte che ha quella bambina. Ha il carattere di un uomo”. * * *

Il ngenpín entrò bruscamente. Era affaticato, doveva aver corso a lungo. “Come sta la pichiche domo? - chiese affannosamente - cos’è successo qui stanotte?”. “Ti hanno già

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detto dell’aggressione che abbiamo subito?” gli rispose il padre. “Nessuno mi ha detto nulla. Ma ho sognato quanto è avvenuto. So chi sono quei tre ragazzi. Tu non fare nulla. Ci penso io. Loro non lo sanno, ma hanno compiuto la volontà degli spiriti. Quello che sembra male, talvolta è bene” e così dicendo aveva preso nelle sue braccia la pallidissima neonata che continuava a piangere disperatamente. “Splendeva come la luna piena” aggiunse la madre. “Come la luna piena... è proprio così che l’ho vista nel mio sogno. Ma tu non parlarne con nessuno. Nessuno ha da saperne”. E intanto esaminava con ogni cura la bimbetta. Piegava i suoi arti, osservava i suoi riflessi lasciandola cadere e prendendola al volo, premeva la sua carne per vederne l’elasticità. “Che Chaw Mehuein la protegga! ma com’è piccola... eppure sta bene, se solo trovaste come alimentarla”. “Ho chiesto a Ayelén, ma non vuole. Ha paura. E anche le altre donne: hanno tutte paura. Forse tu potresti...”. “No - rispose il ngenpín - non puoi forzare una donna se ha paura: le faresti solo perdere il suo latte”. Poi aggiunse: “dov’è Millaray?”. Il padre spiegò al ngenpín quali fossero le intenzioni della figlia. Questi approvò. “Non credo che possa servire, ma tanto vale provare. E’ molto brava questa tua quepuche. Se questa creaturina ce la farà, dovrà la sua vita ad una zia che è ancora una bambina” aggiunse ancora. Poi, rivolgendosi alla madre, le disse: “tu non devi rifiutarla, questa piccina. Non è il wekufe, ma è un fiore, come ha detto Millaray, e i fiori sono preziosi perché sono stati generati dalla prima donna ed essi stessi generano la vita”. Quindi comandò che facessero senza indugio il funerale della figlia morta e che si preparassero a scegliere un nome per la neonata: se ce la faceva a sopravvivere. Poi si allontanò, andando alla ricerca del lonko. Allora anche il padre uscì per raggiungere il lonko e prendere i necessari accordi per il funerale. Nella capanna rimase solo Trayllanka a vegliare il cadavere della figlia, tenendo tra le sue braccia la neonata e tentando inutilmente di frenare il suo famelico pianto. * * *

Rimasta sola davanti al corpo di sua figlia, finalmente sola!, la donna avrebbe voluto parlarle. “Figlia mia...” iniziò a mormorare, ma s’interruppe. Si rese conto, infatti, che non stava pensando alla figlia morta, ma a Millaray. Scosse via il pensiero con un senso di fastidio e riprese a mormorare: “figlia mia...”. Ma il pensiero della quepuche non voleva saperne di allontanarsi dalla sua mente, più forte anche degli strilli dell’esserino che cullava tra le sue braccia. Lei voleva bene, alla sua figlia minore. Non come aveva amata la maggiore, e si sentiva colpevole di questa differenza. Ma erano così diverse, le due sorelle. Non solo per la differenza di anni che intercorreva tra loro, ma perché erano differenti il loro modo di pensare, di vivere, di rapportarsi con gli altri. Tanto era allegra ed espansiva la maggiore, quanto era introversa e scontrosa la minore. La ricordò piccina, la sua quepuche. Eppure già allora sembrava non gradire l’affetto della madre: rifuggiva le carezze quasi fosse un maschio. Non era ribelle, questo no, al contrario: era docile, servizievole, molto matura per la sua età: troppo matura, le venne di pensare, a volte pareva essere una vecchietta in miniatura. Fu sempre così poco bambina, Millaray... mai che giocasse con gli altri bambini: voleva stare con gli adulti e dovevano spesso allontanarla con le cattive quando non bastava un invito. Nessuno legava con quella bambina taciturna e solitaria che quando non aveva qualcosa da fare si sedeva sugli scogli, in silenzio, a scrutare attenta il mare e i lontani vulcani della grande catena montagnosa, con i loro improvvisi boati, i pennacchi di fumo e, talvolta, le fiamme che formavano lunghe colonne rosseggiante che scendevano verso il mare. Lei voleva bene a Millaray. Moltissimo: era sua figlia. Ma per quanto si sforzasse non riusciva a capirla, non la sentiva sua, al contrario di quanto avveniva con la maggiore. Il

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loro rapporto fu sempre un po’ freddo, distaccato, spesso quasi formale. Non legavano, non avevano mai legato, e lei, la madre, non ci poteva fare nulla, se era così. Tranne sentirsi in colpa. Ma la quepuche riversava tutto il suo affetto sulla sorella maggiore: e questa stava volentieri con lei, spesso le faceva da mamma. Erano così diverse, eppure così unite le due sorelle. Ricordò quando nacque Millaray. “Era proprio il giorno immediatamente successivo alla notte di We Tripantü - ricordò in quel momento con sorpresa - Millaray e questa bambina sono nate lo stesso giorno! Che inverno tremendo che fu quello!”. Sì, perché era stato, quello, un inverno veramente molto difficile. E non solo l’inverno. Anche l’estate non era stata da meno: pioggia, pioggia, pioggia. Erano marciti i fagioli nella loro buccia, prima ancora di essere abbastanza maturi per essere colti. Un wekufe aveva annerito le patate, che erano immangiabili e non servivano neppure per essere affumicate. I temporali avevano spazzato via i sargassi dalle spiagge, così anche quell’alimento era venuto a meno. Ricordava i tre figli: il maggiore quasi un ragazzo, poi la figlia che aveva l’età che ora ha Millaray, e il minore ancora piccino che si lamentava per la fame. I due maggiori non si lamentavano, capivano: ma come erano diventati magri! Quanto timore di vederli morire, i suoi figli, durante quell’inverno voluto dal demonio. E invece arrivò un’altra bocca, a succhiare il latte che il suo seno non dava. “Quanta fame deve aver passato anche Millaray, quell’anno” borbottò. Eppure passò, ce la fecero tutti e quattro. Ma ricordava bene quanti funerali ci furono sotto la neve, quell’inverno tremendo. Chissà. Forse Millaray è così perché ha avuto troppa fame, perché è nata nel momento sbagliato. “O forse è così perché questo è il suo destino e noi non ci possiamo fare niente...” concluse borbottando ancora. * * *

Millaray, frattanto, ignara dei pensieri della madre (e forse anche indifferente) aveva solo una cosa in mente: trovare del latte per il suo fiorellino. Come la videro, graffiata e piena di lividi, i fratelli interruppero la loro macellazione e vollero sapere cosa fosse successo. Ma Millaray non aveva tempo per dare spiegazioni e non volle rispondere alle loro domande. Chiese loro dove fossero le poppe della tricheca, perché in quell’ammasso informe di carne non riusciva a distinguere più nessun organo dell’animale. Le dissero che le aveva prese Lincoyán e il minor dei due fratelli l’accompagnò alla sua ricerca. Ci volle del tempo, perché Lincoyán viveva abbastanza distante. Millaray chiese le tette della tricheca: “mi serve il latte” aggiunse a mo’ di spiegazione. Tutti sapevano dell’esserino che era nato due giorni prima, ma la richiesta non aveva senso. “Ma non puoi darle il latte della tricheca, Millaray: e poi, guarda tu stessa, è carne impregnata di latte, non è latte come credi tu” disse Lincoyán mostrandole ciò che aveva in un cestino sporco di sangue e maleodorante. “Dammele ugualmente” insistette Millaray con l’ansia negli occhi e l’uomo non ebbe animo di negargliele. “Aspetta. Non correre via subito. Scaldati un poco al fuoco” la invitò Lincoyán vedendo i suoi piedi anneriti dal freddo e feriti dal ghiaccio. Ma Millaray neppure rispose: prese il suo cestino e corse via nella neve. Una pazza gara con il trascorrere del tempo per giungere il più presto possibile alla sua ruka. Era ancora lontana che già sentiva gli strilli della neonata. Ora il cielo si era rannuvolato. Non faceva più così tanto freddo e la neve, ora rammollita, cedeva sotto il suo passo rallentandone i passi. Era infradiciata. Sia perché per abbreviare il cammino ed affrettarsi a tornare a casa si era infilata nel sottobosco, tra i rami carichi di neve, sia perché nella sua fretta si era allontanata da casa con la sola tunica di lana tessuta, senza avvolgersi in una pelliccia.

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Entrò e corse a vedere il suo fiorellino, contenta di vederlo tra le braccia della madre, ma anche gelosa che non fosse tra le sue. Lo prese tentò di calmarlo dandole il suo stesso dito bagnato di saliva. La boccuccia si mise a succhiare affannosamente e gli strilli s’interruppero: ma fu solo per un istante. Subito la neonata respinse il dito sterile e ricominciò a piangere più forte di prima. Allora Millaray la depose sulla pelliccia di guanaco che già le aveva fatto da culla e rivolse la sua attenzione verso il suo cestino sporco di sangue. Il padre, frattanto, senza dire una parola si era messo ad accendere il focolare. “Perché lo fai - chiese la madre - con il corpo di nostra figlia ancora qui?”. “Perché se quest’altra figlia folle che abbiamo non si scalda un poco e non si asciuga, di funerali ne dovremo fare due, anziché uno” le rispose. Mentre Millaray tentava di spremere le grosse e pesanti tette della tricheca per fare uscire una sostanza burrosa mescolata al sangue, la madre le aveva sfilato la tunica e asciugava con una pelle morbida il suo corpo, attenta a non farle male passando sopra i lividi che testimoniavano le crudeli botte ricevute. Intanto Millaray aveva raccolto una noce di burro rossastro in uno scodellino di legno e, indifferente al freddo, corse fuori a raccogliere un poco di acqua fresca che gocciolava dal tetto della capanna: la neve residua ormai si stava sciogliendo. Quindi diluì quella sorta di burro sanguinante fino ad avere quella che le pareva essere la consistenza del latte. Prese un sorso in bocca per intiepidirlo, poi raccolse la neonata tra le sue braccia e, appoggiando la sua bocca a quella del suo fiorellino, le diede a poco a poco il latte della tricheca. Sembrava un uccello quando imbecca i suoi piccoli. La piccolina si mise a succhiare avidamente, sino a terminare il sorso che Millaray aveva nella sua bocca. Poi la scena si ripeté una volta, ed una volta ancora, sino a quando la pichiche domo sembrò sazia e si addormentò nelle braccia di Millaray. Il padre l’osservava ammirato, senza dire nulla, pensando che forse avevano sottovalutato questa loro figlia taciturna. La madre le infilò sul corpo una tunica asciutta e vedendo la scena per la prima volta credette che forse quella creaturina non sarebbe morta. “Se così fosse, mia figlia potrebbe avere una sua discendenza” pensò, ma ebbe paura del suo proprio pensiero, di nutrire una speranza assurda. Mentre la piccina dormiva, Millaray tornò a dedicarsi alle due informi tette macellate del tricheco. Il tessuto poroso sembrava pieno di una sostanza burrosa dall’odore ripugnante, ma schiacciando quell’impiastro carnoso uscivano pezzi di tessuto cartilaginoso, mescolati con grassa, quello spesso latte e sangue. “Come posso fare?” domandò alla madre. Era perplessa. Non voleva rispondere alla figlia che sarebbe stato un lavoro inutile, un po’ per non deluderla, ma anche perché la vista della minuscola bambina, che ora pareva sazia e addormentata, le faceva sperare che forse sarebbero riuscite a crescerla, anche ricorrendo a quell’incredibile latte. Poi, ma probabilmente era solo una leggenda, si raccontava che a volte le donne chono avessero alimentato i loro bambini anche con latte di tricheca. Ma i chono erano dei selvaggi. Comunque valeva la pena tentare, almeno fino a quando non apparisse un’altra soluzione. La madre si fece dare da Millaray il suo cestino e versò il suo contenuto in un recipiente di cuoio, ormai reso durissimo dalle tante volte che era stato esposto al fuoco. Mise una abbondante quantità di neve, mescolò il tutto e lo infilò nella brace del focolare, dove questa era meno incandescente. Poi aggiunse alcuni pezzi di legna e ravvivò il fuoco. Ormai era quasi notte: la gelida ma serena giornata si era rannuvolata ed ora cominciava a scendere una pioggerellina fitta fitta. Sicuramente non sarebbe più giunta nessuna visita e quindi non si sarebbe risaputo che avevano tenuto il fuoco acceso nonostante la presenza del cadavere della figlia.

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Ritornarono anche i due figlioli. Portavano dell’altra carne di tricheco, tagliata in lunghe strisce sottili. Anche il padre aveva tagliato nello stesso modo la sua parte. I due ragazzi si stupirono vedendo il fuoco acceso, ma non fecero domande, né il padre diede loro alcuna spiegazione. In silenzio, si dedicarono ad appendere le strisce di carne sull’intelaiatura posta sopra il focolare, arricciando il naso per l’odore nauseabondo che proveniva dalla pentola di cuoio posta nella cenere. Lingue di fumo odorose di resina avvolsero le strisce di carne, trascinando seco anche il cattivo odore. La madre incaricò Millaray di girare di quando in quando il contenuto della pentola nella cenere. Quindi raccolse un poco di neve fradicia di pioggia all’ingresso della ruka, ne riempì una grossa ciotola di legno e vi mise dentro alcuni pezzi di duro sargasso affumicato. Da un’altra ciotola, tolse delle cozze secche ormai ammorbidite e le appoggiò su un vassoio di vimini. Poi l’intera famiglia sedette sulle pietre del focolare e consumò il modesto pasto freddo. Intanto Millaray teneva d’occhio la piccina, che continuava a dormire, e si occupava del suo recipiente. Quando la madre glielo suggerì, con un mestolo di legno cominciò a togliere la densa schiuma di latte ed acqua che si formava sulla superficie e la versò in un altro recipiente. Poi a mano a mano che si riformava, continuava a travasare il liquido nell’altro recipiente. Ormai era notte. Ora il rumore della pioggia era ben distinto: la residua neve sul tetto della capanna doveva essersi del tutto sciolta. I tre uomini distesero sul pavimento di terra battuta le pelli di tricheco che isolavano dall’umidità i loro giacigli di morbida e folta pelliccia e si prepararono per la notte. “Vai a dormire, Millaray” le disse sua madre. “Ma non ho ancora terminato!” rispose la ragazzina. “Non importa: tu va a dormire, ora. Finisco io”. Ma in quel frangente la piccina si svegliò, ancora affamata. Senza dare tempo alla madre di intervenire, Millaray la prese nelle sue braccia. Poi si mise in bocca un sorso di quel latte ripugnante e nuovamente imboccò la bambina con la sua stessa bocca. Trascorse in questo modo un buon tempo. Poi la piccina si riaddormentò. Intanto la madre aveva lasciato spegnere il fuoco. Uscì dalla ruka con i due recipienti. Il residuo della pentola di cuoio fu buttato via, mentre il recipiente con la miscela di acqua e latte venne coperto e lasciato nella fanghiglia nevosa a raffreddare. Poi tornò dentro. Millaray stava mostrando la piccina addormentata alla sorella morta. La madre guardò angosciata la scena, ma Millaray sorrideva gentile alla sorella, anche se le parve che i suoi occhi fossero nuovamente velati dalle lacrime. Ma la luce del fuoco morente era molto fioca: forse si confondeva. Guardò ancora il viso della figlia morta. Sorrideva. Di questo ne era certa, anche se ci si vedeva appena appena. Quindi le due donne si distesero nei loro giacigli, una accanto all’altra, e Millaray stringeva a sé la piccinina, che ancora una volta aveva posto sotto la propria tunica, appoggiata direttamente sul suo nudo petto. Si sentiva solamente il triste rumore della pioggia sul tetto. * * *

Durante la notte il vento del nord - meno freddo di quello meridionale, ma carico di acqua - si era imposto: neve e pioggia si erano alternate durante tutta l’oscurità. Poi il tempo volse in una spessa pioggia. Quando venne il chiarore dell’alba, il terreno era ricoperta di una spessa poltiglia nevosa, ma i rami degli alberi erano sgombri di neve. Faceva freddo, quel freddo umido che entra nelle ossa e non ti abbandona. Essendo la stagione morta, non era necessario dedicare molto tempo per soddisfare le poche attività quotidiane necessarie e pertanto, anche se ormai era chiaro, l’intera famiglia rimaneva distesa sui propri giacigli, ognuno avvolto nelle calde e spesse pellicce di guanaco e di lama. Millaray dormiva profondamente, abbracciando la piccina contro il suo corpo. Era spossata. Per due volte la neonata si era svegliata piangendo per la fame e per due volte

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Millaray l’aveva alimentata riempiendo la sua bocca con il ripugnante latte di tricheca, diluito con abbondante acqua, ed imboccandola sino a quando era sazia. Non aveva voluto l’aiuto della madre, che pure si era offerta, la quale era grata del rifiuto della ragazzina: non era certa di avere la forza necessaria per mettersi in bocca sorsate di quella bevanda dall’odore così cattiva, e ne provava vergogna. Sarebbero rimasti volentieri tutti nelle loro calde pellicce, ma furono svegliati da un saluto che proveniva dall’esterno della ruka: “mari-marí, pu peñi”. Qualcuno si rivolgeva loro con tono deferente, chiamandoli fratelli. La donna guardò interrogativa il marito: “io non aspetto nessuno” rispose questi alla muta domanda. Si alzò rabbrividendo. Guardò il corpo della figlia morta. “Almeno tu non avrai più né freddo né fame nel tuo nuovo percorso” pensò. Ma immediatamente scrollò mogiamente la testa: senza una discendenza, non ci sarebbe stato nessun percorso da compiere nel wenumapu. Si sarebbe avvolto volentieri nella pelliccia di guanaco, prima di uscire dalla ruka per andare incontro a chi aveva salutato, ma non era un comportamento da uomo mostrare di avere freddo. Perciò si limitò ad indossare un poncio di lana sopra la sua camiciola e sollevò la tenda di canne che chiudeva l’apertura della capanna. Attraverso il rettangolo di luce, vide tre ragazzi in attesa, completamente nudi: uno di loro conduceva una grossa femmina di lama con una cavezza. Uscì e si parò d’innanzi a loro. Subito i tre ragazzi nudi si buttarono sul terreno, prostrandosi completamente nella neve fradicia. L’uomo sentì ribollire l’ira, avendo ormai intuito chi fossero i tre ragazzi. “Perdonaci, peñi” disse quello che teneva la bestia con la cavezza. “Perdonaci, fratello” gli fecero eco i due ragazzi. Non bastavano certamente quelle parole per fare dimenticare all’uomo i numerosi lividi e le ferite che aveva visto sul corpo di Millaray. Ma un uomo non si lascia vincere dall’ira. Poi notò anche come il viso del ragazzo che teneva la cavezza fosse interamente graffiato: graffi cattivi e forti, che erano penetrati nella carne, quasi fossero stati fatti da un cucciolo di puma. Si sentì orgoglioso per il coraggio e per la forza dimostrata dalla sua bambina nel difendere quel pargoletto di cui si sentiva responsabile: non gli era mai successo di paragonare una figlia - di solamente otto anni e femmina per giunta! - ad un puma, ma la cosa non gli spiacque affatto. Vide anche che la guancia di un altro ragazzo era bruciata e si era riempita di grosse bolle che suppuravano. Non rispose nulla, si girò e rientrò nella sua ruka e chiuse la tenda di canne. “Sono quei tre - disse a bassa voce alla moglie e ai due figli seduti sui loro giacigli non dite nulla, non fate nessun rumore”. Si volse verso Millaray. Era l’unica a non essersi svegliata. Le sorrise: un sorriso appena accennato, ma in esso vi era un affetto enorme ed un orgoglio altrettanto vasto. “E’ strana, questa figlia, sarà anche difficile... ma che carattere forte, che ha, quanto coraggio” pensava, e non si riferiva solamente al modo in cui si era difesa lottando contro un uomo fatto, ma anche alla forza d’animo ed alla volontà quasi violenta con cui cercava contro tutto e contro tutti di far sopravvivere la figlia di sua sorella. E poi gli piaceva notare l’impegno di Millaray per adempiere ad ogni costo e senza riserva ad una promessa fatta al cadavere della sorella: “l’admapu ce l’ha nel sangue, questa figlia mia. Non dovrò mai vergognarmi di lei”. Passò un lungo lasso di tempo. Poi nuovamente si udì una voce “perdonaci peñi, perdonaci!”. Il tono era implorante. La donna ed i fratelli guardarono il padre. Egli era rimasto sino ad allora immobile, seduto su una pietra del focolare. Ma non era nella tradizione negare il perdono. Perciò tornò fuori e affrontò i tre ragazzi. Essi rimanevano in silenzio, distesi nel nevischio, mentre la lama tirava la cavezza per allontanarsi. “Alzatevi!” disse loro. I tre si alzarono. “Perdonaci, peñi, ma un wekufe ci ha suggerito un brutto sogno”. Tremavano dal freddo. “Chissà da quanto tempo staranno completamente nudi nella neve - pensò l’uomo - chissà se è stato il lonko o il ngenpín a

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dar loro questo castigo”. Poi il ragazzo che teneva l’animale per la cavezza, porse questa all’uomo dicendo: “è per Millaray ed è gravida, manca poco perché partorisca”. Già un guanaco era una grande ricchezza, e ancora di più lo era un lama. Non c’erano camelidi, nell’arcipelago, e per averli dovevano barattare le loro cose con i mapuche di Llanquihue o con i chono che cacciavano nella cordigliera: ma quante cose bisognava dare per avere un lama in cambio... e per di più una femmina gravida. Ben poche famiglie avevano dei lama nell’isola di Quinchao. Ma l’uomo rifiutò la cavezza. “Aspettate”, disse loro, e rientrò nella sua ruka. “Millaray, le disse a bassa voce chinandosi su di lei e scuotendola “Millaray, svegliati!”. Poi, quando la ragazzina si destò e aprì gli occhi aggiunse: “ci sono quei tre ragazzi che vi hanno picchiate. Vogliono scusarsi con te”. La ragazzina non avrebbe voluto vederli, ne tanto meno accettare le loro scuse, ma intuiva che comportarsi così sarebbe stato infantile. Sfilò dalla sua tunica la neonata che continuava a dormire, si avvolse in una pelliccia di guanaco e uscì ad affrontarli. Sola. I tre erano in piedi, con la testa bassa: la gelida pioggia battente scivolava sul loro corpo. La vergogna di doversi scusare con una bambina era grande, ma ancora più grande era la vergogna che provavano per aver picchiato una bambina, loro, tre uomini ormai fatti. “Perdonaci, lamngén”, disse il primo. “Perdonaci, sorella” ripetettero gli altri, mentre spingevano davanti a loro la bella bestia. Poi misero l’estremità della cavezza nella mano della bambina. Millaray taceva, ma guardava avida le tette già grosse della bestia. Il suo sguardo rimase severo e la sua bocca chiusa in silenzio, ma guardando quelle mammelle rosa e gonfie si sentiva felice. Aveva il latte per la sua piccina. Rimase in silenzio, ma la sua mano si chiuse per trattenere la cavezza. Allora i tre ragazzi si girarono e si allontanarono velocemente, mentre Millaray rimaneva immobile e in silenzio sotto la pioggia, finché essi scomparvero dalla vista. Solo allora, suo padre uscì dalla ruka. Millaray lo guardò e gli porse la cavezza. “E’ tua. E’ tutta tua - le disse - e io credo che tu te la sia veramente guadagnata, questa bestia”. “Ma è una animale così prezioso. Non abbiamo mai posseduto un lama, e sono così in pochi ad averne uno!”. “Vuol dire che ora anche noi ne abbiamo uno”. “Ma allora dovresti essere tu, a curarlo, o uno dei miei fratelli, ma noi io...”. “Perché non dovresti essere tu? Questa bestia è stata data a te. E’ il pagamento dell’offesa e del torto che hai subito. Non ti sembra?”. “Ma io sono piccola...”. “Non ha importanza quanto tu sia grande, ora. Ciò che veramente importa è quanto tu voglia diventare grande”. Millaray rimase in silenzio, pensierosa. Sentiva che suo padre le aveva detto una cosa molto importante, ma anche molto difficile da comprendere. Tornò a guardare le mammelle della lama. “Ora ho il latte!” esclamò felice. “Non ancora - dovette disilluderla suo padre - solo quando sarà molto prossima al parto. Il latte deve ancora scendere nelle sue mammelle”. “E quando sarà?” chiese Millaray, mentre il sorriso le si trasformava in apprensione. “Penso che ci vorranno ancora un paio di lune. Quando le fragole cominceranno a fare il frutto: allora questo animale partorirà e avrai il latte per la figlia di tua sorella”: “Ma fino ad allora, come farò?”. “Dovremo trovare altre soluzioni, se le troveremo. Se il destino di questa creatura sarà quello di vivere...”. “E se così non fosse?”. “Se così non fosse, allora tu dovrai dimostrare di essere una vera donna, e avere la forza di accettarlo, senza lamenti, come facciamo tutti”. Mentre il padre parlava con Millaray, giunse suo fratello. Un poco più avanti negli anni, più robusto, portava una larga fascia sulla fronte, riccamente disegnata. I lunghi capelli neri gli scendevano sulle spalle. Il poncho di lana grezza era fradicio di pioggia. Guardò stupito la bella bestia gravida che brucava le fronde di alcuni alberelli e fece un cenno di saluto alla ragazzina. “Mari-marí, lamngén”, fu il suo rapido saluto verso il

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fratello, tenendo per sé ogni domanda. “Mari-marí” rispose il padre di Millaray, e subito chiamò i suoi fratelli, che erano rimasti in silenzio nella ruka: “aiutate vostra sorella a costruire un quincho per rinchiuderci la sua bestia” disse loro non appena furono usciti. Essi guardarono ammirati la bella lama, lieti per l’inaspettata ricchezza, ma anche un poco stupiti ed invidiosi vedendo che era la piccola quepuche a stringere nel suo pugno la cavezza dell’animale. Quindi tornarono nella capanna per raccogliere le loro asce di pietra. Prima di uscire, cedettero rispettosamente il passo a loro padre, che entrava con suo fratello nella ruka. Infine s’inoltrarono nel bosco alla ricerca dei sottili alberelli che bene si prestavano per fare il quincho. Frattanto la pioggia cadeva fitta sciogliendo, la neve residua che ricopriva il terreno formando un pantano spesso e grigiastro. * * *

Ben presto il padre uscì con suo fratello dalla capanna. Osservarono l’intelaiatura di legno che Millaray aveva utilizzato per trainare la sorella morente e videro che andava bene. Legarono meglio alcuni legni con le corde di sottili giunchi elastici ed aggiunsero due stanghe anche dalla estremità dove mancavano. Quindi andarono a prendere il corpo della fanciulla morta, e lo adagiarono con delicatezza sull’intelaiatura, legandolo affinché non potesse cadere. Millaray osservava con gli occhi rossi, trattenendo i suoi singhiozzi. Non voleva mostrarsi debole davanti a suo zio, ma le era difficile guardare il corpo della sorella che le aveva fatto da madre, sapendo che era l’ultima volta che avrebbe visto quel volto così, come veramente era. Lo avrebbero riportato ancora una volta alla sua ruka, quel corpo, affinché tutti gli rendessero l’ultimo saluto, Millaray lo sapeva bene. Ma sapeva anche che quando sua sorella fosse tornata ancora una volta nella capanna dove era nata, il suo corpo sarebbe stato scuro e secco, l’ombra di quella bellezza che lei aveva sempre ammirata ed amata, senza alcuna invidia o gelosia. S’avvicinò sua madre, si mise al suo fianco e pose la sua mano destra sulla spalla della quepuche. In silenzio. Di fronte al quel gesto, la bambina crollò. Non ebbe più ritegno né vergogna, né si preoccupò della presenza dello zio. Nascose il suo volto nel corpo della madre e si mise a piangere, prima a singhiozzi forti e irrefrenabili, poi gridando disperata, come un animale ferito a morte. La madre piangeva insieme a lei, mentre i due uomini si allontanavano sotto la pioggia, in silenzio, con il cuore gonfio ma con il volto impassibile, per portare il loro triste carico alla capanna di colui che prepara i morti per il loro ultimo viaggio: quello che li porterà a varcare la soglia che conduce nel wenumapu. Quando i due fratelli tornarono, trovarono la loro madre abbracciata a Millaray, in silenzio, con la pioggia che formava trecce scendendo lungo i loro corpi. Non ebbero bisogno di fare domande e furono grati al padre per averli allontanati: non erano sicuri di reggere impassibili mentre il cadavere della loro sorella varcava l’ingresso della ruka, e avevano timore di mostrare il segno del loro dolore davanti allo zio, dimentichi delle tradizioni. Il pianto della piccola neonata scosse le due donne, che si affrettarono a rientrare nella capanna. I due fratelli si accinsero al lavoro, tagliando della giusta lunghezza e piantando nel suolo i pali che avrebbero formato l’intelaiatura del quincho: quindi cominciarono ad intrecciare gli esili e lunghi funi che, intrecciandosi intorno ai pali, davano corpo al recinto. La lama, mansueta e indifferente al trambusto, brucava l’erba bagnata e le fronde di alcuni piccoli e bassi cipressi, sotto l’ampio ombrello di un grande cipresso delle Guayteca che, almeno in parte, la riparava dalla pioggia insistente. Lavorarono tutto il giorno per costruire un ampio quincho dove rinchiudere la bestia. Intanto Millaray divideva le sue cure tra la piccolina e la bestia che le era stata donata, sentendo sulle sue spalle di bambina tutto il peso del prezioso dono che le era stato fatto.

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Quando più tardi suo padre fece ritorno, solo, trovò la figliola che stava lavorando intorno al quincho, mentre i fratelli erano andati a tagliare altri arbusti. Si avvicinò e abbracciò con forza la sua quepuche. Nuovamente le lacrime riempirono gli occhi di Millaray, ma suo padre le disse severo: “no, figlia mia, ora basta: sei una pichi domo, ora, non più una pichiche che può ancora piangere”. A Millaray costò molto accettare di essere una piccola donna, e non più una bambina. Ma trattenne le sue lacrime e tornò ad occuparsi delle rifiniture del quincho. Consolata, almeno un poco, dall’affetto che aveva percepito nelle parole di suo padre, una gentilezza che era assai più profonda della apparente severità del tono usato. Quando il giorno volgeva al termine, il ngenpín apparve presso la loro capanna. Osservò il quincho appena finito, l’animale che brucava tranquillo vicino a Millaray, che lo lasciava andare libero senza trattenerlo dalla cavezza. Salutò i due ragazzi e si complimentò per il loro lavoro. Poi s’avvicinò alla ragazzina. Osservò soddisfatto la bella bestia, quindi fissò a lungo Millaray nei suoi occhi. La bambina ebbe paura - il ngenpín l’aveva sempre impaurita - ma sostenne lo sguardo nonostante il timore. Negli occhi dell’anziano sciamano alla ragazzina parve di vedere una muta domanda, ma vi lesse anche approvazione nei suoi confronti. Poi, senza proferire neppure una parola e senza mostrare alcuna espressione, il ngenpín si girò bruscamente ed entrò nella ruka. Poco dopo Millaray sentendo l’acuto pianto affamato si affrettò a rinchiudere la bestia nel quincho e a raggiungere la piccolina nella capanna. Sua madre aveva già tirato su la neonata e la stava lavando con acqua piovana. La quepuche si avvicinò. “Com’è piccola - esclamò - com’è magra!”. “Continua tu” le disse Trayllanka, dandole la vecchia pezza di pelliccia intrisa d’acqua con la quale la lavava. La bambina fu contenta di sostituirsi a sua madre in quel compito che le era così grato, e terminò di lavare ed asciugare il corpicino della bimbetta che nel frattempo non cessava di piangere. Millaray ne osservava la pelle, mentre vi passava sopra la sua mano con grande delicatezza, timorosa di far del danno a quegli ossicini che certamente erano così fragili. Osservava il suo pallore: il suo colore era veramente quello di Küyén, la luna argentea, ma non si era più ripetuto il fenomeno luminoso che aveva terrorizzato i tre ragazzi, volgendo in bene il loro male. Poi diluì con abbondante acqua il denso latte della tricheca e per l’ennesima volta si mise ad allattare la neonata usando la sua stessa bocca. Il sapore del latte la disgustava, ma si sentiva compensata dal fatto di allattarla in un modo così intimo, che la faceva sentire profondamente unita alla figlioletta di sua sorella. Ogni tanto il suo sguardo si posava sul suolo della ruka, là dove ancora quella stessa mattina giaceva il corpo morto. Pensò che voleva bene a quella bambina che aveva tra le sue braccia perché era solo in questo modo che poteva ancora dimostrare il suo amore per la sorella morta. Ma poi si rese conto che amava quella fanciullina per sé stessa, e non solamente in quanto figlia della “madre dormiente”, come l’aveva definita il ngenpín, non ricordava più in quale momento. Trayllanka, intanto, con un bastoncino sbatteva energicamente il latte della tricheca nel recipiente di legno dove era custodito. “In questo modo, diventa solido e dura più a lungo: altrimenti domani sarà già rancido e non servirà più a nulla” rispose la madre vedendo l’espressione interrogativa della figlia, che non poteva parlare in quanto aveva la bocca piena del liquido lattiginoso. Kallfukura, dal canto suo, era intento con il ngenpín. Parlavano del funerale, anche se non c’era più molto da aggiungere. Poi lo sciamano consigliò di non rimandare le nozze del figlio, già stabilite per la prossima primavera. Infine i due uomini si misero a recriminare il fatto che anche nell’isola vi era qualche famiglia che non voleva più lavorare in comune la terra, ma separava con un quincho la sua parte e pretendeva di

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esserne padrone. Ciò avveniva sempre più spesso e andava contro i principi più fondamentali dell’admapu. “La terra è degli spiriti - concluse il ngenpín alzandosi in piedi per incamminarsi - e l’hanno dato agli uomini affinché ne siano i custodi. Facendo padroni di ciò che non gli appartiene e che non gli potrà mai appartenere, gli uomini offendono gli spiriti. E non li si può offendere, impunemente. Temo che quando arriverà il castigo, sarà tremendo e che pagheremo tutti, colpevoli e innocenti”. Poi uscì dalla ruka e si incamminò nella buia notte, sotto la pioggia gelida che continuava a scendere negando anche una sia pur minima visibilità. Millaray aveva terminato e la piccina si era addormentata. L’avvolse nelle folte pellicce del suo giaciglio e sedette vicino al fuoco. Ora che il corpo della sorella morta era stato portato via, era possibile riaccendere il fuoco. Faceva molto freddo e l’umidità le era entrata nelle ossa. O forse, più che altro, era la stanchezza. Aveva dormito ben poco negli ultimi tre giorni, e difficilmente avrebbe potuto riposare in quelli successivi, con la piccina che si svegliava ad ogni momento, reclamando il latte. Sua madre, intanto, aveva terminato il suo lavoro e aveva adagiato numerose palle di un burro grigiastro su un recipiente di vimini. Quindi prese una piccola pezza di pelle di nutria, troppo piccola per avere un uso definito: con una lama di ossidiana la tagliò dandole una forma triangolare e quindi cominciò a cucirla formando un recipiente conico. “In questo modo faremo una specie di tetta, dove potrai mettere il latte senza bisogno di tenerlo in bocca” spiegò alla sua figliola mostrandole il lavoro che stava eseguendo. La pelle non era dura, tuttavia le dita ancora piccole di Millaray non sarebbero state in grado di forarla con il grosso ago d’osso e di far passare la sottile fibra di tendine e poi ancora ripiegarla su se stessa, per meglio sigillare la cucitura. Millaray era stupita del fatto che il ngenpín si fosse allontanato senza neppure una torcia, nonostante il buio. D’altronde sotto la pioggia battente nessuna torcia sarebbe durata a lungo. “Come fa a vederci?” chiese a suo padre. “Il ngenpín ha un grande potere - le rispose - anzi, ha molti poteri. Egli è come se possedesse occhi che noi non abbiamo: vedono al buio, ma vedono anche le cose invisibili, quelle che sono avvenute e, talvolta, anche quelle che devono ancora avvenire”. “Mi rende inquieta, quando mi guarda fissamente”. “Sbagli, Millaray, non devi avere paura. Il ngenpín è molto buono. Ti trapassa con gli occhi perché guarda dentro la tua anima: ma lo fa per aiutarti, solo per farti del bene. Non è come il kalku che, invece, cercherà sempre di farti del male, amico com’è dei wekufe”. “Ma perché si veste come una donna?”. “Perché così vuole la tradizione. I ngenpín e i machi, come le donne, hanno il potere di generare. Non partoriscono, certamente, ma quando un malato sta morendo e si è già incamminato lungo i sentieri del wenumapu ed il machi lo guarisce e lo riporta tra i vivi, è come se lo avesse generato, è come se quell’uomo fosse nato una seconda volta, ma ora per arte del machi, anziché per opera di sua madre. Ecco perché veste come una donna. Ed anche per il ngenpín è la stessa cosa”. Millaray avrebbe voluto ancora fare molte altre domande a suo padre, ma forse neppure udì le sue ultime parole. Infatti si era improvvisamente addormentata, così com’era, seduta sul suolo della capanna e appoggiata alle pietre calde del focolare. Era crollata. La madre, allora, la prese e la distese sul suo giaciglio, senza che Millaray neppure si svegliasse. Quindi raccolse la piccina avvolta nella sua pelliccia e la distese accanto alla figliola. Le coprì bene con altre pelli e si dispose anche lei per trascorrere la notte. Intanto il fuoco non più alimentato si spegneva lentamente. Rimaneva solamente il rumore della pioggia, dietro il quale s’intuiva quello delle onde che s’infrangevano sulla vicina scogliera. * * *

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La giornata iniziò bene. Il cielo era sereno e luminoso e sgombro di ogni nube. La pioggia, che era caduta fitta per tutta la notte, era finalmente cessata ed ora il sole splendeva offrendo la sua amicizia. L’aria era pulita e leggera e l’innevata Cordigliera andina che faceva da sfondo alle numerose isole dell’arcipelago sembrava vicinissima, quasi bastasse allungare un po’ la mano per poterla cogliere. Finalmente il rumore delle gocce che picchiavano sul tetto di paglia della ruka erano state sostituite dal cinguettare dei tantissimi uccelli che popolavano l’isola. Dove il terreno era più umido, si sollevava una leggera nebbiolina che profumava di erba umida. Millaray si alzò un poco più riposata. Durante la notte la piccina si era svegliata solamente una volta: forse il latte di tricheca, così sostanzioso e spesso, placava la sua fame più a lungo del latte materno. Quando il pianto della neonata la riscosse, Millaray fu contenta vedendola al suo fianco, avvolta nella sua stessa pelliccia. La giornata iniziò bene e con una visita inattesa: era Ayelén. “Mari-marí pu lamngén” salutò rivolgendosi alle donne ed attendendo fuori della ruka. “Mari-marí, Ayelén” rispose la madre, affrettandosi ad andarle incontro. L’amica che aveva da poco perso il suo bambino se ne ristava lì, con lo sguardo mogio, indugiando. Poi sorrise e chiese: “come va, con il bambino di tua figlia?”. “E’ una bambina - rispose la madre - e se ne occupa Millaray”. “Allora avete trovato chi poteva allattarla” disse con evidente sollievo. “No. Le stiamo dando della latte di una tricheca che era andata a partorire sulla spiaggia. Finché potrà durare”. “Sai. Mi dispiace di essermi rifiutata, l’altro giorno. Ma devi capirmi. Il Thrauco. Poi dicono che è un mostro, che ha la pelle bianchissima... no, perdonami, non volevo parlare così...”. “Millaray! - gridò la madre - vieni fuori con la bambina!”. E quando la quepuche fu davanti a loro con la piccina, sveglia ma tranquilla, disse ancora: “è vero che ha la pelle bianca, cara Ayelén, ma non è un mostro, anzi: è una bambina bellissima e la stessa Küyén la tiene sotto la sua protezione” e prendendola dalle braccia della figlia, gliela porse affinché potesse vederla bene. “E’ vero! è bellissima!” disse Ayelén, ma le riuscì difficile evitare di manifestare per un breve istante il suo timore di fronte a quella pelle così bianca. Ma subito si riscosse. “Sono venuta a darle il mio latte” disse, e si slacciò il nodo che tratteneva la sua tunica sulla spalla sinistra, scoprendo il seno gonfio. Poi prese la piccina e stimolò con il suo capezzolo la piccola boccuccia. Questa si attaccò immediatamente al seno della donna e cominciò a succhiare avidamente quel latte materno che solo ora conosceva per la prima volta. Succhiò a lungo, poi s’addormentò brevemente, poi riprese a succhiare, prima un seno, poi anche l’altro. Finalmente sazia si riaddormentò. Allora Ayelén la depose sulle braccia di Millaray in attesa e disse alla madre: “fa pure venire Millaray da me ogni volta che la piccina ha fame. Ora me ne torno dalla mia capanna. Almeno questo mio latte non rimarrà inutile”. E quindi si allontanò velocemente. La madre sorrise alla figlia e intanto le diceva: “forse è proprio così: gli spiriti la proteggono, questa bambina di tua sorella”. Quindi entrarono insieme nella ruka. In un angolo della capanna, insieme al telaio per tessere vi erano ordinatamente distese pelli, tuniche, mantelli ed altre cose ancora. La madre estrasse dal mucchio un piccolo marsupio di cuoio, con le sue stanghe di cipresso e le sue cinghie di pelle per poterlo assicurare sulle spalle. “Qui ho portato te per più di un anno. Ora mi ero rallegrata pensando che tua sorella ci avrebbe portato il suo bambino” e s’interruppe pensando che se non fosse successo quel che era successo, la sua figlia prediletta ora sarebbe unita al suo fidanzato e probabilmente sarebbe in attesa del suo primogenito. Poi proseguì: “beh, il suo bambino ci andrà, qui dentro, ma sarai tu a portarcelo”. Quindi attese che Millaray posasse la neonata sul giaciglio e quindi si mise ad accorciare le cinghie per adeguarle alla sua piccola statura. Poi glielo fece provare. “Mi va bene,

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mamma” disse la bambina. Quindi prese la piccina addormentata e la depose nel marsupio. Con l’aiuto della madre se lo assicurò sulle spalle, poi si avviò all’uscita della ruka e si preoccupò di condurre al pascolo la sua lama così mansueta. Quando le sembrò che fosse giunto il momento, Millaray mise nuovamente la cavezza alla bestia e, senza attendere che la neonata si svegliasse, cominciò ad incamminarsi verso la ruka di Ayelén. Vi arrivò che già la bimba si era svegliata. Si tolse delicatamente il marsupio dalle spalle, estrasse la bambina e la porse a Ayelén. La donna la prese con gentilezza nelle sue mani e le diede il suo seno. Ma Millaray percepì distintamente la paura che la donna provava per questo suo fiorellino: un timore ancestrale che non bastava né la gentilezza che dimostrava, né la buona volontà con cui offriva il suo latte per nasconderlo. Millaray non disse nulla, ma ne rimase offesa. Le sembrava impossibile che qualcuno potesse provare un qualunque sentimento che non fosse amore per questo suo fiorellino. Non poteva comprendere come questo potesse incutere timore. O peggio: ribrezzo. Quando la bimba fu sazia e i bei seni di Ayelén asciutti, Millaray la depose nuovamente nel marsupio, ringraziò, slegò la bestia che aveva assicurato ad un alberello e si incamminò per fare ritorno alla sua ruka. Quattro volte, tornò da Ayelén nell’arco della giornata, e ogni volta la donna fu gentile e diede il suo seno alla piccina. Ma ogni volta traspariva evidente il timore della donna e le sfuggiva un gesto di sollievo quando finalmente poteva restituire la neonata alla quepuche. Ma Millaray la ringraziava e nulla disse a sua madre, tenendo tutta per sé la sua delusione per questo senso di rifiuto che inspiegabilmente suscitava negli altri il suo fiorellino. Le venne da pensare che anche sua madre, almeno inizialmente, non voleva neppure toccarla, la piccina: ricordò pure che l’unica persona che da subito mostrò gentilezza e preoccupazione era il ngenpín, e ciò, per la prima volta, le fece perdere il timore che provava nei suoi confronti e lo vide in una luce completamente diversa. Forse non era bene che una bambina come lei si rivolgesse al ngenpín e gli ponesse delle domande: ma si sarebbe fatta coraggio e l’avrebbe fatto. Doveva capire perché tutti avevano timore della piccola creatura che riposava nel marsupio appeso sulle sue spalle. * * *

Trascorsero così quattro giorni. Millaray si occupava solamente più della bimbetta e della lama che conduceva a pascolare lungo il sentiero che percorreva per andare alla ruka di Ayelén. La piccolina cresceva visibilmente, ma era sempre così piccola e minuta, nata tanto prematuramente. Ayelén era sempre garbata nei suoi confronti, ed anche ben disponibile. Ma contrariamente a quanto sperava, ogni volta che avvicinava la piccola al suo seno, anziché perdere il ribrezzo che aveva, questo cresceva. Ayelén lo occultava, certamente, e non avrebbe mai immaginato che Millaray, invece, percepiva in maniera evidente questo suo forte senso di fastidio. Ma la donna era preoccupata in quanto vedeva che ogni volta aveva meno latte e che la piccina faceva più fatica a prenderlo e ci metteva sempre più tempo. Al quarto giorno accadde quello che lei non avrebbe mai creduto che potesse succederle: il suo seno si seccò e non scese più neppure una goccia di latte. La piccina continuava a succhiare con violenza e a piangere disperatamente, ma i suoi seni erano completamente asciutti. Millaray la guardò, in silenzio. Comprese. Con la sua mano sollevò e poi schiacciò il seno che ora la bimbetta rifiutava. Era leggero, vuoto, ed anche a schiacciarlo forte il capezzolo rimaneva asciutto. Le venne da piangere, ma i suoi occhi rimasero asciutti. Ayelén vi lesse tutta la delusione che Millaray provava, ma anche la rabbia, e le venne un groppo alla gola. “Mi spiace, Millaray, non so perché non mi

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scende più il latte, non lo comprendo...”. Millaray la guardò severa. Rimase un poco in silenzio, poi adagiò nel marsupio la piccina che strillava. Quindi si rivolse a Ayelén e le disse: “beh, almeno tu ci hai provato”. E senza aggiungere altro, neppure un saluto, s’incamminò verso casa, tirando la sua lama per la cavezza, con sulle spalle il suo fagottino che piangeva. Ricordava un epew che una volta le aveva raccontato sua sorella. Nell’epew si descriveva una femmina di puma che aveva avuto un cucciolo tutto bianco, che non sentiva cucciolo suo, ma, al contrario, gli pareva estraneo: il puma ben presto perdeva il latte e abbandonava il cucciolo. Tuttavia nella fiaba questo non moriva, in quanto veniva allattato da una lama. Allora si avvicinò alla sua bestia e provò a palpare la sua mammella, sotto il grosso ventre gravido: ma essa era inesorabilmente asciutta. Quando giunse alla sua ruka con il suo fiorellino che urlava, non disse nulla. Chiuse la bestia nel quincho, poi entrò nella capanna. Prese una pallina di burro di tricheco dal cestino di vimini posto sull’intelaiatura sopra il focolare. Il fumo l’aveva ormai annerito e ricoperto con una crosta dura. Ne mise un pezzo in bocca e cominciò a masticarlo sino a che fu nuovamente tenero. Poi lo sputò nel cono di cuoio che sua madre aveva fatto, lo diluì con abbondante acqua e mise dentro una piccola pietra rovente raccolta dal focolare per intiepidire la bevanda, quindi lo porse alla neonata. Sua madre la osservava in silenzio, senza dirle nulla. La piccina come sentì il sapore ben diverso da quel latte che per quattro giorni l’aveva nutrita, lo rifiutò e si mise a strillare più forte. Allora Millaray prese un sorso e cominciò ad allattarla con la sua stessa bocca, e allora la neonata accettò il suo dono. “Quando si ha paura, il latte smette di scendere... non è colpa di nessuno...”, finalmente disse la madre. “Ora lo so” rispose bruscamente Millaray, e si rinchiuse nel suo mutismo rabbioso. * * *

Altri quattro giorni trascorsero. Dopo la breve pausa soleggiata, la pioggia ed il nevischio erano tornati ad imporsi. Tutti gli abitanti dell’isola trascorrevano gran parte della giornata nelle loro capanne, al riparo dal maltempo: le donne filavano ogni classe di lanugine e tessevano ampi mantelli e stretta fasce, mentre gli uomini si dedicavano a costruire qualche piccolo utensile scheggiando la pietra o scalpellando il legno. Millaray, tuttavia, trascorreva fuori della ruka buona parte della giornata, portando con sé la piccola creatura, ben calda e protetta nel suo marsupio. Anzitutto in quanto voleva sempre accompagnare al pascolo la sua lama, non fidandosi di lasciare incustodita la preziosa bestia. Ma anche perché le piaceva la sensazione della pioggia che scendeva lungo il suo volto e scivolava sui suoi capelli, insinuandosi gelida nella veste nonostante la pelliccia impermeabile che indossava: si addiceva bene al suo stato d’animo. Alla mancanza della sorella - quanto le mancava ora il suo affetto e la sua compagnia! - si aggiungeva l’apprensione per la sopravvivenza della piccina: del fiorellino, come lo chiamava lei. La piccina, infatti, mostrava tutto il suo disgusto per quella poltiglia fumosa e irrancidita che la ragazzina le dava con la sua stessa bocca - la tettarella di cuoio fu subito rifiutata - e si decideva ad alimentarsene solamente quando non ne poteva più dalla fame. Tuttavia era cresciuta, sebbene la sua statura fosse ancora assai minuta, molto più piccola di qualunque altra pichiche. Inutilmente sperò che qualche altra donna potesse offrirle il suo seno: già erano poche le madri in grado di farlo, ma la conoscenza di quanto era avvenuto a Ayelén contribuiva a scoraggiare anche le più volonterose. Timorosa di non poterselo godere a lungo, il suo fiorellino, quando la pioggia cessava o quando un maestoso albero dall’abbondante fogliame offriva un rifugio accettabile, sfilava la piccina dal suo marsupio e se la stringeva al petto, mettendola sotto la sua

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stessa veste, pelle contro pelle, felice delle sensazioni che quel tiepido contatto fisico le produceva, insensibile a qualunque disagio. Quel pomeriggio Millaray era agitata. Quattro giorni si erano compiuti da quando avevano portato via il cadavere della sorella, ed altri quattro si compivano oggi: era dunque in attesa che il compositore del cadavere riportasse indietro il corpo ormai poco riconoscibile della sorella per poterle dare sepoltura. Giunse quando la luce era più chiara, in un intervallo tra uno scroscio di pioggia e l’altro. Lo portavano in due, su una portantina simile a quella utilizzata otto giorni prima, ma ora il corpo era ben più leggero. Ebbe paura a guardarlo, timore di non riconoscerne più i lineamenti amati. Ma non fu così. Il corpo era reso rossiccio dalle resine con le quali l’avevano ricoperto e scurito dal fumo con cui l’avevano asciugato per conservarlo più a lungo. Il ventre si notava affossato, nonostante la tunica che lo copriva: ma Millaray sapeva che quel corpo era stato svuotato di tutti i suoi organi. Era, ormai, solamente un guscio vuoto e affumicato, pronto per ricevere l’estremo saluto di parenti ed amici. Eppure il viso era ben riconoscibile, nonostante tutto. Volle accarezzarlo, ma ritrasse bruscamente la mano sentendo la superficie indurita della pelle. Poi ebbe vergogna del suo gesto, e nuovamente avvicinò la sua mano. Le accarezzò la fronte, la bocca, gli occhi chiusi. Poi le prese la mano rigida e la tenne a lungo stretta nella sua. Non pianse. Non disse nulla. I genitori ed i fratelli la osservavano quasi attendendosi una crisi di pianto o di rabbia o di disperazione. Ma non avvenne nulla di tutto ciò. Solamente volle rimanere li, seduta accanto al corpo mummificato, stringendo la mano della sorella mentre la sua piccina, pur sveglia, rimaneva tranquilla, accoccolata sulle ginocchia di Millaray, accanto alla madre morta. La sera allungava le sue ombre, quando vennero i primi parenti ed amici, quelli che risiedevano più vicini, a rendere l’ultimo saluto alla madre dormiente. Nel volto impassibile di Millaray vi era tutta la sua disperazione: una disperazione resa quasi gridata proprio da quell’innaturale silenzio. La ragazzina rimase insensibile alle parole di conforto che le venivano indirizzate. Non rispondeva al saluto, neppure agli uomini più anziani, ma suo padre non volle rimproverarla per quello. Immobile come il cadavere di cui stringeva la mano, l’unico movimento era dato dal gesto meccanico e forse inconsapevole con il quale accarezzava lentamente la piccina con la mano che le era rimasta libera. Poi i parenti e gli amici se ne andarono, e la famiglia tornò a restare sola, nella sua ruka fredda dove non era più stato acceso il fuoco. I genitori di Millaray prepararono il loro giaciglio e così i suoi fratelli. Ma lei non volle distendersi. Rimase seduta accanto alla sorella morta, al buio, stringendo quella sua mano così secca e così gelata. Poi l’improvviso pianto della piccina la scosse: allora si alzò e si dedicò alle cure della piccola creaturina. * * *

All’indomani giunse il ngenpín. Era ancora molto presto. Non pioveva, ma dai rami degli alberi scendeva una nebbiolina fitta e bagnata, che soffocava ogni suono e ammorbidiva ogni cosa. Entrò nella ruka improvvisamente, come era solito fare. L’interno era scuro e il padre, sollevandosi dal suo giaciglio, fece il gesto di raccogliere le due pietre focaie che utilizzava per accendere la fiammella di una torcia. Ma il ngenpín lo fermò: “non ce n’è bisogno”, gli disse. Tutti, nella ruka, si affrettarono ad alzarsi dai giacigli dove erano ancora distesi. Il ngenpín cercò con lo sguardo Millaray: vide che aveva accanto a sé la piccina e fece un cenno di approvazione. “Ayelén ha tentato di allattarla, ma il suo seno si è asciugato”, disse il padre. “Lo so”, rispose il ngenpín. “Millaray la sta alimentando con il latte di una tricheca, vecchio ormai di dieci giorni -

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aggiunse ancora l’uomo - ma non so se potrà farcela. Certo noi le abbiamo provate tutte, pur di salvare questa bambina...”. Ma il ngenpín lo interruppe bruscamente: “nella vita rimane sempre ancora qualcosa che si può tentare di fare. Sempre rimane ancora qualcosa!”. Quindi si accinse a compiere i riti sul corpo mummificato della madredormiente, parlando la lingua ignota e incomprensibile degli sciamani. Millaray lavò la piccola creatura e la imboccò, come ormai era per lei abituale, con il latte ormai irrancidito della tricheca. Il ngenpín non interruppe il suo rito, ma senza farsi notare la osservava. Poi la ragazzina mise la piccina nel marsupio, se lo pose sulle spalle, coprì se stessa ed il marsupio con una colorata pelliccia di guanaco e uscì dalla ruka, per liberare la sua lama dal quincho dove trascorreva la notte. Ma non si allontanò: rimase in attesa nei pressi del sentiero, mentre la bestia brucava pigramente l’erba che luccicava per la rugiada. Aspettava il ngenpín, ma non dovette attendere a lungo. L’anziano andava veloce lungo il sentiero e non sembrò stupito dall’incontro, ma al contrario, sembrava aspettarselo. “Perdona, ngenpín” disse la ragazzina, sapendo di compiere qualcosa di inadeguato: lei, ancora bambina, osava prendere l’iniziativa di parlare al potente sciamano e di porgergli una domanda. Ma l’anziano non pareva irritato. Si fermò di fronte a Millaray, la fissò profondamente negli occhi e rimase in attesa. “Perdonami, ngenpín - ripeté la ragazzina - non voglio mancarti di rispetto ma voglio capire. Tu non hai paura del mio fiorellino, anzi, tu gli vuoi bene; ma tutti gli altri lo temono; anche la mia mamma: dice che non è vero, ma io sento che è così. A Ayelén le faceva ribrezzo, è per questo che ha perso il latte. Ieri sera sono arrivati i primi parenti: hanno salutato mia sorella, qualcuno ha guardato la bambina di mia sorella, ma nessuno le ha fatto una carezza, anzi, la guardavano con paura... non lo capisco, ngenpín, non lo capisco... è così bello questo fiore che mia sorella mi ha lasciato... perché fanno così?”. L’anziano ngenpín, allora, prese con dolcezza la ragazzina per un braccio e la condusse sotto un grosso cipresso, dove c’era un vecchio tronco caduto sulla terra. La fece sedere, e poi sedette al suo lato. “Hai ragione, Millaray, è veramente bello, questo fiore. Ma tutti ne avranno sempre timore. Perché è la figlia del Thrauco, e quindi di un wekufe...”. “Ma lei non è un wekufe!” protestò Millaray senza neppure accorgersi che aveva interrotto il ngenpín mentre parlava. Ma l’anziano non se ne ebbe a male. “E’ vero, figliola, questa creaturina non è un wekufe, e neppure sarà un kalku. Ma gli altri non lo sanno; io lo so, ma gli altri non lo sanno, e ne hanno paura. Continua a difenderla, come stai facendo, ma non stupirti se non ti capiranno. Proteggi questo fiore. Non sai ancora quanto tu sia nel vero dicendo che questa creaturina è un fiore. Dunque difendilo. Ma non aspettarti altro aiuto se non quello che ti verrà dai tuoi genitori”. Fece una pausa, ma poi proseguì. “Ascolta, Millaray: le nostre memorie dicono che ci fu in un tempo molto lontano una donna che giacque con Kaikaivilú, il figlio di Peripillán. Ebbe due gemelli ed avevano la pelle bianchissima, come il fiorellino che custodisci nel tuo marsupio. Ma gli spiriti vollero che i due gemelli fossero sacrificati a Küyén. Ma ora è diverso: è proprio lo spirito lunare che sta proteggendo questa creaturina. Credo che avrà una missione da compiere, un giorno, una missione importante. Ricordati, Millaray, che quando tu dici che questo è un fiore, non sai neppure tu quanto sei nel vero!”. Quindi il ngenpín si alzò in piedi, fece una fugace carezza sulla guancia di Millaray e quindi si allontanò veloce tra gli alberi. Il padre, da lontano, aveva visto l’anziano sciamano sedersi accanto alla sua quepuche, parlare con lei come si parla con un adulto e farle, infine, quel gesto affettuoso così inconsueto in un ngenpín. Era così strana, la vicenda, che ne provò timore. * * *

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Mentre Millaray si occupava della piccina e di pascolare la lama, l’intera famiglia fu impegnata durante tutta la giornata nella costruzione della capanna mortuaria. Essa era rettangolare, due volte più lunga e due volte più larga della piattaforma sulla quale doveva essere adagiato il corpo della madre dormiente: la sua intelaiature era costituita da sei forti pali, tre per ogni lato, leggermente più alti di un uomo adulto, e su di essi si appoggiava un grande tetto di paglia, il quale si abbassava notevolmente sui quattro lati. Non aveva pareti, ma solamente delle intelaiature di canne intrecciate che venivano appoggiate, ma solo di notte, per chiudere la capanna. Fu costruita, come era la tradizione, tra il recinto sacro ed il cimitero. Bastò una sola giornata perché fosse pronta, con il tetto di paglia ben fatto, poiché durante tutto il tempo che durò la costruzione vi furono sempre due, tre o anche più persone che venivano ad offrire il loro aiuto. Quando la capanna fu finita, e lo fu anche la piccola piattaforma allestita al suo centro, i due fratelli vi trassero il corpo della madre-dormiente, vestita con la sua tunica più bella, con la sua fascia più colorata e con i suoi grandi orecchini di legno. La adagiarono sulla piattaforma e iniziarono la prima notte di veglia funebre. Quattro giorni durò l’estremo saluto al cadavere della madre dormiente. Durante quattro notti si alternarono nella veglia del cadavere parenti ed amici, primo fra tutti il promesso sposo della ragazza. Quando spuntò l’alba del quinto giorno, venne il ngenpín e diede inizio al funerale. La madre della ragazza lanciò un alto grido nell’aria. Poi con una lama di ossidiana strappò la sua tunica per tutta la sua lunghezza e con le nude mani tirava con tutte le sue forze i capelli neri, ora sciolti e non più uniti in due lunghe trecce. Anche Millaray squarciò la su veste grigia e tirò senza molta forza i suoi capelli. Gli occhi erano rossi, ma non un solo grido uscì dalla sua gola. Si mise a piangere, ma silenziosamente, solamente quando avvicinò la neonata al corpo della madre adagiato sulla sua piattaforma funebre. Fu una sorta di presentazione, quasi di ostensione, che aveva il sapore di una sfida. Millaray sollevò alta la neonata, affinché tutti la vedessero bene: con la sua pelle del colore della luna e con i suoi sottili capelli del colore della lava che facevano da cornice a due enormi occhi rossi, aperti e vivissimi, che tradivano un accanimento di vivere in contrasto con la magrezza del suo esile corpicino. Tacque, Millaray, mentre sollevava il corpicino, quasi ad offrirlo alla madre-dormiente. Tacquero anche tutti i presenti, molti dei quali non avevano mai visto quella creatura ma solamente sapevano ciò di cui si era parlato di bocca in bocca. Era evidente la sfida lanciata dalla ragazzina all’intero clan: aveva taciuto, certamente, ma è come se avesse gridato a squarciagola che quella creatura esisteva, anche contro la loro volontà, e sarebbe continuata ad esistere. Il padre di Millaray si sentì molto a disagio per il gesto della quepuche, che andava contro ogni tradizione e che era una evidente mancanza di rispetto verso gli anziani presenti. Si volse a cercare il volto del reverendo ngenpín, immobile accanto al cadavere, come per chiedergli cosa dovesse fare. Come il padre di Millaray, tutti i presenti diressero il loro sguardo verso lo sciamano. Lui, oggetto di tanti sguardi interrogativi, era lì, immobile, che guardava Millaray. E allora avvenne qualcosa di inatteso. Il ngenpín alzò entrambe le sue braccia distendendole per tutta la loro lunghezza verso la ragazzina. Quindi disse con voce alta e sonora: “Millaray mupindinguy: feichi pichiche domo ngey rayén!”. Poi fissò assai a lungo la ragazzina con il suo sguardo penetrante che incuteva tanto timore, in assoluto silenzio: Millaray ricambiò e sostenne il suo sguardo, serena nonostante gli occhi arrossati dal pianto. L’intero clan, disposto ordinatamente intorno alla capanna mortuaria a formare una folla compatta che osservava composta e silenziosa, ammutolì e trattenne persino il respiro, in attesa di quanto dovesse avvenire.

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Poi, finalmente, la lunga attesa ebbe termine: il ngenpín sorrise alla ragazzina, sempre fissandola con il suo sguardo! Lui, proprio lui che nessuno aveva mai visto sorridere, sempre severo, duro, quasi aspro in ogni sua parola, che incuteva a tutti timore e che non ammetteva confidenza alcuna, ora si rivolgeva ad una ragazzina ancora bambina che commetteva un gesto ribelle e mostrava di approvarla sorridendole gentilmente, davanti a tutti. Allora Millaray, che non aveva mai abbassato il suo sguardo, sorrise a sua volta al ngenpín, grata dell’aiuto ricevuto. Poi il ngenpín legò al collo del cadavere un piccolo sacchetto di pelle decorata con alcuni disegni geometrici: il sacchetto conteneva quattro piccole llanka dai colori diversi, affinché la defunta avesse con che pagare la tempulkalwe che avrebbe dovuta condurla a Ngülchenmaywe, il luogo da dove iniziava il lungo percorso nel regno del wenumapu. La madre guardava la piccina che Millaray stringeva nelle sue braccia: “chissà se questa bambina potrà un giorno assicurare una discendenza alla mia figliola” si chiese, e le venne da dubitarne guardando quei suoi occhi rossi che incutevano terrore. Ma poi pensò che non avrebbe mai creduto che la neonata potesse sopravvivere con solamente del latte irrancidito di una tricheca morta prima di dare alla luce il suo cucciolo, prendendolo dalla bocca della sua quepuche, né tanto meno che il ngenpín potesse dare una così grande prova di benevolenza verso Millaray, in pubblico, di fronte a tutti, proprio quando a causa di quella creatura la sua figliola, ancora quasi bambina, sfidava l’intero clan. Se era stato possibile quello, pensò ancora, forse sarebbe anche stato possibile che quella creaturina assicurasse una discendenza alla sua figliola prediletta. Ma il rito funebre non era ancora concluso. Ora il ngenpín passava le sue mani lungo tutto il corpo disteso della madre-dormiente: nella mano destra teneva una pietra rotonda, dipinta di bianco, ed in quella sinistra un legno scolpito a forma di uovo, dipinto di nero. Quindi parlò nella lingua degli spiriti, che solo i ngenpín sanno parlare e possono comprendere. Poi rimase a lungo in silenzio. Finalmente si allontanò dalla piattaforma. Solo allora tutti i presenti cominciarono a dare vita ad una lunga fila che girava intorno alla capanna mortuaria, come un lunghissimo serpente, mentre un brusio sempre maggiore si levava dalla folla, che commentava gli avvenimenti, ancora incredula di quanto era avvenuta. Fecero un giro, poi un secondo, infine un terzo. Poi la moltitudine si divise per formare un ampio e lungo varco tra la capanna mortuaria e il cimitero, dove cento simulacri di legno sembravano costituire un’altra folla in attesa. Allora i due fratelli della fanciulla defunta si avvicinarono, insieme a molti loro amici: tra tutti, tenevano sollevata una piccola dalka, che deposero al lato della capanna funebre. Quindi raccolsero delicatamente il corpo coperto di resine e lo adagiarono nella dalka: allora il padre si accostò all’imbarcazione, che sarebbe servita per l’ultimo viaggio della sua figliola, e depositò un ramo di canelo tra le braccia della madre-dormiente. Poi il gruppo di giovani sollevò la dalka e, marciando tra le due ali di folla nel varco che essa aveva liberato, raggiunsero il cimitero. Una lunga fossa attendeva l’imbarcazione della fanciulla. Con l’aiuto di alcune funi, la calarono nella fossa. Poi la folla in attesa tornò a formare una lunga fila di persone. Il padre, i fratelli, la madre ed infine Millaray precedeva l’intero clan allineato alle loro spalle. Si avvicinarono alla fossa dal lato destro e ognuno di loro tirò con le proprie mani una zolla di terra umida dentro alla fossa. Poi, di seguito, ognuno dei presenti, sino a ché la fossa fu completamente ricoperta. Il tempo, che sino ad allora era rimasto incerto, si volse in una leggera pioggia. In questo mesto ambiente, ognuno cominciò ad allontanarsi in silenzio, facendo ritorno alla propria capanna. Solo il padre attese ancora, il tempo di prendere i necessari accordi con un artigiano per far costruire il mamülche, il simulacro di legno che si sarebbe aggiunto ai già tanti presenti per ricordare la madre-dormiente. Millaray anziché riporre la sua

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creaturina nel marsupio sulle sue spalle, volle tenerla sotto la sua stessa veste, per sentire quel contatto fisico che tanto la rasserenava. I suoi fratelli la guardavano, in silenzio, timorosi persino di farle una domanda. Sua madre camminava al suo fianco. Anch’essa in silenzio, chiedendosi che strana creatura fosse la sua quepuche, provando persino una sensazione di disagio nei suoi confronti. Se da sempre il loro rapporto non fu sereno, ora, dopo quanto era successo, sarebbe stato probabilmente più difficile. Poi la madre pensò che sua figlia per quanto ancora piccola era ormai una donna, una pichi domo, al quale il ngenpín riservava una attenzione del tutto particolare. Certamente lo sciamano aveva visto lontano, molto lontano, nel suo destino. Ma un destino importante spesso riservava molti dolori. “Povera figlia mia!” pensò la madre mentre camminava in silenzio sotto la pioggia sottile. * * *

Contro ogni logica, contro tutto e contro tutti, il fiorellino di Millaray visse. Sempre imboccato dalla bocca della bambina che le faceva da madre, bevve latte rancido e ammuffito di tricheca diluito con acqua di pioggia, succhiò patate e frutti di mare affumicati trasformati in poltiglia dalla saliva di Millaray, sorbì fagioli secchi trasformati in una fine farina sul mortaio di pietra lavica la quale veniva poi resa liquida con l’acqua piovana. Piangeva di disgusto, la creaturina, ma mangiava, cresceva e diveniva più robusta. Era ancora magrolina, ma forse questa era la sua costituzione, poiché invece non era meno alta e vivace di quanto lo fossero gli altri pichiche della sua età. La sua pelle aveva preso un poco di colorito, pur rimanendo sempre pallida, ma i suoi capelli si facevano ogni giorno più incandescenti, come il fuoco della montagna, ed i suoi occhi rossi, come le fiamme di Peripillán, dal quale discendeva. La luna divenne grossa nel cielo, poi lentamente scomparve per poi ingravidare una seconda volta. Allora la lama diede alla luce il suo cucciolo e finalmente Millaray ebbe latte fresco per alimentare quella neonata che sorrideva felice ogni qual volta l’accoglieva tra le sue braccia e rimaneva tranquilla nel suo marsupio quando la portava con se a pascolare la lama con il suo cucciolo. I fratelli volevano bene, a Millaray, ma tra loro vi erano pochi rapporti. Un po’ in quanto maschi e ormai entrambi quasi adulti e quindi disattenti verso una donna ancora bambina, ma un po’ anche perché la ragazzina era sempre più strana, schiva ed introversa. Parlava molto poco, dicendo il minimo necessario; a volte neppure usava parole compiute, ma solo le loro radici, senza morfemi e senza desinenze, quasi a voler solamente esprimere l’essenza dei concetti. Anche con la madre il rapporto era strano. Non si poteva dire difficile, quello no, poiché Millaray era sempre molto disponibile: aiutava in ogni forma, non riposava mai, neppure quando la pioggia intensa impediva di uscire dalla ruka. Allora si metteva al telaio e compiva con precisione quasi maniacale i gesti che aveva imparato da sua madre: dalle diverse fibre ricavava delle bellissime trariwe, larghe come cinque dita quelle destinate ad avvolgere i fianchi, solo due dita quelle da porsi intorno alla fronte. Erano molto belle, le trariwe di Millaray, e sembrava incredibile che una ragazzina che non aveva ancora nove anni potesse tessere così bene. Filava anche assai bene. Infilava un corto bastoncino appuntito in una patata rotonda e poi lo faceva girare veloce sul suolo, mentre con le sue dita stirava e avvolgeva la lanugine di quando in quando intrecciata con piccole e sottili piume di colibrì, con cui formava il suo filo di lana. Doveva attendere ancora una luna e poi la stagione asciutta avrebbe avuto inizio: allora Millaray avrebbe potuto disporre del vello lungo e morbido della sua lama per fare il suo filo di lana, e non solamente di quello ispido e corto dei cani selvatici.

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Suo padre avrebbe spesso voluto riprenderla per quel suo mutismo e per quella sua scontrosità. Ma di fatto non aveva delle ragioni concrete per rimproverarla e l’atteggiamento quasi protettivo del ngenpín verso la ragazzina aveva intimidito anche lui. Lo sciamano vedeva spesso Millaray e tra il vecchio e la ragazzina sembrava essere nata una strana amicizia, quasi un sodalizio. Egli, in realtà, le rimproverava per il suo mutismo e per chiudersi in quel mondo a due - Millaray ed il suo fiorellino - che escludeva qualunque altra persona o cosa. Ma era un rimprovero debole, poco convinto. Il ngenpín sentiva che se tra questi due esseri non fosse immediatamente sgorgato un rapporto affettivo così intenso, Millaray non avrebbe mai potuto trovare quella incredibile forza di volontà, che era stata l’unica vera ragione per cui quella neonata prematura era sopravvissuta. Lo sciamano percepiva quanto fosse importante, quella creatura dai capelli e dagli occhi rossi, e quindi quanto fosse a sua volta necessaria Millaray, con il suo mutismo, ma anche con quel rapporto così profondo ed esclusivo che aveva con la piccina. Il padre della ragazzina, una volta, si era lamentato con il ngenpín di questo rapporto eccessivo. “Tocca alla mia sposa, allevare la bambina, non a Millaray, che è solamente la sorella di sua madre”, disse allo sciamano, ma questi non fu d’accordo: “La bambina è viva perché Millaray l’ha fatta vivere trovando una forza che solo gli spiriti le hanno potuto dare. Questa, dunque, è anche la volontà degli spiriti. E’ come se questa bambina fosse stata generata una seconda volta, da Millaray. E’ proprio così: questa creatura non ha un padre, ma ha due madri!”. Allora il padre non disse più nulla ed accettò con rassegnazione lo strano destino che era toccato alla sua figliola minore. Ma ciò che l’anziano ngenpín non volle dire era che solo Millaray provava un amore sconfinato per quella piccola bambina dagli occhi rossi: solo lei, dunque, poteva farle da madre, poiché anche la nonna, pur negandolo, non riusciva ad accettarla quella figlia del Thrauco. Né l’abitudine al contatto ed alla vita in comune era riuscita ad eliminare completamente ogni timore nella donna, e neppure era scomparso quel senso di repulsione che l’aveva invasa sin dal primo momento. Repulsione viva e attuale in tutto il clan e solo l’evidente protezione concessa dal ngenpín impediva che venisse apertamente manifestata. Millaray, dunque, era ogni giorno più cupa ed introversa. Parlava solamente quando era indispensabile e le sue parole si limitavano a poche sillabe. Ma quando stava con la piccina, ecco che si trasfigurava. Per quello le piaceva tanto, a Millaray, andare al pascolo tenendo tra le braccia il suo fiorellino. Mentre camminava seguendo tranquilla la placida bestia con il suo giovane cucciolo, Millaray parlava, eccome che parlava: incessantemente. Raccontava alla sua piccola creaturina, che l’ascoltava attenta, con gli enormi occhi rossi spalancati, epew che lei stessa inventava: falchi, puma, pudù, guanachi, condor, foche e trichechi parlanti riempivano i suoi epew, dove i paesaggi erano fantastici e la pioggia cadeva di mille colori. E la piccina rimaneva tranquilla ad ascoltare le fiabe della ragazzina, come se comprendesse ogni cosa, dimenticando persino di avere fame, di quando in quando emettendo piccoli suoni di allegria che ricordavano il gorgogliare di un ruscello. Poi, quando le sembrava che fosse il momento di farlo, Millaray succhiava con la sua stessa bocca il latte dalla mammella della lama e continuava ad imboccare la bambina. Non perché fosse necessario, ma perché a lei piaceva fare così. * * *

Trascorsero win-küyén e pillel-küyén. Poi finalmente venne la stagione di pewü, quando la natura si rinnova e fioriscono le fucsie, e trascorse anche il lungo tempo di

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wewl-küyén, la cui durata è di due lune anziché di una sola. Ora il tempo buono asciugava i lunghi mesi del piovoso inverno dell’arcipelago di Chiloé e le giornate erano lunghe e piacevolmente calde. Millaray, ora, alternava la cura della lama con l’aiuto nei vasti campi della comunità, appendendo il suo marsupio da cui sporgeva il volto della bambina al ramo di un albero. Seminavano le patate, i fagioli, la quinoa. In un campicello ben chiuso da un alto quincho, in un avvallamento che lo esponeva meglio ai raggi del sole e lo proteggeva dai venti più freddi, seminarono anche il maiz. Poco, perché solo quando le annate erano particolarmente calde ed asciutte riusciva a crescere e a formare una piccola pannocchia; ma, purtroppo, assai più spesso avveniva che il maiz marciva prima ancora di giungere a maturazione e a mala pena si ricavavano i chicchi sufficienti per ritentare la semina l’anno successivo. Durante wefun-küyén vennero raccolti i frutti selvatici dei boschi. Poi giunse afunküyén ed allora vennero raccolti i frutti delle prime semine. Finalmente il calore di kogiküyén fece maturare la patata ed i fagioli e persino il maiz. Quell’anno, infatti, walüng, la stagione calda, fu particolarmente secca, quasi a compensare in qualche modo la grande piovosità di pukém, la stagione fredda. Il fiorellino di Millaray era cresciuto: la pichiche era piuttosto magrolina, certamente, ma robusta e vivace, anche se il suo carattere era piuttosto cupo e chiuso. Sembrava, in qualche modo, averlo ereditato da Millaray, piuttosto che dalla sua mamma, la quale, invece, era allegra ed estroversa. La bimbetta, infatti, schivava ogni manifestazione affettuosa: d’altra parte nessuno desiderava accarezzare quella strana creatura dai capelli e dagli occhi rossi, anche se la pelle aveva preso colore. Pure il colore della pelle, era strano: non aveva la calda tonalità del legno di alerce, come tutti gli altri, ma piuttosto assumeva un riflesso rossiccio come i suoi occhi. Ma anche come il colore del temibile Peripillán, dal quale discendeva: e questo, naturalmente, contribuiva a creare una grande barriera tra lei e gli altri componenti del clan, anche i familiari suoi più diretti. Ma la bambina non sembrava soffrirne, anzi. Il suo atteggiamento verso i nonni e gli zii, per piccolina che fosse, sembrava essere di assoluta indifferenza. Se per caso si avvicinavano al giaciglio dove lei era accoccolata, li osservava serissima, con i suoi enormi occhi spalancati, ma senza sorridere e senza emettere alcun suono. Ma era ben diverso il rapporto che la bambina nutriva per Millaray. Quando la ragazzina si avvicinava, o semplicemente le rivolgeva anche da lontano una parola, la bambina si illuminava come se avesse un sole al suo interno: allora gli occhi le brillavano di allegria e dalla sua boccuccia scaturivano mille suoni, incomprensibili, certamente, ma pieni di affetto e di entusiasmo. Il rapporto tra la piccina e la sua nutrice, infatti, era divenuto un sodalizio inscindibile. Era praticamente impossibile vedere l’una senza l’altra, quasi fossero in simbiosi: sembravano due piante rampicanti che si dessero reciproco sostegno. Nelle occasioni in cui Millaray non era indaffarata aiutando nel lavoro del campo o nella raccolta dei frutti di mare e delle alghe o nella cura della sua lama e del cucciolo, occasioni davvero rare durante la stagione estiva!, allora lei si distendeva sull’erba con la sua bambina tra le braccia e la sollevava sopra di sé, verso il sole, oppure si rotolava lungo un pendio, stringendola stretta a sé, e sembrava incredibile che non la schiacciasse. Ma no. La bambina rideva, rideva, felice, e continuava a ripetere: “ngen, ngen, ngen”, e non era chiaro se si trattava del gorgheggio di una pichiche che ancora non riesce a formulare una parola, oppure una invocazione allo spirito primo, colui che ha generato tutti gli altri spiriti e che è l’essenza stessa della natura.

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Ai più non pareva bene, quel rapporto così stretto tra le due bambine, ma soprattutto così esclusivo. Neppure pareva bene ai genitori di Millaray. Ma suo padre, dopo le parole del ngenpín, non volle mai intervenire, e per sua madre fu un sollievo non doversi occupare della piccina e il mancato intervento del padre la esonerava da ogni dovere. I fratelli, poi, apprezzavano la laboriosità di Millaray e rimanevano indifferenti alle sue stranezze, ormai proiettati nella loro vita di uomini adulti: per il maggiore si avvicinava la data fissata per le sue nozze, ed il minore rincorreva le giovani ragazze non ancora promesse, sperando in un fugace gesto d’amore, nascosti tra i cespugli, e spesso vedeva soddisfatte le sue speranze. Quando fu il tempo della fioritura del chilco, le lunghe e calde giornate estive divennero un ricordo e la pioggia tornò a picchiettare insistentemente sui tetti di paglia delle capanne. L’anno si concludeva, con il suo ciclo di stagioni, e la festa di We Tripantü era nuovamente alle porte, con il suo bagaglio di sogni e di allegria. * * *

Trayllanka avrebbe dovuto scegliere il nome per la bambina. Infatti la tradizione stabiliva che la scelta fosse un segno di continuità della stirpe e che fosse la nonna materna a trasmettere il suo nome alla domo pichiche, mentre se si fosse trattato di un pichiche wentru allora la scelta sarebbe corrisposta al nonno paterno1. Ma in questo caso la bambina apparteneva alla stirpe del Thrauco - volessero gli spiriti che quel wekufe sprofondasse nelle viscere del vulcano che lo ha generato e non ne uscisse mai più! - e Trayllanka non desiderava avere nulla in comune con quella bambina indesiderata, frutto della violenza più odiosa e che le aveva ucciso la figlia prediletta, ne tanto meno che portasse il suo stesso patronimico. Quindi il tempo passava senza che la donna decidesse. Il ngenpín comprese bene il sentimento della donna e venne in suo soccorso. “E’ giusta consuetudine che la madre e la nonna della bambina consultino gli spiriti per averne la giusta ispirazione - le disse - e poiché è Millaray a farle da madre, sia dunque lei a consultare gli spiriti degli antenati, e poi tu deciderai”. Piacque la soluzione alla donna, e soprattutto piacque a Millaray. “Non ho bisogno di chiedere nulla - disse la ragazzina - perché gli spiriti mi hanno già detto il nome di questa bimba. Sin da quando mia sorella me la affidò morendo. Mi disse: fey ngey ñi rayén, 1

La cerimonia in base alla quale si attribuisce un nome ad un bambino è molto importante e si chiama lakutún. Sino al XIX secolo, i nomi mapuche erano costituiti da due elementi: un sostantivo, elemento patronimico che corrisponde al clan di appartenenza e al quale si attribuisce grande importanza, ed un aggettivo o un complemento di specificazione che generalmente precede il sostantivo. Non di rado uno dei due componenti, o entrambi, venivano abbreviati. Kallfukura = roccia azzurra (da kallfü, azzurro e kura, roccia); Mariñamko = dieci aquile (da marí, dieci e ñamko, aquila); Antüñamko = aquila del sole (da antü, sole); Millaray = Millarayén = fiore d’oro (da milla, oro e rayén, fiore); Trayllanka = Trayenllanka = pietra pregiata della cascata (da trayén, cascata e llanka, pietra pregiata); Kallfüllanka=pietra pregiata azzurra. Kura, ñamko, rayén, llanka costituiscono l’elemento patronimico, tramandato dal nonno paterno al nipote e dalla nonna materna alla nipote. Nel caso della presente novella, la bambina dai capelli rossi dovrebbe quindi ricevere un nome nel quale appaia l’elemento patronimico llanka: non farlo equivale ad un mancato riconoscimento della bambina da parte della nonna, colei alla quale corrisponde. Laku è il nonno paterno, mentre la nonna materna viene chiamata chuchu: quindi filologicamente il termine lakutún dovrebbe essere riservato alla trasmissione del patronimico solamente al nipote maschio. Tuttavia non esiste alcun termine “chuchutún” e nell’uso attuale si attribuisce alla parola lakutún il significato di trasmissione del nome e del patronimico al nipote, indipendentemente dal sesso del bambino. Se, come è possibile, anticamente esisteva un termine differente per la bambina, esso è andato totalmente perduto.

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questo è il mio fiore. E questo è il suo nome. L’ho sempre saputo e quando penso in lei la chiamo sempre così, fiorellino bianco, anche se non ho mai pronunciato queste parole per rispetto alla tradizione. Ma la bambina si chiama Likarayén2, fiorellino bianco, l’ho sempre saputo che il suo nome è questo... non ho bisogno di chiederlo agli spiriti”. Ma queste ultime parole irritarono la madre: “come puoi essere così presuntuosa da credere di sapere quello che gli spiriti pensano, senza invocare il loro consiglio!”, le disse irata. E troncò la discussione. Ma quando Trayllanka ne parlò con l’anziano ngenpín, questi approvò ed ancora una volta difese Millaray: “la ragazzina è nel vero e non è un suo capriccio essersi sempre rivolta a questa creatura chiamandola rayén anziché pichiche. Likarayén è il nome giusto, poiché si tratta di un fiore e la sua missione è quella di sbocciare e di generare un frutto, una nuova vita. Ma come ogni fiore, la sua fioritura sarà breve e potrà bastare un vento un poco più forte per disperdere nel cielo i suoi petali”. Il ngenpín parlò con grande sicurezza, come era nelle sue abitudini. Ma il suo animo, invece, era pieno di dubbi. Vi erano situazioni che offendevano gli spiriti degli antenati, che andavano contro le tradizioni, che rappresentavano un vero e proprio abbandono dell’admapu. Sempre più spesso vi erano famiglie che non volevano più lavorare la terra in comune, ma che pretendevano dividerla: “questo è il mio campo” dicevano, e quel “mio” era assolutamente intollerabile. La terra è degli spiriti. Questo lo affermò chiaramente Ngenechén sin dal tempo dei lituche. E inviò messaggi evidenti: le pillán toki che incendiarono i boschi, le chelkura che lasciavano strane forme nerissime e fragile sul terreno, là dove cadevano le saette. Ma gli uomini ignorarono gli avvertimenti degli spiriti e continuarono ad allontanarsi dall’admapu. E vennero anche due pichiche dalla pelle bianchissima, che furono subito sacrificati agli spiriti, ma ciò non servì ad evitare il giusto castigo. Ed ora nuovamente vi erano grandi segni. Lo spirito di Peripillán si agitava nelle viscere della terra e sempre più spesso le sue lunghe braccia infuocate fuoriuscivano dalle vette delle montagne e scendevano sinuose per poi perdersi nel mare sollevando nubi di vapore. Lo spirito di Peripillán si agitava nelle viscere della terra e sempre più spesso questa veniva scossa violentemente, tra profondi boati, e le capanne tremavano di terrore e qualche volta ne venivano abbattute. Ora ancora una volta era apparsa una creatura dalla pelle bianchissima e dagli occhi e dai capelli di fuoco. Dovevano forse sacrificarla agli spiriti? Ma se così fosse stato, perché Küyén l’aveva protetta con la sua benevolenza. Quando mai il latte rancido di una tricheca aveva permesso lo svezzamento di un neonato: eppure era stato così. Quindi Likarayén non poteva essere una vittima sacrificale. Ma allora, cos’era? Un fiore, che genera la vita? Un fiore, che disperdendo i suoi delicati petali nel vento porta i suoi messaggi, messaggi di pace e di rinnovata alleanza lontano? E quel messaggio avrebbe evitato il castigo o, al contrario, esso stesso sarebbe stato un castigo? Perché gli spiriti non erano stati più espliciti, nei loro perimontún, ma si erano solamente limitati a suggerire che vi era chi voleva sopprimere quella creatura affinché lui potesse salvarla? * * *

Giunse infine We Tripantü con le sue promesse di allegria, le sue capanne inghirlandate dai rami, i focolari accesi e in qualche modo riparati dalla pioggia, le promesse di matrimonio, l’imposizione dei nomi e l’inserimento dei primi orecchini alle bambine. 2

In questo modo Millaray trasmette alla bambina il patronimico della propria nonna materna, e quindi il suo stesso patronimico, quasi come se Likarayén fosse sua sorella, soddisfacendo sua madre che non vuole riconoscere la bambina, ma anche identificandosi strettamente con essa.

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Questo era il primo We Tripantü da quando Millaray, due anni prima, aveva celebrato il suo katán pilún: allora aveva solamente sei anni. Adesso ne aveva quasi nove, ma le sembrava che fosse cambiato tutto, da quel giorno. Allora era intimidita da tutto: dal ngenpín che doveva perforarle i lobi delle orecchie, dal clan che intorno ballava e festeggiava l’iniziazione delle bambine che solo allora diventavano membri della comunità. Il fatto di non essere sola, ma di celebrare il katán pilún insieme ad altre ragazzine della sua età, non era bastato a soffocare la sua timidezza. Poi c’era stato il We Tripantü successivo, al quale lei non andò per assistere la sorella e ricevere tra le sue braccia il frutto di quel parto drammatico. Ora ci andava con Likarayén: le avrebbero imposto quel nome che sino ad allora né lei né nessuno avrebbe dovuto pronunciare. Sarebbe stata lei a condurla davanti al ngenpín tenendola tra le sue braccia, non sua madre, come sarebbe stato giusto. Ma non glie ne importava: anzi, se ne rallegrava, perché in questo modo la bambina sarebbe stata ancora più sua. Per tutto il clan, era lei e solo lei la vera madre della pichiche. Ma non era questo, ciò che importava. Il fatto è che lei si sentiva madre, visceralmente madre, e quel fiorellino lo viveva tutto suo, e le sembrava impossibile non averlo partorito lei stessa. Perciò le sembrava così lontana la celebrazione del suo katán pilún: allora era una bambina, ora era una piccola donna. Ora sì che comprendeva fino in fondo le parole che le disse suo padre nel quincho, quasi un anno prima: non sei più una pichiche, ora sei una pichi domo. La pichiche, ora, era quella bimbetta che teneva per mano mentre cercava di fare i suoi primi passi, mentre la pichi domo, era lei stessa, piccola donna che la incoraggiava senza farle fretta. Millaray con i suoi fratelli ed i suoi genitori andarono in una stessa dalka. In altre circostanze, i fratelli sarebbero andati con i loro amici e loro avrebbero accolto sull’imbarcazione altri parenti o amici, ma la presenza della bambina dagli occhi rossi faceva ancora paura e quando era presente scoraggiava i contatti. Il tempo era coperto e nuvoloso, ma il freddo vento meridionale aveva portato una spruzzata di neve subito ghiacciata sin sulla spiaggia, ma aveva spazzato via la pioggia. Nella sua dalka vi era molta eccitazione: il fratello maggiore si sarebbe sposato ed il minore non esitava nel rivolgergli ad ogni momento battute goliardiche e frizzi scherzosi. Il padre ascoltava allegro, pur senza partecipare alle risate dei suoi figli. La madre, invece, rimaneva in disparte: il matrimonio del figlio apriva la ferita mai rimarginata di quello non avvenuto della figlia maggiore, promessa sposa. A nulla erano valsi i rimproveri del marito: lei non voleva fare pesare al suo figliolo un lutto nell’occasione del suo matrimonio, ma non riusciva a compartire l’allegria dei tre uomini. Accucciata nella poppa dell’imbarcazione, evitava anche Millaray, o più precisamente la bambina che aveva tra le braccia, che non riusciva ad amare e che quel giorno più che mai sentiva essere la causa della morte della figlia. Millaray, invece, era allegra, anche se restava lì, a prora, accucciata e contenta di sentire il vento gelido sferzare il suo volto e quello della piccina che teneva in piedi, con la sua guancia affiancata alla sua. Come sempre, vivevano in un mondo appartato, che escludeva tutti e tutto, e l’allegria di Millaray era tutta per il nome che presto sarebbe stato dato alla bambina. Per sempre. Approdarono a Caguach. Nell’isola la confusione era grandissima, anche perché l’isola stessa era piccola e la gente presente molta: vi erano i clan di tutto l’arcipelago di Quinchao e l’armistizio offerto dalla pioggia veniva accolto con gioia e con la frenesia di chi voleva fare tutto prima che il tempo potesse mutare al peggio. I fuochi bruciavano luminosissimi, ora che erano state rimosse le coperture che li avrebbero protetti dalla pioggia. Profumo di cibo: carne, pesce, frutti di mare, e l’odore delle grandi foglie di pangui che arrostivano al fuoco con il loro contenuto. Nel grande spiazzo retrostante, il gioco del palín era in pieno svolgimento ed i ragazzi delle due squadre cercavano di

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tirare con i loro lunghi bastoni ricurvi la sfera di cuoio per farla passare tra i due stretti pali avversari e così vincere il punto. Mangiarono e festeggiarono tutta la notte. Il maggiore dei due fratelli di Millaray era andato a raggiungere la sua promessa sposa dai suoi futuri suoceri: rimanevano seduti l’uno accanto all’altra, senza neppure sfiorarsi un mano, la ragazza silenziosa, ma vestita con la sua tunica più colorata, mentre dalle sue orecchie pendevano i chaway più belli e più grandi che aveva, mentre il ragazzo rivolgeva la parola quasi solamente ai futuri suoceri, ignorando colei che, al suo lato, riempiva ogni suo pensiero. Un anno prima, non erano ancora promessi, e facevano l’amore nascosti dietro ai cespugli, ed ora, che stavano per celebrare il loro matrimonio, dovevano rispettare la tradizione e fingere di non essersi mai neppure parlati... mentre ora era il minore che cercava compagnia dietro qualche cespuglio benevolo. La promessa sposa del ragazzo era preoccupata all’idea che, tra solo due notti, avrebbe dovuto dividere il tetto con quella bambina dagli occhi e dai capelli rossi di cui tutti mormoravano con paura e nessuno osava nominare. Ma sarebbe stato per poco: il ragazzo aveva abbattuto il grande alerce con la sua piccola ascia di pietra levigata, senza aiuto di alcuno, così come voleva la tradizione, ed ora, con l’aiuto di molti, in pochi giorni la sua ruka sarebbe stata pronta e avrebbero vissuto da soli. Come voleva la tradizione, alla sera il padre di Millaray raccontò alla pichi domo le antiche tradizioni e la storia del loro clan e del pillán dal quale discendevano. Ma soprattutto le sottolineava l’importanza del We Tripantü, quando tutta la natura si rinnova, e l’uomo con essa, e così un nuovo anno ha inizio. Piovigginava. Quando la notte fu in gran parte trascorsa, i genitori di Millaray uscirono dalla dalka e raggiunsero con la figlia e la nipotina il ruscello che attraversava lo spiazzo erboso dove erano convenuti. Già altri si erano denudati e si bagnavano, e così fecero anche loro. Si lavarono accuratamente nell’acqua gelida, e Millaray strofinò ben bene la pichiche con la sabbia del ruscello, incurante del suo strillare indignato. “Bisogna iniziare l’anno nuovo puliti - le diceva - bisogna essere puliti e rinnovati non solamente fuori, ma anche dentro”. Poi si asciugarono e sui rivestirono. Raccolsero dei rami sottili e, alla debole luce dei fuochi accesi sulla spiaggia, si misero a frustare i tronchi degli alberi. “Ci darai i tuoi frutti anche il prossimo anno? Ci darai i tuoi frutti?”. E continuarono finché parve loro che gli alberi rispondessero: “sì, sì, vi daremo i nostri frutti”. Allora tornarono al riparo nella loro dalka. Lì, trovarono il ngenpín in attesa, indifferente al freddo che aveva ricoperto anche la sua veste femminile di cristalli ghiacciati, attento alle rivelazioni che gli spiriti, forse, avrebbero potuto e voluto inviargli. E allora, finalmente, giunse il momento del lakutún, la cerimonia dell’imposizione del nome, quella che Millaray attendeva con tanta trepidazione. Millaray spinse la pichiche verso Trayllanka, affinché fosse lei a tenerla nelle sue braccia. “Tienila tu - disse brusca la donna - questa bambina non porta il mio nome”, ma era chiaro che neppure avrebbe voluto che lo portasse. Millaray esitò. Guardò il ngenpín che attendeva in silenzio. Allora accolse nelle sue braccia la bambina e si rimase ferma immobile davanti al ngenpín, che non sembrò per nulla sorpreso vedendo la ragazzina al posto della madre. E dunque la timida Millaray si fece coraggio, sollevò bene in alto la bambina dai capelli di lava e dagli occhi rossi e quasi gridò: “questa è Likarayén, figlia della madre-dormiente”, mentre la voce le tremava dall’emozione. Allora il ngenpín le disse: “felle may!, così sia!”. Avvicinò la sua grossa mano alla fronte della bambina e l’accarezzò delicatamente, facendo poi scorrere le sue dita lungo i suoi capelli di lava. Likarayén era rimasta immobile senza un accenno di paura, fissando i suoi enormi occhi di fiamma in quelli del

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ngenpín, quasi fosse anch’essa destinata a dialogare con gli spiriti, resa fiduciosa dalle mani di Millaray appoggiate sulle sue spalle. Allora il ngenpín sorrise alla giovane domo: un sorriso appena accennato, che solo Millaray aveva potuto vedere. Ora la bambina osservava la sua nutrice, la ragazzina introversa che l’aveva nutrita con la sua stessa bocca. Teneva la bocca chiusa e tremava un poco: le labbra erano viola per il freddo. Ma mentre rivolgeva i suoi occhi verso Millaray, sorrideva: sì, sorrideva con gli occhi. La cerimonia era conclusa: la strana bambina dai capelli di fiamma e dagli occhi rossi aveva un nome. * * *

Poco prima dell’alba, il cielo si rasserenò. Il vento crebbe d’intensità e spazzò via le grosse nuvole cariche di pioggia, anche se il gelo ricoprì ogni cosa di una fioritura cristallina di ghiaccio. Ma tutto era di buon auspicio. Quando il chiarore cominciò a imporsi, tutti i presenti cominciarono a raggiungere la grande radura sulla spiaggia, in mezzo della quale sorgeva solenne e sacro il rewe con i suoi gradini. Poi dalla cordigliera innevata e bianchissima, comparve il disco solare. “We Tripantü” esclamò la folla all’unisono, attenta al movimento delle labbra del ngenpín. Ed il sole sorse per dare inizio ad un nuovo anno. Poi vi fu il tempo dei balli, mentre la birra di maiz e quella più leggera fatta con i gusci fermentati dei fagioli veniva fatta passare di mano in mano per mezzo di grossi recipienti di legno o di borse di cuoio. Dieci volte dieci volte dieci era la folla presente, e forse ancora di più, ma nessuno poteva contarla: non esistevano numeri così grandi, ne avrebbero mai potuto esistere. E questa folla ballava e festeggiava ruotando intorno al rewe al ritmo di venti tamburi, mentre il ngenpín celebrava il giyanmawn, così come la tradizione imponeva. La cerimonia era appena conclusa, quando la terra cominciò a tremare violentemente. Le scosse si succedevano rapidissime, impedendo anche ogni fuga: qualunque tentativo di camminare era impossibile. Si poteva solo attendere che il violento terremoto avesse termine. Quando già parevano diminuire di intensità, ecco che giungeva una nuova successione di scosse ancora più violente. Il rewe nel mezzo della radura oscillava da lato a lato, quasi a voler uscire dal quel suolo dove era stato piantato profondamente. Il ngenpín era inginocchiato davanti al tronco sacro, abbracciando i gradini più bassi alla ricerca di un punto dove sostenersi in qualche modo. Un rombo sordo ed orribile proveniva dalle più profonde viscere della terra. Poi, improvvisamente come aveva avuto inizio, il terremoto ebbe termine. Un polverone enorme si era sollevato sulla radura, nonostante la brina che copriva il suolo. Quindi un improvviso boato attraversò l’ambiente. Tutti gridavano, temendo una nuova scossa. Invece la terra, ora, rimase immobile, ma un bagliore rossastro si rifletteva sulla polvere sospesa, colorando l’aria di fiamma. All’orizzonte, il maestoso cono di quello che era il più imponente tra i vulcani che circondavano l’arcipelago, sembrava essere esploso in una grande fiammata. Quasi non si poteva osservare la vetta perché la sua luminosità feriva gli occhi e rivaleggiava con quella del sole. Sui suoi fianchi, due lunghe e grandi colate di lava scendevano verso valle, aprendosi in tanti flussi minori: sembravano due smisurate braccia, al termine delle quali vi erano due mani dalle dita lunghissime e tentacolari, come delle piovre. Tutti osservavano, ammutoliti dal terrore. Solo Likarayén sembrava entusiasta di fronte a quello spettacolo orrendamente bello. Guardando ora il vulcano, ora Millaray, gridava: “Milla-milla, ngene, pilla-pilla!”. Poi iniziò a scendere una pioggerellina fine e fangosa, che cadendo sul suolo copriva l’erba di una cenere grigiastra. Quindi tutti i ngenpín, i machi ed i lonko delle diverse

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isole si rivolsero verso lo sciamano che era rimasto vicino al rewe. E questi disse loro che la celebrazione del We Tripantü poteva continuare. Allora la voce non tardò a raggiungere tutta la folla e si formarono due nuovi cerchi. Quello più esterno era formato da una folla simile a quella che, poco prima, aveva circondato i bimbi che celebravano l’imposizione del nome. In quello più interno, vi erano le ragazzine che avendo ormai compiuto il loro sesto anno di età si preparavano a ricevere i loro primi orecchini: accanto a loro le nonne che ostentavano i grandi chaway di legno che presto le loro nipoti avrebbero appeso ai lobi delle loro orecchie. Il ngenpín, accanto al rewe, prese il grosso ago di osso che serviva per la cerimonia del katán pilún ed i fili colorati ed intrecciati con piume d’uccello che avrebbero attraversato le giovani orecchie delle bambine alla loro prima cerimonia d’iniziazione. Poi la cerimonia ebbe inizio sotto la leggera pioggia gelida e fangosa. Più tardi ci sarebbe stato anche il tempo dei matrimoni. * * *

La sottile pioggia fangosa cessò con il sopraggiungere della notte ed il freddo vento meridionale coprì ogni cosa con una spessa cappa di calaverna dai lunghi aghi ghiacciati. Sulla cenere che si era deposta sul suolo, formò uno strato assai scivoloso che rendeva difficile anche camminare e che feriva anche l’indurita pelle della pianta dei piedi. Pochi avevano affrontato il viaggio di ritorno con le deboli e leggere dalka, timorosi dell’ondata di maremoto che spesso devasta le coste dopo i terremoti di maggiore violenza. Vi era molta inquietudine, né il proseguimento della celebrazione del We Tripantü era stato sufficiente a dissiparla. Un poco era la paura che le tremendi scosse potessero ripetersi, ma molto di più era la preoccupazione di quali condizioni avrebbero ritrovato una volta che ciascuno avesse fatto ritorno alla sua ruka. Sebbene queste costruzioni fossero molto elastiche, ben adattate ad un ambiente dove i terremoti erano tutt’altro che infrequenti, tuttavia in questa occasione le scosse erano state veramente molto violente ed anche a Caguach non erano mancati alcuni crolli, pur senza che ci fossero vittime. La violenta eruzione non cessava di produrre alte fiammate, esplosioni di lapilli, lampi e boati. Il loro rumore giungeva sino a Caguach, nonostante l’isola distasse quattro od anche più giornate di navigazione dal vulcano, e questo se c’erano dei vogatori molto in gamba. Alcuni gruppi famigliari si erano adattati a trascorrere la notte sotto i ripari di paglia rapidamente eretti in prossimità della spiaggia. Altre persone si erano sistemante nelle loro dalka, ponendo alcune pelli a guisa di tetto ed usando i rami quale improvvisato sostegno. Vi fu una forte scossa di assestamento: sollevò immediate grida, ma fu di breve durata. Altre due furono più prolungate, ma molto più leggere. Ma soprattutto non giunse la temuta onda di maremoto. La famiglia di Likarayén si era aggiustata alla bell’e meglio nella dalka. La novella sposa era già con loro, com’era giusto, ma l’agitazione che regnava non rappresentava certamente la più gradita prima notte di matrimonio. I cinque adulti e la ragazzina cercavano di proteggersi dal freddo con le numerose pellicce che avevano recato con se, mentre Likarayén era infilata sotto la veste di Millaray, la quale la scaldava con il suo stesso corpo. Finalmente venne l’alba e le imbarcazioni furono fatte scivolare ad una ad una lungo la spiaggia, sino ad incontrare la spuma delle onde. Il freddo stimolò gli uomini a vogare in fretta, mentre le donne rimanevano ben coperte dalle loro pellicce. Quando già il sole era alto, giunsero alla spiaggia di Chequián. Si affrettarono a raggiungere la ruka. Aveva retto alle scosse del terremoto, ma lo spigolo del tetto presentava una lunga ondulazione, come se l’onda sismica si fosse

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soffermata per non più andarsene. Nessuno dei sostegni aveva ceduto, anche se tutti avevano perduto la loro verticalità e invece di apparire ben piantati nella terra resa dura dai tanti passi, appoggiavano in una fossa conica creata dalla loro stessa oscillazione. Uomini e donne si misero subito al lavoro: raddrizzando, riempiendo le fosse, rafforzando. Prima che facesse notte la ruka era stata rimessa completamente a posto. Millaray si era anche preoccupata della sua lama, che dimentica della sua antica mansuetudine ora correva da un estremo all’altro del piccolo quincho, terrorizzata per le violente scosse del terremoto e furiosa per il cucciolo che le era stato portato via. Finalmente a posto, accesero il fuoco e appesero sulle fiamme una pentola di cuoio piena di acqua. Dentro vi avevano posto alcune patate, e delle grosse cozze affumicate e dei pezzi di sargasso che avevano messo nell’acqua ad ammorbidirsi prima ancora di partire per Caguach. Alcuni frammenti di un pane di alghe salate e disseccate insaporiva il brodo, insieme a numerose erbe aromatiche. Quando iniziò a bollire, aggiunsero anche una grossa spigola, anch’essa affumicata e già ammorbidita nell’acqua. Attesero ancora un tempo, mentre la sposa novella, intimidita, sistemava il suo giaciglio accanto a quello del marito. Poi sedettero tutti insieme sulle pietre intorno al focolare e, aiutandosi con le mani e con alcuni bastoncini appuntiti, prendevano i frutti di mare e le patate dalla pentola appesa sul focolare, mentre il pesce era stato già tolto e disposto su un basso vassoio di vimini. Mentre mangiavano, una breve scossa creò nuova apprensione. Ma fu leggera dopo essersi guardati tutti l’un l’altro, scoppiarono in una fragorosa risata nervosa e liberatrice. Millaray, sempre così schiva, scelse dal pentolone di cuoio sul fuoco una cozza particolarmente grossa e bella e la offrì alla cognata, insieme ad un suo raro sorriso. Il gesto della ragazzina aiutò a creare una atmosfera più distesa ed allegra, proprio perché era sempre così distaccata da tutto e da tutti. Likarayén, come sempre, era seduta tra le sue braccia ed era già da un bel po’ di tempo che succhiava tutta soddisfatta un grosso pezzo di sargasso. La giovanissima cognata di quando in quando cercando di non farsi notare, osservava la strana bambina. “Incute paura - pensava - ma di tutto può essere, fuorché mostruosa”. Poi si chiese se avrebbe potuto e saputo farle un gesto di affetto: forse sì, ma non subito, e certamente avrebbe dovuto superare l’impressione che ancora le causava. Forse si aspettavano da lei, proprio questo. Un gesto gentile verso una bambina che tutti rifiutavano. Ma poi le venne in mente che aveva trascorso con loro gran parte della giornata passata e tutta quella che ora aveva ceduto alla notte, e tranne Millaray, che praticamente non si staccava mai da lei, nessun membro della famiglia aveva mai neppure sfiorato Likarayén. Forse non era solo a lei che causava una impressione così difficile da superare. Pensò a questa cognata ancora bambina che solamente ieri aveva visto per la prima volta. La decisione con cui si era presentata di fronte al ngenpín, la forza con cui aveva dichiarato il nome della sua protetta, ma anche le voci che correvano sul suo conto. Una piccola donna coraggiosa e combattiva come un guerriero. Non era simpatica, questo no di certo, ma tutti la rispettavano e non pochi, pur così giovane, l’ammiravano. Osservava la dolcezza con cui carezzava di quando in quando Likarayén, che in quei momenti smetteva di succhiare il suo pezzo di sargasso, senza toglierselo di bocca, e le rivolgeva quel suo particolare sorriso, tutto concentrato negli occhi. Le venne anche da pensare che forse Likarayén e sua madre si parlavano con il pensiero. Ma che tonta! Come poteva pensare che fosse sua madre, Millaray, che era appena poco più che una bambina! Sapeva bene che Likarayén-dagli-occhi-rossi era figlia della madre-dormiente, eppure a vederle lì sedute, la bimba più piccola tra le braccia di quella più grande,

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sembravano veramente una figlia con la sua mamma. “Nonostante la sua stranezza ed il suo mutismo - pensò - mi piace Millaray: saremo amiche”. Poi le venne ancora da chiedersi se era possibile essere amica di una ragazzina così strana ed introversa. Forse era possibile volerle bene, ma esserle amica... chissà. Terminato il pasto, tutti stesero i loro giacigli per mettersi a dormire... sperando che la terra se ne stesse buona. Il giovane sposo allora disse: “andiamo a vedere il vulcano” e prendendo la sua novella compagna per la mano, la trascinò con sé fuori della ruka, dopo aver afferrato un paio di pellicce con cui ripararsi dal freddo pungente ed una torcia per rischiarare il cammino. Camminarono per un pezzo, risalendo la collinetta che permetteva di guadagnare la punta di Chequián ed un’ampia vista che spaziava lungo due decine di isole, mentre la cordigliera andina faceva loro da sfondo. Tre vulcani fiammeggiavano verso il cielo: il Michinmawida verso il meridione, l’Hornopirén quasi di fronte a loro, e, assai più distante, il Peripillán verso settentrione. Ma sebbene meno vicino, i bagliori che scoppiavano violenti sulla sua vetta illuminavano tutto il cielo e rendevano insignificanti quelli degli altri due vulcani. Mentre le due grandi braccia incandescenti scendevano sui suoi fianchi, le esplosioni maggiori scagliavano verso il cielo infinite luci roventi ed illuminavano di bagliori rossastri le nuvole che erano tornate a formarsi sopra di loro. “Fa meno freddo!” disse la giovane sposa, ma si strinse forte al suo uomo. “E’ vero rispose lui - e certamente tra poco ricomincerà a piovere” e la strinse forte a sé. Rimasero un poco in silenzio, entrambi intimiditi da questo matrimonio che pure desideravano ed attendevano da ormai quasi due anni. Poi alla mente del giovane venne il ricordo degli sguardi che la sua giovane sposa aveva rivolto alla piccola Likarayén, credendo di non essere vista. “Ti fa paura, la piccola? - le disse gentile - non devi avere paura, e poi c’è sempre Millaray, con lei”. “Ormai per mia sorella esiste solamente Likarayén” aggiunse poco dopo con una nota di astio. “Fanno paura quegli occhi così grandi e rossi come la brace” rispose la giovane sposa e aggiunse: “però sono occhi buoni. Non ci vedo cattiveria. Likarayén non è certo una wekufe, e non credo proprio che diventerà una kalku”. Rimase un poco in silenzio, immersa nei suoi pensieri, mentre il giovane marito le teneva la mano. Poi disse ancora: “forse diventerà una machi...”. “Ma è una donna!”. “Beh, non sarebbe l’unico caso... nella nostra isola c’è una machi... qui non ce n’è nessuna?”. I giovane ci pensò un poco: “si, anche qui ce n’è una. E’ molto vecchia, ma nessuno la consulta o la invita alle cerimonie. Tutti ne hanno paura. Dicono che sia una kalku, anche se il ngenpín dice che non è vero... ma neppure lui la frequenta... o almeno così mi sembra”. Ma intanto le prime gocce di pioggia, sottili e gelide, avevano cominciato a colpire le loro pellicce e a scivolare di foglia in foglia e i due giovani si affrettarono a ritornare alla ruka ancora piacevolmente calda. * * *

Il lonko aveva distribuito i lavori alle diverse famiglie che costituivano il clan, assegnando ad ogni gruppo di vicini i terreni che dovevano essere lavorati e indicando cosa, come e quanto seminare. In questo modo si garantiva una corretta rotazione e si dava la possibilità anche al suolo patagonico, così tanto dilavato dalle piogge, di dare i suoi frutti. Li avevano seminato le patate, in lunghi filari che seguivano la pendenza del terreno, e tra un filare e l’altro vi erano i fagioli: le une e gli altri erano germogliati e le prime costituivano già delle piantine alte circa un palmo. Poi, vicino alla spiaggia dove il terreno era ricco di rena, avevano seminato le patate che avrebbero raccolto prima delle altre. Sul fianco di un collina, invece, dove il terreno era ricco di torba, il raccolto delle

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patate sarebbe stato l’ultimo della stagione. Nel luogo più protetto dal vento freddo del meridione, avevano seminato un piccolo campicello di maiz: il suolo era stato mescolato con alghe e con gli avanzi del pesce, in modo da arricchirlo con le necessarie sostanze. In un luogo pianeggiante e acquitrinoso, infine, avevano messo a dimora i germogli di quinoa. Erano stati celebrati i diversi riti della terra. Già prima di We Tripantü, quando gli uomini più robusti si disponevano in coppia per arare il terreno, il ngenpín aveva chiesto scusa alla madre terra per le ferite che le avrebbero recato ed ai fiori, agli alberi ed agli arbusti, per le radici che avrebbero strappato: le aveva anche offerto il giusto sacrificio. Solo dopo che il sangue di un grosso lama era stato offerto agli spiriti ed era stato versate sulla madre terra, gli uomini si erano disposti al lavoro. Il più alto di ogni coppia, piantava nel suolo per poco meno di un palmo un grosso bastone di dura luma, dalla punta indurita al fuoco, poco più alto della sua stessa statura; quindi lo afferrava con le sue mani e lo inclinava quanto necessario affinché l’estremità opposta potesse essere appoggiata sul suo petto, vicino alla spalla destra, dove uno spesso sostegno di cuoio assicurava un alloggiamento adeguato. Il compagno, scelto più basso ma più robusto, allora si disponeva di fronte a lui, afferrava anch’egli il bastone con le sue mani e, puntando i piedi in avanti e inclinandosi nel modo opposto, cominciava a tirare, così da aprire il solco nella terra. Una, due, tre volte, sino a quando il lungo solco era sufficientemente profondo da consentire la semina. Questa, poi, veniva preceduta dal rito della fecondazione del terreno: il ngenpín offriva alla madre-terra una piccola parte dei semi che avrebbero affidato al suo grembo e li irrigava con alcune gocce di birra, affinché le piccole creature che la grande madre voleva proteggere e al quale aveva dato rifugio nelle sue viscere potessero trovare anch’esse alimento. Infine le donne - ma solo quelle che avevano già dato prova di fertilità - ponevano la patata ricca di germogli, o il chicco di maiz, nel solco. Il compito delle anziane e delle donne che non avevano ancora dato prova di fertilità era quello di richiudere il solco, spingendo la terra sopra il seme. I bambini, infine, un po’ aiutavano le donne, un po’ passavano tra gli uomini con le borse di pelle piene di birra di maiz o di fagioli. Pewü, la stagione delle promesse, aveva avuto il suo inizio. La giovanissima sposa viveva ancora nella ruka dei suoi suoceri. Il violento terremoto di We Tripantü aveva causato molti danni ed il lavoro comune, diretto dal lonko, era stato destinato a ricostruire le capanne crollate e non vi era stato spazio per farne di nuove. La ragazza, tuttavia, pur rimpiangendo la mancanza di intimità, si trovava bene nella casa dei suoi suoceri. Andava d’accordo con tutti, anche con la piccola Millaray. Anzi: era proprio con la ragazzina che aveva stabilito un rapporto particolarmente affettuoso. Nonostante le sue promesse, quell’anno la stagione del pewü era molto piovoso. Aveva appena avuto inizio il mese di pillel-küyén, bugiardo come il suo stesso nome indicava. Anziché il sole atteso, aveva portato interminabili giornate di pioggia, che obbligavano il clan a trascorrere il tempo chiusi nelle ruka ben riscaldate, mentre i lavori nei campi subivano inevitabili ritardi. Tessere era la principale attività delle donne nelle capanne e questo era anche il compito più amato da Millaray, oltre a quello di pascolare il suo lama. Le piaceva veder nascere tra le sue piccole dita sottili i simboli e le figure che la madre le suggeriva, ma che non di rado variava a suo gusto, attenta però a non infrangere la tradizione. Likarayén sgambettava, ora non più incerta ma in eterno movimento, un po’ qui e un po’ là, per tutta la ruka, insofferente che la pioggia non le permettesse di essere fuori, in mezzo ai boschi o ai campi. Fu così che cadde malamente, inciampando su una pietra del focolare, vicino alla giovane sposa. E per la ragazza fu istintivo il gesto di chinarsi ed aiutarla a

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rimettersi in piedi: e, altrettanto istintivamente, le fece una leggera carezza sulla guancia, come per asciugarle le lacrime che non c’erano. “Non l’ho mai vista piangere, questa bambina - pensò un poco sorpresa - non piange mai!”. E con ancora maggiore sorpresa, si rese conto che era la prima volta che la toccava: un’intera stagione era trascorsa da quando si era unita alla famiglia, ma questa era la prima volta che lei sfiorava con la sua mano Likarayén-dagli-occhi-di-brace. E la sua pelle non bruciava, e neppure irritava la mano: ma era leggera e morbida. Likarayén era forse altrettanto sorpresa di sentirsi toccare da una mano che non era quella di Millaray: guardò colei che l’aveva aiutata a rialzarsi e sorrise. Non solamente con gli occhi, ma anche con la sua piccola bocca. Millaray aveva immediatamente interrotto il lavoro sul telaio per accorrere e vide la carezza che la cognata aveva fatto alla sua bambina. E le fu grata. E seppe che sarebbero state amiche e che le avrebbe voluto bene. Era la prima volta che una persona faceva una carezza a quella sua bambina che lei adorava in modo viscerale e quasi doloroso. Anche sua madre, quando era molto piccolina, l’aveva vestita, l’aveva lavata, ma accarezzata... no, quello mai! E non appena Millaray si era fatto carico della bambina, aveva rinunciato ben volentieri a qualunque contatto e aveva fatto sì che non ve ne fossero neppure di casuali. La pichi domo non disse nulla - erano così rare le sue parole nei confronti degli altri, quasi quanto era ininterrotto il suo chiacchierio con la bambina - ma sorrise alla cognata e le fece una carezza sulla guancia, così come lei l’aveva fatta a Likarayén. Quindi tornò al suo telaio. E la cognata ebbe la conferma della sensazione che aveva provato per Millaray sin dal primo giorno: nonostante la sua stranezza ed il suo mutismo sarebbero state amiche. Millaray era molto introversa. Questa era la sua natura. Ma il suo mutismo era cresciuto enormemente da quando dedicava tutto il suo amore a Likarayén, vivendo con la bambina in un mondo a due, dove non vi era spazio per nessun altro. La cosa aveva prima infastidito, poi irritato l’intera famiglia, ma infine era stata accettata con rassegnazione, come un destino un poco malevolo ma... infine c’era ben di peggio. Il mutismo di Millaray, invece, era semplicemente il suo rifiuto verso coloro che rifiutavano la bambina. Ossia tutti. Tranne il machi. E con il machi, infatti, la ragazzina aveva avuto più di una occasione di colloquio, sia perché non di rado lo sciamano giungeva alla ruka per informarsi sulla sua salute, sia perché, molto raramente, era anche avvenuto che la ragazzina - all’insaputa dei suoi famigliari - fosse andata alla ricerca del ngenpín e lei stessa gli avesse posto delle domande. E l’anziano, stupito per l’ardimento della ragazzina, la quale fissava in lui i suoi occhi penetranti allo stesso modo in cui lui lo faceva sugli altri, non aveva mai ritenuto disdicevole quel comportamento e, pur senza incoraggiarlo, non l’aveva neppure dissuaso. E poi piaceva, al ngenpín, vedere Likarayén-dagli-occhi-di-fuoco. E questi occhi di fuoco, sempre così spalancati, si posavano sui suoi, senza alcuna timidezza, e lo fissavano e sembravano penetrare nel suo corpo fino a raggiungere la sua anima. Provava una sensazione strana, lo sciamano, di fronte a quella bambina, ma era una sensazione piacevole, quasi di complicità. E quel fissare gli altri che aveva Likarayén era simile allo sguardo di Millaray, ma enormemente più profondo. Sembrava che la bambina avesse imparato dalla piccola madre adottiva a fissare in quel modo il ngenpín, ma poi si fosse esercitata ed impegnata per perfezionare sempre di più quell’arte. “C’è un messaggio degli spiriti degli antenati, in questa bambina - pensò lo sciamano - ma non riesco a decifrarlo”. Poi gli venne di pensare che l’esistenza stessa della bambina dai capelli rossi era un messaggio degli spiriti. “Ma quale?”. * * *

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Trascorse la stagione del pewü con i suoi frutti selvatici: abbondarono i mirtilli, ma le fragole rimasero pallide e insipide per la scarsità di sole. Poi venne il tempo del raccolto, il mese di kogi-küyén. Ma solo la patata, ebbe un buon rendimento. La raccolta dei fagioli fu scarsa ed il maiz marcì quasi interamente prima ancora che la pannocchia vedesse crescere i suoi grani. Abbondò, invece, la pesca. Le grandi maree, i pilcán, lasciavano scoperti ampi tratti di spiaggia e di scogliera: cozze ben più grandi della mano di un adulto, granchi dal guscio spinoso, grosse vongole rotonde e sugose, ricci neri dalle sfumature rossastre, ma anche spigole, sogliole, aringhe, merluzzi, e poi le grandi quantità di alghe che le frequenti mareggiate abbandonavano sulle spiagge, tutto contribuiva a fornire tanto l’alimento quotidiano, quanto la necessaria provvista per l’inverno. Sicché si dovettero costruire altre ruka, non solo per le nuove famiglie che si erano andate costituendo, ma anche da destinare unicamente ad affumicare l’abbondante cibo che il mare forniva. Pertanto, nonostante il misero raccolto, non era quello il problema che angustiava il lonko e i ngenpín dell’isola. La preoccupazione più grave era causata dai casi sempre più numerosi di famiglie che a poco a poco si allontanavano dalle tradizioni del clan. Non si trattava di spaccature brusche e improvvise, ma piuttosto di un progressivo allentamento dei vincoli che univano l’intero clan. Sempre più spesso avveniva che una famiglia smettesse di lavorare la terra in comune, ma cominciasse a dissodare un terreno per conto proprio, senza che il lonko l’avesse assegnato, e poi sempre da soli lo coltivavano e finalmente consideravano il raccolto come qualcosa che apparteneva solo a loro, anziché all’intero clan! Magari, inizialmente si trattava di un podere piccolo piccolo, e la sua cura si aggiungeva a quella comunitaria, senza sostituirla. E ciò da sempre faceva parte del costume del clan, anche se i ngenpín lo criticavano. Ma poi quel terreno un tempo minuscolo cominciava a crescere, sino a quando la famiglia si allontanava completamente dal lavoro comunitario. Magari ciò avveniva nell’arco di un’intera generazione, ma era un fenomeno sempre più frequente. I ngenpín, inoltre, interrogavano ansiosi gli spiriti degli antenati chiedendo come interpretare i segnali che continuamente ricevevano. La dimora di Peripillán, il vulcano che porta il suo stesso nome, continuava ad essere il centro di continue esplosioni di fiamme che sembravano voler arrivare sino al cielo, attraversando ad uno ad uno i quattro wenumapu. E anche quando non c’erano fiamme, l’ira dello spirito non si placava, ma si manifestava con un denso fumo nero - che certamente giungeva sino al cospetto di Ngenechén! - e con grandi braccia di fuoco che scendevano dalla vetta e abbracciavano strettamente tutta la montagna, e con un frequente brontolio che sorgeva dalla profondità della terra, là dove vivevano i wekufe. E poi vi erano le scosse. Non ve ne furono più, di così violente come quella del giorno di We Tripantü, ma si ripetevano con una certa frequenza e, comunque, alcune erano abbastanza intense da suscitare timore e da rendere necessario riparare e rinforzare le capanne. I ngenpín erano concordi nel dire che questi erano i segnali che gli spiriti inviavano al clan affinché ritornasse nel solco dell’admapu. Ma quelli che pretendevano di lavorare da soli la terra, senza compartire con l’intero clan i suoi frutti, non ci facevano caso ed il lonko non riteneva di poter utilizzare la coercizione per impedirlo. Giunse anche un segnale impressionante della collera degli spiriti. Una grande esplosione di fiamme si produsse sulla vetta di un altro vulcano, la dimora di Hornopirén, quello più vicino all’isola di Quinchao. Ed allora avvenne che una grande chelkura rovente cadde dal cielo, incendiando l’erba e creando un avvallamento nel punto del suo impatto. La massa rocciosa si era rotta sul terreno e i ngenpín avevano letto nella forma

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dei suoi frammenti il messaggio degli spiriti. Ma ancora una volta il clan era rimasto sordo ai loro avvertimenti. E giunse l’epoca del chomüngén, con le sue piogge intense, e poi quella del pukém, e ancora una volta si celebrò We Tripantü, e vi furono nuovi nomi ed altre bambine ricevettero la loro iniziazione ed i loro primi orecchini. Poi fu di nuovo la stagione del pewü. E infine il ciclo delle stagioni si alternò ancora una volta. * * *

E ancora una volta fu We Tripantü. Per Likarayén, quello era già il terzo che celebrava, e ormai era una bimbetta di tre anni, vivace ed al tempo introversa, come Millaray che continuava a farle da madre. Millaray, che ormai cominciava ad assumere l’aspetto una piccola donna e che, a dispetto del suo carattere ombroso, lavorava come una adulta. Millaray che amava Likarayén come una figlia, ed era pienamente ricambiata dalla bambina-dagli-occhi-rossi, che l’amava come una madre. Millaray che come ogni madre aveva iniziato a farsi accompagnare da Likarayén nei lavori quotidiani: nella campagna come in spiaggia o nella ruka, assegnandole quei piccoli compiti che la sua età consentiva, ma soprattutto parlando costantemente con lei, spiegandole il perché di ogni cosa, come se la bambina fosse altrettanto adulta e in grado di capire ogni spiegazione. Tre anni sono pochi. Ma già bastano per rendersi utile in tante piccole cose. Ecco, dunque, che Likarayén andava a raccogliere le fragole e i mirtilli con Millaray, e imparava a rispettare la piccola pianticella, staccando il frutto senza rompere né le foglie, né i fragili steli. Sapeva anche essere molto severa, Millaray, come quella volta che si arrabbiò e la fece piangere per aver calpestato per gioco tanti fiori, disperdendoli tra l’erba alta e profumata. Likarayén pianse, un poco perché i rimproveri di Millaray erano rari quanto le sue lacrime e quindi particolarmente dolorosi, ma soprattutto perché comprendeva che quanto aveva fatto era veramente qualcosa di brutto. Ingenuamente, provò a raccogliere la corolla strappata di un fiore e ad avvicinarlo ad uno stelo d’erba, aspettandosi che in qualche modo il fiore potesse tornare integro. Forse, quel giorno, per la prima volta comprese una concetto importantissimo: ai gesti che uno compie, talvolta può non esservi rimedio. Poi ci fu un grande pilcán. La marea scendeva a lungo, lasciando a nudo ampi fondali sabbiosi. Il clan interveniva con gran parte delle sue forze e uomini e donne approfittavano del breve intervallo che c’era prima che la marea riprendesse a crescere, per piantare nel fondo lunghi pali intrecciati con canne. Alla successiva discesa della marea, questa sorta di palizzata si comportava come una lunga rete che imprigionava una grande quantità di pesce. A raccoglierlo c’erano tutti, anche i bambini più piccoli. Likarayén rideva tra gli spruzzi che lei stessa sollevava correndo, mentre cercava di trattenere una scivolosa spigola o un piccolo grongo, il più delle volte senza riuscirci. E anche lì, Millaray era al suo lato. E le insegnava i nomi dei pesci, e le metteva sulla sua mano i granchi, facendole vedere come afferrarli senza esserne pizzicata, e con il suo esempio le faceva perdere la paura dei polpi, lasciando che avvolgessero i loro tentacoli intorno alle loro mani unite. Poi quando finalmente catturavano un pesce e lo uccidevano colpendolo nella nuca con una pietra, le insegnava a scusarsi con l’animale e le faceva ripetere insieme a lei: “perdonami, pesciolino, per farti del male, ma io ti terrò presente nei miei sogni e ti compenserò curando la tua memoria”. Poi le insegnava, camminando, a fare attenzione, a non schiacciare inutilmente nessun animaletto: perché si può godere dei frutti della madre terra, ma non si deve mai abusarne. E allora Likarayén cresceva immersa nella natura, sentendosi parte lei stessa

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della natura. Amava la pioggia quando scivolava sulla sua pelle, anche se aveva freddo, perché la pioggia è bella. E amava il vento, anche quando le sferzava rudemente il viso: perché il vento trasmette i messaggi degli spiriti e profuma di mare. E amava il sole, anche quando la faceva sudare e le provocava la sete: perché il sole è il nostro progenitore comune, e da lui discendono tutti gli uomini del mapu, gli unici uomini veri. * * *

Venne il successivo We Tripantü e Likarayén compì quattro anni. Poche cose erano cambiate. Con l’aiuto di tutti i vicini, il fratello maggiore finalmente era riuscito a costruire la sua ruka ed era andato a viverci con la sua giovane sposa: questa aveva avuto un figlio che purtroppo non sopravvisse, ed ora era in attesa del secondo. Ma per il resto, nulla sembrava cambiato, tranne il fatto che i vecchi erano un poco più vecchi e i bambini un poco più adulti. A poco a poco era venuto a meno ogni timore nei confronti di Likarayén-dagli-occhirossi. La bambina era sempre molto attiva e vivace, ma era anche piuttosto introversa. Non evitava il contatto con gli altri bambini, ma neppure li cercava, né tanto meno giocava con loro. “Ogni giorno che passa, questa bambina assomiglia sempre di più a Millaray” esclamò una volta la madre della ragazzina. Naturalmente non si riferiva all’aspetto: Likarayén, infatti, era rimasta sempre uguale, con i capelli intensamente rossi, pallida in volto, e con gli enormi occhi che sembravano di fiamma. Nel carattere, invece, la bambina sembrava essere veramente figlia della sua nutrice. Come Millaray, aveva una fantasia fertilissima che nessuno aveva mai percepito. Infatti amava inventare brevi raccontini che improvvisava quando era sola con la sua protettrice, ma quando altre persone erano presenti, la bambina si chiudeva in un mutismo che, seppure non ostinato o fastidioso, tuttavia non invitava certamente al dialogo. E Millaray, dal canto suo, era sempre più espansiva ed affettuosa con Likarayén: le insegnava a cantare, le faceva interminabili discorsi, non si stancava mai di giocare insieme a lei, sebbene le occasioni di gioco fossero rare. Ma quando c’erano altre persone presenti, allora tutta la sua introversione veniva fuori e, insieme alla sua bambina, si richiudevano entrambe in un apparente mutismo. Apparente, perché in realtà Likarayén e Millaray avevano imparato a parlarsi con gli occhi: si guardavano e si capivano in tutto, immediatamente, senza mai commettere errori, ma agli altri pareva che non si dicessero nulla. L’introversione di Likarayén era dovuta solo in parte alla sua indole, ma era soprattutto conseguenza del modo di essere di Millaray e, comunque, non era intenzionale. Per quest’ultima, invece, il suo mutismo era una vera e propria contestazione verso chi rifiutava Likarayén: e quindi verso quasi tutti. Infatti era cessato il timore nei confronti della bambina, ma non era scomparsa la diffidenza. Se era vero che a nessuno dava fastidio Likarayén quando partecipava con i suoi piccoli compiti ai lavori della campagna o alla raccolta dei frutti del mare, era però altrettanto vero che comunque quasi tutti evitavano di avere con lei qualunque contatto fisico. Se dovevano porgerle una sacchetto pieno di semi, preferivano appoggiarlo accanto a lei e lasciare che fosse lei stessa a prenderlo. E se era Likarayén a dover riconsegnare uno scodellino di legno, le dicevano: “lascialo pure lì, quello scodellino, che ancora non mi serve”. Lo dicevano gentilmente, certamente: ma intanto quella diffidenza che forse era suscitata più dai suoi capelli e dai suoi occhi rossi che dal fatto di essere figlia del Thrauco, non era mai venuta a meno. Con i suoi quattro anni, Likarayén non comprendeva bene cosa succedeva, ma la diffidenza nei suoi confronti, quella sì che la comprendeva perfettamente, eccome!, ma non sembrava affatto che le importasse. Al contrario, restava del tutto indifferente, ed era evidente che bastava Millaray a riempire tutto il suo mondo.

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Millaray, tuttavia, non con tutti era così taciturna ed introversa. Infatti vi era una persona che la ragazzina non solo non evitava, ma che addirittura cercava spesso e con la quale chiacchierava volentieri: era la giovane sposa di Mariñamko. Ma forse nessuno si rese conto che la cognata era anche l’unica persona, oltre all’anziano ngenpín, che ogni tanto faceva volentieri e spontaneamente un piccolo gesto affettuoso nei confronti di Likarayén. Una leggera carezza, un piccolo frutto maturo offerto senza timore di toccare la sua mano, un breve sorriso. Bastava tanto poco! Millaray non chiedeva altro. Ma poi, quando fu finalmente pronta, la cognata andò a vivere nella sua ruka e Millaray, rimasta sola, piombò in un mutismo ancora maggiore di quello precedente, soprattutto nei confronti di sua madre. Infatti l’inconsapevole cognata aveva messo ancora più in evidenza il fatto che sua madre, invece, non riusciva proprio ad accettarla, Likarayén, anche se ci metteva tutto il suo impegno per nasconderla, questa sua avversione. Come sempre, il lavoro nei piccoli campi occupava gran parte del tempo, almeno quando la stagione, la luna ed il tempo lo consentivano. Quando seminavano la patata, per esempio, Millaray seguiva sua madre nel campo, tenendo Likarayén al suo lato. Sua madre, donna fertile, era colei che poneva la patata nella terra e Millaray la copriva con una zolla di terra, evitando di toccarla. E intanto spiegava a Likarayén che il seme è sacro, perché viene accolto dalla terra e genera la pianta: e le faceva vedere in che modo adagiava la zolla di terra per assicurare al seme il giusto riposo. Poi faceva ripetere a Likarayén gli stessi suoi gesti, attenta a che la bambina non toccasse la patata con le sue mani: e le spiegava che non doveva toccarla proprio perché quella patata era diventata un seme, e quindi sacro, e perciò poteva essere toccata solamente da una donna fertile. Cosicché quando il ngenpín celebrava la consacrazione delle patate per la seminagione, Likarayén comprendeva la cerimonia e si immaginava che, dopo le parole e i gesti rituali del ngenpín, sotto la sua buccia la patata si fosse trasformata: ora non era più bianca, sugosa e compatta, ma era diventata una piccola piantina tutta ripiegata su se stessa, che aveva tanto bisogno di riposare, al buio e al calduccio della ñuke mapu, la madre terra, per poi finalmente diventare adulta e forte, ed allora sì che poteva uscire dalla calda protezione offerta dal suolo per sfidare il vento e la pioggia. Queste erano le spiegazione che Millaray le offriva ed era così che Likarayén immaginava che si svolgessero le cose. Poi Millaray le diceva: “Likarayén, figlia mia amata - sì, figlia mia, perché era così che Millaray la chiamava - vedi quanta cura dobbiamo avere per questo seme affinché possa riprodursi e non marcisca nella terra. E allora dobbiamo avere anche altrettanta cura verso il rispetto delle nostre tradizioni, affinché possano anch’esse riprodursi di madre in figlia e non marciscano mai”. E poi aggiungeva: “non dobbiamo mai smettere di curare la memoria dei nostri antenati, perché loro vivranno solamente fino a quando noi ci ricorderemo di loro”. Ma Likarayén, che pure aveva visto dei morti e sapeva cos’era un funerale, le rispondeva che non riusciva a capire. Allora, con affettuosa pazienza, Millaray l’incoraggiava: “è faticoso capire le cose, ma quando poi le si fanno, allora le si imparano”. E gli uomini e le donne che ascoltavano ciò che Millaray diceva a Likarayén approvavano le parole della ragazzina e ne celebravano non solo la maturità e la serietà con cui assolveva il suo compito, ma anche il rispetto che ella aveva per l’admapu e la sua capacità di educare la bambina a vivere le tradizioni con il suo esempio quotidiano, come era giusto. E allora le venivano volentieri perdonati il suo brutto carattere, il suo mutismo e la sua introversione. Ma a volte anche Likarayén stupiva per certe sue uscite. Per esempio, non amava sedersi sulle pietre o sui tronchi, ma voleva sempre accucciarsi sulla nuda terra: “così sono più vicina alla ñuke mapu - diceva - e posso sentire meglio quello che lei mi dice”. Se non fosse stato per i suoi assurdi capelli rossi e per i suoi occhi di fiamma, forse

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avrebbero riso come di un gioco di pichiche, ma invece la guardavano in modo strano e la diffidenza nei suoi confronti aumentava. Millaray stava molto attenta a questi pensieri, così inattesi in una bambina di solamente quattro anni, e ne riferiva al ngenpín. Questi ascoltava sempre con molta attenzione e, non di rado, poneva a Likarayén molte domande. Se qualche volta qualcuno aveva avuto occasione di assistere alla scena, si stupiva di vedere quello sciamano sempre così freddo e scostante chiacchierare con una bambina, interessandosi per quanto le diceva. Ed ancora di più si stupiva osservando che tanto Likarayén quanto Millaray non sembravano per nulla intimorite dal ngenpín, ma, al contrario, parlavano con lui normalmente. Millaray si sentiva talmente a suo agio, che qualche volta era lei stessa che prendeva l’iniziativa e rivolgeva al ngenpín le sue domande o gli manifestava i suoi dubbi e le sue perplessità. Sì, perché le ragioni per rimanere perplessa non mancavano certamente a Millaray, e neppure quelle in cui non sapeva cosa fare. Durante il chomüngén, la stagione delle piogge fredde, quando già si avvicinava l’allegria del We Tripantü, un giorno Likarayén improvvisamente le chiese: “Millaray: perché dicono che sono figlia del Thrauco?”. Si trovavano sole nella ruka. La madre assisteva la nuora che aveva avuto una bambina (per la donna questa rappresentava la sua prima vera nipotina, anche se non sarebbe stata lei quella che un giorno avrebbe tramandato il suo nome!), i due uomini erano impegnati in una battuta di pesca, nonostante il maltempo, e Millaray era al suo telaio, che tesseva un largo trariwe e spiegava alla bambina il significato di ogni figura che si andava delineando. La domanda, perciò, era del tutto inattesa. Alla ragazza venne un freddo sudore per tutto il corpo. Sapeva che prima o poi le sarebbe stata posta questa domanda, ma ora... quale risposta dare? Cominciò col prendere tempo. “Chi ti ha detto questo?”. “Nessuno”. “E allora, perché me lo chiedi?”. “Perché ho sentito che alcune donne dicevano così”. “Ma lo dicevano a te?”. “No. Ma lo dicevano”. Però una risposta doveva pur dargliela. Titubante ed incerta, cominciò col dirle: “lo sai perché la tua mamma la chiamano madre-dormiente?”. “Me lo hai detto tu tante volte: perché quando io ero nella sua pancia lei dormiva sempre e non si è svegliata neppure quando io sono uscita dalla sua pancia e per questo è morta...”. “Ma la zia aveva anche lei una bambina nella sua pancia, eppure non dormiva. Invece la tua mamma...” e non sapeva più come proseguire. Ma Likarayén rimaneva tranquilla, in silenziosa attesa. “E’ che quando il Thrauco tocca una donna, a volte non succede niente, e altre volte, invece, la donna non si sveglia più e poi muore”. “Ma allora è vero che la mia mamma madre-dormiente è stata toccata dal Thrauco?”. Sebbene le parole formulassero una domanda, il tono era piuttosto quello di una constatazione. “Si, Likarayén, la tua mamma madre-dormiente venne toccata dal Thrauco, e per quello non si svegliò mai più, neppure quando tu crescevi nella sua pancia”. “Ma il Thrauco ha toccato anche te, mamma Millaray?”. “No, figlia mia, il Thrauco non mi ha mai toccato. Nessuno mi ha mai toccato”. E la curiosità di Likarayén sembrò soddisfatta. Millaray tornò a parlarle dei disegni del suo trariwe, ma vedeva bene che il pensiero della bambina non era li con lei. Ed infatti, improvvisamente come già prima, giunse la domanda della bambina. “Ma allora, se il Thrauco ha toccato la mia mamma-dormiente vuol dire che io sono figlia del Thrauco?”. E questa volta non c’era più modo di scantonare. Allora Millaray divenne molto seria. Prese Likarayén sulle sue ginocchia e le accarezzò lentamente i lunghi capelli dal colore della lava, tenuti fermi dal trarilonko che lei stessa aveva tessuto e che le attraversava la fronte. Poi fece scivolare dolcemente le sue mani lungo le sottili braccia. Era cresciuta robusta e sana, ma era rimasta sempre molto magra: il ngenpín ne attribuiva la colpa al latte di tricheca, che aveva sostituito

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quello materno in modo inadeguato. La bambina rimaneva silenziosa, in attesa della risposta. Non poteva continuare ad attendere in silenzio. Allora si fece coraggio e le disse: “Sì, figlia mia, è vero. Sei anche la figlia del Thrauco”. “Ma il Thrauco è un wekufe!”, protestò la bambina. “No, è brutto, è strano, questo sì, ma non è un wekufe. E’ della stirpe di Peripillán, lo spirito che vive nei vulcani. E’ per questo che i tuoi occhi sono rossi come il fuoco, perché anche tu sei della stirpe di Peripillán”. “Ma tu mi vuoi bene lo stesso?”. “Ma certo, figlia mia, che io ti voglio bene lo stesso, tu sei tutta la mia vita, amore mio. Io ti vorrò sempre bene, non potrò mai fare a meno di volerti bene. Tu non devi avere paura di nulla. Io ti difenderò sempre, figlia mia”. E così dicendo la guardava fissa negli occhi e le stringeva forte le sue manine. Rimasero a lungo così, in silenzio. Poi Likarayén si girò verso il telaio ad osservare il trariwe che Millaray stava tessendo. “Questo è Tentenvilú!” esclamò contenta perché aveva riconosciuto il simbolo sul tessuto. E la bella fascia che Millaray stava tessendo tornò ad essere il loro argomento. Solo molto più tardi, quando tutti dormivano nei loro giacigli, Likarayén - che nonostante i suoi quattro anni continuava a dormire tra le braccia di Millaray - mormorò: “se tu mi vuoi bene lo stesso, a me non importa nulla di essere figlia del Thrauco”. Poi si tolse la sua corta tunica e si infilò sotto quella della ragazza, felice di sentire la sua pelle contro la sua. E mamma-Millaray, come lei la chiamava, anche se non si era svegliata, la strinse forte forte tra le sue braccia. * * *

Non trascorse molto da quel giorno, quando a Millaray giunsero le sue prime mestruazioni e sua madre le donò una coppia di chaway da appendere ai lobi delle sue orecchie, quelli adatti ad una donna che non era più una bambina. Nonostante l’ombrosità del suo carattere e la sua stranezza, vi erano comunque molte ragioni per godere della stima e della considerazioni di tutti. Aveva dato una grande dimostrazione di essere una madre molto valida, ma anche di rispetto ed attaccamento all’admapu. E poi era forte, nonostante la sua piccola statura, e molto laboriosa. Infine c’era anche la sua abilità al telaio. Ed era pure molto bella. Ora che il cambio degli orecchini diceva a tutti che era diventata donna, non mancava chi cominciava a farle qualche complimento, così, come si usa tra adolescenti. Ma a Millaray queste attenzioni causavano solamente disagio e rispondeva bruscamente. O non rispondeva affatto. Likarayén le chiese perché aveva cambiato di orecchini, e Millaray le spiegò che ogni età aveva i suoi orecchini. Allora la bambina volle anche sapere perché le donne perdevano il loro sangue. “E’ un castigo - le rispose la ragazza - un castigo di Küyén”. “Ma tu, cosa ci hai fatto a Küyén?”. Millaray rise: “io non le ho fatto nulla...”. “E allora? Perché ti castiga?”. “Perché tanto tempo fa, invece, ci fu una ragazza che fece una cosa mal fatta”. “Che cosa ha fatto, quella ragazza?”. “Ha mancato di rispetto alla luna. Si sollevò la tunica e mostrò alla luna il kutre, che invece non si deve mai scoprire. Solo quando una bambina è piccola piccola, come quando tu eri piccola, ma poi quando una bambina diventa grande, come tu adesso, non deve mai sollevare la sua tunica e deve tenere il suo kutre nascosto”. “Ma perché quella ragazza ha fatto vedere il suo kutre a Küyén?”. “Perché era una ragazza che non aveva rispetto per l’admapu. Allora Küyén la castigò e da allora ogni volta che la luna era rotonda la ragazza perdeva il suo sangue e aveva il kutrán küyén”. “Ma tu non hai mancato di rispetto alla luna!”. “Ma Küyén vuole che noi non si dimentichi mai di portare rispetto alle tradizioni, e allora ogni mese ci fa perdere un poco di sangue perché così non ci ricordiamo sempre. E poi - concluse

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Millaray - in questo modo il nostro sangue torna alla madre-terra, che ne ha perso tanto quando ci ha partorito”. * * *

Avvenne che quando tornarono da Caguach, dove si erano recati per il We Tripantü per Likarayén questo era il quinto della sua vita - Millaray si ammalò. Tutto il suo corpo tremava violentemente, mentre la fronte scottava nonostante le pelli bagnate con cui la bagnavano costantemente. Trascorse così l’intera notte, mentre Likarayén, che non si ricordava di averla mai vista così malata, continuava ad accarezzarle il volto, rimanendo seduta al suo lato, sorda agli inviti dei suoi nonni affinché andasse a dormire. Rimase al lato della sua mamma-Millaray sino a quando la stanchezza ebbe il sopravvento e si addormentò seduta per terra, con le gambe incrociate, tendendole ancora la mano. La madre di Millaray trascorse la notte vegliando la figlia e rinfrescandole la fronte con pezze sempre ben fresche. La pioggia, che per due intere giornate aveva risparmiato la principale festa dell’anno, ora, intensissima, sfogava quanto prima aveva represso. Quando il grigiore del mattino cominciò a penetrare attraverso le canne della ruka, la madre si mise la sua veste più pesante, coprì la testa e le spalle con una pesante pelliccia di guanaco, e fu alla ricerca di un machi, camminando rapida nonostante la pioggia incalzante e la fanghiglia. Anche Likarayén si era svegliata, imbronciata rendendosi conto di non aver retto al sonno. Suo nonno e suo zio si erano impegnati ad aiutare un vicino nella costruzione di alcuni attrezzi di legno e di pietra. Sapevano di non poter recare nessun aiuto a Millaray e pensavano che l’aiuto promesso no avrebbe preso loro troppo tempo: perciò raccomandarono alla bambina di stare accanto alla sua mamma - ormai anche loro si erano abituati a chiamarla mamma, almeno quando si rivolgevano alla bambina - e di fare quanto le richiedesse e di mantenere ben acceso il fuoco. Quindi uscirono nella pioggia bardati con le loro lunghe pellicce rossastre. Così Likarayén rimase sola con Millaray, la quale permaneva in uno stato di agitato dormiveglia, sempre scossa dai brividi che la febbre le procurava. Likarayén tentò di aiutare come poté: quando le parve che Millaray gliela chiedesse, le porse una scodella con acqua fresca e l’aiutò a berne qualche sorso, cercando di tenerle ferme le mani tremolanti. Poi rimase ad osservarla, mentre la giovane donna gemeva per il male che l’aveva assalita. Likarayén si sentiva angosciata: chissà quanto ci avrebbe messo la nonna prima di tornare con il machi. E l’avrebbe trovato? E sarebbe venuto? Man mano che passava il tempo senza che Millaray mostrasse segni di miglioramento, Likarayén si sentiva sempre più impotente e nella stessa misura diventava sempre più impaziente. Poi non resse più.ù Con solamente la sua tunica di lana di lama, senza coprirsi in alcun modo, Likarayén si allontanò dalla ruka, infilandosi nel fitto bosco che la circondava da tutti i lati. Corse da un lato, dall’altro, scivolando e cadendo più volte nel fango, impegnata in una agitata ricerca non sapeva di cosa. Finché vide un alberello un poco nascosto tra il sottobosco: le sue foglie rossiccie erano ricoperte da una peluria vellutata, sulla quale correvano veloci i gelidi goccioloni di pioggia. Ne sentì l’odore. Poi si mise in bocca la punta di una fogliolina, e subito la sputò: era amarissima. Però dentro di sé sentì che era il sapore giusto. Strappò un rametto e riprese a correre verso la ruka. Ma mentre saltava per fare presto, sollevando spruzzi di pioggia fangosa, vide ancora una pianta erbacea. Non era particolarmente vistosa, e neppure grande: lo stelo giungeva appena all’altezza delle sue ginocchia ed aveva delle foglie prive di qualunque particolarità. Ma Likarayén si stupì vedendo che, nonostante la stagione fredda, aveva delle piccole bacche nere, unite a

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formare dei grappolini. Si inginocchiò nel fango e colse uno di quei semini. Tentò di sentirne l’odore, ma quello che sentiva era solamente di pioggia e di erba putrefatta. Poi si mise in bocca quel pallino nero: era piuttosto duro. Lo schiacciò con i suoi denti sottili. Il sapore non era particolarmente forte, ma a Millaray parve che fosse quello giusto. Allora colse due o tre grappoli, e riprese a correre verso la sua ruka, senza più fermarsi. Quando fu dentro, si precipitò verso il giaciglio di Millaray. La ragazza trovava nello stesso stato in cui era quando l’aveva lasciata, e neppure pareva essersi accorta della scomparsa di Likarayén. La bambina andò vicino al mortaio di pietra lavica. Appoggiò le foglie che aveva staccato dal rametto, mise in mezzo ad esse i grappolini di semi, quindi cominciò a macinare foglie e bacche con il duro pestello di granito. Continuò a schiacciare, con un movimento circolare regolare, staccando di quando in quando con un bastoncino la poltiglia che si andava attaccando al pestello e adagiandola sulla pietra. Quando finalmente le parve che la miscela macinata fosse perfettamente omogenea, con lo stesso bastoncino la fece scivolare in uno scodellino di legno, facendo attenzione che non ne andasse sprecata nessuna parte. Poi ci aggiunse un poco di acqua e mescolò bene. Infine, aiutandosi con un pezzo di cuoio, tolse dal focolare acceso una piccola pietra che fece cadere nella sua miscela acquosa. Vi fu un breve sfrigolio, mentre dallo scodellino si alzava un poco di vapore. Allora Likarayén spinse via la piccola pietra e si avvicinò a Millaray con quanto teneva in mano. La chiamò per nome: “Millaray! mamma-Millaray! piccola mamma!”. Al suono della voce della sua adorata bambina, la giovane donna si riscosse un poco dal suo stato. Quanto bastava per rendersi conto che Likarayén le porgeva uno scodellino con dentro qualcosa. Senza comprendere bene cosa fosse, e forse neppure che cosa facesse, ne bevve un sorso. Era un liquido spesso, tiepido e molto amaro, e Millaray lo sentiva scendere lentamente nel suo corpo. “Bevilo tutto, Millaray”, le ordinò la bambina. Allora bevve tutto il contenuto dello scodellino, finché non ne rimase più nulla. Per un poco non successe nulla. Ma poi, improvvisamente, Millaray fu preda di alcuni tremendi conati di vomito. Al principio rimetteva quanto aveva appena bevuto, ma poi continuò a lungo, sino a quando vomitò solamente più alcune gocce di uno spesso liquido giallastro. Allora si sentì meglio. Si distese pallida, ancora febbricitante, sul suo giaciglio, ma non era più scossa dai brividi. Infine chiuse gli occhi e si addormentò profondamente, sfinita dalla prolungata febbre, mentre lo scodellino cadeva per terra. Millaray si era appena addormentata, quando sua madre fece ritorno: un giovane machi l’accompagnava. Likarayén era bagnata da cima a fondo e tutta sporca di fango, come se fosse caduta in una profonda pozzanghera. Ma non era il momento di perdere tempo con le domande. Il machi tenne tra le sue dita il polso della giovane donna, senza svegliarla; poi le toccò la fronte. Fu allora che notò il vomito sulla terra battuta della capanna. Osservandolo attentamente, scorse anche lo scodellino. Lo raccolse. Con l’indice toccò quanto restava al suo interno. Ne sentì l’odore. Quindi provò ad assaggiarlo con la punta della sua lingua. Annuì approvando: “è quanto ci voleva! quando si sveglierà, starà certamente meglio”. Si rivolse alla donna, che era rimasta sbalordita. “Conservate qui dentro queste erbe?” le chiese. La donna fece un segno di diniego con la testa e guardò Likarayén. La bambina era indifferente a tutto. Solamente si preoccupava di carezzare con una infinita dolcezza la fronte di Millaray, sorridendole con i suoi immensi occhi dal colore del fuoco. * * *

Ora che Likarayén aveva compiuto il suo quinto anno di vita, Millaray decise che era giunto il tempo di prepararla per la sua prima iniziazione: mancavano ancora quasi dodici

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lune, un intero anno, certamente: ma era un anno durante il quale la bambina-dai-capellirossi avrebbe dovuto cominciare ad apprendere i primi concetti dell’admapu, almeno quelli più elementari e comprensibili per la sua giovane età. Nessuno seppe niente di ciò che avvenne quando Millaray rimase malata. Il machi consigliò alla donna di non parlarne con nessuno, tranne naturalmente con Millaray. Erano già trascorse due lune, da quando Millaray era stata così malata, ed era il mese di pillel-küyén. Ormai la stagione del pewü avrebbe dovuto avere inizio, e con essa i teneri germogli sarebbero spuntati dal suolo. Invece le piogge continuavano a cadere incessantemente, gelide e monotone, come se la stagione del pukém quell’anno non dovesse avere mai termine. Non di rado, anziché pioggia, dal cielo scendeva un liquame grigiastro o giallino, che depositava ovunque una sottile cappa di cenere fangosa. I tre grandi vulcani continuavano a lanciare verso il wenumapu le loro fiammate d’ira e Peripillán spingeva le sue lunghe braccia di fiamme sino a lambire le acque azzurre e profonde del grande lago Llanquihue; così facendo, incendiava gli spessi boschi di conifere ed il loro fumo si aggiungeva alle fiamme che sgorgavano dalla vetta nel loro percorso verso i sette cieli. Pur senza particolare violenza, le scosse di terremoto si susseguivano con inusitata frequenza, né erano bastati i sacrifici offerti agli spiriti per placarne l’ira. Vi era chi esigeva un sacrificio ben maggiore, quello di una giovane vita umana che potesse essere un messaggero gradito, al quale affidare una preghiera di pace. Ma tanto il lonko quanto i ngenpín sostenevano che non un sacrificio esigevano gli spiriti, ma una rigorosa fedeltà all’admapu. Il machi, naturalmente, parlò con gli sciamani di quanto era avvenuto nella ruka di Likarayén. Il più anziano di loro, quello che sempre aveva tenuto sotto la sua protezione la bambina dagli occhi di fiamma e che l’aveva fatta oggetto della sua confidenza, venne un giorno alla ruka. Approfittò dell’occasione in cui sapeva che gli uomini sarebbero stati assenti: infatti non voleva testimoni. Ascoltò prima di tutto quanto aveva da dire la madre di Millaray, e quindi la giovane ragazza. Ma in realtà potevano dire molto poco: la prima, in quanto era assente, la seconda, poiché giaceva nel suo giaciglio in uno stato prossimo alla incoscienza. Solo si poté chiarire che né i semi né le foglie erano nella capanna; che nessuna delle due donne ne conosceva le virtù e, quindi, non poteva averne resa edotta Likarayén; che quando la donna rientrò trovò la nipote bagnata fradicia e infangata da cima a fondo, ed era evidente che aveva camminato a lungo sotto la pioggia cadendo più volte; che Millaray aveva bevuto la pozione in uno stato di confusione mentale, convinta che fosse stata preparata dal machi, e che subito dopo aver vomitato, cominciò a sentirsi molto meglio. Solo dopo aver parlato a lungo con le due donne, lo sciamano volle interrogare anche Likarayén. Uscirono dalla ruka, per stare soli. L’anziano ngenpín aveva una pesante cappa di pelle di guanaco, ma la bambina non volle mettersi nulla. Rimase tranquilla, seduta sulla nuda terra fradicia di acqua, come tanto le piaceva, incurante della pioggia che trasformava i suoi lunghi capelli rossi in trecce, con la sua leggera veste che si appiccicava al suo corpicino magro. Era serena e distesa. Sembrava più una creatura dell’acqua, piuttosto che della terra. “Non può essere mapuche, questa creatura - pensò il ngenpín - forse è una koche”. E gli venne da sorridere, pensando che aveva inventato il popolo dei koche, la genia acquatica. Intanto Likarayén attendeva che lo sciamano le rivolgesse la parola - mamma-Millaray aveva insistito molto a spiegarle che doveva sempre attendere che fossero gli adulti a rivolgersi a lei, e ancor quando si trovasse davanti ad un ngenpín - ed era contenta di dimostrare che aveva imparato quanto le era stato insegnato. Ma intanto, contro ogni abitudine più che contro ogni tradizione, fissava profondamente i suoi occhi in quelli dell’anziano, quasi gareggiando con lui. Il ngenpín

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sorrise divertito, e si rese conto anche di volere molto bene a questa bimbetta che aveva quasi visto nascere. Mai prima di allora gli era venuto in mente che potesse piacergli l’idea di avere una famiglia come ogni altra persona, ma in quel momento provò uno struggente desiderio che Likarayén fosse sua figlia ed una enorme voglia di stringerla a sé. Ma si limitò a dirle: “adesso raccontami tu che cosa hai fatto”. E la bambina rispose immediatamente, senza alcuna esitazione e senza staccare i suoi occhi da quelli del ngenpín. “Mamma-Millaray stava male. Tanto male. Io non sapevo cosa fare. Nonno mi aveva detto di rimanere con lei, ma io non volevo stare senza fare nulla. Non dovevo”. “Cosa vuoi dire dicendo che non dovevi?”. “Che non dovevo. Che sapevo che non dovevo”. E rimase in attesa di altre domande, ma poiché il ngenpín si limitava ad attendere in silenzio, allora la bambina proseguì con il suo racconto. “Sono uscita e sono andata a cercare qualcosa. Mamma-Millaray mi ha sempre detto che quando una cerca davvero qualcosa, lo trova sempre. Poi ho visto un albero e allora ho preso delle foglie”. “Ma era un albero diverso? Perché cercavi quell’albero?”. “Ma io non cercavo quell’albero. E’ che l’ho visto. Allora ho preso le foglie. Ma prima ho sentito il loro odore e poi ne ho masticato un poco. Allora le ho prese”. “Perché?”. “Perché dovevo. Non lo so. Dovevo prenderle. E poi volevo tornare alla ruka. Avevo paura che anche Millaray potesse diventare una madre-dormiente. Ma continuavo a guardarmi intorno perché le mie foglie erano troppo leggere. Poi ho visto quell’erba con i piccoli grappoli neri. L’ho assaggiata, prima di prenderla, ma l’avrei presa lo stesso, anche senza assaggiarla, perché sentivo che ora il rametto di foglie non era più leggero e non gli mancava niente. “Come lo sapevi?”. “Lo sapevo e basta”. E non disse più nulla. Allora il ngenpín le scostò dal volto i capelli che lo nascondevano: con la pioggia intensa che cadeva non bastava certamente uno stretto trarilonko per tenerle in ordine i capelli. Poi le fece una carezza e le sorrise. E Likarayén sorrise a sua volta al ngenpín, con i suoi grandi occhi, come sapeva fare solo lei. E, tenendola per mano, lo sciamano tornò alla ruka. Quando fu dentro, scrutò l’animo di Millaray, e vide che la ragazza gli nascondeva qualcosa. Allora disse bruscamente a sua madre: “lasciaci soli!”. Ma quando la donna fece per prendere con sé Likarayén, il ngenpín senza neppure girarsi a guardarla disse ancora: “lascia qui la bambina!”. Allora la donna uscì, mentre Likarayén sedette per terra accanto a Millaray. “Cos’è che non mi dici, Millaray”. “Io non ti nascondo nulla, non ti ho mai nascosto nulla. E’ che ci sono cose che non capisco. Prima non ci davo importanza, ma ora mi sembrano diverse”. “Che tipo di cose?”. “Ecco... è successo molto prima di We Tripantü, forse tre lune prima. Eravamo andate insieme nel bosco a raccogliere gli ultimi frutti che ancora restavano. Likarayén non era lontana, l’avevo persa di vista, ma la sentivo camminare tra gli arbusti. Poi non l’ho più sentita. Allora sono andata a cercarla ed era li vicino, dietro un grosso alerce, accucciata per terra: però non era sola. Accanto a lei c’era una wiña3, un leopardo, e la bestia rimaneva li tranquilla, senza né scappare né aggredirla, ma si lasciava accarezzare. Proprio così, la wiña rimaneva lì ferma, a farsi accarezzare da Likarayén. Poi quando mi ha visto, allora si è allontanata, ma senza fretta e senza mostrare nessuna inquietudine. Ho detto a Likarayén che è un animale pericoloso, che bisogna fare attenzione, ma lei mi ha risposto che la wiña era amica sua. Ecco, ngenpín, io non ti voglio nascondere nulla, ma è che tante volte sono successe cose 3

La wiña (oncifelis guigna) è un piccolo leopardo un tempo diffuso in tutto il Cile meridionale ed ora presente solamente nell’isola di Chiloé. E’ molto schivo e difficilmente si avvicina ai luoghi frequentati dagli uomini. Tuttavia è molto aggressivo e nonostante la piccola dimensione può essere piuttosto pericoloso.

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strane come quella...”. Lo sciamano rimase pensoso, senza rispondere nulla. Poi aggiunse a mo’ di commiato: “va tutto bene, Millaray, va tutto bene. Tutto è come deve essere”. Quindi fece ancora una veloce ed ultima carezza a Likarayén e se ne andò via. * * *

Nonostante queste stranezze, la vita trascorreva normale. Walüng, la stagione calda, non si decideva ad arrivare e la pioggia continuava insistente, giorno dopo giorno. I germogli marcivano nei campi senza maturare ed il raccolto sembrava ormai perso. La perdita del raccolto non rappresentava necessariamente la fame, perché sempre restavano i frutti del mare. Ma anche questi sembravano scarseggiare. I pilcán, infatti, pur lasciando scoperti estesi fondali, si rivelavano deludenti e le staccionate di canne piantate nel mare rimanevano vuote di pesce. Millaray approfittava anche di queste sventure per preparare adeguatamente Likarayén a celebrare il suo katán pilún. Le ripeteva quanto aveva sentito dire dal ngenpín anziano, e cioè che gli spiriti degli antenati erano adirati con loro poiché non avevano rispettato la terra: anziché esserne custodi, vi era chi voleva farsene padrone e pretendeva di separare la “sua” terra da quella della comunità. E ancora spiegava a Likarayén quanto quella parolina, “sua”, offendesse gli spiriti. Poi la faceva sedere per terra, per essere più vicina alla madre terra, e le raccontava che ogni cosa ha il suo am, la sua anima, e che partecipa del am universale. “Anche le felci?” domandava Likarayén. “Certo - rispondeva Millaray - anche le felci”. “E le pietre? anche loro hanno un’anima?”. “Anche ogni pietra ha il suo am. Anche ognuno di questi minuscoli grani di sabbia”, e così dicendo faceva cadere lentamente un poco di sabbia che aveva raccolto e che stringeva nel suo pugno chiuso sul palmo aperto della bambina. “E quando l’am di questo granellino di sabbia soffre, la sua sofferenza si trasmette all’am universale, e allora soffriamo tutti un poco insieme a lui”. “Ma perché l’am di questo granellino di sabbia soffre?”. “Perché gli uomini si dimostrano ingrati per i frutti che la terra ed il mare ci hanno offerto. Quando gli uomini sono ingrati, allora la terra ed il mare diventano avari, perché l’am di ogni goccia d’acqua e di ogni granellino di rena soffre.” “Ma se è così piccolo. Che importanza ha, un granellino così piccolo?”. “Non gli diamo importanza tutta l’importanza che ha, proprio perché il granello di sabbia ci sembra così piccolo e quindi crediamo che anche il suo am sia molto piccolo e privo di importanza. Ma i granelli di sabbia sono tantissimi, e quando tutti soffrono, allora la sofferenza è grande e soffriamo anche noi, perché anche il nostro am ne risente. L’anima dei boschi, poi, costituisce una parte molto importante dell’anima universale, e quindi anche della nostra anima. Per questo quando un bosco viene distrutto, come avviene quando si bruciano gli alberi per creare una radura nel bosco e seminarla, l’anima universale si indebolisce ed allora anche noi ci ammaliamo. Per questo il ngenpín dice che è male bruciare il bosco per seminare la terra: bisognerebbe seminare solamente dove vi è un prato naturale”. “Ma cosa succede se l’anima diventa debole?”. “Succede che allora ci ammaliamo, perché per il wekufe diventa facile impossessarsi della nostra anima”. E intanto le aggiustava i lunghi capelli rossi. “Mi comprendi, Likarayén?”. E la bambina le rispondeva di sì, ma in realtà le sembrava tutto così confuso. Allora Millaray guardava quel volto che amava così intensamente, quei capelli e quegli occhi che ricordavano la cima infuocata del vulcano, e pensava: “ma come è bella, questa bambina, come è bella! Com’è possibile che nessuno se ne accorga... solo il ngenpín sa vedere la sua bellezza...”. * * *

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Celebrarono i ngillatún per chiedere agli spiriti degli antenati di allontanare la pioggia e di far finalmente arrivare il sole. Ma fu inutile. Era ormai chiaro che il raccolto era completamente perduto. Solo dal mare, potevano arrivare le necessarie provviste per la stagione fredda che avrebbe fatto seguito a quella che non era mai cessata. Allora rivolsero al mare tutte le loro attenzioni. Ma sarebbero loro comunque venute a mancare le preziose patate da barattare con le calde pellicce di guanaco dei chono. E anche questo problema doveva rapidamente trovare una sua soluzione. Il lonko indisse una riunione di tutti i ngenpín ed i machi di Quinchao per avere il loro consiglio. Vennero tutti, tranne la domo-machi, l’unica donna sciamana, che non venne invitata. Si riunirono nella ruka del più anziano degli sciamani, l’unico che aveva sentito di poter costruirsi un rewe con sette gradini, come sette sono i cieli che costituiscono il wenumapu. Bevvero molta birra, fino a quando le cose parvero girare intorno a loro e gli spiriti degli antenati poterono prendere finalmente possesso delle loro menti. Parlò per primo il ngenpín che per età era secondo solo a colui che li ospitava. “Gli spiriti sono assai irati con noi. Troppi uomini si stanno allontanando dall’admapu e si dimenticano di onorare la loro memoria”. “Umiliano la terra pretendendo di farla propria - interruppe un altro dei presenti - e non si è mai visto che la terra possa appartenere a qualcuno!”. “La terra è di tutti!”, “la terra è del clan!”, “la terra è degli spiriti!” dissero tutti ad una sola voce. Il lonko annuiva preoccupato: condivideva il loro pensiero, ma temeva all’idea di dover ricondurre le numerose famiglie che si stavano separando dal clan - ogni giorno più numerose! - a riunirsi al clan con la forza. “L’ira degli spiriti si è manifestata quando la figlia di un wekufe è entrata a far parte del clan: da allora la terra trema senza cessare e Peripillán reclama la restituzione di colei che gli appartiene!” disse ancora il secondo dei ngenpín. E tutti annuirono, tranne il più anziano. “Dunque dobbiamo offrire Likarayén agli spiriti. Dobbiamo affidarle un messaggio di pace affinché i pillán tornino a manifestare la loro benevolenza”. “E’ proprio così!”, esclamò un altro sciamano; poi un terzo aggiunse: “basta con gli indugi: dobbiamo restituire la bambina dagli occhi di fuoco al pillán che la reclama!”. E ancora una volta tutti annuirono, e solamente l’anziano sciamano si astenne. Non era convinto. Se gli spiriti avevano voluto che Likarayén sopravvivesse, doveva esserci una ragione: lo disse agli altri. “Ma forse la ragione per cui l’hanno fatta sopravvivere è proprio quella di lasciarci una messaggera” obiettò qualcuno, e un altro aggiunse: “quando abbiamo bisogno di un messaggero, non offriamo, forse, la persona più preziosa? E’ proprio perché Likarayén è così preziosa che sarà più gradita agli spiriti degli antenati”. Ancora una volta gli altri si trovarono d’accordo, ed ora nel cuore dell’anziano entrò un dubbio. “E se fosse veramente così? - pensò l’anziano, impassibile, senza far nulla trasparire del suo pensiero - e se il mio affetto per la bambina avesse prevalso sulla mia capacità di comprendere? non ho sempre saputo che il suo destino era proprio quello: io stesso ho celebrato il suo nome e sapevo bene che i messaggeri portano il nome di un fiore. Così come so bene che essere messaggero è un grande destino per ogni essere umano. Ma che enorme sacrificio che sarebbe stato per Likarayén: rinunciare alla propria vita prima ancora di avere una discendenza che ne possa tramandare la memoria! Perdere ogni possibilità di percorrere i misteriosi sentieri del wenumapu che danno la possibilità, a chi supera tutte le prove, di convertirsi in uno spirito! E’ il mio amore per la bambina che mi spinge a negare il suo destino, o è il mio egoismo che mi fa desiderare tanto la sua compagnia? Com’è possibile che tutti sbaglino e che solo io abbia ragione?”. Rimase dunque in silenzio. Poi c’era il potere: Likarayén aveva il potere, questo era evidente per tutti, poiché ciò che era avvenuto era stato riferito a tutti i ngenpín, anche le cose che aveva raccontato

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Millaray. Ma l’anziano ngenpín sapeva bene che proprio questo potere giocava contro la bambina. Già l’unica donna machi, la domo-machi, era da molti considerata una kalku, ed era solamente per il suo personale prestigio che, avendo difeso la donna, gli altri sciamani si erano limitati ad ignorarla, anziché scacciarla lontano o ucciderla. Ma non avrebbero mai tollerato una seconda domo-machi. Questo lui lo sapeva bene. Tentò una disperata difesa per salvare la bambina, ma sapeva quanto fosse inutile, ormai la sua sorte era stata decisa: “e voi potete credere che gli spiriti possano gradire una messaggera che ha ancora i lobi delle orecchie intatte? Likarayén fa parte del clan, è vero, poiché ha celebrato il suo lakutún. Ma non ha ancora i suoi chaway, non è ancora stata iniziata all’admapu. Come può essere gradita l’offerta di una bambina che non ha ancora celebrato il katán pilún? Come può essere gradita l’offerta di chi non può ancora essere cosciente di recare un messaggio agli spiriti?”. Gli altri machi rimasero in silenzio, meditabondi. Le parole dell’anziano erano nel giusto. Likarayén andava offerta agli spiriti, ma bisognava attendere che prima celebrasse il katán pilún e che dalle sue orecchie pendessero i chaway. Doveva raggiungere gli spiriti, ma doveva recare loro un messaggio, e quindi era indispensabile la sua collaborazione: ma questa poteva esserci solamente preparando la bambina, E anzitutto doveva vivere la sua prima iniziazione alla sacralità: il katán pilún. Solo allora avrebbe potuto essere una messaggera gradita, non prima. Perché così fosse bisognava attendere solo poche lune. Decisero dunque di sospendere l’esecuzione della loro decisione sino al grande ngillatún che avrebbero celebrato immediatamente al ritorno dal prossimo We Tripantü. Intanto, nessuno avrebbe dovuto dire nulla: temevano i machi che se Millaray avesse saputo cosa attendeva la sua bambina, avrebbe potuto rapirla e impedire il giusto sacrificio. Presa la decisione, affrontarono gli altri problemi. Bisognava ottenere la benevolenza della Pincoya, la grande madre acquatica che generava i pesci ed ogni altro frutto del mare e che tanto amava il ballo. Dunque avrebbero costruito una grande piattaforma giusto a metà cammino tra l’alta e la bassa marea, nel luogo dove la Pincoya amava ballare. La bella creatura marina sarebbe venuta, si sarebbe intrattenuta nella danza e avrebbe generato abbondanza di pesce e di cozze e di alghe. La discussione si accese, perché non tutti erano d’accordo. Vi era, infatti, chi riteneva che la Pincoya, in quanto pillán dei chono, fosse estranea all’admapu e quindi non doveva essere chiamata. Ma ormai alcune tradizioni dei chono erano state interiorizzate profondamente dai huilliche, sicché alla fine prevalse la decisione di realizzare la piattaforma. Solamente l’anziano sciamano era rimasto silenzioso, in disparte. Non riusciva a partecipare ai loro argomenti. Tutta la sua angoscia era rivolta alla bambina che avrebbe voluto avere per figlia, alla povera Likarayén per la quale aveva solamente ottenuto di rimandarne il sacrificio. “Poche lune ancora - pensava - chissà se potrà ancora avvenire qualcosa che cambi quanto già deciso... Perché non mi è giunto nessun perimontún a darmi un consiglio? Forse questo significa che gli spiriti vogliono che Likarayén sia restituita a Peripillán? Forse... - pensava con ancora un barlume di speranza - se l’offerta non è gradita, forse saranno gli stessi spiriti ad impedirla. Forse ancora una volta Küyén darà la sua protezione alla bambina...”. Ma era il primo a non crederci. Rimaneva ancora il problema più difficile da risolvere: cosa avrebbero offerto ai chono in cambio delle loro pellicce di guanaco e di foca? E qui tutti rivolsero lo sguardo verso il lonko, rimanendo i attesa delle sue parole. La domanda era inutile. Non avevano nulla da offrire in cambio delle indispensabili pellicce e quindi c’era una sola strada da percorrere. “Organizzeremo un gruppo di venti guerrieri e li attaccheremo nei loro territori”, disse infine il lonko. “Andremo sino alle isole Guayteka” aggiunse ancora.

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“Perché così lontano? Perché non li colpiamo a Chaulinec? con dei buoni vogatori e delle dalka leggere ci possiamo arrivare in una sola giornata”. “Perché ormai è da tanti anni che viviamo da buoni vicini. Alcune loro donne sono diventate le nostre donne. Loro sanno catturare ed uccidere le balene e ci danno il grasso per illuminare le nostre capanne e le stecche per costruire gli ami da pesca. Non ci conviene inimicarceli. Per raggiungere le Guayteka ci vorranno sei, o forse anche otto giorni, ma non scateneremo un conflitto. E poi i chono di Chaulinec prendono le loro pellicce da quelli delle Guayteka. Sono questi che probabilmente ne hanno messe da parte molte per poterle barattare”. E così la decisione fu presa. * * *

La costruzione delle larghe piattaforme richiese quasi un’intera luna. Sia perché doveva essere ben grande, sia perché le pietre con cui realizzarla dovevano essere quanto più grandi possibile, con una ampia superficie verso l’alto e più ristrette dove appoggiavano sul fondo marino. Così l’abbondante seme che la Pincoya donava al mare mentre danzava avrebbe potuto trovare immediato rifugio sotto quei massi che sembravano tanti funghi. Likarayén era eccitata dalla novità. le pareva un gioco e Millaray le spiegava che la Pincoya era un essere marino, che viveva nella profondità del mare. Le raccontava che ella era la più grande di tutte le ballerine, e che ballava solamente quando c’era la luna piena, poiché sapeva che Küyén amava ammirarla quando danzava, ma che nessun essere umano doveva guardarla. “Perché nessuno deve guardare la Pincoya quando danza”, chiese Likarayén. “Perché la Pincoya è molto gelosa della sua danza e non vuole che nessuno gliela possa copiare. Se si accorge che qualcuno la osserva, allora lei lo addormenta e poi lo rapisce e lo porta a vivere con sé, in fondo al mare, perché la Pincoya ama molto la compagnia degli uomini, ma lei non può vivere fuori dal mare”. “Ma come fanno gli uomini a vivere nel mare, con la Pincoya?”. “E’ che in fondo al mare ci sono delle bellissime e grandi grotte che sono come delle ruka, e li si può respirare ed è lì che la Pincoya porta le persone che rapisce. Ma è buona, la Pincoya. Quando rapisce una persona, per farsi perdonare porta tanto pesce vicino alla spiaggia dove ha trovato la persona che ha rapito”. E Likarayén era tutta allegra: immaginava che un giorno lei sarebbe rimasta tutta la notte nascosta tra le canne della spiaggia, quando c’era la luna piena, e che avrebbe visto la Pincoya senza farsi scorgere, così non sarebbe stata rapita. Ma non disse nulla. Millaray e Likarayén si trovavano proprio sulla spiaggia di Chequián, quando facevano questi discorsi. Era un raro momento in cui finalmente non pioveva, anche se il cielo rimaneva coperto da pesanti nuvoloni grigi, e ne approfittavano per osservare gli uomini che, aiutandosi anche con le dalka e immergendosi nel mare fino a quando riuscivano a toccare il fondo, trascinavano le pesanti pietre che servivano a costruire la piattaforma marina. Ciò che le due donne non videro è che il Thrauco era proprio lì, tra i canneti che facevano corona alla spiaggia. Attento a non farsi scorgere, tutta la sua attenzione era rivolta alla piccola Likarayén, e ne era rimasto affascinato. * * *

La piattaforma di pietra era stata appena conclusa, quando la spedizione partì alla volta delle Guayteka. Si erano imbarcati in venti, con cinque dalka, minuziosamente rafforzate e impermeabilizzate con abbondante resina, dopo aver ben riempito le giunzioni tra le tre grosse tavole di legno che costituivano il corpo dell’imbarcazione con

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le fibre della corteccia di alerce. Vi fu una grande festa per la loro partenza, e tra i guerrieri vi era anche il fratello di Millaray. Era ancora molto giovane, ma nel passato incontro di Caguach aveva voluto che i suoi genitori intavolassero le prime parole per una ragazza che aveva conosciuto l’anno precedente. Era una ragazzina poco maggiore di Millaray, e quindi entrambi erano ritenuti ancoro troppo giovani per sposarsi. Ma proprio per quello il ragazzo aveva voluto partecipare alla spedizione guerriera, per poter dimostrare in quel modo il suo ardimento e convincere i futuri suoceri. Le famiglie del clan rimasero dunque in attesa che i guerrieri tornassero dalla loro scorreria, sperando in un ricco bottino di pellicce. L’attesa si protrasse a lungo. Quando finalmente le cinque dalka apparvero dietro il sottile promontorio di Imelev, l’estrema propaggine orientale dell’isola Quehui, era ormai ben entrato il mese di glor-küyén e il fiore del chilco si era dischiuso. La stagione delle piogge fredde era iniziata, senza che fosse ancora cessata quella precedente. Tuttavia vi era una certa allegria, nelle ruka disperse lungo tutta l’isola di Quinchao. Lungo più di una spiaggia erano state predisposte le piattaforme per la Pincoya e la bella fanciulla marina si era abbandonata a danze sfrenate e piene di allegria. Nessuno la poté vedere, naturalmente, ma l’improvvisa abbondanza di pesce e di frutti di mare ne era la prova palpabile. E poi c’era quell’allegria che sempre si imponeva quando ormai si avvicinavano i festeggiamenti del We Tripantü: ormai mancava poco più di una luna perché si celebrasse il grande raduno. Poiché la ruka di Millaray era la più prossima alla spiaggia di Chequián, la più meridionale dell’isola, i suoi occupanti furono i primi a sapere del ritorno del gruppo di guerrieri. Già si avvicinava l’oscurità della sera e la famiglia si trovava riunita intorno al focolare acceso. La pioggia batteva rumorosa sul tetto di paglia e s’infiltrava tra le canne delle pareti, spinta dal vento. La pentola di cuoio appoggiata nella brace, là dove era meno ardente, profumava di mare. Sopra un largo e basso cesto rotondo vi erano alcune scure patate fumanti. Erano quelle dell’anno precedente, annerite e seccate dalla lunga affumicazione. Tra le scarse patate s’insinuavano alcuni lunghi bastoncini di sargasso: questi invece erano abbondanti. Millaray e Likarayén sedevano l’una accanto all’altra. La bambina era particolarmente allegra, quella sera. Non per quello aveva rinunciato ad essere taciturna, quella era la sua natura, ma i suoi occhi brillavano di eccitazione. Millaray ne era la causa: la ragazza, infatti, aveva terminato quel giorno di tessere quello che tutti riconoscevano essere il trariwe più bello che fosse mai uscito dal suo telaio. Tutti ne avevano ammirato le cinque figure: fedeli alla tradizione, riportavano la narrazione pittografica di un antico ngutrám, antico come i più antichi tra gli spiriti degli antenati. Esso era destinato ad essere intrecciato intorno alla vita e faceva coppia con un altro trariwe, i cui disegni si richiamavano reciprocamente, destinato a tenere ordinati i capelli. Le due fasce erano per Likarayén, naturalmente, e la bambina ne era felice. Non aveva potuto provarsele: la tradizione voleva che le due cinture tessute fossero indossate solamente il giorno di We Tripantü, quando la bambina avrebbe celebrato il suo katán pilún. E per quel giorno di festa, Millaray le aveva anche tessuto una tunica bellissima, tutta di lana di lama, intrecciata di piume di colibrì, di chuchac, di triel, sicché era tutta una fantasmagoria di colori. Anche quella tunica, che le sarebbe arrivata sino ai piedi sostituendo quella corta da bambina che avrebbe indossato sino a quel giorno, non l’aveva potuta ancora indossare. Ma a Likarayén era bastato poterla vedere per essere felice. E poi quella era la sua prima iniziazione: dopo quel giorno non sarebbe stata più una pichiche, ma una ragazzina. L’unico fattore che si contrapponeva all’allegria che regnava nella ruka, nonostante l’insistenza della fredda pioggia, era la preoccupazione dei due adulti per questo figliolo

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partito così giovane (forse troppo giovane) e non ancora tornato. Ben si possono immaginare, quindi, le grida di festa che ci furono quando improvviso ed inatteso il ragazzo entrò nella ruka. Aveva tra le braccia un grosso pacco di pellicce e, legata ad una spalla con una spessa corda di cuoio, un borsa lunga di foggia strana. Ma non era solo. Dietro di lui lo seguiva una ragazzina minuta e tozza, che poteva forse avere una decina di anni. Era incredibilmente brutta. Anche le aveva un pacco tra le mani, ben più piccolo di quello che portava il ragazzo. Il padre strinse a sé il figlio, in una rara manifestazione di espansività. La madre lo osservava, quasi incredula. Lei che per molti versi lo considerava ancora un ragazzino, troppo giovane per pensare al matrimonio, ora se lo ritrovava davanti, di ritorno da una spedizione guerresca. Non osò abbracciarlo: nessuna mamma abbraccia un figlio fatto uomo, ed anche il giovane la salutò gentile ma distaccato, come si conviene ad un uomo fatto. Rivolse un saluto anche a Millaray, che si era alzata ad accoglierlo, ma anche nei confronti della sorellina si mantenne serio e distaccato. Ignorò Likarayén, così come la bambina ignorò lo zio: essa era intenta ad osservare quella strana ragazzina così brutta che era entrata nella ruka, seguendo il ragazzo come un lama segue il suo pastore. Il ragazzo era affamato e la sua tunica, inzuppata di acqua, era sporca e stracciata. Spinse la ragazzina bruscamente ma senza cattiveria in un angolo della ruka e, a gesti, le indicò di sedersi a terra. La ragazza obbedì, ma era evidentemente terrorizzata. Il suo sguardo passava dall’uno all’altro, ma un poco in tralice, perché teneva il volto rivolto verso terra. I capelli erano abbastanza corti, tagliati come si usa tra le donne chono. Aveva addosso solamente con una pelliccia di guanaco molto grossolana, cucita malamente con i tendini della bestia, senza essere tagliata né conformata al corpo. Era identica alle pellicce che s’intravedevano nel pacco che il giovane aveva portato con sé e che dovevano ancora essere fregate ben bene, conciate e tagliate. Puzzava anche. Tantissimo, come un tricheco. La sua pelle era sporca e sembrava tutta unta. L’uomo osservò il figlio, poi accennò alla ragazza. “La voglio tenere con me. E’ forte come un animale, nuota come una foca. Sarà una concubina e farà da serva alla mia sposa”. “Una concubina, figliolo, è una bocca in più da alimentare”. Ma non disse altro. Era consuetudine, d’altronde, che i guerrieri nelle loro spedizioni razziassero pelli ed ogni bene, ma anche le donne. Non erano poche le chono che vivevano a Quinchao e la maggior parte di loro non veniva da Chaulinec, ma era preda di guerra, come questa ragazzina. Non per nulla tante parole chono si erano aggiunte e mescolate con il mapudungún, ed anche alcune abitudini di quel popolo erano state fatte proprie dagli huilliche. Ad esempio, l’uso delle cappe di guanaco, ma anche la tecnica con cui costruivano le loro dalka. Ciò che stupiva l’uomo, era il fatto che suo figlio era ancora troppo giovane per possedere una concubina. Ma forse, pensò, era proprio perché voleva dimostrarsi più adulto dei suoi anni che aveva che aveva portato con se quella brutta ragazzina. Poi il giovane si spogliò completamente, asciugò bene il suo corpo con una pelle morbida, e quindi indossò una tunica pulita e asciutta. Poi andò a sedere sulle pietre intorno al focolare e chiese permesso al padre per potersi servire. Il padre annuì sorridendo - “ormai si sente un uomo - pensò - ma non per questo fa l’arrogante” - ed il ragazzo si servì avidamente prendendo la patata più grosse tra le poche che c’erano. Quindi, rivolgendosi a Millaray: “dalle qualcosa da mangiare. Non avere paura: puzza ma non morde” disse ridendo. Millaray, in silenzio, prese una ciotola di legno, scegliendo la più grossa, la infilò nella pentola di cuoio per raccogliere del brodo caldo, poi vi aggiunse una patata, alcune cozze affumicate ed un bel pezzo di sargasso. Poi accennò a

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portare la ciotola alla ragazzina, che era rimasta immobile e terrorizzata nell’angolo opposto della ruka, quello più in ombra, cercando di rendersi il meno visibile possibile. Ma Likarayén la guardò e le tese le sue mani: allora Millaray le cedette la ciotola e lasciò che fosse la bambina a portarla alla piccola prigioniera. Likarayén si avvicinò alla chono e le porse la scodella calda. Ma la chono cercò di allontanarsi da lei, spingendosi ancora di più nell’angolo dove aveva cercato di nascondersi. Ma più in là non poteva andare. Likarayén prese nuovamente la ciotola e l’avvicinò alla ragazzina. Ma questa la guardava con gli occhi sbarrati, senza osare prenderla. Allora la bambina posò la scodella accanto alla ragazzina, poi si mise di fronte a lei, la squadrò con i suoi enormi occhi di fuoco, le disse: “mari-marí, pichi domo. Iñche ta Likarayén. Ka eimi iney ngéimi?” e le sorrise. Quindi avvicinò la sua mano al suo volto e le scostò con dolcezza i capelli, liberandole i viso. Poi si tolse il trariwe che portava intorno alla fronte e lo offrì alla ragazzina. Ma poiché questa non lo prendeva e, impaurita, si limitava ad osservare Likarayén, allora la bambina le sistemò la fascia per i capelli sulla fronte, con le sue dita la pettinò un poco, poi le sorrise e le fece una carezza leggera sulla guancia. Quindi sedette accanto a lei, prese la ciotola che aveva lasciato per terra, e la appoggiò sulle mani della ragazzina, che questa volta trattenne la scodella di legno. Poi prese una cozza con la sua mano e la portò alla bocca della ragazzina. Questa, attenta e diffidente e senza smettere di osserva la bambina dai capelli rossi, mangiò quanto le era stato messo in bocca. Poi sollevò la ciotola e cominciò a bere e a mangiare il suo contenuto, avidamente, senza cessare neppure per un instante di fissare Likarayén, finché la scodella fu vuota. Allora la posò sulle sue gambe. Likarayén guardò che avesse mangiato tutto. Poi le sorrise nuovamente e le prese una mano. I famigliari di Likarayén osservavano stupiti la scena. Un po’ perché la bambina non aveva mostrato nessun timore per l’estraneo, ma soprattutto perché aveva parlato, lei che parlava così di rado e solamente quando la si interrogava. Ma solo Millaray aveva notato, nella penombra della ruka, quella carezza che Likarayén aveva rivolto alla bambina chono e quella mano nella mano: altrimenti lo stupore sarebbe stato ben più grande. Ma i nonni non avevano nessun interesse per quanto potesse fare Likarayén, presi com’erano ad ascoltare le avventure che il giovane figliolo, al ritorno dalla sua prima spedizione guerresca, si accingeva a fare. “Abbiamo combattuto più contro la pioggia, che contro i chono - esordì il giovane guerriero - e abbiamo faticato a trovarli. Ogni volta che ci riuscivamo, loro ci sfuggivano nascondendosi tra i canali delle isole, che sono molto più stretti dei nostri e con gli alberi che entrano fino nel mare. Ma noi li abbiamo cercati per sette giorni di seguito, sempre sotto la pioggia fitta, finché li abbiamo trovati. Erano infilati tra gli alberi: la marea era molto alta e con le loro dalka si sono infilati tra gli alberi. Non sono come quelli di Chaulinec. Quelli li ci dormono anche, nelle loro dalka. Scendono sulla spiaggia solo di quando in quando, ma stanno quasi sempre in mare”. “Li abbiamo trovati che era quasi notte, e loro non ci avevano visto. Allora, senza fare rumore, siamo sbarcati con le nostre lance e ci siamo nascosti dietro di loro, nel bosco fittissimo. La pioggia era così fitta che anche se avessimo fatto rumore, non ci avrebbero sentito comunque, e non ci avrebbero visto neppure se si fossero voltati dove stavamo noi. Abbiamo aspettato che la marea scendesse e che le loro dalka rimanessero a secco. Avevamo paura che riuscissero a scappare di nuovo: con quella pioggia così intensa, se ci fossero riusciti non li avremmo più trovati. Ma non ci hanno visto e non sono potuti scappare. Abbiamo lasciato passare l’intera notte, nascosti tra gli alberi. Non ne potevamo più dalla pioggia gelata, ma non dovevamo assolutamente muoverci”.

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“Poi, finalmente, quando venne un po’ di luce, li abbiamo attaccati. Non se lo aspettavano. Erano molti di più di noi, forse trenta uomini adulti, o forse anche di più. Ma credevano di essere riusciti a sfuggirci. E poi erano ostacolati dalle donne e dai bambini. Quando li abbiamo attaccati gridando, non sono riusciti ad organizzare una difesa, proprio a causa dei bambini. Più che attaccarci a loro volta, si sono disposti tra noi e i bambini e le donne, per dar loro il tempo di spingere le dalka nel mare. Vedevamo che le donne, per alleggerire le imbarcazioni, abbandonavano sulla spiaggia tutto quello che avevano a bordo. Poi siamo riusciti a sfondare la linea che avevano formato, e a dividerli in due gruppi, arrivando sino alla spiaggia. Quasi tutte le dalka ormai erano in acqua. Solo due, rimanevano a terra, con tre o quattro donne e una decina di bambini. Ma nella confusione non se ne sono accorti. Hanno creduto che tutte le imbarcazioni fossero ormai in acqua, perché improvvisamente hanno smesso di combattere e si sono tirati a nuoto per raggiungerle. Allora noi li abbiamo lasciati scappare, perché ormai avevamo quello che volevamo”. “Il gruppetto di donne e bambini non poteva più scappare. Beh, le donne avrebbero potuto tirarsi in mare e scappare a nuoto - vedeste come nuotano bene! anche le donne nuotano benissimo, anche meglio degli uomini, e sanno nuotare sotto l’acqua, così che uno non riesce più a vedere dove sono andati! - dicevo, le donne non potevano scappare perché avrebbero abbandonato i bambini. Strillavano, come strillavano!”. “Allora ci siamo affrettati a prendere tutte le pellicce e gli oggetti che avevano abbandonato sulla spiaggia per rendere veloci le loro dalka. Avevamo paura che tornassero indietro, che si accorgessero che erano rimaste alcune donne con i bambini bloccate sulla spiaggia, ma tra la pioggia e la nebbia non ci si vedeva molto. Avevamo paura che tornassero, perché avevamo visto che quando combattono sono forti e coraggiosi. Come noi. E poi anche perché alcuni di noi erano rimasti feriti e c’era Lonkopil che non si muoveva più. E infatti era morto”. “E’ morto Lonkopil!” esclamò suo padre, addolorato. “E chi altri?”. “Solo lui è morto. Suo fratello Waykipil e Pangilef sono feriti. Molto feriti. Waykipil, lo abbiamo dovuto portare a braccia, perché non riesce più a camminare; Pangilef ha avuto la faccia schiacciata da una mazzata. Ma noi ne abbiamo uccisi sei... no, sette... beh, non ricordo bene... era tutta una confusione”. “Abbiamo preso le pellicce, tutte. Poi io ho voluto prendermi questa ragazzina. Quando l’ho afferrata, mi ha morsicato come un leopardo. Non riuscivo a staccarmela, ma non volevo picchiarla: è una bambina e anche donna, sarebbe stato vergognoso. Allora le ho schiacciato il braccio che mi mordeva contro la sua bocca, l’ho immobilizzata e in qualche modo l’ho legata con la stessa pelliccia che portava indosso. Le altre donne gridavano, ma non si difendevano. Coprivano i bambini con i loro corpi, erano terrorizzate, avevano paura che volessimo ucciderle tutte. Cinque di noi, intanto, erano andati a recuperare le nostre imbarcazioni e si avvicinavano alla riva. Il figlio del lonko, anche lui aveva catturato una donna - non una pichi domo, ma una donna adulta, avrà trent’anni, e poi c’era un altro di noi che aveva anche catturato una donna, ma non ho capito chi era. Pioveva talmente tanto che quasi non ci si vedeva neppure tra di noi. Finalmente le nostre dalka erano sulla riva, e allora abbiamo caricato tutte le pellicce e le cose che i chono avevano abbandonato sulla spiaggia: c’era anche molto pesce secco. secco, non affumicato, non so come fanno a farlo, ma è buono: al ritorno abbiamo mangiato solo quello. Cioè, gli altri caricavano sulle dalka tutto ciò che di utile era rimasto sulla spiaggia, perché noi che tenevano ferme le donne, non potevamo muoverci neppure noi. Poi ci hanno portato delle corde, e le abbiamo legate e le abbiamo portate sulle nostre imbarcazioni tenendole a fatica, anche se erano ben legate. Pensate che

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quella che aveva catturato il figlio del lonko, è riuscita a gettarsi in acqua, anche se era legata, e riusciva a nuotare lo stesso, senza usare né braccia né gambe, ma sembrava che saltasse nell’acqua piegando il suo corpo come un gambero”. “Abbiamo preso proprio tutto. Beh, tutto no, perché non abbiamo tolto le pellicce che indossavano le donne e neppure quelle dei bambini. Poi c’erano forse dieci o dodici chono feriti: anche a loro abbiamo lasciato le loro pellicce. Il figlio del lonko ci ha detto che quando uno è ferito a terra e non può più combattere, è da vigliacchi fargli del male o togliergli la sua veste, soprattutto se ha combattuto con coraggio. I feriti avevano paura che noi uccidessimo le loro donne e i bambini, ma questo noi non lo avremmo fatto per nessuna ragione. Volevano solo allontanarci al più presto da lì, prima che i chono tornassero, magari con altri compagni”. “Allora abbiamo ringraziato i pillán della pioggia, mentre prima dicevano che erano i wekufe a mandarcela, perché piovendo così forte ci è bastato allontanarci anche solo un poco, che non ci avrebbero più trovati. Aveva ragione il figlio del lonko, quando alla sera prima ci disse che se ce li lasciavamo scappare, non li avremmo più trovati!”. “Abbiamo remato tutto il giorno. Io dovevo fare attenzione a quella lì - e così dicendo si girò verso la ragazzina chono che era rimasta immobile, nell’angolo ormai buio della ruka, senza allontanare la sua mano da quella di quella stranissima bambina con gli occhi di fuoco che le aveva sorriso e che aveva l’età delle sua sorellina che era rimasta sola sulla spiaggia nella lontana Guayteka - “perché ogni volta che aveva il mio piede a tiro mi mordeva con tutta la sua forza. Poi alla sera ci siamo fermati vicino ad una spiaggia. Ma non siamo scesi: siamo rimasti sulle nostre imbarcazioni, cercando di ripararci dalla pioggia. Ma non era facile neppure con tutte le pellicce che avevamo ora! Che modo di piovere! Ora che ci sembrava che non ci fosse più pericolo, dicevamo di nuovo che erano i wekufe a mandarci la pioggia. Il mattino dopo abbiamo iniziato ad attraversare il grande golfo. Abbiamo remato tutto il giorno e poi ci siamo turnati per remare anche durante la notte. Non potevamo accendere le torce perché non ha mai smesso di piovere , e di tanto in tanto gridavamo per essere sicuri di non allontanarci l’uno dall’altro”. “Finalmente siamo arrivati alla punta di Pyulipoye. Li ci siamo fermati: perché eravamo sfiniti, ma anche perché avevamo con noi il corpo di Lonkopil. Eravamo ancora troppo lontani per poter pensare di riportarlo a casa. Ci dispiaceva, ma abbiamo dovuto preparare una pira e cremarlo. Abbiamo riportato le sue ceneri. Abbiamo riposato tutto il giorno e tutta la notte. Con dei rami e con le pelli che avevamo preso, abbiamo costruito due capanne, proprio come i chono. Ci veniva da ridere, pensando che prima li combattiamo e poi copiamo le loro capanne di pelle! Poi, finalmente, siamo ripartiti, ma con più calma: durante la notte ci fermavamo a dormire sulle spiagge, ma sempre rimanevano tre o quattro di noi a fare la guardia, perché quelle sono spiagge frequentate dai chono. Ma non ne abbiamo più incontrato nessuno. Ci abbiamo messo una giornata intera per arrivare alla punta di Chaiguao, e ancora una per arrivare a quella di Queilen. A Queilen ci sono molti huilliche e abbiamo dato loro alcune pellicce in cambio di patate. Poche, perché anche loro avevano perso il raccolto e volevano fare una spedizione alle Guayteka, come la nostra. L’avrebbero fatta dopo We Tripantü, ma ora che avevano visto il nostro bottino, erano impazienti di partire. Poi il giorno dopo siamo arrivati all’isola di Puqueldón, alla punta Apabón. Ancora un giorno di remi... e ora siamo di nuovo a casa”. Likarayén era tornata vicino a Millaray, ma ascoltava disattenta le avventure dello zio. Aveva troppo sonno e le si chiudevano gli occhi. Quando finalmente la lunga chiacchierata ebbe termine, il mattino era ormai vicino, ma solo allora ognuno si ritirò nel suo giaciglio. La ragazzina chono, sfinita dal terrore, si era addormentata nell’angolo

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della ruka dove aveva cercato rifugio. Una morbida pelliccia lavorata alla maniera dei mapuche copriva e riscaldava il suo corpo. “Hai fatto bene” disse Millaray a Likarayén, con un filo di voce, che non sentisse nessuno. Poi si misero nello stesso giaciglio e si misero a dormire, la più piccola nelle braccia della più grande, come avveniva ormai ogni notte, da quasi sei anni. Likarayén sorrideva mentre dormiva, sognando la bella festa che l’attendeva, quando avrebbe indossato la tunica colorata e i due trariwe che Millaray le aveva tessuto ed il ngenpín avrebbe infilato i chaway nei lobi delle sue orecchie. * * *

Si svegliarono tardi, la mattina seguente. Un po’ perché erano andati a riposare che già quasi l’alba stava per fare la sua apparizione, un po’ perché continuava a piovere incessantemente, e con un tempo così c’era poco da fare. Quando si svegliarono, la puzza di tricheco aveva riempito tutta la ruka. “Ma come puzza!” disse la madre di Millaray rivolgendosi al figlio. E suo padre chiese: “ma dopo che l’hai catturata, non l’hai lavata?”. Ma il figlio lo guardò con aria interrogativa. “Ma non hai visto la sua pelle domandò ancora il padre - non vedi quanto grasso la ricopre? O credi forse che i chono puzzino perché così è la loro natura? Non ti hanno detto, i tuoi compagni, che si cospargono i corpo di grasso di tricheco o di foca perché così non sentono il freddo, neppure quando s’immergono nell’acqua del mare anche se la spiaggia è bianca di neve?”, ma non aggiunse altro, poiché temeva di umiliare il figlio davanti alle donne. Il ragazzo era rimasto perplesso. Aveva voluto catturare una donna - anche se era ancora una bambina - proprio come fa un guerriero adulto ed esperto, ma aveva dimostrato di non sapere neppure quel che doveva fare. “Allora si rivolse alla sorella: “pensaci tu, Millaray”. E la giovane donna annuì in silenzio. La bambina chono era sveglia. I suoi occhi erano sempre terrorizzati. Strappata dalla sua gente, dalla sua sorellina che aveva l’età di questa strana bambina dai capelli rossi, portata dove tutti parlavano una lingua incomprensibile e dal suono così strano. Quanto aveva cercato di fuggire dalla dalka sulla quale l’avevano imbarcata alla forza, come se fosse un pacco di pelli in più. Ma era legata troppo strettamente, non riusciva a muoversi. Era solo riuscita, un paio di volte, a mordere il piede di colui che l’aveva catturata. Sperava di essere buttata a mare, o anche di essere uccisa. Sarebbe stato comunque meglio che essere trascinata via. La sua gente diceva che i mapuche erano malvagi, che mangiavano i prigionieri. E se l’avessero divorata? Ma forse queste erano bugie. A volte anche loro avevano scambiato con i mapuche delle isole del settentrione le loro pelli, e i chono che vivevano con loro non dicevano nulla di così tremendo. Vide che quella ragazzina poco maggiore di lei le si avvicinava. La bambina dagli occhi rossi era accanto a lei. Perché la prendevano per una mano? Che cosa volevano da lei? Sembrava che volessero che lei uscisse insieme a loro da quella strana abitazione di canne, senza neppure una morbida pelle a ricoprirla. Seguì la donna e la bambina: che altro poteva fare? Cercò di passare rasente alla parete della ruka, il più lontano possibile da colui che l’aveva catturata. Poi uscirono nella pioggia. Le tre raggiunsero la spiaggia. Millaray e Likarayén si erano coperte con una pelliccia di guanaco, come la chono, solo che loro, sotto la pelliccia, indossavano una tunica pesante, mentre la loro prigioniera era completamente nuda e la sua rozza e informe pelliccia le copriva a malapena le spalle. Quando furono sulla spiaggia la giovane donna la fece entrare nell’acqua bassa di un ruscello che scorreva veloce ed aveva lì la sua foce. Poi le tolse la sua pelliccia e cominciò a sfregarle energicamente la pelle, aiutandosi anche con della sabbia finissima. La chono non capiva cosa volessero fare, ma non osava

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muoversi. Pensava di mettersi a correre e tirarsi in mare e nuotare, nuotare, sino che avrebbe avuto forza, e poi lasciarsi andare piacevolmente a fondo. Meglio annegare, che rimanere prigioniera. Ma era troppo sfinita e disperata per fare qualunque cosa. Millaray continuava a sfregarla con la sabbia, fino a quando vedeva che la pelle era perfettamente pulita. La pioggia che continuava a cadere dava anch’essa il suo contributo. Likarayén rimaneva accanto, in silenzio, ma ogni volta che i suoi occhi incrociavano quelli della chono, le sorrideva. Come era diversa quella bambina dalla sua sorellina, pensava la prigioniera, ma era una bambina, non la minacciava, al contrario, le sorrideva. Ed anche questa giovane donna, poco maggiore di lei, non capiva perché si ostinasse a togliere il grasso che lei se era sparso su tutto il corpo: ma lo faceva con gentilezza, ed anche lei di quando in quando le sorrideva. “Ora mi metto a correre e mi butto in mare” pensava la chono quando ormai Millaray aveva finito il suo compito e le faceva segno di uscire dall’acqua del ruscello che le arrivava alle ginocchia. E fece quanto aveva in mente. Si girò bruscamente e tentò di mettersi a correre verso il mare, così vicino e invitante. Ma forse era troppo indebolita, o chissà: fatto sta che invece di guadagnare la spuma bianca, scivolò e cadde nella sabbia. Si sentì tradita dal suo proprio corpo, umiliata davanti alle due donne che si erano immediatamente chinate su di lei. “Ora la mordo” pensò vedendo la mano di Millaray che cercava di trattenerla. Ma, invece di romperla, si mise a piangere disperatamente, con dei singhiozzi incalzanti che quasi la soffocavano come un grido malamente trattenuto. Restò immobile, distesa sulla sabbia. Poi il pianto si fece silenzioso, ma non per questo meno disperato. Sentì due mani, una più grande ed una più piccolina e leggera, che le carezzavano dolcemente i capelli. Si volse, e vide che la più piccolina si era messa a piangere anche lei, nel più assoluto silenzio. Ma anche la più grande aveva gli occhi lucidi, e la guardava senza cattiveria: al contrario, nel suo sguardo ci vide tanta compassione. Allora la chono si buttò tra le braccia di Millaray, e sentì, finalmente, un poco di solidarietà di fronte alla sua disperazione. Rimasero a lungo, sedute sulla spiaggia, immobili sotto la pioggia. Poi quando la chono smise di piangere, Millaray si alzò e la aiutò a rialzarsi: le fece indossare una tunica morbida di lana, simile a quella che indossava lei stessa, e le appoggiò sulle spalle la sua pelliccia di guanaco per ripararla dalla pioggia. Poi, insieme, le tre donne fecero ritorno alla ruka. * * *

Giunse, infine, il momento della partenza. Come se gli spiriti avessero voluto finalmente dal loro una risposta benevola, Chaw Meweín, il padre dei venti, spazzò via le nuvole nere e la pioggia concesse una tregua. Nella dalka che li conduceva a Caguach, erano in cinque: i due uomini - il figlio già sposato andava con la propria imbarcazione e le tre donne, anche la chono che, sia pure faticosamente, cominciava a farsi capire e a capire lei stessa qualcosa. Likarayén era impassibile e composta. Sembrava indifferente alla cerimonia che la attendeva. Solamente Millaray sapeva quanto fosse eccitata e felice e quanto avesse dovuto impegnarsi per tranquillizzarla. La chono non comprendeva cosa succedesse. Era contenta di essere su una barca, anche se ora aveva abbandonato ogni tentativo di fuga. La facevano lavorare molto, cose che lei non sapeva fare e che erano molto faticose. Macinare i fagioli o le patate indurite dalla lunga esposizione al fumo, pulire il pesce ma questo sì che lo sapeva fare - riassettare la ruka. Però le cose che faceva lei, erano le stesse che facevano le due donne e, nei limiti di quanto possibile, anche la bambina dai

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capelli rossi. Non la trattavano, male, e nessuno l’aveva mai picchiata, neppure quando continuavano a dirle qualcosa e lei non capiva. Erano così strani i colori degli occhi e dei capelli di quella bambina. Era così diversa dalla sua sorellina che era rimasta su quella spiaggia lontana, gridando disperata e chiamandola per nome. Ma era una bambina anche lei, e le sembrava che dovessero avere la stessa età. Incerta, timorosa, restituì alla bambina l’affetto che quella a sua volta le mostrava, e non di rado camminavano tenendosi per la mano. Millaray, a sua volta, voleva bene a quella donna chono che, al contrario del clan, non rifiutava colei che sentiva come figlia propria. A Caguach, l’eccitata confusione di sempre. Le solite capanne a proteggere i falò sulla spiaggia, i buchi nel terreno dove cucinava lentamente la carne ed il pesce con il calore delle pietre roventi, i ragazzi e le ragazze che cercavano la complicità del sottobosco. Dedicarono il resto della giornata a rivedere amici e parenti, ma soprattutto rimasero in compagnia dei famigliari della giovane ragazzina amata dal figlio. Questo, poi, era al centro dell’attenzione, così come gli altri giovani che avevano partecipato alla razzia contro i chono, e più e più volte dovette raccontare la sua avventura. Solo Millaray, Likarayén e la giovane prigioniera rimasero per conto loro, nei pressi della dalka. “Meglio così”, pensarono i genitori del ragazzo, perché la vista della nipotina con gli occhi e i capelli così intensamente rossi non avrebbe certo giovato ai discorsi di matrimonio. Ma Likarayén era strana. Ora che era sola con Millaray e la chono, non esitava a manifestare i suoi sentimenti, la sua eccitazione ed il suo entusiasmo. Ma a poco a poco sembrava quasi spegnersi, e subentrava una profonda prostrazione. Ormai era calata la notte, la notte in cui tutti rimanevano svegli in attesa nel nuovo anno. Ma quella volta, invece, Likarayén si addormentò profondamente, sistemata nella dalka e ben coperta dalla morbide pelli di guanaco. Ma Millaray e la chono che erano rimaste al suo lato videro bene quanto agitato fosse il suo sonno, come se fosse turbato da chissà quale wekufe. Poi, improvvisamente, Likarayén si svegliò urlando. La sua fronte scottava. Millaray la lasciò affidata alle cure della chono, e corse di capanna in capanna alla ricerca di un machi. Trovò invece il ngenpín e insieme a lui fecero subito ritorno alla dalka. Likarayén era seduta, tremava forte, e la chono la teneva ferma stringendole entrambe le mani tra le sue. Si scostò non appena il ngenpín si chinò verso la bambina. “Cosa succede, bambina mia?” le chiese sollecito. “E’ stato un pewma, un sogno che mi ha spaventata. Ma ora è passato. Sto bene”. Ma era preda evidente di una forte agitazione. “Raccontami del tuo pewma - le disse il ngenpín - senza tralasciare nessun particolare, neppure il più insignificante: spesso gli spiriti degli antenati ci danno i loro messaggi per mezzo del sogno”. “Ho sognato un condor - disse allora la bambina - ma era tutto assurdo. Il condor non volava, nel cielo, ma nuotava nell’acqua del mare, infilandosi tra le onde. E c’era tanta luce, ma non era il sole, era luce colorata, ma il colore non lo so... cambiava continuamente... ma era viva, quella luce, e parlava... credo che parlasse proprio a me...”. “Ti ricordi che cosa ti ha detto, quella luce?”. “Sì, perché continuava a ripetere sempre la stessa frase, sempre la stessa frase...”. “E come era, quella frase?”. “Mi diceva: eimi machingeaimi, eimi machingeaimi. Ripeteva sempre così, senza mai cambiare...”. “Tu sarai una machi. E’ questo che ti diceva la luce. Che il tuo destino è quello di essere una machi”. “Ma io non voglio, non voglio!”. “Non puoi rifiutare il tuo destino. Se lo rifiuterai, allora gli spiriti ti abbandoneranno, il wekufe entrerà nel tuo corpo e tu morirai. Ciascuno di noi deve accettare il suo destino, anche quando è triste e doloroso. Questa è la volontà degli spiriti degli antenati”. Rimase un poco in silenzio, osservando Likarayén

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che sembrava essersi calmata. Poi aggiunse ancora: “bambina mia, tu hai un destino da compiere, e non sarà facile. Ma non è questa la notte per parlarne. Domani cui sarà il tuo katán pilún e non sarai più una bambina. Quando tornerai a Chequián verrò a cercarti e dovremo parlare molto a lungo, di cose importanti. Ora, però, cerca di riposare un poco e di distenderti”. E con appena un cenno di saluto verso Millaray, si allontanò rapidamente. Nonostante la notte, la scarsa luce delle torce e dei falò furono sufficienti perché Millaray scorgesse quanto era corrucciato il volto dell’anziano ngenpín. Ed ebbe paura per la sua adorata bambina. Giunse il mattino e la festa ebbe inizio. Il cielo si era rannuvolato, ma il tempo reggeva ancora. Sulle nuvole grigie che incombevano sullo spiazzo del rewe, si riflettevano i bagliori rossi dei tre vulcani, mai domati. E la cerimonia ebbe inizio. Likarayén era vestita con la splendida tunica che Millaray le aveva tessuto. I suoi capelli rossi erano tenuti ordinati dallo stretto trarilonko ed una seconda fascia, simile per disegno e colore ma molto più larga, le cingeva i fianchi. Ancora una volta non fu sua nonna ad accompagnarla davanti al rewe, ma Millaray, e ancora una volta la bambina si trovò davanti all’anziano ngenpín, e si fissarono a lungo negli occhi. Lo sciamano taceva. Nella sua mano destra, aveva un lungo e grosso ago ricavato dalla zanna di un tricheco, finemente inciso, al termine del quale c’era una sottile cordicella rossa. Con la mano sinistra trattenne il lobo di un orecchio di Likarayén: poi, con un movimento deciso, vi piantò l’ago e lo fece uscire dall’altra parte, lasciandovi inserita la cordicella. Mise un altro filo nell’ago e ripeté l’identico gesto nell’altro orecchio. Likarayén sentì male, ma era sopportabile, e rimase impassibile per tutte e due le volte, reclinando il capo per facilitare l’operazione. Poi Millaray porse anch’essa il suo pollice al sacerdote: questi con un gesto deciso lo incise profondamente con la sua lama di ossidiana. Allora la ragazzina appoggiò il polpastrello sanguinante sul lobo dell’orecchia della bambina ed il loro sangue si unì. Quando la cerimonia fu conclusa, Likarayén fissò felice i suoi occhi rossi in quelli scurissimi e profondi del ngenpín: e vide che l’anziano sciamano piangeva. * * *

La festa di We Tripantü si era protratta molto a lungo. Da poco era terminata, e già iniziava la notte. Nonostante la minaccia delle pesanti nuvole, ancora non pioveva, ma una spessa nebbia aveva avvolto la spiaggia. I più decisero di attendere sino all’indomani prima di mettersi in mare. I genitori di Millaray avevano voluto che la ragazza andasse con loro e con suo fratello a conoscere quella che, forse, un giorno sarebbe diventata la sua seconda cognata. Infatti, nulla poteva essere ancora deciso. I due ragazzi erano troppo giovani per parlare già di matrimonio, ma era nelle usanze che i quattro genitori iniziassero ad incontrarsi e a parlarne. Likarayén sembrava stanchissima. La sua testa ciondolava e le palpebre le si facevano pesanti. La lasciarono nella dalka varata sulla spiaggia, sola, ma raccomandata alla cura dei tanti amici che attendevano nelle loro imbarcazioni di prendere il mare. D’altronde il provvisorio rifugio dove si sarebbero recati era immediatamente dietro al primo gruppo di alberi intorno alla spiaggia, non visibile agli occhi, ma a portata di voce. Portarono con loro la ragazzina chono per farla conoscere. Questa non intendeva essere una esibizione, ma piuttosto una accettazione, anche se certamente non reciproca. La ragazzetta, infatti, nonostante la luna trascorsa era sempre molto impaurita di tutto: sembrava rasserenarsi solamente quando era con Millaray e Likarayén, ma senza estranei. Neppure Millaray ci andava volentieri. Non perdonava al fratello l’ostilità che molto spesso dimostrava nei confronti di Likarayén, ma era irritata anche nei confronti

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dei suoi genitori, che continuavano a tenere nascosta Likarayén, come fosse qualcosa di cui vergognarsi. Rimase pertanto accanto alla chono, entrambe mute per tutto il tempo: l’una perché si rifiutava di parlare, l’altra perché non era in grado di farlo, né di capire quanto veniva detto. Likarayén, intanto, si era addormentata nella sua dalka, con le pellicce di guanaco ben rimboccate e con una pelle di tricheco posta su una intelaiatura realizzata con due bastoni arcuati, a mo’ di copertura, caso mai si fosse messo a piovere. La notte, ormai, era al suo culmine. Quasi tutti dormivano, stanchi per la precedente veglia. Il mare immobile. Lontano lontano, quasi impercettibile, il suono sordo del vulcano, l’Hornopirén, il più vicino a Caguach. Il cielo nero di quando in quando lampeggiava, riflettendo i bagliori che improvvisamente scuotevano la vetta del Peripillán, con le sue grandi colate di roccia incandescente. L’anziano ngenpín era seduto sulla sabbia, non lungi da lì, avvolto in una pesante pelliccia di tricheco. Non dormiva, ma pensava con quali parole affrontare Likarayén.dagli-occhi-di-fuoco. “Come posso dire ad una ragazzina di sei anni che deve morire per poter essere una messaggera, come faccio a dirglielo...” e si sentiva profondamente sfiduciato. Poi pensò anche a Millaray: come avrebbe preso la notizia quella ragazzina? Non lo avrebbe mai accettato. La sua fedeltà all’admapu non sarebbe bastata, la sua devozione per gli antenati - che per lei non erano spiriti, ma antenati in carne ed ossa - si sarebbe convertita in odio. Povera Millaray, che neppure riusciva a trovare appoggio nei suoi genitori. “Forse - pensò - potrei prenderla con me”. Ma poi si rese conto che Millaray avrebbe odiato proprio lui più di ogni altro. Lo avrebbe considerato un traditore, proprio lui che amava Likarayén come una figlia. Già, l’aveva pensato. Una figlia. Ora se ne rendeva conto di quale fosse il suo sentimento per Likarayén-dai-capelli-rossi. La sentiva come figlia. Ma anche Millaray, la sentiva come una figlia. Ma la giovane donna non poteva capire che se Peripillán reclamava quella bambina, che portava il suo stesso sangue nelle sue vene, non glielo potevano negare. Millaray non lo poteva comprendere: o forse sì, poteva capirla... ma accettarlo, questo no. Mai. * * *

L’ondata venne tanto improvvisa, quanto inattesa. Una onda enorme, lenta, silenziosa, unica. Come quella che, talvolta, fa seguito ad una violenta scossa di terremoto. Improvvisamente tutte le imbarcazioni sulla spiaggia si trovarono a galleggiare, mentre l’ondata le spingeva a monte, verso gli alberi. Poi, improvvisa come era arrivata, si ritirò, lasciando nuovamente a secco tutte le dalka. Tutte tranne una: quella di Likarayén. Quella, e solo quella, fu trascinata in mare. Millaray gridò. Un grido selvaggio e primordiale, che squarciò la notte. Il grido di un puma ferito a morte. Gridò e si mise a correre come folle verso la spiaggia. La chono non capiva nulla di quanto stava succedendo, ma si mise a correre anche lei, insieme a Millaray. Fu brevissimo il tempo che ci volle per giungere alla spiaggia, ma la dalka con Likarayén era già nel mare, appena visibile attraverso la spessa nebbia e la cortina di pioggia che iniziava lentamente a scendere. Tutti erano in piedi che gridavano verso l’imbarcazione che ormai non era più visibile. Anche l’anziano ngenpín era lì, insieme agli altri. La giovane chono non esitò. Aveva solo capito che Likarayén, la bambina che le aveva sorriso e che le ricordava sua sorella era rimasta a bordo, in balia delle onde, e si tirò in mare, iniziando a nuotare velocissima verso il largo. Millaray a malapena sapeva nuotare (questa è un’arte che era rimasta estranea alle abitudini mapuche) ma cercò di seguirla. Fu l’anziano ngenpín il primo ad afferrarla, ma la ragazza si dibatteva, picchiava con i suoi pugni il petto dello sciamano per liberarsi, per raggiungere la sua

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bambina dagli occhi di fiamma, il suo fiorellino, la sua sola ragione di vita. Era come folle. Ci vollero quattro uomini adulti e robusti per riuscire a trattenerla, per impedirle di buttarsi nel nero del mare e della notte. “Likarayén, Likarayén, ñi pichi rayén! ñi pichi rayén! ñi pichi rayén!” continuava a gridare, invocando disperatamente il suo piccolo fiore che era scomparso nel mare. La chono era come una foca. Tanto era goffa ed impacciata sul terreno, quanto era agile ed aggraziata nell’acqua, il suo vero elemento. Nuotava velocissima, sott’acqua, uscendo di tanto in tanto per una veloce boccata d’aria ma, soprattutto per tentare di scorgere l’imbarcazione. Ma ovunque era buio, come se una enorme seppia avesse sfiatato tutto il suo inchiostro nerissimo. Solamente si vedevano le luci dei falò sulla spiaggia, ma ogni volta che la chono sollevava la sua testa dall’acqua nelle vana ricerca dell’imbarcazione, i fuochi accesi sembravano sempre più lontani e deboli, finché scomparvero del tutto e restò solamente il silenzio. Allora la chono cercò di sollevarsi il più possibile sull’acqua e gridò con tutta la sua forza “Likarayén! Likarayén!”. Ma le rispose solamente il battito della pioggia sul mare immobile, quasi senza onde. L’unica persona che udì il suo grido inudibile fu Millaray che tra tutti cercavano di trattenere sulla spiaggia e di impedirle di buttarsi in mare: ma quando Millaray udì quella disperata invocazione che pronunciava il nome del suo pichi rayén, tutto girò intorno a lei e non vide e non sentì più nulla: solamente il suo cuore mentre le si squarciava nel petto. L’invocazione della chono non ebbe risposta. Ma lei continuò a gridare il nome della bambina dagli occhi di fuoco, cercando di sollevarsi quanto più possibile sull’acqua. Poi le forze le vennero meno e si accorse che il mare l’accoglieva premuroso e gentile nel suo seno, come una madre. Mentre sentiva l’acqua entrarle nei polmoni, le venne da pensare che la sua sorellina dagli occhi nerissimi, che aveva abbandonata disperata su una spiaggia delle lontane Guayteka, e Likarayén dagli occhi di fiamma avevano lo stesso modo di sorridere. Poi non sentì più nulla. * * *

Millaray dovette essere portata di forza sino alla ruka e adagiata sul suo giaciglio. Si ripeteva la stessa scena di quasi sette anni prima, solo che ora al posto della madredormiente c’era Millaray. Ma la giovane donna non aveva perso conoscenza, quanto piuttosto la volontà di vivere. Si sentiva completamente prosciugata, indifferente a tutto e a tutti. Inutilmente sua madre piangeva accanto a lei, disperata per quella barriera che era sempre esistita tra loro e che mai si era abbattuta. Millaray rimaneva con gli occhi fissi, persi nella penombra della ruka, senza guardare da nessuna parte e senza reagire. Venne anche l’anziano ngenpín. Indifferente alla tradizione ed alla sua immagine, aveva gli occhi lucidi e le accarezzava teneramente la fronte. “Millaray, Millaray, ñi ñawe, ascoltami, ti prego - così le diceva e tutti si stupivano sentendo l’anziano ngenpín che la chiamava figlia mia - ascoltami, ti prego... devi accettarlo, il dolore. Io lo so quanto tu ami Likarayén, io lo so bene che lei è il tuo fiorellino, ma devi accettare il dolore. Ñi ñawe, questa è la vita: c’è la gioia e c’è il dolore... è così, e se non ci fosse anche il dolore, la vita non sembrerebbe più la vita...”. Ma Millaray rimaneva immobile, distesa, con gli occhi fissi nel vuoto, indifferente a tutto. Poi, improvvisamente, la giovanetta improvvisamente si alzò a sedere, senza far caso a nessuno. Rimase ferma un istante, con gli occhi fissi lontano, come se vedesse qualcosa che si trovava bel oltre i muri di canne della capanna. Poi si alzò in piedi, con il viso sfigurato da una orribile smorfia di dolore. Non rispose a nessuno, ma si diresse all’uscita delle ruka ed uscì nella pioggia. “Lasciamola che sfoghi la sua pena - disse suo padre, senza cercare di trattenerla - più tardi, quando si sarà calmata, potremo ricondurla alla ragione”. Il ngenpín si rendeva

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conto che non c’era nulla che lui potesse dire o fare per scuotere la giovane donna dal suo dolore. Neppure lui volle trattenerla, ma uscì come per seguirla. Invece si limitò ad osservare dove la ragazza si stava dirigendo e vide che aveva preso la direzione della collina: correva scomposta, ed anche la sua corsa rivelava l’angoscia che nutriva: Likarayén era viva o era morta? Ed era questo il dubbio che sconvolgeva il cuore dell’anziano sciamano mentre si allontanava dalla ruka e raggiungeva gli altri sciamani che lo attendevano sulla spiaggia. Quanto era successo aveva impressionato tutti i ngenpín. Era evidente che in ciò c’era un disegno degli spiriti degli antenati, che avevano voluto che Likarayén fosse restituita a Peripillán, ma senza che si compisse il sacrificio. Ma come doveva essere interpretato, questo evento? La bambina dagli occhi rossi non poteva essere accettata come messaggera? O era il messaggio che lei avrebbe potuto recare agli spiriti, quello che veniva rifiutato? E la dalka con la bambina, dov’era? E Likarayén? Era viva o era morta? Decisero dunque di realizzare subito una riunione di ngenpín. Si sarebbe svolta in un luogo sacro: la grotta di Chequián, seconda per sacralità solamente a quella di Quicaví. Pertanto nessuno poteva essere ammesso. Si diressero verso piccola caverna, non lontano dalla spiaggia. Quando furono tutti nel suo interno, i ngenpín si disposero a semicerchio intorno ad una bassa pozza scavata sul suolo della caverna e riempita di acqua: era il challanco. Intorno, lungo le pareti rocciose, erano state scavate tante piccole nicchie, ognuna delle quali conteneva una piccola ascia di pietra ben levigata. Non accesero nessuna torcia, ma attesero i ritardatari ed intanto i loro occhi si abituavano alla penombra. Quando finalmente ci furono tutti erano poco meno di una decina, gli sciamani di Quinchao - l’anziano sedette per terra, allineato con la pozza d’acqua e l’ingresso della grotta, dal quale entrata appena un poco di luce. Allora anche gli altri ngenpín sedettero ai suoi lati, quasi circondando la pozza, ma attenti a lasciare libero l’estremo verso lo scarso chiarore che filtrava dall’ingresso della grotta. Rimasero immobili a lungo, nel più assoluto silenzio, osservando attentamente la superficie del challanco. Neppure la più piccola increspatura riusciva a turbarla. Poi, molto lentamente, la superficie iniziò ad offuscarsi, diventando lattiginosa e tremando delicatamente, come se avesse acquistato una vita propria. Allora l’anziano sciamano disse: “ditemi, spiriti dei nostri antenati, fatti di luce; ditemi, pillán che vivete nel wenumapu, nel mapu, e nel miñchemapu; ditemi, wekufe che popolate le ombre del reñi in cui siete stati relegati. Ditemi e rispondete alle mie domande per mezzo di questo challanco”. La superficie dell’acqua tremò in modo leggermente diverso, o forse fu solo una illusione, ma sembrò anche che la sua opacità non fosse omogenea, ma formasse ombre e luci disordinate. Allora lo sciamano pose la sua prima domanda, quella che più di ogni altra lo angosciava. “Tu, luminosa Küyén dal volto colore del latte, tu che hai dati il colore della tua pelle a Likarayén e che l’hai protetta donandole la tua stessa luce, ora dicci, spirito lunare, Likarayén-dagli-occhi-di-fuoco è viva?” e rimase in attesa di una risposta, senza neppure il coraggio di respirare. E allora tutti videro chiaramente che nel challanco si era formata una immagine pallidissima, ma distinta, ed in essa si vedeva Likarayén-dai-rossicapelli, ed era viva. Solo allora l’anziano ngenpín ebbe la forza di respirare. Avrebbe voluto manifestare la sua gioia, ma invece rimase impassibile. Pose, quindi, la seconda domanda: “Tu, Peripillán, tu che vivi nella profondità del mapu, sotto il peso delle immense montagne, tu che manifesti tutta la tua potenza ed il tuo potere proiettando verso il cielo la tua luce infuocata e facendo scivolare lungo la terra i tuoi mille tentacoli ardenti, tu che per opera del Thrauco, il tuo discendente, hai

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generato Likarayén-dagli-occhi-di-fuoco, dicci potente Peripillán, è il Thrauco che si è ripreso la figlia che solo lui ha generato e che solo lui aveva il diritto di trattenere?”. Nuovamente tremò la superficie del challanco, e nuovamente la sua acqua lattiginosa formò delle ombre, e le ombre mostrarono un piccolo essere deforme, che teneva un lungo pahueldún nella sua mano sinistra ed una grossa clava in quella destra, e che indossava un lungo copricapo a forma di cono, ma era solo. Poi le ombre si disfecero, ma nuovamente ripresero a comporre un nuovo disegno, e nuovamente apparve Likarayéndai-rossi-capelli, ma anche lei era sola. E tutti videro distintamente quanto il challanco volle mostrare. Il ngenpín formulò la sua terza domanda: “Ngenechén, tu che sei il primo spirito, quello che ha generato i primi spiriti ancestrali, tu che sei il più luminoso di tutti gli spiriti, tu che ti degni di mostrarci un pallido sentore del tuo splendore e ci offri il disco solare, dicci, dunque grande Ngenechén, grande tra i più grandi, chi ha rapito Likarayén?”. E ancora una volta il challanco tremò e le ombre lattiginose tornarono a formarsi. E tutti videro distintamente che era apparsa l’immagine di una bellissima donna, dal volto e dal corpo senza tempo. Era leggiadra e danzava splendidamente sull’acqua, e la sua pelle era lucida come quella dei pesci, e rifletteva la luce del disco lunare, perfettamente rotondo e sospeso verticalmente sul suo capo. Poi, l’immagine si dissolse, l’acqua tornò ad essere perfettamente limpida e immota. Il tempo che gli spiriti avevano concesso ai ngenpín per porre le loro domande era scaduto. * * *

“Dunque è stata rapita da un sumpall!”, disse il padre di Millaray. “La Pincoya!”, esclamò sua madre. Il ngenpín annuì, preoccupato perché la ragazza non aveva ancora fatto ritorno, ed ormai si avvicinava la sera. Aveva fretta di dirle che il suo fiorellino adorato era vivo, non era morto, anche se non avrebbe più fatto ritorno. Ma nessuno sapeva dove potesse essere andata, la ragazza, e nessuno l’aveva vista. Millaray era inginocchiata sulla nuda terra. La pioggia, di nuovo intensa, le correva lungo tutto il corpo. Si era tolta la sua veste e rimaneva lì, completamente nuda, abbracciata al mamülche che segnalava la tomba della sorella. Piangeva disperata, singhiozzava chiedendo perdono alla madre-dormiente. Accusava sé stessa: “è morta diceva - perché io non ho fatto tutto quello che potevo!”. E le parve di udire la voce della sorella morta che le rispondeva: “nessuno fa tutto quello che è veramente capace di fare, perché nessuno sa di che cosa sia veramente capace”. E non capiva se questo era un’accusa, o, al contrario, una voce di perdono. Allora si rese conto che quello che lei voleva non era il perdono della sorella morta, ma solo che le restituissero la sua amata Likarayén. Allora riprese a piangere, questa volta silenziosamente, e le lacrime scendevano abbondanti, formando un sottile rigagnolo che correva lungo le sue guance, e poi sfiorava il suo piccolo seno, e quindi cadeva sul suolo che il suo stesso corpo copriva dalla pioggia, e si depositava a formare una minuscola pozza. E le lacrime divennero sempre più intense, e cadendo riempivano la piccola pozza che esse stesse avevano generato. E Millaray aveva le sue ginocchia immerse nelle sue stesse lacrime, e le sue ginocchia iniziarono a sciogliersi nella pozza. Ed il suo pianto era sempre più irrefrenabile, e la pozza diventava più grande e profonda. Allora si ritrovò immersa sino al suo bacino, e poi sino al suo busto, ed ogni volta sprofondava nella pozza perché il suo corpo si scioglieva nelle sue stesse lacrime. E poi rimase solamente il suo volto, fuori della pozza, e i suoi occhi disperati, e la sua voce che gridava “Likarayén, Likarayén, ñi pichi rayén! ñi pichi rayén! ñi pichi rayén!”. Poi anche le ultime parole si sciolsero nelle sue stesse

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lacrime e non rimase nient’altro che il mamülche della madre dormiente e i sottili chaway di Millaray in fondo ad una pozza di lacrime che neppure la pioggia osava disturbare.

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dialogo primo

KAIKAIVILÚ

Intanto Peripillán scuoteva possente le sue membra incandescenti nelle profondità della terra e questa si spaccava e tremava in preda al terrore. Scuoteva possente le sue membra incandescenti, e queste fuoriuscivano dalle profondità in cui erano confinate e scivolavano dalla vetta della montagna verso l’acqua calma del lago. Scuoteva possente le sue membra incandescenti, e lanciava verso il cielo i suoi dardi di fuoco, inutilmente tentando di trapassare ad uno ad uno i sette wenumapu per raggiungere Ngenechén e manifestargli così tutto il suo odio mai placato e tutta la sua voglia di rivincita mai sopita. Ma Ngenechén si faceva gioco dei vani sforzi di Peripillán e rimaneva indifferente alle sua azioni. I lituche interrogavano i ngenpín sulle ragioni di tanta ira ed essi rispondevano che lo spirito di fuoco era divenuto uno strumento di punizione. Ancora vollero sapere i lituche perché gli spiriti degli antenati erano così irritati nei loro confronti e si rivolsero ai ngenpín, e furono da questi esortati affinché si mantenessero fedeli all’admapu. Solo la fedeltà all’admapu placherà gli spiriti degli antenati: così dissero i ngenpín ai lituche. E ancora vollero sapere i lituche dove avessero mancato di fedeltà all’admapu: questo chiesero ai ngenpín. Allora i ngenpín risposero loro che non è fedele all’admapu colui che pretende di chiudere la terra con steccati. E ancora i ngenpín risposero loro che non è fedele all’admapu colui che dice “questa è la mia terra” e non partecipa al lavoro comune dicendo “io lavoro solamente la mia terra e non quella degli altri”. Ecco che i lituche rimproverarono i ngenpín dicendo loro che anche ogni ngenpín quando parla del su gregge dice “i miei guanachi, i miei lama”. Ma i ngenpín risposero che i guanachi e i lama sono allevati dall’uomo e quindi appartengono all’uomo, ma gli alberi ed i frutti del campo sono allevati dall’acqua del cielo e dal sole e quindi la terra appartiene solamente agli spiriti che governano l’acqua e che governano il calore e la luce del sole. Ma la risposta non piacque ai lituche ed allora non posero altre domande ai loro ngenpín. Intanto l’ira di Peripillán non cessava e tutta la terra ne era scossa. Erano vani i ngillatún, erano vani i sacrifici degli uomini. Vennero dunque al cospetto di Peripillán i figli dei figli dei suoi figli e lo invitarono a placare la sua giusta ira e gli narrarono gli eventi del mapu. Tra loro vi era anche il Thrauco, e questi descrisse così bene la fanciulla dagli occhi di fiamma e dai capelli rossi come la brace e dalla pelle bianca come la luce di Küyén, che lo spirito di fuoco fu travolto dal desiderio di possederla e non riusciva più a placarsi. Volle dunque Peripillán che la fanciulla generata dal Thrauco, stirpe della sua stirpe, gli fosse restituita. Mandò ai lituche i suoi messaggi di fuoco, ed ispirò i loro sogni. Ma quando venne il momento della restituzione, la fanciulla dagli occhi di fuoco non giunse al suo cospetto. Ne chiese ragione al Thrauco,

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ed egli andò alla ricerca della sua figliola per accompagnarla nelle profondità del suolo dove, come una immensa e informe sfera di fuoco, vive Peripillán. Non vedendo più la fanciulla si adirò moltissimo e invocò il nome del padre suo, Kaikaivilú. Quindi si misero insieme alla ricerca della fanciulla: il suo destino era deciso e irrevocabile, come irrevocabili sono le decisioni degli spiriti degli antenati. Andò dunque il Thrauco per i boschi e per i colli alla ricerca della fanciulla dai capelli rossi, della sua stessa stirpe. Vide non visto nelle capanne e nelle spiagge e nei campi, ma non trovò la sua figliola. Suggerì i sogni rivelatori agli uomini, ma anche i sogni rivelatori restarono muti. Andò dunque Kaikaivilú per i mari tormentati e per i fiumi sinuosi e per le acque calme e profonde dei laghi. Vide non visto nelle profondità più scure e nella spuma dove l’acqua si mescola al cielo, nei canneti delle paludi e tra le scogliere rocciose che circondavano le spiagge, ma non trovò la bambina dai capelli e dagli occhi di fiamma. Suggerì i sogni rivelatori agli uomini, ma anche i sogni rivelatori restarono muti. Ma il Thrauco non volle tornare da Peripillán prima di aver ritrovato la fanciulla e neppure Kaikaivilú volle tornare senza stringerla tra le sue spire. Decisero, dunque, di continuare la loro ricerca in ogni dove, instancabili fino a quando non l’avessero trovata e con la loro preziosa offerta potessero placare il giusto sdegno di Peripillán, irato per la mancata restituzione di colei che gli apparteneva in quanto stirpe della sua stessa stirpe.

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küla troy

PINCOYA

“Millaray! Millaray!”. Il brusio della pioggia sull’acqua piatta del mare copriva il grido disperato mentre la nebbia ne smorzava il tono, incupendolo. “Millaray Millaray!”. Ma l’urlo acuto di Likarayén rimase nuovamente senza riposta. La luce del giorno circondava la dalka come una nube lattiginosa. Nulla era visibile, se non le onde più prossime che, placide, si andavano a infrangere contro i tavoloni dell’imbarcazione e le gocce d’acqua che picchiettavano sulla superficie del mare dando la sensazione di un incessante tremolio: ma già solamente un poco più in là, non si vedeva più nulla. Solo il bagliore riflesso della nebbia. Il rumore monotono della pioggia sommava silenzio al silenzio. Likarayén si era svegliata da un sonno tanto profondo quanto innaturale. In principio, non comprendeva bene dove fosse. Sentiva solamente il dondolio della barca e lo sciabordio dell’acqua. Poi ricordò: We Tripantü, la spiaggia di Caguach, la folla festante nonostante il maltempo, i fuochi accesi e fumosi, la ragazzina chono così triste e gentile, l’anziano ngenpín che mentre forava i lobi delle sue orecchie piangeva. E soprattutto Millaray, che per la prima volta non era al suo fianco. Ora la dalka dove stava dormendo era stata trascinata nel mare - questo Likarayén lo aveva compreso, anche se non capiva come fosse potuto succedere - e si stava dirigendo verso... verso dove? E poi, perché si muoveva così veloce? Non c’era un alito di vento, nessun vogatore che imprimesse con la forza delle sue bracca la spinta alla barca... eppure Likarayén percepiva che la dalka si stava muovendo velocemente e che manteneva una direzione costante. L’acqua che si apriva davanti alla prua, la scia di spuma alla sua poppa, subito cancellata dalla pioggia, lo confermavano. Sentì di essere lontana, molto lontana da Caguach, da Millaray, da chiunque potesse soccorrerla. Likarayén ebbe paura. Le veniva continuamente in mente il volto amato dello sciamano che, invece di sorriderle, tradiva gli occhi pieni di lacrime. E questa immagine aggiungeva angoscia al suo timore. Allora tutto divenne terrore. Likarayén si mise a gridare senza più alcun ritegno: “Millaray!, Millaray!, Millaray!”, senza cessare, e intento singhiozzava disperatamente, conscia di non poter trovare ascolto alcuno. Si guardava intorno, sperando in un qualche risposta, o anche solo di vedere uno scoglio, o la cordigliera andina che le potesse far comprendere dov’era. Ma solo la nebbia profonda, lattiginosa e impenetrabile. Poi le parve di vedere qualcosa in mare, accanto alla dalka. Un corpo bianco e affusolato - anzi, erano due... no, erano almeno tre - forse lunghi quasi quanto la stessa imbarcazione e con una grande pinna dorsale bianca e nera. Guardò meglio: era proprio così, e ve ne era almeno uno ad ogni lato dell’imbarcazione, quasi unito ad essa. Forse erano due grandi delfini che spingevano la dalka così velocemente sulla superficie del mare. Ma delfini così grandi, Likarayén non li aveva mai visti, ed anche il loro colore era inconsueto: grandi chiazze nere che si stagliavano nitide sul corpo bianco. “Lasciatemi! Lasciatemi! Andate via! Voglio tornare da Millaray!” gridava Likarayén mentre con il guscio di una piccola zucca, utile a rimuovere l’acqua che filtrava all’interno dell’imbarcazione, li picchiava sul dorso e sulla grande pinna, ora l’uno, ora l’altro. Ma le due grandi bestie non sembravano neppure accorgersi dei deboli colpi con i quali la bambina tentava di farli desistere, e continuavano a spingere la dalka, che scivolava veloce verso un luogo sconosciuto, o forse verso nessun luogo.

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Vuoi per la pioggia, sottile e gelida, che continuava a cadere incessantemente, vuoi per la nebbia che non si diradava, l’ambiente intorno alla dalka continua ad essere come ovattato: il picchiettare delle gocce sull’acqua del mare ed il sciabordare delle onde contro la fiancata dell’imbarcazione si fondevano in un unico suono continuo e morbido, che si contrapponeva al tumulto dei sentimenti di Likarayén. “Cosa mi direbbe di fare, ora, Millaray?” si chiedeva la bambina che anche in quel momento voleva più di ogni altra cosa compiacere colei che di fatto era sua madre. Più che compiacerla, Likarayén voleva che Millaray potesse sentirsi orgogliosa del suo fiorellino, del suo pichi rayén. Sentiva poi il peso dei due chaway di legno che pendevano dai lobi delle sue orecchie: un peso non grave, ma nuovo, che contribuiva a farla sentire meno bambina. “Ora sono grande - pensava - e non posso più piangere come una pichiche. Ora sono una pichi domo e devo comportarmi come una piccola donna”. E così pensando di sforzava di calmare la sua angoscia e frenava le lacrime che ancora insistevano per riempire i suoi occhi. Quando fu più calma, cercò di riflettere. Certamente l’imbarcazione non era stata allontanata sufficientemente dalla riva, o forse la marea era salita oltre quanto previsto: fatto sta che aveva trascinato via la sua dalka. Ma tutti se ne erano certamente accorti ed ora saranno in mare a cercarla. Sicuro. Non poteva essere che così. Non l’avevano ancora ritrovata perché c’era molta nebbia e non si vedeva più in là della lunghezza dell’imbarcazione. Ma presto l’avrebbero ritrovata. Anzi, certamente sarebbe stata Millaray la prima a ritrovarla, perché la sua piccola mamma era su una dalka, anche lei alla sua ricerca. Non ci si vedeva, ma forse potevano sentirla. Ecco, doveva farsi sentire. “Millaray! Millaray!, Millaray!” gridò nuovamente, ma ora senza più l’angoscia e la disperazione di prima. Un richiamo forte e deciso, piuttosto che un grido. Poi rimase in ascolto. Ma non ebbe risposta; anzi, le pareva che la nebbia le restituisse il suo richiamo. Aspettò, quasi trattenendo il respiro. “Millaray!, Millaray!, Millaray!”. Ma ora il suo dire era meno forte e convinto: adesso sembrava una invocazione. Attese ancora una risposta che non venne. Ancora una volta ripeté: “Millaray!, Millaray!, Millaray!”. Ma il tono ora era sfiduciato e la sua invocazione era pronunciata a bassa voce, quasi fosse rivolta a se stessa. O Alle deboli onde del mare che s’infrangevano sulla dalka. O alla pioggia fine e insistente che picchiettava sul suo volto. Non osò fare più nulla, temendo che qualunque richiamo potesse ormai solamente confermare i suoi timori. Doveva attendere. Che cessasse la pioggia, che diradasse la nebbia, che la ritrovassero. Attendere, solamente attendere. Si accucciò sul fondo della dalka, cercando di ripararsi dall’acqua coprendosi con le numerose pelli di tricheco e di foca che c’erano a bordo. Ora sentiva freddo, e si avvolse bene con una pelle di guanaco, ponendo il vello dalla parte interna, a contatto con la sua tunica di lana. Non udiva nessun rumore, tranne quello della pioggia e delle onde, che ormai non percepiva neppure più. Però si rendeva conto che non era in balia della marea, ma che stava andando progredendo sempre nella stessa direzione, anche se ora le pareva che l’imbarcazione procedesse molto più lentamente di prima. La nebbia era più luminosa alle sue spalle: dunque stava navigando verso il settentrione. O più esattamente, la stavano portando verso settentrione. Ecco. Questo era un pensiero nuovo. La stavano portando: cioè “qualcuno” o “qualcosa” la stava portando in qualche luogo sconosciuto. E allora le vennero di nuovo alla mente gli occhi del vecchio ngenpín pieni di lacrime mentre infilava il filo rosso nelle sue giovani orecchie. Le parve che in qualche modo le due cose dovessero essere collegate, anche se non poteva comprendere come. Era più un sentire istintivo, che un pensare cosciente. Ma forse era semplicemente perché lo sciamano le era tornato alla

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memoria. Tuttavia il ricordo del ngenpín al quale era così affezionata ora le suscitava una enorme angoscia, non minore di quella creata dalla situazione che stava vivendo. Il tempo trascorreva lentamente. La pioggia divenne sempre più fine e sottile sino a convertirsi in una nebbia spessa e bagnata, che penetrava nel corpo di Likarayén incurante delle spesse pelli di tricheco con cui si era coperta e di quella di guanaco con cui si avvolgeva. Ora che non c’era più il picchiettio delle gocce sulla superficie del mare, il silenzio era pressoché totale, e quasi non si udiva più neppure il debole sciabordare delle onde. Ora parve alla bambina che la dalka avesse mutato direzione: la nebbia era più luminosa alla sua sinistra, mentre prima lo era alle sue spalle. Ma era già trascorso così tanto tempo che non riusciva a capire se l’imbarcazione aveva veramente cambiato direzione o semplicemente la giornata volgeva al tramonto. Poi anche quell’unica indicazione circa la sua direzione Cominciò a venire a meno e la fitta nebbia cedette al sopravvenire della notte. Con la notte cessò del tutto la pioggia e si alzò un gelido vento meridionale. Likarayén non riusciva a prendere il sonno, nonostante il suo sfinimento. L’angoscia, la paura ed anche il freddo le impedivano di distendersi. Il bordo della dalka si era andato ricoprendo di un prezioso ricamo fatto di aghi di ghiaccio che riflettevano la luce della luna piena. La bambina si sentì rassicurata dalla vista di Küyén, che da tempo considerava il suo spirito protettore. Tentò di osservare intorno a sé. Alla sua destra vedeva una enorme massa nera, quasi incombente; davanti a lei c’era il rosseggiare del vulcano - Peripillán scuoteva il proprio corpo e spingeva all’esterno della montagna i suoi tentacoli - e, come sempre, le sembrava una immagine affascinate; alla sua sinistra ed alle sue spalle non riusciva a scorgere nulla. Osservò meglio i suoi compagni di viaggio: sembravano due delfini, ma erano assai più grandi. Anche alla debole luce della luna erano ben visibili le chiazze bianche e nere che rivestivano il loro corpo lucente ed affusolato. Affiancati alla dalka, la spingevano con il loro stesso nuoto. Con la sua mano percorse il corpo di uno dei due, poi la grande pinna dorsale. Nonostante il freddo pungente, esso le parve tiepido e rassicurante. Poi, scrutando meglio, le parve di vedere un piccolo essere che nuotava dietro all’enorme delfino, o forse si faceva trainare da questo, tenendosi saldamente attaccato alla sua coda. Ma forse era solamente una illusione e non aveva visto nulla di tutto ciò. A poco a poco il freddo si faceva sempre più pungente e finalmente cominciò ad apparire quella tenue luminosità che preannuncia l’alba. Likarayén era assonnata ed intirizzita. Rimaneva accucciata sul fondo della dalka, attenta solo a rimuovere l’acqua che filtrava attraverso le fessure. Osservava il paesaggio che lentamente prendeva forma alla sua destra. Quelle che alla luce della luna sembrava una lunga ed enorme ombra incombente, ora si dispiegava un una lunga costa alta e rocciosa che scendeva a picco nel mare. La spuma delle onde che s’infrangevano sulle pareti strapiombanti formava una lunga linea bianca orizzontale, dalla quale sembrava sorgere la montagna. Arrampicati sulla roccia, pronti ad approfittare di ogni minuscolo appiglio, querce ed arbusti, mentre dove uno stretto terrazzino lo consentiva, si ergevano snelli gli alerce ed i cipressi. La costa era bellissima, ora che finalmente la nebbia si era completamente sciolta e la pioggia aveva lasciato posto al sereno. Qua e là era solcata da alte cascate di ghiaccio che scendevano verticali sino a lambire le onde. Poco più in alto, la neve biancheggiava su ogni appoggio e piegava i rami degli alberi. “Questa, dunque, è la cordigliera” pensava Likarayén ora che per la prima volta osservava da vicino - da molto vicino - quella lunga striscia di montagne che facevano da sfondo alle cento isole che le erano così famigliari. “Ma come farà Millaray a trovarmi,

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se sono andata così lontana?”, pensò con angoscia, ed il suo sguardo si posò sui grossi delfini bianchi e neri che spingevano la sua dalka stringendola nel loro abbraccio. Ed i suoi occhi scivolarono lungo il corpo così armonioso dell’animale alla sua destra, soffermandosi sull’alta pinna che sembrava dondolare lentamente nel mare a mano a mano che il delfino s’immergeva ed emergeva dolcemente, senza mai sciogliere il contatto con lo scafo, sino a raggiungere la coda dell’animale. E fu allora che la vide. Era una donna senza età. Il viso molto bello, i capelli neri lunghissimi, i seni piccoli ed alti, i tratti molto fini, le braccia lunghe ed affusolate, il corpo così minuto che avrebbe potuto essere anche quello di una bambina. Si teneva solidamente con entrambe le braccia alla pinna caudale del grande delfino: lo faceva con un gesto tranquillo e naturale, come derivato da una lunga abitudine. Era distratta, ma non appena si accorse di essere osservata, sorrise a Likarayén. Un sorriso aperto, rassicurante, disteso, al quale tuttavia la ragazzina non seppe corrispondere. Stupore, un timore presto accantonato, un incipiente rancore. “E’ lei che mi ha rapito, è lei che mi ha portato via da Millaray” pensava Likarayén, ma il sorriso accattivante di quella donna senza età insinuava un dubbio. “Non è possibile che sia stata lei... sembra così tranquilla... buona. E’ una creatura buona, non malvagia. Forse mi aiuterà a tornare alla mia isola”. E istintivamente guardò alla sua sinistra ed alle sue spalle: si osservavano alcune isole, molto lontane, ma non erano quelle a lei note. “Aiutami! ti prego...” disse Likarayén alla sconosciuta dal volto dolcissimo. “Lo sto facendo” rispose la strana creatura sorridendole. La sua voce era come il suo volto: dolcissima, serena, fuori del tempo. Allora Likarayén volle sporgersi dal bordo dell’imbarcazione per raggiungere con la sua mano la mano della donna. Ma in quel momento i due grossi delfini bianchi e neri, in perfetta sincronia, avevano dato una brusca svolta alla corsa della dalka indirizzandola verso una spaccatura nella costa, ormai vicinissima. I due movimenti si sommarono e l’imbarcazione si capovolse improvvisamente. Likarayén non ebbe neppure il tempo di rendersi conto di quanto stesse avvenendo, che si trovò sommersa nell’acqua gelida: la pelliccia di guanaco con la quale si era avvolta le impacciava ogni movimento e l’acqua salata la faceva tossire e le faceva bruciare i polmoni. Ma immediatamente sentì una forte stretta di mano che la afferrò da un braccio e la riportò in superficie. Contemporaneamente, percepì sotto di lei la presenza del grande delfino che la sosteneva, impedendole di affondare. Non appena si trovò sulla superficie, si aggrappò con forza alla pinna caudale del delfino - o almeno così le parve - e questo iniziò a nuotare velocissimo verso la parete rocciosa a picco sul mare, ormai vicinissima. Sentiva forte sul suo braccio la stretta di una mano che la sosteneva. Sembrava che il grande delfino volesse nuotare contro la parete stessa, ma improvvisamente s’immerse. Likarayén volle gridare per il terrore, ma l’acqua le riempì la bocca e, più per istinto che per volontà precisa, si afferrò quanto più saldamente poteva alla scivolosa pinna del delfino. Ma sentiva anche molto forte la stretta che la sorreggeva e le impediva di staccarsi. Poi, altrettanto improvvisamente, il delfino bianco e nero uscì dall’acqua e la bambina sentì di nuovo l’aria fresca sul suo volto. Tossì e respirò avidamente, sputò e respirò avidamente. Le bruciavano gli occhi e non riusciva a vedere nulla. Poi sentì che il grosso delfino si girava di lato e le mani le scivolarono dalla sua pinna. Di nuovo s’immerse nell’acqua, ma i suoi piedi toccarono subito le pietre del basso fondale. Si drizzò in piedi e la testa rimaneva fuori dall’acqua. Faticosamente aprì gli occhi e riuscì a mettere a fuoco una spiaggetta, a pochi passi di distanza. Pochi passi, che le parvero lunghissimi. Poi, finalmente, uscì dall’acqua e si distese sulla spiaggia. Il

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sole brillava sopra di lei, ma l’aria rimaneva gelida. Tuttavia non sentiva neppure un alito di vento. * * *

Rimase un poco a bocconi sulle pietre arrotondate, riprendendo fiato. Quindi si rialzò e guadagnò i canneti della riva. Si tolse la tunica inzuppata che le ostacolava il movimento - la pelliccia di guanaco l’aveva persa chissà dove - e cercò di asciugarsi con un poco di sabbia. Il freddo era insopportabile. Allora ricordò quanto le aveva insegnato un volta Millaray: con le sue mani cominciò a scavare una piccola fossa sul terreno sabbioso, lunga quanto il suo corpo e profonda quanto il suo braccio. Poi si distese dentro e si ricoprì interamente con la sabbia che aveva ammucchiato intorno alla fossa. “Millaray, ti prego, fa che non piova più!” invocò silenziosamente e tentò di rimanere immobile. A poco a poco il tremore cessò ed il calore cominciò a rifluire nel suo corpo. Solo allora ebbe animo di guardarsi attorno. Si trovava in un luogo molto strano. Davanti a lei c’era quello che sembrava un piccolo lago rotondo, completamente incorniciato da una parete rocciosa che cadeva a strapiombo sull’acqua. Dalla sua posizione supina, semisepolta dalla sabbia, non poteva vedere altro. Allora uscì da quell’improvvisato giaciglio. Si tocco i chaway per essere ben sicura di non averli persi, quindi raccolse la sua tunica festiva, ricamata con fili di tutti i colori e con piume di uccelli: la veste era ancora troppo fradicia per essere indossata e le piume erano quasi tutte scomparse o comunque rovinate. Nonostante l’aria fredda, preferì rimanere completamente nuda piuttosto che indossare la tunica bagnata. La spiaggia in cui si trovava era molto piccola e stretta. Poche braccia la separavano dal mare, completamente privo di onde. Ma era un mare o un lago? Likarayén si avvicinò alla sponda e con la mano raccolse un poco di acqua: era salata. Poi le venne da pensare che non poteva che essere così, poiché era il delfino che l’aveva trascinata sino a quella spiaggia. E quella mano che le tratteneva il braccio con tanta forza. Era la mano di quella strana donna che sembrava quasi fare parte del corpo stesso del delfino? E ora, dov’era? Diede le spalle al mare e osservò la spiaggia. Un canneto, poi subito degli alberi tra i quali ve ne erano alcuni molto alti - araucarie, cipressi, alerce, querce - ma immediatamente dietro a questi, una ripida e liscia parete di roccia, solcata da lunghe colonne di ghiaccio che si rompevano alla loro base in tanti rigagnoli d’acqua cristallina. Le pareva di essere nel fondo di un enorme recipiente. Forse era una grande pentolone degli spiriti, quello, con il fondo pieno di acqua, e lei si trovava sul fondo, ma lì dove aveva inizio la parete verticale del recipiente. O forse quella era una enorme fossa dove gli spiriti conservavano... che cosa? Likarayén girò lentamente su se stessa: ovunque era circondata dalla stessa parete rocciosa, altissima, non riusciva a comprendere quanto. Bastava attraversare il canneto e il bosco per giungere ai piedi della roccia: e non c’era molto da camminare. Oppure attraversare quel minuscolo mare rotondo per toccare le pareti che lo sovrastavano dal lato opposto. Forse era così poco profondo, che l’avrebbe potuto attraversare a piedi. O girarci intorno. No. Questo non era possibile. Vi era solamente quella piccola spiaggetta in cui si trovava adesso, ma per il resto la roccia scendeva verticale nel mare, infilandosi direttamente nell’acqua senza neppure formare una breve scogliera. Le venne da pensare che forse era molto profondo, quel mare che sembrava non avere nessuna uscita. Appese ordinatamente - come le aveva insegnato Millaray - la sua veste ad alcune canne, lasciandola ben distesa affinché il sole potesse asciugarla. Poi rimase interdetta, senza sapere che cosa fare. Si sentiva sola. Quella pallida bambina dai capelli rossi e gli

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occhi di fuoco che non rivolgeva quasi mai la parola a nessun altro che non fosse Millaray, che aveva sempre rifuggito anche i bambini della sua età, che solamente mostrava di gradire la compagnia dell’anziano ngenpín, quello che tutti temevano più degli altri sciamani, che amava il silenzio più della parola, per la prima volta in vita sua sentì la solitudine e ne comprese il significato sulla sua stessa pelle. Rimaneva immobile, sperando di udire un qualunque rumore, una voce, il pianto di un bambino. Ma solamente le giungeva il suono di alcune cascate che dall’alto della parete rocciosa scendevano sino al mare, rompendosi nei rari terrazzini che interrompevano la verticalità della parete e che si erano riempiti di una densa vegetazione che sembrava volesse sporgersi per guardare d’abbasso. Per cercare di sentirsi meno sola, cercò di disegnare nella sua mente il volto di Millaray: ma invece scorgeva gli occhi del ngenpín pieni di lacrime: per la prima volta il volto dell’anziano le parve inquietante anziché rassicurante. Guardava ovunque, sperando di scorgere un indizio, qualcosa che le suggerisse cosa fare. Fu così che vide le orme di due piccoli piedi sulla sabbia. Subito pensò che fossero i suoi. Ma no, da lì non era passata. Appoggiò il suo piccolo piede accanto all’orma, e vide che questa era più grande. Sembravano dirigersi verso lo stretto bosco che faceva da base alla parete rocciosa. Le seguì. Attraversò il canneto, superò i primi tronchi e vide una piccola ruka, molto ben costruita, con il tetto di canne ma con le pareti di rami e terra impastati. L’uscio della capanna era protetto da una pelle di foca, anziché da una cortina di canne. Rimase sull’uscio, trattenendo con la mano la pelle affinché entrasse un poco di luce. Attese qualche istante che i suoi occhi si abituassero alla penombra e quindi entrò. Aveva sperato che ci fosse qualcuno, all’interno, ma era vuota. Tuttavia non sembrava abbandonata, al contrario. La cenere del focolare era fredda, ma le pietre intorno conservavano ancora un poco di tepore: dunque non era passato troppo tempo da quando il fuoco si era spento. Sopra il focolare, l’abituale intreccio di rami con filze e filze di frutti di mare essiccati e di pesce steso ad affumicare. Alcuni pani di alghe pressate. Non vide patate, fagioli, zucche, nessun ortaggio. Disposte con cura sul pavimento di terra battuta vi erano numerose pelli: tutte di foca o di tricheco, nessuna di guanaco o di lama. Avvicinò la sua mano sino a sfiorane una: era di foca, ma molto morbida e non ispida come quelle che aveva sempre conosciuto. Poi ne vide una diversa: stretta e rossiccia, dal pelo folto e caldo. Era una pelle strana, ma ricordava di averne già viste di simili. “Questa è la pelle di un puma” ricordò. La pelle era tagliata nella parte centrale, pronta per essere indossata come un poncho. Le venne da pensare che ora che aveva i chaway, era una pichi domo e non era una cosa bella che rimanesse completamente nuda. Avrebbe offeso Küyén, quella sua nudità. Indossò dunque la pelle e utilizzò la strisce delle zampe posteriori come una cintura, legandone gli estremi sulla vita. Poi si guardò ancora intorno. In una scodella di legno vi erano numerose grosse cozze affumicate, poste nell’acqua ad ammorbidirsi. Si accorse di avere fame. Allora sedette sul suolo, cercando di percepire il contatto con la madre terra, e cominciò a rosicchiare i mitili, masticandoli lentamente. Sperava sempre che, improvvisamente, entrasse qualcuno, anche se forse l’avrebbe rimproverata. Ma non vi fu nulla che interrompesse quel silenzio e quella solitudine. Allora uscì dalla ruka. Entrò ancora un poco nel bosco e ben presto giunse sino alla parete rocciosa. La toccò. Era immensa, dava paura. Non aveva mai visto nulla di simile. Poco più in là un altissimo salto di acqua andava a rompersi sulla base rocciosa. Guardò in alto: la cascata sembrava essere originata di un grande blocco di ghiaccio che spingeva verso il fondo delle lunghe canne bianche. Sembrava che la parete non dovesse terminare

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mai. Dritta, sopra di lei, sino al cielo. “Forse sostiene il cielo - pensò Likarayén - ci dovrà essere pure qualcosa che lo sostenga, altrimenti cadrebbe su di noi”. E si sentì orgogliosa del suo ragionamento. Guardò se poteva proseguire, se ci fosse una direzione da prendere. Ma le parve che ovunque guardasse, vi fossero solamente pochi alberi a separarla dalla muraglia rocciosa, la quale formava un semicerchio intorno al piccolo bosco. Poteva solamente tornare verso la spiaggia, e così fece. Ormai il sole aveva iniziato la sua discesa serale e si avvicinava lentamente verso la cresta rocciosa che racchiudeva la pozza marina. Tra non molto si sarebbe fatto scuro. Inoltre il cielo si stava coprendo di pesanti nuvoloni neri, presagio certo di pioggia. Allora Likarayén corse a raccogliere la sua veste distesa tra le canne - era ancora umida e fece ritorno alla ruka. Entrò e si avvicinò al focolare. Avrebbe voluto accendere la fiamma, ma non vide nessuna pietra focaia. Comunque avvolta nella rossa pelliccia del puma non sentiva freddo. Se fosse rimasta lì dentro, prima o poi sarebbe arrivato qualcuno. Sedette appoggiandosi alle pelli ripiegate ordinatamente e sovrapposte l’una all’altra, quasi a formare un comodo schienale, e si dispose ad attendere. Ma lo sfinimento la colse suo malgrado e, senza neppure accorgersene, si addormentò profondamente. * * *

Si svegliò bruscamente. Era buio. Si sentiva tutta anchilosata per la posizione ripiegata che aveva tenuto dormendo. Non comprendeva dove si trovasse. Non riusciva neppure a ricordare bene gli ultimi eventi. Silenzio: solo il rumore dei numerosi ruscelli che precipitavano in mare sfracellandosi sulle pareti rocciose. Likarayén tese attenta le orecchie. Giungeva anche un altro suono, grave, indefinito, appena percettibile, ritmico. Come il battere ritmato del palmo della mano o di un piede sul terreno duro. Si alzò. Ricordava quanto era successo, ora, ma in modo confuso. Si mosse a tentoni nell’oscurità. Sentì con la mano un tessuto morbido: la sua tunica di lana. Si sfilò la pelliccia di puma e indossò la sua tunica, ora asciutta, e quindi uscì dalla ruka. Il cielo era nuvoloso, ma non pioveva. Tuttavia non era interamente coperto: c’era tra le nubi un piccolo squarcio dal quale filtrava un raggio di luna. Una scia luminosa che si stagliava nel nero dell’aria e giungeva sino a terra, o forse sul mare. Dal punto in cui si trovava, Likarayén non riusciva a vedere dove avesse termine. All’esterno della ruka, le sembrò che quel rumore ritmato fosse un poco più forte e che provenisse dal mare. Incespicando al buio, si diresse verso la spiaggia. Attraversò il canneto ed allora vide il raggio di luna per intero. Sgorgava da un piccolo spiazzo tra le nuvole pesanti nere e giungeva sino ad una roccia piatta sulla spiaggia. Una roccia resa visibile solo dalla discesa della marea e che presto sarebbe stata di nuovo ricoperta dall’acqua, sulla quale, quasi come su di una piattaforma, danzava una minuta figura. Likarayén la riconobbe subito: era la donna senza età, quella che nuotava trascinata dal grande delfino maculato e che l’aveva trattenuta quando la dalka si era rovesciata. Likarayén si acquattò dietro il canneto, incantata di fronte all’inaspettata scena. La danzatrice era perfettamente illuminata da quell’unico e stretto raggio di luna, che sembrava quasi avvolgerla in un abbraccio amoroso. Era completamente nuda, fatta eccezione di un corto gonnellino di foglie, o forse di alghe, che le cingeva i fianchi. I lunghissimi capelli neri le scivolavano lungo il corpo, sino a raggiungere le sue ginocchia. Danzava con grande grazia, battendo ritmicamente il piede sulla roccia - ora l’uno, ora l’altro - mentre accompagnava il suo ballo facendo schioccare le dita di entrambe le mani. Il battito dei piedi e lo schioccare delle dita era l’unico fonte di suono: eppure esso era accompagnato, e a volte anche sovrastato, da un ritmo assai più

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profondo, che sembrava provenire dal mare stesso. Era come se mille piccole creature oceaniche in qualche modo ritmassero anche loro, colpendo l’acqua o il fondale con le loro minuscole code. Era bellissimo da vedersi e da udirsi. Poi il suono cessò, ed allora la danzatrice si inchinò a salutare un pubblico che non esisteva. “Brava!” gridò Likarayén entusiasta, e subito ebbe timore di essersi scoperta e tentò di farsi ancora più piccina di quanto già non fosse. La danzatrice si volse verso la spiaggetta. Ma il raggio di luna era incentrato su di lei e tutto il resto era immerso nel buio. “Fatti avanti, dunque!” disse rivolta all’invisibile bambina. Likarayén ora era pentita di aver parlato e non osava mostrarsi. “Vieni fuori, fatti vedere, non restare nascosta tra le canne”. Allora la ragazzina si fece coraggio ed uscì sulla spiaggia, spingendosi sin dove arrivava le la risacca. Ma rimaneva ancora invisibile nel buio profondo della notte. La danzatrice insistette: “vieni qui, accanto a me: l’acqua è bassa, puoi venire camminando”. Likarayén mise un piede nell’acqua gelida, poi l’altro e cominciò a camminare verso la roccia illuminata in mezzo al buio della notte. Quando l’acqua le arrivò al ginocchio, sollevò la sua tunica per non bagnarla e quando le arrivò alle cosce aveva raggiunto la piattaforma di pietra: era simile a quelle che aveva visto costruire solo due lune prima lungo la spiaggia di Chequián. Vi salì sopra ed entrò anche lei nel raggio di luce. “Benvenuta, bella bambina dai capelli rossi - le disse la danzatrice con molto garbo mentre che la prendeva per mano per avvicinarla a sé - mi sembra che ti trovi meglio su questa roccia che nella tua dalka. Ma che ci facevi, sola soletta, in quella dalka in mezzo al mare?”. Ma Likarayén la guardava con gli occhi sbarrati e non osava risponderle nulla. Era una donnina così strana! Forse era molto vecchia, pensava Likarayén, ma non si sarebbe meravigliata se le avessero detto che aveva la stessa età di Millaray. Era molto bella, con il viso dolcissimo. Sorrideva gentile, senza mostrare alcuna impazienza di fronte al silenzio della bambina. Non portava i chaway, e questo particolare stupì moltissimo Likarayén. “Allora, bella bambina dagli occhi di fuoco: se non mi vuoi dire che cosa ci facevi tutta sola sulla tua imbarcazione, il tuo nome, almeno quello me lo vuoi dire?”. “Likarayén”. “E’ un nome molto bello. E mi sembra il nome giusto perché la tua pelle è bianca come la luce della luna e sei bella come un fiore”. “Tu chi sei?” chiese a sua volta la bambina. “Alcuni mi chiamano Pincoya, ma altri mi chiamano in modi diversi. Io sono una wala4: ma c’è chi mi chiama sumpall”. “Ma come ti chiami?”. “Perché dovrei avere un nome?”. “Ma tutti hanno un nome!”. “Ti sembra necessario?”. “Ma tutti hanno un nome, anche i lama”. “I lama che sono servi degli uomini, hanno un nome, ma non quelli liberi, che corrono nelle steppe della cordigliera. Io, comunque, un nome non ce l’ho proprio. Ti dispiace?”. Ma Likarayén non seppe cosa risponderle e rimase silenziosa, guardandola fissamente negli occhi. Decise che erano occhi buoni. Poi disse: “ma se ti voglio chiamare, come devo chiamarti?”. “Dimmi tu: come ti piacerebbe chiamarmi?”. Likarayén ci pensò un poco, poi disse: “allora posso chiamarti Pincoya?”. “Se ti piace, 4

La wala (fulica chilensis) è un uccello acquatico delle dimensioni di un’anatra e di aspetto simile al cormorano. Generalmente rimane sulla superficie dei laghi salmastri o nei pressi delle spiagge: quando vuole volare, lo fa sfiorando a lungo la superficie dell’acqua, quasi come se danzasse su di essa, e probabilmente viene da questo l’associazione tra la Pincoya, personaggio mitico che si dedica alla danza, e la wala. A partire dal XIX secolo, l’iconografia tipica della Pincoya la illustra come una splendida fanciulla dai lunghi capelli biondi e gli occhi azzurri, talvolta con l’aspetto di una sirena: questa interpretazione è evidentemente condizionata dalla cultura spagnola e non ha relazione con la vera tradizione mapuche-huilliche, che la rappresentava con i capelli nerissimi (così come sono nere le piume della wala).

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certo che puoi chiamarmi così! Ti piace?”. “Mi piace. Una volta, ma allora ero piccola e non portavo ancora i chaway, pensavo che un giorno mi sarei nascosta tra le canne per vedere la Pincoya...” ma temette di avere detto qualcosa di sbagliato o di proibito. Ma la minuta donna continuava a tenerle la mano, quasi accarezzandogliela, e a sorriderle. Allora Likarayén volle aggiungere qualcosa di gentile: “come sei bella!”. Ma la Pincoya si mise a ridere, sempre stringendole la mano. “Grazie!” le rispose. Intanto l’acqua del mare cominciava a lambire la superficie della piattaforma. “Ora andiamo, che la marea sta salendo” disse la Pincoya e, sempre tenendo per mano Likarayén, entrò nell’acqua. La ragazzina la seguì volentieri, tenendo ben sollevata la sua tunica per non bagnarla, ora che l’acqua le arrivava già ai fianchi. Poi quando giunsero sulla spiaggia, s’incamminarono insieme verso la ruka. Non appena la Pincoya era scesa dalla piattaforma di pietre, il cielo si era chiuso ed il raggio di luna era scomparso. Ora era buio ovunque, ma la strana creatura sembrava vederci perfettamente. Fecero appena in tempo ad entrare nella ruka che iniziò a piovere fittamente. “Asciugati” le disse la Pincoya porgendole una pelliccia morbida. Likarayén fece quanto le venne detto. Poi si avvicinò alla wala per tentare di osservare cosa stesse facendo. Ma era impossibile per il buio. Sentiva un rumore inconsueto, come di qualcosa di strofinato molto velocemente. Poi vide un puntino rossastro che diventava sempre più acceso. Quindi scomparve sotto qualcosa e sentì che la Pincoya soffiava fortemente. Improvvisamente apparve una fiammella tra delle foglie e dei fili d’erba secchi: la wala mise sopra dei rametti sottili, poi quando si accesero, alcuni un poco più grandi, e ben presto la fiamma crepitava allegra nel focolare. * * *

Likarayén ora poteva osservare meglio la wala alla luce del focolare acceso. Era veramente molto bella, ma aveva un aspetto così strano. “Ma tutti mi dicono che anche io ho un aspetto strano” pensò la bambina, sicché proprio la stranezza della Pincoya gliela fece apparire amica. Tuttavia c’era una domanda che tormentava Likarayén sin da quando aveva visto quella strana donna dalla dalka: aveva paura a formularla, ma fino a quando non l’avesse fatto, non avrebbe neppure potuto fidarsi. “Perché mi hai portato via da Millaray?” finalmente ci riuscì, guardando in basso, anziché dritto negli occhi come era sua abitudine, e appena con un filo di voce. “Bambina mia! Ma come puoi pensare che io ti abbia portato via! Io ti ho visto in mare, in piena notte, sola nella tua dalka, senza poter fare niente: non c’era neppure un soffio di vento, eppure una corrente fortissima ti spingeva verso la scogliera, dove la cordigliera scende a picco nel mare. Ho pensato che quella doveva essere opera di un wekufe che ti voleva distruggere e allora ho cercato di aiutarti. Come potevo. Nuotavo accanto a due orche - sai, io sono amica di tutti gli animali del mare - e ho pensato di portarti qui, dove saresti stata al sicuro. Le orche mi hanno aiutato...”. “Le orche? cosa sono?”. “Sembrano dei delfini grandissimi, ma sono bianche e nere. Ti stavo dicendo? Ah, sì, dunque ti dicevo che le orche mi hanno aiutato e si sono messe ai lati della tua dalka, impedendo alla corrente di trascinarla verso gli scogli. Poi siamo venuti qui... ed eccoci qui che ne chiacchieriamo”. “Ma qui non siamo a Chequián! qui è tutto strano. Sembra un’isola al rovescio: non è il mare a circondare la terra, ma è la terra a circondare il mare, che è così piccolo! e tutte queste rocce, dappertutto ci sono pietre... sembra un llankahue, questo, un luogo di pietre, non Chequián!”. “Brava Likarayén. Mi hai detto che ti chiami così, non è vero - la bambina annuì - io non so dove sia Chequián, ma questo luogo si chiama proprio Llancahue,

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anche se io non capisco proprio perché i luoghi debbano avere dei nomi, comunque si chiama così”. Likarayén rimase in silenzio. Era, quello, un nome per lei completamente sconosciuto. Peripillán era il nome di un luogo lontano, ma visibile all’orizzonte, quando il tempo era limpido, ed anche quando era meno trasparente, si vedeva comunque il bagliore del vulcano. Ma un luogo dal nome sconosciuto... doveva essere lontanissimo. Le venne da piangere, ma non volle: pensò che Millaray non avrebbe voluto vederla perdersi di animo. “Ma ora come faccio a tornare dalla mia mamma?” supplicò la bambina. “A nuoto, ma non ne saresti capace. Ma se un wekufe vuole distruggerti, forse è meglio se resti qui, dove nessuno spirito ti troverà mai”. “Ma perché un wekufe dovrebbe volermi distruggere, come dici tu?” rispose Likarayén, ma nello stesso tempo le tornò nuovamente alla mente il ricordo dell’anziano ngenpín con gli occhi pieni di lacrime, che la fissava quasi disperato. “Allora il ngenpín sapeva che mi doveva succedere qualcosa: ecco perché piangeva!” aggiunse, rivolgendosi più a se stessa che alla Pincoya. “Non so di quale ngenpín parli, ma essi sanno tutte le cose, anche quelle che devono ancora avvenire”. “Si, è così, e poi il ngenpín mi vuole bene: mi ha sempre difeso quando gli altri non mi volevano perché sono la figlia del Thrauco”. “Sei la figlia del Thrauco! Ecco il perché dei tuoi capelli rossi e dei tuoi occhi di fiamma! Sei della stirpe di Peripillán, lo spirito del fuoco!” disse la Pincoya, e intanto le carezzava i capelli. Poi aggiunse ancora: “sai una cosa? allora siamo un poco come parenti - molto alla lontana, s’intende! - perché anche il Thrauco è un sumpall, solo che ha abbandonato l’acqua e si è rifugiato sulla terra. Allora forse era proprio lui che voleva spingere la tua dalka sugli scogli! Ma qui sei al sicuro: qui il Thrauco non potrà mai venire a cercarti perché a furia di vivere sulla terra ora non sa quasi più neppure nuotare. E non siamo mica molto amici, il Thrauco ed io!”. “Ma tu cosa sei? Sei un uomo?”. La Pincoya si mise a ridere. “Guardami, ragazzina. Queste ti sembrano le mammelle di un uomo? Ti sembro un uomo?” e continuava a ridere, senza mostrare fastidio. “No, volevo dire... - ma ora Likarayén si sentiva confusa certo, lo vedo che sei domo, ma volevo capire... sei una persona... una persona come noi?”. “No, che non lo sono: sono una wala, o un sumpall, che è la stessa cosa, non sono una persona umana come te. Voi siete creature della terra, noi, invece, siamo creature dell’acqua”. “E allora che cosa fai, tutto il giorno? Nuoti nel mare e balli sugli scogli?”. “Sì. Nuoto nel mare, ballo sugli scogli, mi faccio trascinare dai delfini e corro veloce come il vento sulla groppa delle orche. Ma quello che faccio veramente è provare delle sensazioni”. “Non capisco. Cosa vuol dire che provi delle sensazioni?”. “Il piacere che si prova quando i pesci mi accarezzano le gambe, la dolce sensazione del nuoto nell’acqua limpida e fresca, il bacio leggero del sole sulla mia pelle, il godimento che mi produce il ballo, quando ballo, ballo, ballo, fino a stordirmi...” “Perché balli sulle piattaforme vicino alla spiaggia? E perché dici che non sai dov’è Chequián, se anche lì ci sei venuta a ballare quando ti abbiamo preparato la piattaforma?”. “Io non ci sono mai venuta alla tua spiaggia, ma non ci sono mica solo io, di wala! Siamo in tante, e ognuna ha le sue piattaforme preferite. Perché ballo, mi chiedi... perché mi piace ballare, solo per questo. Tu non balli mai?”. “Anche io ballo: quando celebriamo un ngillatún ballo insieme a tutti gli altri...”. “E perché lo fai?”. “Perché chiediamo qualcosa agli spiriti: per questo celebriamo il ngillatún”. “Ecco la differenza! Tu danzi per chiedere qualcosa, io, al contrario, danzo per dare qualcosa...”. “Ma cosa dai, ballando su una piattaforma sulla spiaggia?”. “Do il mio amore”. “Non

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capisco cosa vuoi dire”. “Danzando io dico alle creature del mare: venite qui, vicino a me, che io vi voglio bene. E loro vengono. Quando io eseguo i miei balli sulla piattaforma di pietra, i pesci si avvicinano, e i delfini, e i granchi, ed a ogni altro essere che vive in mare: e sono contenti perché sanno che io ballo per loro. Cosicché battono le loro code nell’acqua, oppure aprono e chiudono le loro chele, con lo stesso tempo del mio ballo, e in questo modo creano una musica, come se ci fossero mille piccoli kultrún sotto la superficie del mare. E’ un suono molto dolce, che giunge lontano. Non l’hai sentito?”. “Si. Sai, ero entrata nella tua ruka perché cercavo qualcuno che mi aiutasse e avevo freddo, e mi sono addormentata. Poi mi sono svegliata: credo che mi ha svegliato il battito che veniva dal mare. Pensavo che fosse il kultrún di qualche machi”. “Loro suonano, e io ballo per loro”. “E per questo che ti sei inchinata verso il mare quando hai terminato di danzare?”. “Certamente! Ringraziavo le creature del mare, quelle che amo più di tutte perché anch’io sono una creatura del mare”. “Ma è notte: non ti possono vedere”. “Ti sembra importante, che mi vedano?”. “Si”. “Questo perché tu credi che le cose importanti sono quelle che si vedono. Ma non è così. Le cose veramente importanti sono quelle che non si vedono. Sono quelle le cose vere, mentre quelle che vediamo sono le cose che sembrano, ma possono non essere vere”. “Non capisco”. “Sei ancora piccina, anche se indossi i chaway. Prova a pensare. Le persone che tu conosci, ti vedono come sei veramente?”. “Millaray sì che sa come io sono dentro, sa sempre cosa sto pensando”. “Allora, tu stesso lo dici, Millaray ti conosce perché ti vede dentro, cioè vede le cose che non si vedono, quelle importanti. Ma gli altri?”. “Gli altri hanno paura di me perché ho gli occhi e i capelli rossi. Per questo hanno paura di me...”. “Ti rendi conto, allora, che “gli altri” che si limitano alle cose che si vedono, in questo modo diventano ciechi e non percepiscono le cose veramente importanti? Che è come tu sei dentro, non il colore dei tuoi occhi o dei tuoi capelli!”. Rimase un poco silenziosa, osservando la bambina per vedere se aveva compreso. Poi riprese: “l’amore è la cosa più importante che esiste, ma non si vede. Pensa al chicco di maiz. Perché cresce? Perché spunta dalla terra, poi diventa alto, poi si forma la pannocchia e ci offre i suoi frutti?”. “Perché c’è il sole che lo fa crescere!”. “Come?”. “Con il suo calore”. “E tu credi che basta il calore o la luce per far crescere una creatura viva? Millaray - mi sembra di aver capito che è così che si chiama tua mamma - ti ha fatto crescere perché ti ha scaldato?”. “No. E’ perché mi vuole bene”. “Brava. Ed è così anche per il sole. Il chicco di maiz cresce perché il sole gli vuole bene e lui si sente amato dal sole. Non semplicemente perché il sole lo scalda, ma perché lo ama. Allora il tepore diventa la sua carezza ed il chicco cresce perché è accarezzato, così come tu sei cresciuta perché Millaray, la tua mamma, ti accarezzava. Comprendi, Likarayén? E per questo che bisogna rendere l’amore che si riceve. Quindi bisogna chiedere perdono alla terra prima di tracciare il solco per deporvi il seme...”. “Questo me lo diceva anche Millaray!”. “...poiché in questo modo noi diciamo alla terra che le vogliamo bene e che ci dispiace ferirla. Allora anche la terra ci ricambia il nostro amore e ci dona tanti frutti. Ma se noi non dimostriamo amore verso la terra, come possiamo aspettarci che la terra dimostri amore verso di noi? Likarayén cara, ricordatelo sempre: l’amore, che non si può vedere ma si può sentire, è la cosa più importante che c’è, mentre tante altre cose, che si vedono benissimo ma non si sentono, non hanno invece nessuna importanza”. Ormai la notte era trascorsa da tempo ed un chiarore grigio e freddo filtrava attraverso le canne della ruka. Il rumore della pioggia era intenso e, nonostante il focolare ben acceso, una sensazione di gelo penetrava nelle ossa di Likarayén, che sbadigliava senza ritegno. “Dormi, ora” le disse la Pincoya. “Ma è giorno!”. “Che importa? Hai sonno: dormi dunque”. E preparò due giacigli di pelli, uno accanto all’altro, e si disposero a

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dormire. A Likarayén sembrava tutto così strano, anche il fatto di dormire ora che era giorno: certamente Millaray non avrebbe approvato. Ma si sentiva veramente sfinita e ben presto si ritrovò profondamente addormentata. * * *

La bambina dai capelli di fuoco dormì per il resto della giornata e per l’intera notte successiva, né la Pincoya volle svegliarla. Quando Likarayén si svegliò, dunque, era già il suo terzo giorno a Llancahue. Pioveva ancora a dirotto ed era assai presto. Al principio, la bambina non riusciva a comprendere dove si trovasse. Sentì un corpo vicino al suo. Lo abbracciò, convinta di abbracciare Millaray, ed il suo abbraccio venne ricambiato affettuosamente. Ma poi sentì un odore strano, un aroma che sapeva di mare. Quindi, lentamente, cominciò a ricordare, tassello dopo tassello. Un ricordare che si faceva sempre più doloroso a mano a mano che percepiva l’evidenza dell’assenza di Millaray. Poi trasalì: “ma tu non sei Millaray!” esclamò con dolore alzandosi bruscamente a sedere sul suo giaciglio. La Pincoya, già sveglia, le sorrise e le prese una mano: “no, non lo sono, ma vorrei esserlo”. Allora, dimenticando ogni suo proposito, Likarayén si mise a piangere. Un pianto disteso, quasi nascosto, silenzioso. E intanto fissava con i suoi occhi pieni di lacrime quelli della Pincoya, che continuava a carezzarle una mano, rispettando il suo dolore ed il suo silenzio. Pianse molto a lungo, quanto forse non aveva pianto mai in tutta la sua vita. Poi sembrò calmarsi. “Ti prego: vuoi accendere il fuoco, per piacere?” le chiese la Pincoya. Likarayén si alzò e si avvicinò al focolare spento. Preparò un’esca con fili di erba secchi e minuscoli ramoscelli, poi si guardò attorno, in cerca di una coppia di pietre focaie, ma non ne vide nessuna. “Non trovo le pietre” disse volgendosi verso la wala. “Non ho, le pietre per il fuoco. Io uso un piccolo legno ed un archetto. Sei capace?”. Ma la bambina scosse la testa. “Adesso ti insegno” aggiunse la Pincoya, alzandosi ed avvicinandosi alla bambina. Quindi le insegnò a inserire un cilindro di legno nell’archetto, ad appoggiarlo su una superficie più larga, sempre di legno, e a farlo sfregare su di essa facendolo ruotare velocemente con l’archetto. Quando Likarayén provò a copiare i gesti della wala, le costò molta fatica, ma infine vide che cominciava a uscire un poco di fumo. Allora mentre la bambina continuava a far oscillare l’archetto, la Pincoya avvicinò l’esca e presto vi fu una prima tenue fiammella. Ora il fuoco ardeva vivace e scaldava una borsa di cuoio piena di acqua. “Vorrei essere la tua mamma, davvero, ma invece io sono solamente quella che a te piace chiamare Pincoya”. Ma Likarayén si limitò a guardarla con gli occhi, ora asciutti, ma ancora gonfi ed arrossati. “Vuoi parlarmi della tua mamma?”. “Non è la mia mamma, è Millaray, ma è come se fosse la mia mamma”. “Cosa vuoi dire?”. La mia mamma è morta quando io sono nata, anzi, prima ancora. Per questo la chiamano la madre-dormiente. Allora Millaray ha voluto essere la mia mamma. Io sto ben con Millaray. Mi manca. Non ero mai stata lontana da lei. Voglio tornare da lei...”. “Certo, Likarayén: ma dobbiamo vedere come si può fare. Io non so dove rimanga Chequián. Ma in qualche modo lo verrò a sapere. Poi vedremo come andarci. Ma ora devo proprio andare, ma tu rimani qui, che c’è il fuco acceso e ci sono tante pellicce con cui scaldarsi. Nella pentola sul fuoco c’è l’acqua: è già ben calda e in quel recipiente ci sono delle cozze secche che ormai si saranno ammorbidite quanto basta. Forse ci rivedremo domani, ma intanto cerca di rasserenarti, che in qualche modo tutto trova rimedio”. Likarayén osservò la Pincoya allontanarsi dalla ruka, stupendosi al vedere che non si copriva: essa, infatti, era quasi del tutto nuda e nonostante il freddo intenso e la pioggia battente, indossava solamente un corto gonnellino che sembrava fatto di alghe. La

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bambina rimase sull’uscio della capanna per vedere dove la waka si dirigeva, convinta che da qualche parte dovesse esserci un sentiero che superasse quella balconata di rocce. Ma la Pincoya si diresse verso la spiaggia e si tuffò nel mare grigio. Poi non riapparve più e la bambina si ritrovò sola con i suoi pensieri. Quando ormai il giorno fu ben entrato, si sollevò il gelido vento meridionale: spazzò via la pioggia e fece apparire un pallido sole. Allora Likarayén uscì dalla ruka e si diresse verso la vicina spiaggia. La marea era bassa e la piattaforma di pietra sulla quale la Pincoya aveva compiuto la sua leggera danza era completamente scoperta e quasi al centro della piccola laguna. Senza un perché, la bambina si introdusse nell’acqua e camminò sino alla roccia piatta, sollevando la sua tunica per non bagnarla. Poi salì sopra e si guardò intorno. Lo spettacolo era bellissimo, ma anche assai strano. Tutt’intorno a lei c’era una anello di mare, poi una parete rocciosa quasi circolare che precipitava a picco nel mare, ovunque, tranne che di fronte a lei, dove c’era la minuscola spiaggia ed il boschetto. Arbusti e conifere avevano occupato ogni piccolo ripiano della roccia e sporgevano nel vuoto non solo i loro rami, ma anche i loro tronchi. Quasi ovunque precipitavano cascate di acqua piovana, che scivolavano su lunghe colonne di ghiaccio. Le pareva impossibile allontanarsi da quel luogo. Non capiva come ci fosse arrivata, perché la laguna era chiusa da ogni lato. Ma poi ricordò che il delfino - no, non era un delfino, ma un’orca: così l’aveva chiamata la Pincoya - l’aveva trascinata sotto il mare. Ricordava bene come l’acqua le era entrata in bocca e l’aveva fatta tossire, mentre si sentiva soffocare. Quindi un’entrata c’era, ma era sotto il mare. Guardò dal lato opposto alla spiaggia. Provò a scendere dalla piattaforma di roccia, ma l’acqua era subito profonda. Allora si volse e tornò alla ruka. * * *

Rimase nella ruka tutto il giorno: si sentiva priva di energia. Avrebbe voluto fare qualcosa per tornare al più presto da Millaray, nella sua capanna, ma non sapeva cosa, e questo senso di impotenza le toglieva ogni iniziativa. Anche se aveva riposato tutta la precedente giornata e l’intera notte, si sentiva stanchissima ed assonnata. Il tempo reggeva ed era sereno: in cambio il freddo si era fatto molto intenso. Il tepore del fuoco e l’abbondanza di pellicce erano assai più invitanti di quanto non lo fosse l’uscio della ruka. Ebbe tutto il tempo per osservare con ogni cura la piccola abitazione. Non era molto diversa dalla sua, tranne che per la piccola dimensione. Le pareti erano di canne strettamente intrecciate, con gli interstizi riempiti con un impasto di erba secca e sabbia. Il tetto era di paglia, il pavimento di terra battuta. Il focolare, attorniato da grosse pietre rotonde, era ad un estremo della capanna, di fronte al suo ingresso, sì da lasciare libero uno spazio sufficiente per due o tre ampi giacigli. Ovunque vi erano numerose pellicce: sparse sul pavimento, a formare pile dove si ammucchiavano divise per tipo, o almeno così sembrò a Likarayén. Vi erano pellicce di guanaco, le più morbide e spesse, e di lama; ve ne erano di tricheco ma anche di foca, simili a quelle ma più flessibili. Quella che aveva indossato le parve che fosse l’unica di puma. Ma non c’erano solo pelli nella capanna. Infatti erano anche numerosi i recipienti: ceste e canestri di paglia intrecciata, scodelle e vasi di legno scolpito, gusci di zucca decorati. Ma vi erano anche alcuni strani recipienti: la loro forma variava - alcuni sembravano scodelle, altri vasi che si restringevano all’imboccatura - ma ciò che era molto inconsueto era il materiale con cui sembravano essere fatti. Non era né legno, né paglia e neppure il guscio di qualche frutto. Sembrava scolpiti nella pietra, con una grande maestria che solo quella avrebbe permesso di ottenere delle superfici così sottili.

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Qualcuno era sbrecciato: la frattura si mostrava porosa: sembrava essere un materiale ottenuto con una sabbia finissima, dove c’erano anche alcuni fili di erba carbonizzati. Il loro colore era nerastro verso l’esterno, più rossiccio verso l’interno, e sembravano molto leggeri per essere fatti di pietra: ma forse non era pietra, quel materiale, oppure erano così leggeri poiché molto sottili. Questi recipienti erano quasi tutti pieni di erbe, semi, radici o foglie: sempre tutti secchi e sminuzzati. Likarayén sentì immediatamente una grande attrazione. Il contenuto di ogni recipiente sembrava dirle qualcosa, come avvenne quando Millaray fu gravemente malata. Era passato solo un anno, da allora, ma quante cose erano avvenute in quel breve tempo. Però l’interesse di Likarayén per le erbe e per i semi era sempre enorme: poneva domande alle quali nessuno sapeva dare una risposta, neppure Millaray. Solo l’anziano ngenpín sembrava comprenderle: allora qualche volta spiegava a Likarayén il significato recondito di un fiore o di un seme ed il suo uso, ma più spesso si limitava a dirle: “aspetta, Likarayén: ogni cosa a suo tempo” e non aggiungeva altro. Ma ora la bambina dagli occhi di fuoco vedeva davanti a sé ogni sorta di erba e intuiva che ognuna di esse aveva il suo scopo. “Forse questa è la ruka di un machi” le venne di pensare, ma non aveva mai vista la capanna di uno sciamano. “Ma allora la Pincoya è una machi!” e le parve grave, in quanto domo. A Quinchao c’era una domo-machi, una sola, e la moglie di suo zio una volta aveva detto, almeno così le pareva, che anche nella sua isola ce ne era una. Ma i più non le consideravano sciamane, ma kalku: le evitavano e le isolavano dalla comunità. Ma la Pincoya non era una strega, di questo Likarayén era certa. “E’ buona, la Pincoya, e allora anche le domo-machi sono buone”, pensò. E poi le tornò a mente il sogno che aveva fatto a Caguach, la notte prima del suo katán pilún, e rammentò le parole esatte che aveva ascoltato nel pewma: “eimi machingeaimi, eimi machingeaimi!”. E ancora rivide gli occhi gonfi di pianto dello sciamano e ricordò la gravità con cui egli le aveva detto che il suo destino era di essere una machi, anche se non voleva. Più rifletteva e più le sembrava che l’anziano non le avesse detto tutto quello che doveva dirle, che vi fosse qualcosa di importante che le era stato taciuto. Forse glielo avrebbe detto più tardi, quando avesse fatto ritorno a Chequián, ma lei non aveva più rivisto la sua isola. Allora comprese. Non un ragionamento lucido e ordinato, ma un sentire nuovo. Comprese che quello che era avvenuto negli ultimi giorni era tutto strettamente collegato: le lacrime del ngenpín, il suo pewma, la dalka rapita dall’onda, il suo arrivo nella laguna, la Pincoya. Tutto si era compiuto perché così doveva compiersi. Sentì di essere in balìa di eventi molto più grandi di lei, che non poteva neppure comprendere, e ne ebbe paura, allo stesso modo come era rimasta terrorizzata dal suo sogno a Caguach. Sentì che doveva accettare gli eventi, non solamente subirli impotente. Fu strano: questa consapevolezza a poco a poco le fece superare la sua paura e la rese più calma e più forte. Per la prima volta pensò “iñche machingeñ! io sono una machi!”, accettò ciò che gli spiriti avevano determinato per lei e ne fu contenta. Ora che si sentiva più calma mangiucchiò qualche cozza e succhiò un grosso pezzo di sargasso, ammorbidendolo con la sua stessa saliva. Quindi si avvolse bene nelle pellicce di guanaco, alimentò ancora il focolare affinché non si spegnesse troppo presto, e si dispose a dormire. Dormì di un sonno sereno e senza visioni. Quando si svegliò era molto presto: il chiarore dell’alba stava appena spuntando, una bianca coltre di galaverna ricopriva ogni cosa e vi era assoluto silenzio. La bambina indossò la pelle di puma, poi mise sulle sue spalle anche una grossa pelle di guanaco, e uscì nel mattino. Il freddo pungente le schiaffeggiava il viso, ma ciò le dava una sensazione piacevole e stimolante. Fece i pochi

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passi che la separavano dalla spiaggia. La marea era ancora bassa e dove si era ritirata aveva lasciato spazio ad un tappeto di aghi di ghiaccio. Entrò con i piedi nell’acqua. Rabbrividì, tuttavia volle seguire sino a raggiungere la piattaforma rocciosa nel mezzo della laguna. Vi salì sopra e cominciò a rigirarsi intorno. Al posto delle numerose cascate d’acqua che solo ieri precipitavano da ogni lato della balconata rocciosa, ora vi erano altrettante colonne di ghiaccio: bianche, luminose, assolutamente verticali. Ancora una volta a Likarayén parve che quella parete rocciosa intorno alla laguna dovesse essere un enorme pilastro, lì disposto a sostenere il wenumapu. Era uno spettacolo fantastico, reso ancora più bello e solenne dall’assoluto silenzio, neppure interrotto dal rumore della risacca. Ma le gambe bagnate, dolorose per il freddo intenso, spinsero Likarayén a tornare alla ruka, dove un allegro focolare le avrebbe potute riscaldare. * * *

Un’ombra furtiva si aggirava nel fitto bosco, nascondendosi dietro ai tronchi più spessi. Un curioso cappuccio triangolare copriva la sua testa. Nella mano destra stringeva una pesante clava ed in quella sinistra un sottile bastone vuoto al suo interno. Era una gelida alba, ma la piccola e tozza creatura non sentiva il freddo. Incuriosita, osservava i mamülche del cimitero, cercando di percepire gli odori, tenui per la mancanza di un alito di vento. Vide che il luogo era deserto. Allora avanzò cauto, sino a raggiungere un simulacro di legno che tratteggia vagamente le sembianze di una giovane donna. Il Thrauco si chinò per esaminare meglio la strana pozza di acqua davanti al mamülche. Nonostante il gelo, era assurdamente tiepida. Volle toccarla con la sua mano, ma non vi riuscì: ogni volta che avvicinava le sue dita all’acqua, una forza assai più poderosa della sua respingeva bruscamente il suo braccio lontano. Eppure non si sbagliava. il Thrauco ne era certo: quella piccola pozza d’acqua aveva lo stesso odore di Millaray e di Likarayén, che inutilmente continuava a cercare in ogni luogo. * * *

Non un solo giorno, ma ben quattro o cinque ne trascorsero prima che la Pincoya facesse ritorno alla sua ruka, dove era rimasta ad attenderla quella strana bambina dai capelli rossi. Ma intanto la wala aveva riflettuto. Ora si sentiva certa del fatto che Likarayén fosse vittima di qualche sortilegio: ma erano gli spiriti degli antenati che la reclamavano, o i wekufe che la perseguitavano? Ad ogni modo, a Llancahue sarebbe stata tranquilla, in attesa che il suo destino, quale che fosse, divenisse più chiaro. Ora che era tornata, la Pincoya trovò Likarayén molto più rasserenata. Le era parso che in questi pochi giorni fosse avvenuta una qualche maturazione nella bambina, o forse una consapevolezza della sua realtà. La prima sua domanda, naturalmente, riguardò la sua mamma adottiva: “ma tu l’hai vista, Millaray? Hai saputo di lei? come sta? sta bene, vero?”. “Calmati, Likarayén, che non mi dai fiato! No, la tua mamma non l’ho vista e non so nulla di lei. So solamente che gli uomini sono spaventati perché la terra non fa che tremare e i vulcani lanciano sino al cielo più alto le loro fiamme, sfidando il potere di Ngenechén. Celebrano i ngillatún, e promettono di tornare alle vecchie tradizioni: ma poi la terra cessa di tremare, i vulcani si placano, e dimenticano subito le loro promesse. Ma gli uomini sono fatti così. E poi durante questi giorni ho riflettuto a lungo, bambina mia: credo proprio che è meglio se tu resti qui per un po’, almeno fino a quando riuscirò a sapere dove sia questa tua isola che non conosco, ma soprattutto fino a quando capiremo che cosa è veramente successo a questa dalka sulla quale viaggiavi tutta sola, e perché”. Likarayén avrebbe voluto tornare al più presto da Millaray, ma in questi giorni anche lei ci aveva pensato su. Soprattutto aveva cercato di capire che cosa potessero voler dire

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le lacrime dell’anziano sciamano, ma anche l’essere arrivata a concludere che anche lei forse era destinata a divenire una machi, molto più in là nel tempo, le faceva vedere gli avvenimenti in maniera molto diversa. “Come sei bella! e poi sei già una domo-machi, non è vero?” disse improvvisamente Likarayén alla Pincoya mentre erano nella ruka. La wala rise: “non so, se sono bella, e non m’importa: ma so di non essere una machi! Perché dici così?”. “Ma... tutte queste erbe, questi semi, queste foglie... mi sembrava...”. “E queste pelli, allora? Dovresti concludere che io sono molto freddolosa - e si mise di nuovo a ridere - mentre invece con qualunque tempo io indosso solamente questo gonnellino di alghe! vedi, Likarayén, che le cose non sono mai quelle che sembrano. Tu sei entrata in questa ruka, e hai subito pensato che mi appartenesse. Ma non è così. Io appartengo a questo luogo, dove una volta vi era un uomo, un cacciatore: egli viveva in questa capanna, e non si accorse mai della mia presenza, ma poi un giorno non vi fece più ritorno e da allora la uso io. Ma ho lasciato le cose come erano. Forse quest’uomo era un machi, ma non credo. Credo, piuttosto, che andasse a caccia di animali, ma anche alla ricerche delle erbe e dei semi che i machi gli incaricavano”. Rimase “Ma tu hai dei figli? O sei ancora troppo giovane per avere un marito?”. “Ti sembro così giovane? - rispose la Pincoya - Ti assicuro che ti sbagli. Io sono molto vecchia, invece”. “Ma non è possibile!”. “Si, ti dico. Sono così vecchia che non mi ricordo neppure più di come ero quando ero giovane... e mi sembra impossibile che sia esistito un tempo in cui potessi essere una bambina, come te”. “Ma non puoi essere vecchia! non è possibile!”. “E’ così. Ricordo di aver conosciuto uomini che venivano a pescare sulle spiagge dove io danzavo; poi ho visto crescere i loro figli, e i figli dei loro figli. Ma anche questi ormai riposano nei cimiteri e un mamülche ne onora la memoria, e un altro onora quella dei loro nipoti. Il tempo passa così lentamente, che mi sembra immobile. E io sono sempre uguale. Forse sono sempre stata così, forse non sono mai stata una bambina... o forse sì. Chi lo può sapere? E poi, a che serve saperlo? A me va bene così”. Rimasero a lungo silenziose, sedute sulle pietre accanto al fuoco. Era notte, o forse era giorno. Stando con la Pincoya, Likarayén aveva smesso di vivere secondo le sue abitudini, ma mangiava e dormiva quando lo faceva la wala ed il tempo era determinato dai momenti delle sue danze e, quindi, dalle maree. Il freddo intenso era passato, ma con la temperatura più mite, portata dal vento settentrionale, era tornata la pioggia incessante. La Pincoya, creatura dell’acqua, non provava nessun fastidio per la pioggia, e non era per quello che ora danzava meno spesso, ma per tenere compagnia alla bambina dai capelli rossi. “Vedi, Likarayén, devi accettare il tuo destino - le disse un giorno, e alla bambina tornarono alla mente le identiche parole che le aveva detto, tempo prima, l’anziano ngenpín - e forse il tuo è proprio quello di diventare una wala, come me. Tu mi hai vista, già in mare: e questo è molto strano, perché gli uomini non possono vedermi. Non so, perché sia così, ma gli uomini non possono vedermi: solo i machi... ma tu non sei una machi! Eppure mi vedi. Allora forse sei destinata a diventare una wala. Come me. O a prendere il mio posto ed appartenere a questa laguna. Forse una volta, tanto tempo fa, anch’io ero una piccola bambina come te, che un temporale o i delfini hanno condotto fino a questa laguna. Non lo so. Non ricordo nulla di quando ero bambina, se mai lo sono stata...”. Likarayén ascoltava silenziosa le parole della Pincoya, e si chiedeva se forse non fosse proprio così, se il suo destino non fosse quello di diventare un giorno una wala e prendere il posto della Pincoya. Ma sapeva che non era così: “iñche machingeñ!” diceva a se stessa, e sentiva di essere nel vero.

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Intanto i giorni passavano. Poi passarono anche i mesi e si alternarono le stagioni. Venne il tempo dei primi frutti, poi quello del raccolto e infine quello degli ultimi fiori, i chilco, e nuovamente si avvicinò un nuovo We Tripantü. * * *

Man mano che si avvicinava il capodanno Likarayén diventava più taciturna. Si trovava bene, con la Pincoya, anche se questa si allontanava assai spesso. Stava lontano qualche giorno, poi tornava a Llancahue e rimaneva in compagnia della bambina per uno o due giorni, e poi nuovamente via, alla ricerca delle piattaforme di pietra lungo le spiagge del litorale dell’isola maggiore di Chiloé, o di quelle minori del mare interno, assai più popolate. Perciò Likarayén rimaneva sola per la maggior parte del tempo, ma ciò non le dispiaceva affatto: il suo umore, infatti, era rimasto molto introverso ed amava la solitudine. Quando però la wala tornava, la sua compagnia era molto gradita alla bambina. La Pincoya le parlava delle spiagge che aveva conosciuto: Chauques, Mechuque, Tac, Añihué, o Quicaví, sull’isola maggiore. Ma non le portò mai alcuna notizia su Millaray, che era ciò che più di ogni altra cosa la bambina avrebbe voluto sentire. In realtà sin dai primi tempi dell’arrivo di Likarayén la Pincoya si era spinta sino a Chequián: più volte, aveva spiato senza essere vista le donne che si avvicinavano alla riva. Aveva intuito quale fosse la madre di Millaray, ed aveva visto il segno del suo lutto, ma anche quello degli altri famigliari che si avvicinavano alla spiaggia. Una notte si era anche introdotta silenziosamente nel bosco e aveva raggiunto la ruka di Likarayén. Aveva seguito attentamente le spiegazioni della bambina, e non era stato difficile rintracciarla. D’altronde, così vicina alla punta di Chequián, c’era solo quella capanna. Aveva spiato l’interno, ma vide solamente la donna matura e due uomini: uno maturo e l’altro poco più che un ragazzo. Il focolare era spento, nonostante il freddo, evidente segno di lutto, sebbene nella ruka non vi fosse alcun cadavere. Sicché la Pincoya intuì ciò che poteva essere successo, ma non volle mai manifestare alla bambina i suoi timori. E vi erano anche altre cause di preoccupazione per la Pincoya. Ella, infatti, così abituata ad osservare mantenendosi invisibile, non tardò ad accorgersi di non essere la sola a spiare la capanna. Le tracce del Thrauco, ma soprattutto il suo odore, erano molto evidenti per la Pincoya, così come certamente lo erano le sue per quella deforme creatura. La presenza dell’essere dei boschi poteva avere una sola spiegazione: anche lui era alla ricerca di Likarayén e dunque aveva intuito bene sin dal primo momento. La deriva della dalka con sopra la bambina era opera dei pillán, o dei wekufe, ma non era un incidente naturale. La fanciulla, quindi, doveva rimanere nascosta e alla laguna di Llancahue nessuno l’avrebbe potuta mai trovare, tranne lo stesso Kaikaivilú. Fu così che la Pincoya cominciò veramente a credere che Likarayén fosse destinata a crescere insieme a lei e, forse, a trasformarsi anche lei in una wala. Lei, la Pincoya, non comprendeva i disegni degli spiriti: e neppure desiderava comprenderli, ma si limitava ad assecondarli. Le bastava amare le creature del mare e danzare per loro sulle piattaforme di pietra per sentirsi felice. Non desiderava nient’altro. E sino a quando era giunta Likarayén, neppure le interessava la compagnia degli esseri umani. Ma ora era diverso. Si sentiva responsabile della bambina e della sua sicurezza, ma soprattutto si accorgeva che ogni giorno che trascorreva le voleva più bene. Perciò preferiva non manifestare i suoi dubbi alla bambina e trattenerla quanto più possibile nell’unico luogo dove, forse, era al sicuro. Ma con l’avvicinarsi di We Tripantü la fanciulla dagli occhi di fuoco era divenuta inquieta. “Che ti succede, Likarayén?” le chiese un giorno. La notte era quasi

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completamente trascorsa, ma l’alba tardava a farsi avanti. La Pincoya aveva danzato sino a poc’anzi e Likarayén, dimentica delle vecchie abitudini, era rimasta accanto a lei sulla piattaforma, nonostante il freddo e la pioggia. Ora erano sedute accanto al focolare e la bimba beveva un caldo brodo per scaldare il suo corpo intirizzito. Rimasero un buon tempo silenziose. Finalmente la bimba disse: “non lo so. Mi sento inquieta. Di notte sogno sempre la stessa cosa, e di giorno mi sembra di essere spiata”. “Cosa sogni?”. “Sempre la stessa cosa: c’è un condor che nuota nel mare, come se volasse ma invece nuota, e mi dice eimi machingeaimi”. “E di giorno?”. “Non so spiegarmi. Non mai visto nessuno, anche se ho osservato bene tutte le rocce intorno alla laguna. Ma ho l’impressione che ci sia qualcuno, lassù, che mi osserva”. “Succede da molto tempo?”. “No. Solamente da uno o due giorni”. Rimasero entrambe in silenzio, immerse nei loro pensieri. Intanto finalmente un grigio chiarore cominciava a filtrare nella ruka. “Vieni con me” comandò improvvisamente la Pincoya. E Likarayén la seguì senza domandare nulla. Raggiunsero insieme la piattaforma di pietra nel mezzo della laguna, da dove si vedeva bene tutt’intorno, e insieme osservarono attentamente il profilo delle rocce circostanti. Fu la Pincoya a vederlo: tozzo, con il suo cappello a punta, una grossa clava nella mano destra ed un bastone sottile in quella sinistra, scendeva in qualche modo dalla balconata rocciosa ed aveva già quasi raggiunto il bosco alla sua base. “Guarda là! Il Thrauco!” esclamò indicandolo alla bambina. Quindi l’afferrò per il braccio e si tuffò con lei nell’acqua gelida, dal lato opposto alla spiaggia. Likarayén si trovò in acqua prima ancora di comprendere cosa volesse fare la Pincoya. Immediatamente l’orca fu al suo lato e, mentre tratteneva il respiro, sentì la mano della Pincoya che la trascinava velocemente verso l’ingresso sottomarino della laguna. Durante quell’anno trascorso a Llancahue la bambina aveva acquisito dimestichezza con l’acqua e col nuoto. Vide dunque come la Pincoya si faceva trainare dall’orca e a sua volta trascinava lei stessa nella corsa verso il mare aperto. Vide anche la grotta sottomarina che collegava la laguna con l’esterno e, con terrore, vide venire dalla direzione opposta una creatura immensa. la più grande creatura che avesse mai visto, molto più grande della più grossa balena. Il corpo, smisuratamente lungo, era quello di un serpente, ma la sua testa, grande assai più del corpo di una balena, sembrava quella di un puma feroce. S’incrociarono, ma l’enorme serpente nuotava così velocemente verso la laguna che non s’avvide di loro. Emersero nel mare aperto. La parete rocciosa che chiudeva la laguna era ora alle loro spalle, mentre di fronte a loro, molto oltre le onde ancora agitate per il passaggio dell’enorme serpente, il cono perfetto di Peripillán eruttava le sue fiamme verso il wenumapu, insistendo nella sua mai conclusa sfida a Ngenechén. Likarayén prese fiato, poi si rivolse verso la Pincoya. Continuavano a nuotare, trascinate dall’orca, verso il lontano vulcano. “Quello è Kaikaivilú! - disse la Pincoya - e cercava te”. Likarayén rimase impietrita per l’orrore. “Ora, però, non posso più aiutarti. Per le creature dell’acqua è più facile trovare me che te, e sanno che siamo insieme. Perciò tu scappa lontano, lascia che l’orca ti conduca dove vuole lei, mentre io torno a Llancahue”. “Non lasciarmi sola, ti prego!” implorò la bambina. “Vorrei non doverlo fare, Likarayén, ma è meglio così. Ricordati che anche se io non sono la tua mamma Millaray, ti ho voluto bene come a una figlia e continuerò a volerti bene per sempre. Afferrati bene alla pinna dell’orca - e intanto le mostrava come fare - e va dove ti porta. Addio, bambina dai capelli rossi”. E si immerse nell’acqua. Ma riapparve quasi subito: già distante, le fece un cenno di saluto con il suo braccio sottile e le gridò: “Cerca Lalén Kusé. Lei saprà dirti quelle che devi sapere ed insegnarti quello che devi imparare.

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Ricordati sempre, bambina mia, che le cose importanti sono quelle che non si vedono e che è l’amore che fa crescere il frutto. Nient’altro che l’amore. Impara a sentirlo. Tutte le sensazioni sono bellissime, ma l’amore è la più bella di tutte”. Quindi tornò ad immergersi e Likarayén non la vide più.

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meli troy

LALEN KUSE

Likarayén non riusciva a capire dove si trovasse. Il giorno giungeva al suo termine e dopo la lunga pioggia ora il gelido vento meridionale si era imposto e, con esso, il sereno. La bambina era intirizzita dal freddo, dopo aver trascorso l’intera giornata trainata dall’orca nell’acqua ghiaccia. Si tolse la pelle di puma e la tunica di lana e cercò di strizzarle alla bell’e meglio. Poi tornò ad indossarle, incerta se sentisse più freddo con una tunica fradicia sul corpo, oppure nuda, ma da quando portava i chaway le sembrava inopportuno rimanere nuda. Si guardò intorno, in questo strano mare. Circa la metà del suo viaggio si era svolto lungo un braccio di mare costretto tra alte montagne innevate. La costa, talvolta bassa e boscoso, più spesso era ripida e non di rado alcune pareti di roccia scendevano verticalmente nel mare, in modo simile a quanto aveva visto nella laguna di Llancahue, solo che quella era molto piccola mentre questo stretto braccio di mare sembrava non terminare mai. Invece concludeva lì, dove si trovava ora. Non lontano da lei, vi era la foce di un ampio fiume. Una leggera nebbia sembrava indicarne il corso lungo la pianura, sollevandosi leggera dalla sua superficie. Non sapendo dove dirigersi, Likarayén lo raggiunse. Poi cominciò a seguirne il percorso in direzione opposta alla foce. Le alte montagne intorno a lei le facevano escludere che si potesse trovare nell’isola di Quinchao: “questa è certamente la Cordigliera” disse ad alta voce, solamente per sentire un rumore, o forse sperando di avere una risposta. Ma l’unico suono era quello allegro dell’acqua che scendeva a valle lungo il letto del ruscello. Continuava a camminare, sperando di trovare un rifugio per la notte, un luogo qualunque dove potersi scaldare un poco. I suoi piedi e le sue mani erano resi violacei dal gelo e la pelle screpolandosi sanguinava. Le parve di vedere un riparo roccioso oltre il fiume. Facendosi coraggio, entrò nell’acqua per attraversarlo. Come toccò l’acqua col suo piede, lo ritrasse immediatamente: era tiepida! Non capiva come fosse possibile. Provò nuovamente. Era proprio tiepida. Allora entrò nell’acqua. Non era mai troppo profonda: ora le arrivava sotto il ginocchio, ora doveva sollevare la tunica perché l’acqua le sfiorava l’inguine, ma sempre fu possibile avanzare camminando. Dopo tutto il freddo che aveva sofferto, quell’acqua tiepida le dava una sensazione di meraviglioso benessere. Man mano che risaliva la corrente l’acqua sembrava divenire sempre più tiepida. Ormai cominciava ad essere quasi scuro, quando giunse ad un punto dove il fiume si divideva in due: seguendo quello principale, alla sua sinistra, l’acqua diveniva subito gelida. Allora prese il ruscello alla sua destra. Ora l’acqua era veramente calda. Camminò ancora un poco pensando cosa fare e giunse ad una piccola pozza con il fondo sabbioso. Allora decise di passare lì la notte. Uscì dall’acqua, si tolse la pelliccia di puma e la tunica e li appese sui bassi rami di un quercia, quindi tornò nella pozza calda e si immerse con tutto il corpo, sedendosi sul fondo sabbioso ed appoggiando la schiena ad un grossa pietra arrotondata. Forse non sarebbe stata la posizione migliore, per dormire, ma quel calore le sembrava meraviglioso. Fu così che trascorse la notte, finalmente indifferente al gelido vento che soffiava tra gli alberi. Quando sorse l’alba, il vento antartico continuava a spazzare ogni nube dal cielo. La pozza di acqua termale era molto calda e da essa si disperdeva una spessa nebbia che andava a depositarsi sui rami degli arbusti e degli alberi circostanti formando lunghi cristalli di ghiaccio. Nonostante la posizione scomoda, Likarayén stava bene adagiata nell’acqua della pozza ed attese, prima di alzarsi, che il sole fosse ben alto e riscaldasse

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un poco l’aria. Dalla sua posizione, la bambina osservava l’ombra di Ngenechén, lo spirito solare sorto dietro la cordigliera andina, avanzare lentamente verso il luogo dove si trovava lei. Solo quando fu ben alto sull’orizzonte il disco solare divenne visibile e, anche aiutato dal forte vento, sciolse velocemente la brina. Ma Likarayén indugiava, restia ad uscire da quell’acqua così piacevolmente calda. Finalmente si impose di farlo e, bagnata com’era, rabbrividì immediatamente al gelido vento. Si rotolò nella sabbia sino ad asciugare la sua pelle: poi indossò la sua tunica di lana e la pelliccia di puma, finalmente asciutte, ed allora si guardò intorno. Osservò attentamente, ma nessun segno umano era visibile: non una ruka, non delle orme di piedi, non un esile filo di fumo. Guardò da dove proveniva la sorgente calda: il suo percorso era ancora evidente perché segnato dal vapore che si sollevava dall’acqua. Ma vide anche che il percorso concludeva assai presto tra delle rocce. Decise, quindi, di ritornare sui suoi passi: camminando sul terreno asciutto, raggiunse il punto dove il ruscello termale confluiva nell’ampio fiume. Questa volta prese il ramo di destra, quello più ricco di acqua, che proveniva da un’ampia vallata. Seguì il suo percorso per un buon tratto. Via via che risaliva la vallata, questa si faceva sempre più ampia ed il fiume diventava assai più largo, dividendosi in numerosi rami che formavano isole boscose. La vallata proseguiva quasi orizzontale e sempre fittamente alberata, sicché Likarayén riusciva solamente a vedere i fianchi montagnosi che ne cingevano i lati, ma non dove essa avesse origine. Poi il fiume compì una ampia curva verso la sua destra. E improvvisamente, tra un chiaro di alberi, la bambina lo vide: Peripillán. Era proprio lì, vicino a lei, come mai non lo era stato prima. Il vulcano era davanti ai suoi occhi, formando un perfetto cono imbiancato dalla neve e dai ghiacciai, mentre lunghe lingue infuocate scendevano lungo i suoi fianchi. La sua cima splendeva per mille scie luminose che sembravano esplodere andando in ogni direzione e perforando la profondità del cielo. Non solamente vedeva tutto il suo infuocato splendore. Ora ne sentiva distintamente anche la voce: una voce profonda, sotterranea, minacciosa, spesso interrotta da improvvisi boati e scoppi feroci, eppure affascinante ed irresistibile. La bambina dagli occhi rossi come la lava del vulcano osservava emozionata, trattenendo il respiro, quasi temendo di turbare la maestà di Peripillán. Rimase a lungo, immobile, dimentica di ogni altra cosa. Poi, finalmente, Likarayén si riscosse: “che bello! - esclamò ad alta voce, felice della splendida visione e dimenticando la sua fame e il suo bisogno di aiuto - è là che devo andare!” soggiunse senza saperne il perché. Quindi riprese il suo cammino al lato del placido fiume. Camminò a lungo, sino a che cominciò a farsi sera. Aveva fame. Si avvicinò all’acqua del vicino fiume per osservare se vi fosse qualcosa. Sulla spiaggia del mare aveva sempre trovato o delle grosse vongole bianche, o delle nere cozze sugose; ma qui non c’era nulla di tutto ciò, nulla che potesse calmare la sua fame. Poi il suo sguardo fu attratto da alcuni grossi gamberi. Raccolse una pietra per ucciderli e mangiarne la carne tenera e saporita, ma poi indugiò, incuriosita dal loro comportamento. Essi, infatti, erano impegnati a costruire una sorta di grotta: raccoglievano con le loro chele del fango che sembrava diverso dall’altra melma del fondale, poi lo portavano sino all’ingresso della loro tana e lo disponevano davanti ad esso, formando delle spirali che si sovrapponevano le une alle altre. Quindi con le stesse chele sembravano modellarle e dare loro una forma precisa, comprimendo la costruzione fangosa per renderla più robusta. Likarayén rimase lì, immobile, con la sua pietra ancora stretta nella sua mano. L’avrebbe volentieri lasciata cadere nell’acqua - ora le sembrava una cosa malvagia uccidere delle creature che stavano costruendo qualcosa di così strano - ma non lo fece temendo che il tonfo potesse spaventarle e farle fuggire. Osservando i gamberi al lavoro

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le tornavano alla memoria i tanti discorsi che Millaray le faceva quando la portava con sé in campagna: il ricordo di Millaray le fece venire una profonda tristezza: sentiva di avere gli occhi gonfi, ma non voleva piangere. Rimaneva lì, immobile mentre sopraggiungeva la sera, osservando i gamberi impegnati nel loro lavoro e che a poco a poco con l’oscurità erano sempre meno visibili. “Mari-marí!” disse improvvisa una voce. La bambina si girò bruscamente: alle sue spalle c’era una vecchietta dalla pelle tutta raggrinzita, quasi coriacea, che l’osservava seria, ma benevola. Likarayén non provò timore, anche se non la aveva sentita sopraggiungere. “Mari-marí” rispose a bassa voce e con tono rispettoso. “Cosa ci fai, pichi machi, osservando immobile l’acqua con una pietra in mano?”. “Volevo uccidere i gamberi”. “Perché lo volevi fare?”. “Perché ho tanta fame. Oggi non ho mangiato nulla. Neanche ieri ho mangiato nulla”. “Allora perché non l’hai fatto? perché non li hai uccisi?”. “Perché stanno costruendo qualcosa con quel fango: è bello quello che fanno. Non è bello uccidere chi costruisce: me l’ha insegnato Millaray”. “E’ vero, pichi machi: non è bello uccidere chi costruisce”. “Ma tu chi sei? Forse sei tu Lalén Kusé?”. “No, non sono Lalén Kusé. Io sono Rey Kusé”. “E’ un nome così buffo... Cosa vuol dire? Intendo dire... chi sei veramente?”. “Io sono lo spirito dell’üku che questi gamberi modellano per fare la loro casa”. “Cos’è l’üku?”. “E’ quello che a te sembra un fango dall’aspetto un poco diverso, quello che i gamberi raccolgono e modellano”. “Perché? Forse quello non è il fango del fiume?”. “No: è una sostanza molto speciale: l’üku, appunto”. “Ma perché è così speciale? A me sembra solamente fango di fiume”. “Con la sabbia della spiaggia o del fiume tu puoi costruire una capanna? o un recipiente?”. “No: si disfa”. “Appunto: invece se usi l’üku lo puoi fare. Per questo è speciale. Ma hai detto di avere fame: vieni con me, pichi machi”. Le porse la sua mano, e Likarayén le offrì la sua. Toccando la mano della vecchietta, Likarayén provava una sensazione strana. Aveva la pelle coriacea e secca, dura: aveva la sensazione di toccare il guscio di un granchio, o di un gambero. Tuttavia l’anziana, nonostante la stranezza della sua pelle e del suo aspetto, non suscitava alcuna diffidenza. La bambina, pertanto, camminò tranquilla al suo fianco, salendo lungo la ripida e boscosa collina che fiancheggiava la vallata. Ben presto si trovarono ad avanzare nella neve, ghiacciata, sicché il piede non sprofondava e poteva proseguire veloce. Camminarono a lungo nella notte. Küyén splendeva nel cielo stellato, ma raramente riusciva a illuminare il loro cammino poiché la foresta era molto spessa: tuttavia la vecchietta sembrava vederci benissimo, in quel buio, e tratteneva saldamente Likarayén per la mano, impedendole di inciamparsi o di scivolare. Finalmente giunsero sulla cima della collina, dove sorgeva una minuscola ruka. Era molto piccola, come quella della Pincoya. Entrarono. La vecchia accese con destrezza il focolare e presto una fiamma allegra rischiarò l’ambiente. “Dove siamo?” chiese Likarayén. “Questa collina si chiama Hueñuhueñú, e così si chiama anche il fiume che la divide dalla pianura dove sorge Peripillán. Lo senti, come brontola il vecchio spirito imprigionato nella terra?”. Likarayén annuì. Il brontolio del vulcano, ora, era molto evidente e, improvvisamente, il suolo della capanna fu scosso da un violento ma breve scossone. Né la bambina né la vecchia fecero molto caso alla scossa sismica, che negli ultimi anni erano diventate molto frequenti, quasi abituali, come altrettanto frequenti erano le eruzioni dei numerosi vulcani della zona. Ora che c’era sufficiente luce, Likarayén osservò la capanna, per nulla intimidita dalla vecchia, la quale era indaffarata sul fuoco, dove aveva posto un recipiente dalla forma insolita a scaldare. Non c’erano pelli, neppure per dormire, ma molte foglie e fasci di erba secca disposti con ordine, ed alcune pezze di stoffa tessuta con grande maestria

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piegate e ben riposte in un angolo della ruka. Ma la cosa che incuriosì la bambina furono i numerosi recipienti, di tutte le forme e posti un po’ ovunque, un mucchio di fango piuttosto spesso posto in un angolo della capanna e, nell’angolo più prossimo al suo ingresso, quella che sembrava la tana di un animale. Era fatta di roccia - o almeno di qualcosa che pareva roccia - ed aveva un grosso foro orizzontale: Likarayén cercò di guardare dentro, convinta che ci fosse qualche animale, ma non vide nulla. Accanto alla tana, numerose fascine di legna ben secca. “Hai fame, pichi machi?”. “Sì che ho fame! Ma perché mi chiami machi? Io sono solamente una bambina, non una machi. Il mio nome è Likarayén”. “Eppure quando ti ho salutata, al fiume, tu ti sei voltata e mi hai visto, e mi hai anche risposto...”. E non disse altro, come se ciò fosse una spiegazione sufficiente. La bambina attese che la vecchia continuasse a parlare, ma inutilmente. “Perché non avrei dovuto vederti e salutarti?”. “Ora siediti e mangia” fu la risposta dell’anziana, che le mise tra le sue mani una ciotola di pietra molto sottile, simile ad alcune che aveva già visto nella capanna della Pincoya. Fu allora che si rese conto che tutti i recipienti che c’erano nella capanna, qualunque fosse la loro forma, sembravano fatti di quello stesso materiale. Nella ciotola c’era un brodo caldo e profumato, pieno di erbe sconosciute. “Aspetta: prima mangia questo”, disse ancora la vecchia, e le diede un piccolo tozzo di fango molto spesso. “Ma è fango...!” protestò la bambina. “Mangialo lo stesso” insistette la vecchia. Allora Likarayén se lo mise in bocca e cominciò a masticarlo: aveva un sapore sgradevole, simile alla terra, ma reso fluido dalla sua stessa saliva poté finalmente inghiottirlo. “Ora mangia quello che c’è nella scodella” aggiunse ancora la vecchia, e finalmente Likarayén poté portare alla sua bocca il profumato brodo bello caldo. Lo bevve avidamente, poi raccolse con le dita i gnocchi di erbe aromatiche che erano rimasti sul fondo della scodella e li divorò velocemente. Non disse nulla, ma la vecchia tornò a riempirle per seconda volta la scodella, e poi ancora una terza quando vide che con altrettanta velocità Likarayén l’aveva nuovamente svuotata. “Sei veramente affamata!” aggiunse mentre la bambina continuava a mangiare soddisfatta. “Perché non avrei dovuto vederti e salutarti?” ripeté Likarayén ora che aveva finito. “Ma tu chi sei?” aggiunse ancora prima che l’anziana potesse risponderle. “Te l’ho già detto: sono Rey Kusé”. “Volevo dire... sei una machi? cosa sei?”. “Sono una widüfe, non una machi: modello l’üku, quello che a te sembra fango, e con esso faccio vasi e scodelle, come quella che hai in mano. Ti sembra che sia di fango, pichi machi?”. “Ma non mi hai detto perché mi chiami machi”. “Perché lo sei!”. “Ma io sono una bambina, una pichi domo!”. “E infatti ti ho chiamata pichi machi. Sei ancora una bambina, ma sei lo stesso una machi. E sono anche sicura che tu sai benissimo di esserlo”. Likarayén tacque, pensando ai suoi sogni e ricordando l’anziano sciamano. “Il tuo silenzio mi conferma che sai di esserlo” aggiunse ancora la vecchia. “Ma io non voglio. Io voglio essere solamente una bambina e voglio Millaray, la mia mamma...”. “Non sempre si è ciò che si vuole essere. Al contrario: generalmente avviene che uno è ciò che non vorrebbe essere. Ma devi accettare il tuo destino. Non puoi fare diversamente. Sei una machi, anche se devi ancora compiere il tuo percorso...”. “Un percorso per andare dove?” l’interruppe la bambina. “... non per andare, ma per essere. Il tuo percorso non serve a portarti in un luogo ma a far sì che tu sia ciò che devi essere. E’ un percorso molto difficile e lungo, che si chiama filew. Credo che l’hai già iniziato: altrimenti non saresti qui”. “Ma come sai tutte queste cose?”. “So che sei una machi perché solo i machi o i kalku possono vedermi, ma non credo proprio che tu sia una kalku... tu mi sembri buona... hai rispettato i gamberi del fiume, anche se avevi fame”. “Non capisco: sei lì. Certamente che ti vedo! Tutti ti vedrebbero!”. “Non è così, Likarayén. Nessuno può vedermi, tranne

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chi ha un occhio al suo interno, un occhio molto speciale che tu possiedi. E’ un dono, ma talvolta può anche essere una maledizione, ma va accettato, così com’è, anche con il dolore che può comportare”. “Non so... è tutto tanto difficile... io non comprendo questo che tu mi dici... il percorso che devo compiere... io voglio solo tornare dalla mia mamma!”. “Dove hai preso quella pelle di puma che indossi? Non è l’indumento di una bambina”. “Me l’ha dato la Pincoya”. La Pincoya? ma è una sumpall. Hai potuto vedere anche lei, così come hai visto me?”. Allora Likarayén ricordò che la Pincoya le aveva detto di essere invisibile agli esseri umani. Rimase pensierosa. Poi disse ancora: “la Pincoya mi ha insegnato tante cose: mi ha nascosto nella sua laguna e mi ha salvato quando Kaikaivilú voleva portarmi...”. Non appena la bambina ebbe pronunciato quel nome una lunga e violenta scossa di terremoto investì la capanna, mentre il vulcano si fece sentire con una violenta esplosione. Questa volta fu così intensa che le due donne sussultarono. Ma poi la vecchia riprese tranquilla: “hai detto che la Pincoya ti ha insegnato molte cose...”. “Ecco: mi ha insegnato a danzare leggera come una wala e a nuotare agile come un cahuél. Ma questo non è importante. Mi ha insegnato che la cosa più bella che esiste è sentire, provare tante sensazioni, come l’acqua fresca che scivola sulla pelle o il tepore del sole che accarezza il volto, che le cose importanti sono quelle che non si vedono e che è l’amore che fa crescere le cose, non l’acqua o il calore, ma l’amore dell’acqua e l’amore del sole...”. “Brava, Likarayén: queste sono i primi passi del tuo lungo cammino. Ma non credere che sia poco, perché questi sono due passi molto importanti. Ma non basta. Ti rimane ancora molta strada da fare”. Allora Likarayén osservò bene la vecchia e comprese che non era ciò che sembrava. * * *

Tra i fitti boschi di conifere, di faggi e di querce che si estendono oltre la pianura delimitata dal fiume e dalla collina di Hueñuhueñú, una creatura stranissima si aggirava silenziosa. Incredibilmente magra e dinoccolata nonostante il corpo tondo e tozzo, aveva dei lunghissimi arti che sembravano piegarsi bruscamente, dandole l’aspetto di un enorme ragno. Era orribile e vecchissima e camminava attenta, frugando con i suoi occhi vivaci ogni luogo, alla ricerca di qualcosa. “Eppure da qualche parte deve pure trovarsi quello stupido essere umano!” borbottava tra se e se. Era già da un paio di giorni che camminava alla ricerca di qualcuno che non si faceva trovare. “Eppure l’ho sognata: una piccola machi impertinente e che fa domande sciocche, ma che gli spiriti mi affidano affinché sia io, io in persona, Lalén Kusé, vecchia quanto è vecchio il mondo, ad insegnarle a tessere, sui miei stessi telai... Capirla, la volontà degli spiriti. E’ bravo chi ci riesce!”. Ormai calava l’oscurità della sera. Vide tra gli alberi una lunga e grande striscia scura. “Eccomi di nuovo davanti alla colata lavica, eppure della pichi machi non ho trovato neppure una traccia... Tanto vale che torni al mio telaio, che neppure questa notte riuscirò ad incontrarla quella bambina pestifera. Chissà dove avrà trovato rifugio...”. E mentre già si accingeva a fare ritorno la medesima scossa di terremoto che aveva interrotto il parlare di Likarayén la fece sussultare. Indugiò, incerta sul significato da attribuirle. Era un messaggio, quella scossa: di ciò ne era certa. Ma era un messaggio rivolto a lei? Non ne era certa. Rimase in attesa di qualche altro segnale, o di una intuizione che le chiarisse il senso di quell’avvertimento che Peripillán aveva lanciato, ma non giunse più nulla. Allora scrollò le spalle e s’incamminò per fare ritorno verso i suoi telai di tessitrice.

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Intanto si era ormai fatto notte e ormai tutto era velato da una cappa nera come lo spruzzo di una seppia. * * *

Likarayén sognò, quella notte, e quando si svegliò - era ancora molto presto, ma il sole illuminava presto la sommità della collina dove si trovavano - raccontò all’anziano quanto aveva sognato: “ho sognato che andavo per un sentiero e incontravo una anziana piccola piccola, la quale mi chiedeva se mi sarebbe piaciuto impastare la creta e fare una bella scodella. Quella vecchietta aveva un grande sacco, molto più grande di lei, ed era pieno di scodelle e di vasi di terra, come quelli che fai tu. Allora nel sogno io le dissi che sì, che voleva vedere come lei faceva. Ma lei mi cacciò via, dicendo che l’üku è geloso e non vuole essere guardato”. “E’ vero - le rispose la vecchia - l’üku è geloso e non vuole essere guardato”. E poco dopo aggiunse: “ma tu vorresti imparare?”. “Oh, sì! sarebbe bellissimo! mi piacerebbe tanto... tu mi insegnerai, vero?”. “Io no, che non ti insegno. Non è da me che puoi imparare”. “Ma... allora... perché mi hai chiesto se voglio imparare” disse Likarayén con la voce e lo sguardo che tradivano la sua delusione. “Perché se vuoi imparare, c’è chi ti insegnerà”. “Chi?”. “I gamberi del fiume, quelli che hai visto ieri nell’acqua”. “Ma come faranno, ad insegnarmi? I gamberi non parlano”. “I gamberi non parlano, è vero, ma se tu saprai osservarli, allora loro ti insegneranno. Per imparare, devi sapere guardare ciò che ti sta intorno: è così che si impara. Se vuoi essere una widüfe, una vasaia come me, allora va al fiume e osserva i gamberi e torna solo quando avrai imparato quanto loro hanno da insegnarti”. “Ma come faccio a trovare il fiume? E poi, come faccio a tornare qua? Ci siamo venuti che era notte, era buio. Io non ho mica visto come ci si arriva”. “Va! se è nel tuo destino restare qui con me, troverai la strada. Altrimenti vuol dire che cammino va in un’altra direzione. Va, dunque!”. E senza altre parole, con dolcezza ma con fermezza la spinse oltre l’uscita della ruka. Non appena si trovò fuori, Likarayén lanciò un grido di sorpresa. “E’ lì!”. L’immenso, lo splendido Peripillán era proprio davanti a lei in tutta la sua bellezza e grandiosità. Non c’era più nulla che lo separasse dal luogo in cui lei si trovava: un’ampia vallata e poi c’era il vulcano e, ai suoi piedi, una grande distesa d’acqua. Non si sarebbe più mossa da dove si trovava, sarebbe rimasta incantata ad ammirarlo se non fosse stato per la voce della vecchia dalla pelle come una corazza: “va! sbrigati!” le gridò dall’interno della ruka, ed allora Likarayén si mise a correre giù dalla collina, verso il fiume, dando le spalle al maestoso vulcano che, non più visibile, tuttavia faceva sentire la sua voce. “Allora è questo, il tuo destino” disse la vecchia a Likarayén quando, ben entrato il giorno, fece ritorno alla ruka sulla sommità della collina. “Ho osservato i gamberi, guardando bene come facevano a dare forma al fango...”. “Si chiama üku!” la corresse l’anziana. “...all’üku, formando una linea che si attorcigliava e poi appoggiandola sopra un’altra...”. “Basta. Non devi venire a dire a me come facevano. Devi dimostrare di avere imparato, adesso. Ma prima hai bisogno del tuo üku”. “Ma lì ce n’è tanto!” rispose Likarayén indicando quello che c’era nella ruka. “Ma quello è il mio, mentre tu devi usare il tuo. Vieni con me, ora, che andiamo a cercarlo”. “E’ lì” disse l’anziana quando arrivarono al giacimento di creta. “Posso prenderlo?” chiese Likarayén. “Prima bisogna chiederlo al suo spirito. Ripeti con me. Spirito dell’üku, padre e madre dell’üku, fate che venga bene il nostro lavoro” e la bambina ripeteva con lei le stesse parole “faremo con il tuo üku una scodella che servirà per compiere le offerte agli spiriti quando celebreremo il ngillatún ed ora ti faremo il nostro dono, generoso spirito dell’üku”. Quando la bambina ebbe terminato di ripetere le stesse parole, la vecchia sfilò dalla sua tunica un filo colorato di lana che l’adornava e lo lasciò

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cadere nella creta dicendo “ecco qui il dono che Likarayén ti offre, spirito dell’üku: accettalo e permetti a Likarayén di raccogliere il tuo prezioso frutto”. “Ora puoi prenderne quanto ti serve, ma non di più” disse infine rivolgendosi a Likarayén. Tornarono alla ruka con un cestino pieno di creta. “Ora fammi vedere cosa hai imparato dai gamberi”. Allora Likarayén cominciò a modellare con le sue piccole mani un lungo filo di creta, girandolo a lungo su se stesso ed appoggiandosi su di un piano di legno che Rey Kusé le aveva offerto. Poi lo distese a formare un anello e cominciò ad arrotolarlo in una lunga spirale, come aveva visto fare dai gamberi. Infine con le sue dita rassodò a lungo la spirale, sino a darle l’aspetto di un cilindro. Allora si fermò, guardò quanto aveva fatto e mormorò in maniera appena percettibile: “anch’io ho costruito qualcosa!” e intanto il suo volto era serio, ma i suoi occhi sorridevano all’anziana. “Si, Likarayén, hai costruito qualcosa: ora puoi cominciare ad imparare. Osservami attentamente, che ti faccio vedere come devi fare”. * * *

Likarayén aveva già trascorso con la vecchia vasaia quasi un intero anno. Aveva imparato a lavorare la creta e l’argilla, a modellare le scodelle, le pentole, ma anche figure umane e simulacri di animali. Aveva creato figure fantastiche, frutto solo della sua fertile fantasia di bambina. Più conosceva la vecchia Rey Kusé, più si rendeva conto di quanto essa assomigliasse ad un gambero. Giunse infine a dubitare che fosse un essere umano (“le cose non sono mai ciò che sembrano” le aveva detto una volta la Pincoya, ma le pareva che fosse trascorso tanto di quel tempo, da allora), ma che fosse essa stessa un gambero, forse la madre di quelli che aveva incontrato nel fiume e che le avevano insegnato l’arte del vasaio. Un giorno lo chiese bruscamente alla vecchia: ma questa si mise a ridere e non le rispose nulla. Ma nonostante le perplessità su cosa veramente fosse, la vecchia, Likarayén si trovava pienamente a suo agio vivendoci insieme. C’era anche la presenza inquietante e minacciosa di Peripillán: lì, di fronte a lei, così vicino che le pareva che potesse addirittura toccarlo con solo allungare la sua mano verso il vulcano. Alla stagione fredda si era avvicendata quella calda, ma il vulcano non aveva modificato il suo aspetto: sempre ammantato di neve e ghiaccio, con le sue lingue di fuoco che scendevano lentamente a valle. Ogni tanto una deviava dal vecchio percorso, ed allora si introduceva in un bosco di conifere, incendiandole ad una ad una. Altre volte un’altra si prolungava con più slancio scivolando sul letto della colata precedente, sino a lambire la distesa di acqua ai piedi del vulcano: allora penetrava nella sua superficie sollevando nuvole di vapore e grandi boati. Eppure più Peripillán era inquietante, più la ragazzetta si sentiva attratta da lui. Fu così che un giorno volle percorrere uno strano sentiero che si dirigeva verso i piedi del vulcano. Non era un sentiero umano. Sembrava che un grosso animale fosse disceso attraverso la boscaglia, rompendo i rami degli alberi che incontrava sul suo cammino e spazzando via ogni cespuglio. “Questa è opera del camahueto” le aveva detto la vecchia vasaia dalla pelle di gambero, senza aggiungere altro. Ma quel giorno Likarayén volle avvicinarsi al vulcano, vittima di una attrazione che non poteva né comprendere, né dominare. S’incamminò ben prima che sorgesse il sole. La prima neve era già scesa sulla collina, presto sciolta dalla pioggia intensa, e per Likarayén si avvicinava il suo ottavo We Tripantü, anche se ora dove lei si trovava non vi era nessuno che lo celebrasse. Seguendo la pista tracciata dal camahueto la bambina raggiunse rapidamente la base della collina, questa volta dal suo lato settentrionale, quello prospiciente al vulcano, e nuovamente si

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ritrovò al lato del grande fiume, il Petrohué, dove aveva incontrato i grossi gamberi che le avevano insegnato l’arte del vasaio. Ora si trovava in una vasta pianura ai piedi di Peripillán. Pioveva fittamente e gli alti alberi impedivano di orizzontarsi. Tuttavia Likarayén avanzava ugualmente, orientandosi per mezzo del brontolio del vulcano e dei suoi improvvisi boati. Di quando in quando sentiva la terra tremare brevemente, ma queste scosse, anziché intimorirla, l’eccitavano. Infine giunse sino al vulcano. Si rese conto di essere arrivata dove voleva giungere poiché ora, improvvisamente, si trovava a risalire il pendio: dunque ormai aveva superato la vasta pianura alla base del vulcano. Poi divisò davanti a sé una collina scura e bassa, che si allungava tra gli alberi senza che si potesse vederne l’inizio o la fine. Era completamente spoglia e sembrava uno smisurato serpente. “Kaikaivilú!” gridò Likarayén, e istintivamente si nascose dietro il tronco di un grosso larice. Ma poi si mise a ridere nervosamente, per farsi coraggio, constatando come fosse proprio ciò che sembrava: una strana collina, bassa, scura e serpeggiante. Si avvicinò. Era completamente spoglia di ogni vegetazione e gli alberi al suo lato erano completamente schiacciati e bruciati, come se fossero stati divorati dalla collina. Non capiva bene se fosse costituita da un’unica massa di roccia, o fossero pietre ammucchiate disordinatamente. S’innalzava improvvisamente sul terreno, con un bordo alto e ripido, ma poi diventava quasi piatta, ma dalla superficie tormentata. Intanto la pioggia era cessata, sebbene le nuvole nere continuassero a riempire l’intero celo ed occultassero il sole. Appoggiandosi al tronco di un albero bruciato e solo in parte risucchiato dalla collina, Likarayén superò il bordo della colata lavica e quindi risalì sino a quando si trovò sulla sommità della collina. Ora vedeva bene che era come un lungo fiume di roccia che risaliva, ripido e contorto, verso la sommità del vulcano, completamente visibile ai suoi occhi e non più nascosto dagli alberi. Alla sua sinistra vi era una grandissima distesa di acqua. Sembrava il mare, ma osservando meglio a Likarayén parve che fosse completamente circondato dai boschi. Dunque era un grande lago, il più grande che avesse mai visto. “Questo è il più grande lago di tutto il mapu” pensò Likarayén. Era difficile avanzare sulla colata: non tanto perché fosse ripida - era comunque assai ricca di appoggi per i piedi e di appigli per la mani - quanto perché sembrava il risultato di un enorme sconvolgimento. Inoltre la roccia presentava degli spigoli vivi molto taglienti, sicché ben presto i piedi della bambina sanguinavano abbondantemente, ed anche le sue gambe e le sue dita, in quanto spesso doveva aiutarsi con le mani per poter superare gli ostacoli. Eppure continuò ad avanzare, fino a quando si sentì sfinita. Allora sedette sulla roccia, sollevando la tunica per sentire meglio quel contatto con la madre-terra che lei amava tanto. Ed era un contatto diverso da ogni altro. Vivo. Con il suo corpo sentiva un tremolio incessante, parallelo al suono che udiva con le sue orecchie. Allora si distese supina per sentirlo meglio. Poi si risollevò per guardarsi intorno: non c’era assolutamente nessuno. Allora si tolse la pelle di puma e si sfilò la tunica di lana, rimanendo completamente nuda, e tornò a distendersi a faccia in giù sulla colata lavica, cercando di abbracciarla e di rendere il suo corpo il più aderente possibile alla roccia. Ora sentiva assai bene la voce del vulcano: le pareva che si rivolgesse a lei, che la chiamasse, che implorasse il suo nome. Le vibrazioni continue del suolo ed il tepore - sì, perché non era fredda, la roccia, ma tiepida! - penetravano nel suo corpo provocandole una sensazione che non avrebbe saputo descrivere, ma che le pareva meravigliosa.

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Rimase molto a lungo in quella posizione, distesa sulla colata lavica, sino a che fu quasi notte. Allora si rivestì e cercò un anfratto nella stessa colata - ne era assai ricca - e decise di trascorrere lì la notte. Nonostante la posizione incomoda, dormì profondamente. La pioggia che cadeva ad intermittenza non la infastidiva, ben protetta nell’anfratto in cui si trovava, né tanto meno lo faceva il freddo notturno, che, al contrario, il calore che emanava il cuore ancora incandescente della colata la obbligò a rinunciare alla sua pelle di puma. Al mattino seguente pioveva. Ciò non di meno Likarayén si sentiva impaziente di riprendere la sua strada verso la sommità del vulcano. Zoppicava. Ogni volta che appoggiava il piede sulla roccia tagliente e spigolosa le sfuggiva un gemito di dolore. Si sforzò di continuare a salire, ma non ne ebbe la forza. Allora dovette rinunciare e, anziché ridiscendere lungo la colata, l’abbandonò e raggiunse la pianura camminando attraverso il fitto bosco. Il terreno bagnato per la pioggia che cadde per tutta la giornata non la infastidiva, ma, al contrario, era un sollievo per i suoi piedi feriti e sanguinanti. Attraversò la vasta pianura, poi, molto faticosamente, risalì la collina di Hueñuhueñú e, quando già era buio, raggiunse la ruka dell’anziana vasaia. Il fuoco era acceso e da una pentola di terracotta appoggiata sulla brace si alzava un aroma di erbe profumate e di funghi secchi. Solamente ora Likarayén si rese conto di aver fame: era da due giorni che non mangiava assolutamente nulla. La vecchia, in silenzio, le riempì una ciotola di cibo e gliela porse. “Sono andata sul vulcano...”. “Lo so”. “Perdonami... non ti ho detto niente, prima, ma non volevo nascondertelo. E’ che mi sono messa a camminare, non pensavo di andare così lontano... credevo che sarei tornata prima di notte... è stato meraviglioso! Ho trovato un enorme serpente di roccia nera con il corpo caldo e con l’alito puzzolente che scendeva dalla bocca di Peripillán... l’ho abbracciato a lungo...”. “E’ pericoloso, quello che hai fatto, ma non potevi farne a meno. Adesso stenditi e lascia che ti curi quei tuoi piedi così malandati”. Quindi l’anziana le lavò la pianta dei piedi, staccando il sangue raggrumato delle numerose ferite; poi prese degli unguenti che aveva già preparato mentre attendeva il ritorno della fanciulla e cominciò a passarli con mano leggera sulla sua pelle, sui suoi piedi, ma anche sulle gambe e sulle sue mani. La bambina osservava serena i giochi di ombre e di luce che il movimento della fiamma disegnava sul volto coriaceo della vecchia, mentre i suoi occhi sorridevano ricordando il senso di profondo benessere che aveva provato abbracciando la colata lavica. * * *

Giunse la notte di We Tripantü. Il tempo era sereno, ma gelido. Aveva nevicato abbondantemente nei giorni precedenti e ora la neve era gelata formando una resistente crosta di ghiaccio sulla quale si camminava senza sprofondare, ma dove era facile scivolare malamente. Likarayén trascorse la notte insieme alla vecchia, fuori della ruka, attendendo il sorgere del nuovo spirito di Antü e del nuovo anno. Erano sedute comodamente su una grossa pietra piatta e asciutta, fianco a fianco, appoggiando le loro spalle alla parete di canne della capanna. Davanti a loro Peripillán spingeva i suoi bracci ardenti verso la pianura e verso il lago. Alla loro destra vie era la cordigliera andina ammantata di neve. Poi sorse il sole. Allora sulla cima del vulcano si scatenò una tempesta di esplosioni violente, mentre sulle scure colate si riversavano nuovi fiumi di fuoco. “E’ la sfida tra Peripillán e Ngenechén che non si placa mai” disse la vecchia. “Ma quando avrà termine questa rabbia?”, domandò Likarayén. “Mai. E’ una sfida eterna che non cesserà mai. E’ il destino di questi due spiriti ancestrali, i più luminosi e potenti. Resta lontana dal vulcano, Likarayén, che il tuo tempo non è ancora giunto”.

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A nulla valsero le richieste di una spiegazione. La vecchia non volle aggiungere altro, né quel giorno, né successivamente. Eppure, nonostante la minaccia presente in quelle parole, Likarayén continuava a sentirsi attratta in modo irresistibile dal vulcano. Si incantava ad osservarlo e si eccitava grandemente quando le eruzioni divenivano più violente ed intense. La neve si sciolse sulla collina, le fucsie rifiorirono e gli aironi colorarono di rosa, di bianco e di azzurro il fiume Petrohué. Già erano trascorse alcune giornate senza neppure una goccia di pioggia ed il grande vulcano sembrava più tranquillo. Allora Likarayén non resse più l’attesa, e tornò a risalire le pendici del Peripillán. Questa volta la bambina fu più rapida, conoscendo già il cammino. Portò con se un poco di cibo, della carne seccata al sole, e due pezzi di cuoio da mettersi ai piedi, così da poter camminare meglio sulla tagliente colata lavica. Era ancora alto, il sole, quando raggiunse il punto dove aveva trovato riparo per la notte la volta precedente, e proseguì decisa verso la sommità del vulcano, ancora lontana. Ora la roccia non emanava più tepore alcuno, ma il brontolio del vulcano era sempre lo stesso: profondo, minaccioso, imperscrutabile, ma invitante. La sera si avvicinava, ma vi era ancora luce. Sedette sulla roccia, non tanto perché fosse stanca - l’eccitazione che provava le impediva di sentire la stanchezza e neppure la fame - quanto per guardarsi intorno, un po’ alla ricerca di un riparo per passare la notte, un po’ per il piacere di guardare. Era già da un bel pezzo che risaliva il fianco della montagna seguendo l’andamento della colata lavica. Quando iniziò la risalita del vulcano, il sole doveva ancora raggiungere il punto più alto, e Likarayén era convinta di riuscire a raggiungere la sommità della montagna. Ma ora, che già si avvicinava la sera, vedeva bene quanto essa fosse ancora distante. Spesso la vetta infuocata spariva dietro una gobba della colata: la superava di slancio, convinta di raggiungere ormai il cono finale, ma invece le appariva un’altra gobba, e poi ancora un’altra, mentre la cima sembrava allontanarsi. “Eppure pensava la ragazzina - sono molto in alto, non avrei mai creduto che le montagne fossero così alte”. Infatti sotto i suoi piedi si distendeva la pianura solcata dal fiume Petrohué, che formava un grande angolo, e la collina di Hueñuhueñú, ora, sembrava così piccola, stretta com’era tra una montagna alla sua sinistra, ed un altro alto vulcano - la vecchia vasaia le aveva detto che si chiamava Calbuco - alla sua destra. Ed ora vedeva anche tutto il grande lago ai piedi del vulcano. Anche di questo, adesso, ne sapeva il nome: era il lago Llanquihue, grande come e più di un mare. Ai lati della colata, il bosco ormai diventava rado e tra le grandi conifere vi erano ampie radure erbose. “Che bello!” disse Likarayén ad alta voce, e si guardò intorno, quasi timorosa di vedere qualcuno. Un anno intero era trascorso da quando era fuggita dalla piccola laguna di Llancahue, ed ancora altre quattro lune: ma in tutto quel tempo aveva solamente visto la vecchia vasaia. Eppure si accorse, osservando attentamente, che lungo le rive del grande lago vi erano numerosi punti dai quali si innalzavano sottili fili di fumo. Dunque vi erano capanne ed anche altre persone. Ma Likarayén amava la solitudine, e quasi temeva di incontrare altre persone, non in quanto potessero farle del male - questo non poteva neppure immaginarlo - quanto poiché avrebbero interrotto la sua vita solitaria. Fu con disappunto, quindi, che vide il profilo di un uomo, non molto lontano da lei, al bordo della colata lavica ed un poco più in basso del luogo dove ora stava riposando. Si stupì per non averlo visto prima, ma la sua attenzione era talmente concentrata verso la vetta del vulcano, anche quando essa non era visibile, che qualunque altra direzione perdeva importanza per i suoi occhi. Pensò di far finta di niente e proseguire per la sua strada. Ma camminando sulle rocce instabili sapeva di fare rumore e quindi sarebbe stata comunque veduta. Tanto valeva salutare: “mari-marí, lamngén”. Ma l’uomo rimase

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immobile e silenzioso. “Mari-marí, lamngén!” ripeté nuovamente, parlando molto più forte. Ma ancora una volta non vi fu risposta alcuna, e neppure il minimo segno di vita. Eppure l’uomo stava ben dritto sulle sue gambe, anche se di spalle, e, in quella posizione, non dormiva certamente. Likarayén lo osservò meglio. L’aspetto era strano: soffiava un poco di vento, eppure il suo poncho rimaneva assolutamente immobile. Non solo: tutta la figura era bruna, con un colore identico a quello della lava, anche le gambe nude. Incuriosita, la ragazzina si avvicinò per vederlo meglio. Quando si trovava a pochi passi, solo allora si rese conto che l’uomo era di pietra! Le parve, per lo spavento, di diventare di pietra anche lei. E infatti rimase altrettanto immobile per un lungo tempo, mentre la sera scendeva. Poi, però, si fece coraggio e si avvicinò sin quasi a toccarlo. Quindi si portò sul bordo della colata, ponendosi di fronte all’uomo di pietra. Nonostante la paura, non poté fare a meno di allungare la sua mano sino a toccarlo. “E’ di roccia!” disse sottovoce quando le sue dita sfiorarono il viso pietroso. Ma quando allontanò la sua mano, vide che nel punto esatto dove l’aveva toccato, la pietra cominciava a trasudare sangue, come se fosse rimasta ferita. Allora Likarayén si girò e corse incespicando verso il basso, raggiunse immediatamente il bosco accanto alla colata e continuò a correre pazza di terrore, sino a quando inciampò in una zolla di terreno e cadde supina. Rimase immobile, con la faccia contro il terreno, senza più il coraggio di rialzarsi e neppure di muoversi, terrorizzata all’idea di chi o cosa potesse esserci alle sue spalle. Fu allora che una voce sottile disse: “finalmente, pichi domo! quanto sei in ritardo! E’ già da tanto tempo che ti aspetto e ormai dovresti già aver imparato a tessere il tuo trariwe”. * * *

Likarayén rimase immobile. Non osava neppure respirare. “Alzati! Vuoi trascorrere così tutta la notte? Vuoi andare sul vulcano quando non è ancora giunto il tuo tempo, e poi basta un mankián per riempirti di terrore... Muoviti, sciocca, che io ho freddo e non ho più nessuna voglia di aspettare il tuo comodo”. Ma la bambina continuava a restare supina sull’erba. Quando si sentì toccare da un dito sottile e leggero sulla spalla, rabbrividì e cercò di farsi ancora più piccola e di schiacciarsi sulla terra, quasi come per penetrarvi. Poi sentì che qualcuno - o qualcosa - sedette al suo lato e le passava sui capelli quel suo dito così sottile e leggero. “Non devi aver paura, del mankián: non ti può fare nulla. Sta solo scontando la sua pena. Su, girati!” e mentre diceva queste parole, afferrò con forza la testa della bambina e l’obbligò a girarsi. La fanciulla dagli occhi di fiamma intravide alla debole luce della luna - ormai la notte era sopraggiunta - una vecchia incredibilmente magra ed alta, china su di lei. In tutta la sua vita, seppure ancora breve, Likarayén non aveva mai visto un essere umano così brutto. Altissima e sottile, dinoccolata sino a sembrare quasi disarticolata, la vecchia sembrava avere l’età delle montagne, come se fosse essa stessa una lituche. Sorrideva, o almeno sembrava che volesse sorridere, ma era così brutta che il sorriso sul suo viso si trasformava in una orribile smorfia. Ciò nonostante non suscitava timore. Forse perché il suo fare era sì fermo e deciso, ma anche gentile e paziente; o forse perché sembrava così minuta, nonostante la statura, da non poter essere pericolosa neppure se lo avesse voluto. “Adesso alzati e vieni con me, che si è già fatto fin troppo tardi. E’ già notte, e non arriveremo alla mia tana prima dell’alba”. Afferrò la mano della bambina e la obbligò a rialzarsi. Quindi s’incamminò al buio, tenendola solidamente ed aiutandola a camminare verso il fiume della pianura sottostante. Camminarono a lungo, durante tutta la notte. Al principio attraversando il fitto bosco tra la pendice del grande vulcano e quella, molto più piccola, della colline di Hueñuhueñú, ma poi continuarono ancora a camminare a lungo,

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in una direzione diversa e sempre nella pianura. Poi il loro andare cominciò a risalire il fianco di una montagna. Peripillán era sempre lì, di fronte a lei, con la sua vetta infuocata e le lunghe colate di fuoco che, come tentacoli, abbracciavano la sua grande mole innevata. Il vulcano, tuttavia, era visibile solamente di quando in quando, grazie ad una radura tra gli alberi. Quando sorse l’alba, stavano ancora salendo sulla montagna, ora camminando sempre sulla neve che diveniva via via più profonda. La vecchia vestiva solamente una corta tunica dall’aspetto leggero che la faceva apparire ancora più magra e dinoccolata, ma non sembrava accorgersi del freddo. Camminava velocissima, quasi trascinando Likarayén la quale faticava a tenerle il passo. Poi pervennero ad una zona ricca di rocce, dove gli alberi si facevano più rari e bassi. Infine raggiunsero l’ingresso di una grotta nella roccia. Dovevano essere molto in alto, perché, ora che gli alberi non coprivano più la vista, lo sguardo spaziava molto lontano. Likarayén vedeva sempre il vulcano davanti a sé, ed alla sinistra una grande parte del lago Llanquihue, mentre alla sua destra i primi raggi del sole sorgevano dietro la cordigliera innevata ed illuminavano il luogo dove si trovavano le due donne e la vetta del Peripillán, mentre i grandi boschi sottostanti ed il lago erano ancora immersi nell’oscurità. “Eccoci arrivate” disse la vecchia spingendo Likarayén nella grotta. “Arrivate dove?”, chiese la ragazzina. “Che domanda sciocca, che fai! Siamo arrivate nella nostra tana, non lo vedi?, vicini alle vetta del vulcano Calbuco” rispose quella strana figura. “Ma tu chi sei?” chiese finalmente la bambina. “Iñche ta Lalén Kusé”. “Tu? Ma allora ti ho finalmente trovata!”. “No, guarda: sono io che dico finalmente, non tu, presuntuosa ragazzina, perché sono io che ho trovato te! Ma lo sai che era già da un bel po’ di tempo che ti aspettavo. Fammi pensare... sì, è da almeno un anno. Ma si può sapere, dove ti eri ficcata?”. Likarayén rimase in silenzio, non sapendo cosa rispondere al rimprovero della vecchia. Sedettero sulla nuda terra, all’interno della grotta. Era ghiacciata. L’imboccatura era ricamata da innumerevoli colonne di ghiaccio, che scendevano dritte verso il pavimento, spezzate all’altezza della vecchia affinché non ostacolassero il passaggio. La grotta era immersa nell’oscurità e gli occhi rossi della bambina, non ancora abituati al buio, non vedevano nulla. Ma essa era comunque assai più attratta dalla visione di Peripillán, che si stagliava nitido oltre l’apertura della grotta, incorniciato dai ghiaccioli che scendevano dalla volta, mentre la luce del sole scendeva ad accarezzare i fianchi del vulcano. Nonostante il terrore che le aveva suscitato l’incontro con il mankián e la stranezza della vecchia che l’aveva condotta alla sua tana, come la chiamava lei, il fascino della montagna infuocata non era venuto a meno, o, più esattamente, il richiamo dello spirito imprigionato nelle sue viscere. Intanto la vecchia aveva acceso il fuoco sul fondo della caverna. Ora la grotta era illuminata. Formava una grande cupola sopra di loro, con una fessura nell’estremità opposta all’ingresso, dove andava a perdersi il fumo del focolare. Era disadorna. Non si vedevano giacigli, ne pelli, ne recipienti di sorta. Solamente alcuni telai: alcuni da montare, altri con la tela iniziata, altri pronti per ricevere l’ordito, altri con un tessuto ormai completato. Likarayén non aveva mai visto dei telai così perfetti. Si avvicinò a guardare il tessuto ormai finito: era splendido. Grazie al nodo finissimo, risultava sottile e leggere come il piumaggio di un colibrì, ed il filo di lana, anch’esso di incredibile, finezza, era intrecciato con le piume di dieci uccelli, o molti di più, tutti dai colori diversi. E i disegni! Non poteva credere a tanta bellezza. Pensò alle tele di Millaray, che tutti ammiravano così tanto, ma queste erano di gran lunga superiori per qualità di fattura e per accostamento dei colori. Poi Likarayén toccò il filo con il quale veniva realizzato il

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tessuto: era leggerissimo, talmente sottile da risultare persino poco visibile, proprio come il filo di un ragno, e come questo era altrettanto leggero e lucente. Likarayén si voltò verso la vecchia. “Lalén Kusé, ragno vecchio. Sembra proprio un grosso ragno!” pensò osservando i suoi arti così lunghi e sottili ed il suo corpo minuto ma tondeggiante, dal quale sembravano avere inizio quegli arti dinoccolati, proprio come dal corpo di un ragno hanno inizio le sue otto zampe. Poi tornò ad osservare il tessuto sul telaio. “Sembra fatto veramente con il filo di un ragno, colorato chissà come...” diceva silenziosamente a se stessa mentre accarezzava ammirata ed incredula la tela. “Ma sei tu che tessi e che fili in questo modo?” domandò infine alla vecchia. “Sciocca pichi machi: credi forse che qualcun altro possa tessere in questo modo? Solo io, la vecchia ragna, ne sono capace. Smettila una volta per tutte di fare domande stupide e di perdere tempo. Ne hai già perso troppo e mi hai fatto aspettare più di quanto era giusto. Sono irritata con te. Ora vieni qui e mangia”. E Likarayén non osò aggiungere più nulla: si avvicinò alla vecchia, sedette accanto a lei e mangiò gli strani semi che ella le offrì. Erano giallicci come il corpo della larva di qualche insetto, ma molto più sodi. Il loro sapore era molto gradevole. “Vedo che ti piacciono i ngülliw: meglio così, perché ne dovrai mangiare parecchi” disse la vecchia mentre porgeva alla ragazzina un’altra manciata di questi semi sconosciuti. Questa avrebbe voluto chiedere che cosa fossero, ma non ne ebbe il coraggio e rimase in silenzio. “Da quanto tempo porti i chaway?”. La domanda della vecchia giunse improvvisa a rompere il silenzio. Likarayén dovette pensarci sopra: “dopo il katán pilún la marea mi ha trascinata via da Caguach...”. “Non è stata la marea!” l’interruppe Lalén Kusé. “...e la wala mi ha accolto a Llancahue e mi ha tenuto con lei per un intero anno. Poi sono arrivata dalla vecchia-gambero, sulla collina di Hueñuhueñú che resta...”. “So benissimo dove si trova!”. “...e sono rimasta... fammi pensare... era la stagione della neve... poi tutte le stagioni si sono alternate, poi è giunto un nuovo We Tripantü, l’ottavo per me, e poi la stagione della neve ed è passata e sono andata sul vulcano...”. “Non c’è bisogno di altro. Dunque tra otto lune avrai nove anni, e magari non sai ancora neppure montare il telaio! Sei una pichi domo-machi, ma non sai niente di niente! Sei una stupida”. Likarayén fece per protestare, ma non riuscì a proferire neppure una sola parola. “Zitta! Non fare domande e parla solo quando ti interrogo! Non hai proprio imparato niente, nella vita, neppure come ci si comporta davanti ad un anziano. Si tace sempre, ecco come ci si comporta, e si parla solamente quando si viene interrogati!”. Likarayén tacque, ma la trapassò con i suoi occhi incandescenti, penetrando sino nel più profondo della sua anima. E vide che la vecchia era buona. Ma neppure allora abbassò gli occhi: continuò a fissarla con aria di sfida, anche se nel più assoluto silenzio. La vecchia si mise a ridere. “Credi di farmi paura? O forse vuoi sfidarmi? Guardalo, lì fuori: anche lui ha voluto sfidare Ngenechén - e intanto ammiccava al vulcano, ormai completamente illuminato dal sole, che oltre l’ingresso della grotta imponeva la sua maestosa figura imbiancata di ghiaccio solcato dal rosso della lava e incupito dalle nuvole di vapore che si sollevavano - e ora eccolo lì, imprigionato nelle viscere del miñchenmapu, insieme ai wekufe, i soli compagni di sventura che gli sono rimasti. Non sfidarmi, bambina, non sfidarmi mai”. Likarayén rimase in silenzio, ma non abbassò lo sguardo e continuò a fissare intensamente la vecchia ragna. “Ka eimi ngeimi lalén kam kusé-domo? ma tu sei un ragno o una vecchia donna?”. La vecchia rise di nuovo. “Ti ho già detto che le domande le faccio io. Tu non sai niente: sai solo fare domande stupide. Dici che la wala e Rey Kusé ti hanno insegnato. E che cosa?”. Likarayén rimase pensierosa. Le sembrava che queste due figure le avessero

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insegnato tante cose - era sicura che così fosse! - ma ora le sembrava così difficile rispondere a questa domanda. Esitò a lungo, prima di rispondere. Non voleva sentirsi dire ancora una volta che era una stupida. “La Pincoya mi ha insegnato che le cose non sono mai ciò che sembrano, che le cose veramente importanti sono quelle che non si vedono, e che il seme cresce perché il sole lo ama ed è l’amore che lo fa crescere. E mi ha anche insegnato che è bello sentire: più che vedere” finalmente rispose, ed aggiunse ancora: “mentre la vecchia-gambero mi ha insegnato a dare una forma ai miei pensieri usando le mie mani, e in questo modo a rendere visibile ciò che non si vede. E poi Millaray, la mia mamma...”. “So benissimo chi è Millaray, non hai bisogno di dirmelo: io so tutto!”. “...Millaray mi ha insegnato a rispettare la madre terra, ad amarla, a chiederle perdono prima di ferirla aprendo il solco o cogliendo il suo frutto, ad essere fedele all’admapu, ad essere fiera...”. “Non è Millaray che ti ha insegnato ad essere fiera. Lo sei e basta. Ma a tessere, sei capace? Tra un po’ avrai nove anni, dovresti già indossare la tunica ed i trariwe che tu stessa ti sei tessuta...”. Ma la bambina rimase muta e, questa volta, abbassò gli occhi. “Ho capito - continuò la vecchia ragna - non sei capace neppure a disporre la trama e l’ordito sul telaio. Comunque forse non hai proprio perso interamente il tuo tempo. Qualcosa hai imparato: dalla wala, da Rey Kusé e anche da Millaray. Ora rimani qui seduta e non farti distrarre dalla vista del vulcano e ascolta con molta attenzione ciò che ti dico. Ora sei solo una pichi-machi, ma un giorno dovrai essere una machi vera ed allora devi sapere quanto corrisponde. Quindi ascoltami bene”. E, dopo una breve pausa, la vecchia ragna cominciò a raccontare le cose dei vecchi tempi, parlando con fare grave nonostante la sua vocina esile e l’aspetto minuto dei suoi arti. “Un tempo, ma era un tempo molto antico, dicono che in queste terre il serpente Kaikaivilú faceva innalzare le acque, mentre che il serpente Tentenvilú invitava i mapuche a salire sulla sua montagna, e quelli che erano travolti dalle acque li salvava convertendoli in pesci. Ma poi i mapuche compirono il sacrificio dovuto e man mano che le acque andavano ritirandosi essi tornavano a popolare queste vallate - ma tutto questo succedeva tanto tempo fa - perché i mapuche sono i figli e i padroni della terra e dei boschi, sin da prima che esistesse la memoria, ma solo se obbediscono alle leggi dell’admapu. Allora impararono a trattare le piante come se fossero le loro sorelline, perché esse sono pure e non hanno cattivo odore e non hanno bisogno di lavarsi come i mapuche, ma solo diffondono fragranza e quando le picchiamo non possono difendersi: se invece le trattiamo con affetto, esse curano le nostre malattie e ci danno alimento ed anche travi per costruire le nostre ruka e paglia per i nostri tetti, e ancora legna per i nostri focolari e aste per le nostre armi. Per questo i mapuche attendono che i frutti siano maturi, prima di mangiarli o utilizzarli per preparare la chicha, e gli alberi ce li offrano con piacere, perché così noi portiamo lontano i semi dei frutti e da questi sorgono nuovi virgulti; per questo quando abbiamo necessità di tagliare un albero vecchio piantiamo al suo posto un albero giovane, e se è un albero che ci da i suoi frutti, allora ne piantiamo due; per questo insegniamo ai nostri figli a rispettare i fiori, perché essi hanno vita, e a recidere solo quelli che sono bene aperti e prossimi a sfiorire; per questo impararono i nostri antenati, e lo trasmisero a noi, che anche gli animali ci sono fratelli e perciò comprendiamo la loro voce e dal loro sguardo comprendiamo se sono tristi, malati, stanchi; per questo ammiriamo le abitudini degli animali, perché i maschi non abusano delle femmine quando sono pregne, né le femmine allora accettano il maschio, e partoriscono i loro cuccioli in primavera, quando il bosco recupera la sua forza, e perché gli animali non si ubriacano con la chicha, e non la bevono neppure quando la sete li conduce alla morte, e non mangiano il peperoncino e nessuna delle cose che non devono essere mangiate, neppure quando soffrono la fame; per questo

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diciamo che gli animali sono migliori degli uomini, perché non fanno guerre tra loro e solo si uccidono l’un l’altro per la necessità di mangiare, e non aggrediscono se non quando vengono aggrediti, e ci danno la loro carne, il loro sangue, la loro lana, il loro grasso, il loro latte, le loro ossa; per questo non dobbiamo mai colpire un animale senza motivo, né uccidere le femmine che possono ancora figliare, né mangiare la carne degli animali in calore; per questo se dobbiamo uccidere un animale, prima di sgozzarlo lo stordiamo con una bastonata; per questo gli animali sanno che noi siamo i loro fratelli, e non fuggono da noi e si avvicinano ad offrirci i loro servizi; per questo quando le acque tornarono a rioccupare i loro alvei, i primi mapuche impararono a costruire le loro ruka vicino alle sponde dei fiumi, a riconoscere le sorgenti segrete degli anfratti, a scavare pozzi profondi, ad essere amici dell’acqua e a proteggerla e a mantenerla sempre pulita5”. Likarayén era rimasta incantata dal bel parlare di Lalén Kusé. Ascoltandola, a poco a poco si era sentita soffocare dall’emozione, senza comprenderne la ragione. Poi capì. Quelle parole assomigliavano tanto ai discorsi che le faceva Millaray quando, insieme, andavano in campagna, l’una intenta nell’impegno della semina o del raccolto, l’altra ad ascoltare e imparare osservando quanto faceva la sua madre-bambina. Era da tanto tempo che non ricordava così distintamente Millaray ed ora un groppo le aveva chiusa la gola e quasi non le permetteva di respirare. I suoi occhi diventarono gonfi e lucidi per le lacrime trattenute. La vecchia ragna se ne accorse: “volevi molto bene a Millaray, non è vero?”. “Oh, si, tanto!” rispose faticosamente la ragazzina, ma lo sforzo di pronunciare quelle poche parole rese vano quello opposto per trattenere le lacrime. Temeva di essere rimproverata, ma la vecchia tacque. Infine Likarayén si calmò e allora fece quella domanda che premeva la sua lingua per uscire: “ma tornerò da Millaray?”. La porse esitando, forse timorosa per la risposta che avrebbe ricevuto. Ma la vecchia ragna ancora una volta si limitò a ripetere “le domande le faccio solamente io”, ma lo fece con una insolita dolcezza che contraddiceva la sua voce ed il suo aspetto. Solo più tardi aggiunse: “quando sarai in grado di capire le domande che fai, non le farai più, perché sarai tu stessa a darti una risposta”. Intanto la giornata era trascorsa ed il freddo e la sonnolenza si facevano gravi: la bambina aveva trascorso l’intera notte camminando e buona parte della giornata ad ascoltare quanto la vecchia ragna le diceva, ma ora faceva fatica a reggere. Ma una violenta scossa del terreno la fece sussultare, e ad essa ne seguirono altre, via via meno forti. Poi si sentirono i rombi delle valanghe di neve, ghiaccio e pietre che il breve terremoto aveva causato. “Scuoti le tue membra, Peripillán! Scuotile pure, che a nulla ti potrà giovare; l’ira di Ngenechén ti perseguiterà per sempre e tu crederai di sfidarlo, ma in realtà io ti dico che tu sarai solamente lo strumento di Ngenechén, null’altro che uno strumento delle sue mani generatrici”. Così parlò la vecchia ragna e si mise a ridere beffarda ammiccando al vulcano che rosseggiava oltre l’ingresso della grotta, mentre Likarayén l’osserva stupita, mai più immaginando che potesse una creatura vivente essere così beffarda nei confronti di un pillán così grande e potente. Ma intanto la scossa aveva destato la ragazzina dal suo torpore ed ora osservava attenta il vulcano così vicino. Rimase a lungo ad osservare la lava che scendeva lentamente lungo i fianchi. Infine fu colta dal sonno. Allora si voltò per cercare un giaciglio all’interno della grotta, o qualcosa che gli assomigliasse. Cercò con gli occhi Lalén Kusé, per vedere dove si fosse distesa. La vecchia ragna dormiva profondamente, ma non si era distesa. Al contrario. Con la sua mano destra afferrata ad un appiglio della volta della grotta, rimaneva appesa 5

da Eduardo Labarca, Butamalón, ed. Anaya, Madrid 1994.

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leggermente sollevata dal suolo e dormiva in quell’incredibile e scomoda posizione. “Ora sembra proprio un ragno!” pensò Likarayén intimorita, e si distese sulla terra della caverna, avvolgendosi alla meglio nella sua pelle di puma. * * *

“Questo telaio più grosso, difficile da smontare, si chiama witrál. E’ quello più importante e con questo si possono tessere delle grandi tele. Questo più piccolo, invece, guarda come si smonta e rimonta facilmente - e intanto ne smontava e ne rimontava le parti - è un kelgo e va bene per fare piccole tele, oppure i trariwe. E tu smettila di chiamare trariwe qualunque fascia. Va bene chiamare così quella che dovresti avere ai fianchi - a proposito, perché non la usi? l’hai forse persa? - mentre quella che poni sulla fronte per fermare i capelli si chiama trarilonko”. Il mattino era già inoltrato, ma la grotta rimaneva scura: una pioggia fitta e triste aveva posto fine alle soleggiate giornate precedenti. La vecchia aveva dato a Likarayén una tazza di latte caldo dal sapore molto dolce (“ma dove l’avrà preso?” si chiese Likarayén, preferendo tuttavia non fare domande) e una manciata di saporiti ngülliw. Quindi si era impegnata subito ad insegnare alla ragazzina l’arte della tessitura. “Perché tessi una tunica?” domandò senza attendere una risposta alla sua precedente domanda. “Per coprirmi, per riscaldarmi, per proteggermi dalla pioggia e dal vento freddo” rispose Likarayén. “Sciocca. Per questo va benissimo una pelliccia qualunque. Va anche meglio. Perché gli uccelli hanno le piume colorate?”. “...Non lo so”. “Perché con i loro colori dicono ancora più cose di quante ne narrino i loro canti. Ecco perché. Il tuo trariwe e la tua tunica sono tessute con tanti disegni e colori perché devono cantare come gli uccelli del cielo e del mare, ma anche come una wala sul suo scoglio piatto. E tu, sciocca, che credevi che un tessuto servisse solamente per coprirsi e per ripararsi dal freddo...”. “Ho capito. E’ come il sole: mentre sembra che sia il suo calore a dare la vita al seme, invece è il suo amore. Il tessuto sembra che debba scaldare con lo spessore della sua lana, e invece deve rallegrare con la bellezza dei suoi colori”. La vecchia ragna la osservò fissamente, rimanendo per un poco in silenzio. Poi, finalmente disse: “Bene, Likarayén. Non sei poi così sciocca come sembri e forse se capace ad ascoltare e ad imparare qualcosa, mentre ascolti”. Lo disse bruscamente, quasi con durezza, ma per la ragazzina quello fu il più bel complimento che aveva ricevuto e con i suoi occhi sorrise felice alla vecchia ragna. “Ricordati bene che prima di iniziare a filare la lana o ad armare la trama sul telaio, devi chiedere sempre l’aiuto di chi ti può aiutare”. “E chi è?”. “Ma sono io! chi altri potrebbe mai aiutarti meglio di me? Allora, adesso impara bene ciò che devi chiedere e ripeti con me: Lalén Kusé, piccola tessitrice, con le mani rugose per il tanto filare, tu che passi i giorni e le notti stirando il vello di lana, unendo la lana nera e bianca, tua unica cura, per poi tingerla con i tanti colori che hai scoperto nelle piante, nella terra e nel mare. Donna, madre, ragna che intrecci ed annodi un filo di maki con un filo di killay, per offrire un riparo ai tuoi figli che ti stanno osservando. Donna, una ragna vecchia ti ha insegnato a filare e a tessere,

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e ti ha reso leggero il lavoro: e tu hai compreso che quegli stessi segreti dovrai ora insegnarli a questa giovane ragna che ti sta osservando6”. Dopo che Likarayén ebbe ripetuto ogni frase, la vecchia ragna la invitò ad uscire con lei. “Non restare incantata a guardare il vulcano” le disse bruscamente mentre scendevano lungo il pendio reso scivoloso dalla pioggia. Più a valle, i rami degli alberi erano carichi di germogli, lo si capiva dal pallido verde che ricopriva i rami scuri, ma dove si trovavano loro, molto in alto, la neve era ancora abbondante e la fioritura lontana. Non dovettero camminare molto a lungo. Giunsero in un luogo dove c’era un anfratto roccioso, mentre una lunga barriera di pietre sovrapposte racchiudeva lo spazio antistante, al riparo dell’anfratto vi erano alcuni guanachi insieme ad un paio di vigogne. La vecchia rimosse il quincho che chiudeva il recinto e fece entrare Likarayén insieme a lei. La ragazzina era rimasta a bocca aperta. Non aveva mai visto così tanti guanachi addomesticati (e neppure liberi, poiché non era mai andata nella cordigliera). “Kiñé, epú, külá...” ma quando giunse a marí s’interruppe e ancora rimanevano alcuni animali da contare. “Ma allora tu sei un grande lonko!” esclamò rivolgendosi a Lalén Kusé. “Ci mancherebbe anche un domo-lonko per irritare gli spiriti degli antenati ancora di più di quanto già lo sono! Sono Lalén Kusé, te l’ho già detto, Lalén Kusé e basta. Ma come credi che potrei fare la tessitrice se non avessi il mio gregge? Dove troverei la lana? Non hai forse bevuto il latte, quando ti sei svegliata? Da dove credi che venga? Dal vulcano? O credi che dalle rocce del Calbuco sgorga latte invece di acqua? Adesso smettila di dire cose sciocche e di contare. Vieni qui e impara come si riconosce il vello”. Le lunghe e sottili mani della vecchia presero quelle piccole e delicate di Likarayén e le insegnarono a percorrere il dorso spigoloso ed il ventre morbido del guanaco, a riconoscere le diverse qualità di lana, a comprendere se l’animale era sano o malato, a rivolgersi al camelide con affettuoso rispetto. Lalén Kusé sorrise dentro di sé notando l’estrema naturalezza con cui la bambina si rivolgeva alla bestia, ma, soprattutto, la docilità che questa dimostrava di fronte a quella figura, minuta ma estranea, dagli occhi di fiamma e dai capelli incandescenti come la brace ardente. Tuttavia non si stupì: da sempre sapeva che un giorno una giovanissima machi dai capelli e dagli occhi di fiamma avrebbe appreso da lei l’arte della tessitura e, con essa, avrebbe iniziato il lungo percorso della conoscenza sciamanica ed avrebbe trovato il suo filew, ciò che l’avrebbe condotta alla consapevolezza del suo essere machi. Dopo che ebbero trascorso un buon tempo a riconoscere le caratteristiche degli animali e del loro vello, Lalén Kusé condusse la bambina presso un altro anfratto, molto vicino al recinto degli animali. Anche questo era ben chiuso con un quincho di canne. Prima ancora che venisse aperto, la bambina percepì la fragranza del fieno. “Ora darai da mangiare alle bestie, due volte al giorno, usando questo fieno sino a quando non giungerà il mese di wewl-küyén, quando la neve si sarà allontanata ed i prati saranno nuovamente verdi e ricchi di fiori. Io, intanto, ora torno al mio telaio”. “Ma tu tessi sempre? sei sempre stata una tessitrice?” le chiese Likarayén che non avrebbe voluto perdere la compagnia della vecchia.

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da Clorinda Curninao R., Lalén Kuzé, araña vieja, riportato da Mauricio Osorio P. in Textil mapuche, las tramas de un aprender femenino, Excerpta, n. 5, luglio 1996, Santiago del Cile.

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“Hai di nuovo fatto una domanda sciocca, Likarayén. Certo che tesso sempre e che ho sempre fatto la tessitrice, altrimenti non sarei Lalén Kusé, la vecchia ragna”. Ma la ragazzina questa volta s’incupì, risentita e imbronciata per l’ennesimo rimprovero ad una sua domanda. “Non ti chiederò più nulla, così non farò più domande sciocche”. “Benissimo, Likarayén, fa pure. Così rimarrai per sempre una sciocca”. La vecchia e la ragazzina rimasero per un poco in silenzio. Poi Lalén Kusé riprese il filo del discorso: “ascoltami, Likarayén. Ci sono persone che fanno tante domande sciocche, ma sanno ascoltare ciò che uno risponde, e così a poco a poco capiscono e non fanno più domande sciocche e diventano sagge. Altre, invece, non fanno mai domande sciocche: ma solamente perché non fanno domande di sorta. Queste sono le persone che rimarranno sciocche per tutta la loro vita. Adesso tocca a te, decidere. Se farai molte domande, anche sciocche, io ti risponderò e imparerai e diventerai saggia. Oppure non domandarmi più nulla, ma allora vattene perché io non so che farmene di te, e rimarrai per sempre una bambina stupida e ignorante”. Likarayén ascoltò in silenzio, con la testa china. “Scusami, Lalén Kusé. Io non voglio restare una bambina stupida e ignorante. Voglio imparare, anche se tu mi dovrai rimproverare perché ti faccio delle domande sciocche”. La vecchia non rispose nulla, ma con i suoi occhi sorrise alla ragazzina, proprio nello stesso modo come lo faceva anche lei. “Come fai a sapere tante cose?”. Likarayén fece di proposito una domanda, per mostrare che la sua irritazione era passata. “Perché sono molto vecchia”. “Sei molto vecchia? intendo dire, proprio molto?”. “Più vecchia di qualunque uomo o donna, perché io c’ero già sin dal tempo dei lituche, e ho sempre fatto la tessitrice, perché tessere è il destino della vecchia ragna, così come il tuo è di essere una machi e di fare onore al tuo nome”. “Cosa vuol dire che devo fare onore al mio nome?”. “Ti chiami Likarayén, non solo perché sei bella come un fiore e perché la tua pelle è bianca come la luce di Küyén, ma anche perché i fiori portano lontano i messaggi”. “Non capisco...”. “Ma capirai. Quando sarà il tuo momento capirai”. * * *

Venne wewl-küyén e la neve si sciolse, ma non completamente: verso la sommità del Calbuco rimanevano ancora ampie chiazze di neve, ben visibili anche da lontano, e, proprio di fronte a loro, la sommità del vulcano restava completamente ammantata di bianco ed il ghiaccio scendeva sui suoi fianchi, prolungandosi poi verso valle con lunghe code crepacciate. I prati si riempirono di fiori e anche le bacche cominciarono ad apparire sui rami, tra le foglie nuove. Likarayén conduceva al pascolo il gregge di guanachi e raccoglieva il vello che, sin dall’anno precedente, trovava impigliato tra i rami spinosi dei cespugli dove gli animali brucavano. Lalén Kusé voleva bene a quella ragazzina dagli occhi e dai capelli rossi. “E’ orgogliosa, ma sa ascoltare - pensava - ed è battagliera come un cucciolo di leopardo, ma sa ubbidire”. Affezionarsi ad una bambina era una esperienza nuova per la vecchia donna-ragno. A quante giovani donne aveva insegnato l’arte della tessitura, sin dal tempo dei primi esseri umani! Ma per lei erano tutte uguali, niente di più che delle giovani apprendiste. Le apprezzava in quanto imparavano a porre nel loro tessuto la loro anima; oppure le allontanavano quando i nodi di lana si intrecciavano nella struttura della tela, senza arricchirla di sentimento ed i colori esprimevano solamente il desiderio di decorare il poncho o la tunica. Ma quella ragazzina era diversa. Lo sapeva, sin da quando un perimontún le aveva mostrato Likarayén ancora ospite presso la wala e le aveva svelato che il suo compito sarebbe stato quello di insegnarle a tessere un trariwe molto particolare, quello che mai

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nessuna giovane e nessuna vecchia aveva tessuto. Lalén Kusé aveva compreso che un trariwe così straordinario doveva essere destinato a una creatura con un destino altrettanto straordinario, un destino che avrebbe avuto bisogno di quel trariwe per poter essere compreso e compiuto in maniera consapevole. Un destino tragico: Lalén Kusé sapeva anche questo. “Vorrei che non fosse così triste il filew che questa bambina deve percorrere - pensava - che bello se potesse rimanere con me per sempre, se potesse diventare la Lalén Pichi, una giovane ragna che mi aiuti ad insegnare alle giovani donne l’arte del tessuto. Ma non è questo il suo destino, così come non è nel mio destino avere una Lalén Pichi al mio fianco”. Likarayén era soprattutto una pastorella che curava un gregge di guanachi e di lama. Stava volentieri insieme agli animali: mentre con Lalén Kusé era piuttosto silenziosa (come con qualunque essere umano, ma questo la vecchia ragna non lo sapeva), con gli animali parlava, cantava, giocava, ed essi sembravano ascoltarla volentieri e capirla. Durante il giorno, l’una e l’altra erano impegnate nei loro compiti, sicché le occasioni per chiacchierare erano poche. Ma alla sera, oppure quando la pioggia incessante impediva ogni attività all’aperto, allora la vecchia ragna poteva dedicarsi ad introdurre Likarayén nell’arte della tessitura, ed allora c’era anche lo spazio per lunghi colloqui. Questi, spesso, si prolungavano per buona parte della notte. Allora le due donne si sedevano vicino all’imboccatura della grotta e, mentre erano immerse nei loro dialoghi, osservavano il grande e maestoso vulcano di fronte a loro. Ora tutte le serpi infuocate che scendevano dalla sua vetta si erano spente. Restavano immobili, seminascoste tra le conifere e le querce che coprivano i fianchi del Peripillán, come delle cupe cicatrici minacciose. “Perché ti attira così tanto, Peripillán?”. “Non lo so, Lalén Kusé. Sento sempre il bisogno di guardarlo, di andare, di toccare le sue pietre...”. “E il mankián? Non ti fa più paura, ora?”. “Si. Ma vorrei andarci lo stesso sul vulcano”. Likarayén rimase per un po’ in silenzio. “Anche l’uomo che gli spiriti hanno convertito in mankián, voleva andare sul vulcano? E’ per questo che gli spiriti lo hanno fatto diventare di pietra?”. “No, non è per questo. Anche tu sei andata sul vulcano, ma non per questo Peripillán si è adirato con te, e neppure gli altri spiriti. Quell’uomo si faceva beffe, degli spiriti. Tagliava gli alberi sacri senza chiedere permesso ai loro padroni; raccoglieva le erbe che curano le malattie, il lawén, e calpestava il serpentello che le protegge; percorreva il sentiero tracciato da un camahueto, non dall’uomo, e non chiedeva al ngenrepü che sovrintende al sentiero di assicurargli un passo sereno. Per questo è stato punito”. “Ma... rimarrà così per sempre?”. Lalén Kusé esitò un poco prima di rispondere. “Forse sì, forse no. Se si pentirà, potrebbero gli spiriti perdonarlo e restituirgli la vita, oppure potrebbero convertirlo nel protettore di quel bosco vicino alla colata, e così diventerebbe un ngenmawida, uno spirito protettore della foresta”. Likarayén rimase a lungo in silenzio, guardando nel buio della notte il vulcano reso invisibile dalla fitta pioggia, e ascoltando i cento suoni diversi dell’acqua che picchiettava sulle pietre e scivolava tra le foglie degli alberi. “Allora - infine disse esitando - allora gli spiriti puniranno anche me”. “Perché dovrebbero punirti, pichi machi?”. “Perché anch’io ho percorso il sentiero del camahueto e non ho chiesto al ngenrepü di lasciarmi passare, e ho raccolto il lawén senza chiedere il permesso del serpentello che era accanto e che mi osservava immobile”. “No, Likarayén, gli spiriti non ti puniranno, per questo, perché non ti sei comportata così per disprezzarli, ma perché eri ancora una pichiche e non sapevi come dovevi comportarti. Ma ora che sei cresciuta, devi rispettare gli spiriti e chiedere sempre il loro permesso prima di fare qualunque cosa”. “Ma sono tanti, gli spiriti! Io non so a chi devo chiedere permesso. E non so

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neppure come...”. Lalén Kusé esitò prima di rispondere. “Forse non sono io quella che deve insegnarle queste cose - pensava mentre restava silenziosa - ma dovrebbe essere il machi. Però qualcosa posso dirle anch’io, come se fossi la sua mamma”. Infine si decise: “ora ascolta bene quello che ti dico, Likarayén”. “Prima di tutto c’è ngenemapu, lo spirito della terra. E’ uno spirito molto importante e buono...”. “Sì, lo so - la interruppe Likarayén - me lo diceva sempre, Millaray, che devo confidare in ngenemapu. Per quello che mi piace sedermi sul suolo, ponendo la mia pelle a contatto diretto con la terra: mi piace, quel contatto, mi sembra che in questo modo ngenemapu mi dica qualcosa, anche se non intendo cosa mi dice”. “...un giorno saprai capire le sue parole. Prima di depositare il seme nel solco bisogna sempre dire «tu che sei il padrone della terra, ngenemapu, ti prego, fa che non si perda questo seme che deposito nel tuo ventre, tu che sei madre, proteggilo e fa che esso si riproduca, che io oggi lo deposito nel tuo seno in nome tuo». Se tu credi veramente che ngenemapu proteggerà il seme, allora lui lo proteggerà davvero. E poi quando la pianticella è cresciuta, è maturata e ha dato i suoi frutti, prima di coglierli bisogna ancora dire «grazie, ngenemapu, per questi frutti che tu ci hai dato» e non si tiene tutto il frutto raccolto, ma se ne da sempre una parte a ngenemapu, per esempio, lasciando in un cestino accanto al campicello i primi fagioli o le prime patate raccolte. E la prima volta che le cucini, ne lasci uno scodellino sul rewe, affinché anche ngenemapu possa cibarsene insieme al clan, e questo si chiama misawün, ossia mangiare insieme”. “Poi c’è ngenlawén, che protegge le erbe che curano le malattie. Ogni volta che c’è l’erba giusta, o la radice, o l’alberello, c’è sempre un serpentello che rimane li vicino...”. “Si. Lo vedo ogni volta che raccolgo un’erba lawén, ma non mi fa paura”. “E non c’è nessuna ragione perché debba farti paura. E’ lui il ngenlawén di quell’erba o di quella radice, ed è lì per proteggerla. Allora tu devi dirgli: «perdonami, ngenlawén, non farmi del male, che io non faccio del male a te, ma lasciami raccogliere di quest’erba, che ne raccolgo solo un poco» e non devi raccoglierla tutta, ma solo un poco, e vedrai che quando dirai così il ngenlawén non ti farà nessun male, ma scomparirà, come se fosse stato inghiottito improvvisamente dal suolo”. Likarayén ascoltava attenta e imparava e Lalén Kusé l’osservava intenerita, mentre nel suo cuore sentiva crescere il suo affetto per la ragazzina, ma anche la sua angoscia per ciò che stava scritto nel suo filew. * * *

Poi giunse wefun-küyén e i frutti di bosco più precoci giunsero a maturazione. Peripillán non spingeva più i suoi lunghi bracci rossi lungo i suoi fianchi, verso la valle ed il grande lago. Ma, come lunghi e intricati tentacoli, le nere colate ormai fredde si nascondevano tra i boschi di conifere. Tuttavia faceva spesso sentire la sua voce - un brontolio sotterraneo che, come sempre, eccitava Likarayén - e un pennacchio di fumo non abbandonava mai la sua vetta. Likarayén imparava a cardare il vello raccolto, separando quello più lungo, atto a formare una fibra sottile e resistente, da quello più corto, che doveva essere filato con maggiore spessore. Lalén Kusé aveva insegnato a Likarayén a rispettare gli spiriti della montagna, i ngenwinkul, e a distinguerli e a non temerli quando si mostravano assumendo l’aspetto del piwuchén, che ha la testa come quella di un falco ed il corpo simile ad un grosso serpente; oppure del waillepéñ, simile al guanaco ma con il corpo interamente deformato. Ora avveniva spesso che la vecchia e la giovanetta andassero insieme alla ricerca di bacche ed erbe. Likarayén continuava a cogliere il lawén, le piante con proprietà curative e magiche, in modo istintivo, in base ad una conoscenza innata e non appresa, però la

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vecchia ragna le aveva insegnato a ordinarle e raggrupparle in base alla loro azione ed al loro uso: rekutrán, quelle per sanare il malessere del corpo e dell’anima; wekufetún, quelle che allontanavano i demoni; kalkutún, quelle che contrastavano la malvagità degli stregoni; kisukutrán, quelle per curare le malattie del corpo; kontralawén, quelle per prevenire le malattie provocate dagli stregoni malvagi. Queste occasioni di uscire insieme per i boschi erano amate da entrambe: l’una trovava piacere a educare alla conoscenza ed all’amore verso l’admapu, mentre l’altra provava allegria ad imparare dalle vecchia ragna. Formavano una coppia assurda: Likarayén era minuta e piccolina - più bassa di quanto non corrispondesse alla sua età ma ben proporzionata ed i suoi lineamenti erano gentili e delicati; Lalén Kusé, al contrario, era tanto alta quanto magra, con le gambe e le braccia sottilissime che sembravano avere inizio tutte dallo stesso punto, poiché aveva il busto tozzo e cortissimo. Bella l’una, bruttissima l’altra. La ragazzina possedeva una voce dolce e già grave nonostante la corta età, mentre la vecchia parlava con un tono aspro ed acuto, quasi in falsetto. Eppure ogni giorno che trascorreva un affetto sempre più grande le univa profondamente. “Voltati verso puelmapu quando ti rivolgi agli spiriti”. Erano con il loro gregge in una radura. “Che bello, se il sole durerà ancora per qualche giorno, così potrà seccare bene l’erba raccolta e potremo metterla da parte per la stagione della neve” aveva esclamato Likarayén rivolta verso il grande vulcano che attirava sempre il suo sguardo, ma Lalén Kusé l’aveva rimproverata. “Perché verso puelmapu?”. “Perché è la più importante delle quattro direzioni dell’orizzonte, quella dalla quale sorge il sole: in quella direzione c’è il potere e quello è il lato dove vivono gli spiriti del wenumapu. Se guardi il vulcano, ti rivolgi a pikumapu, e quella è una direzione sfortunata: da settentrione giunge il vento che porta la tempesta, ma anche il soffio leggero ed impalpabile dei wekufe che porta malattia e morte. Invece da willimapu viene la buona fortuna...”. “Ma anche il vento gelido” la interruppe la ragazzina. “...è vero, ma il vento meridionale spazza via le nuvole e la pioggia e reca il tempo bello e stabile, ed il soffio del willi allontana la malattia e sana i malati. Ma la peggiore delle direzioni è lafkenmapu, quella dove il sole ogni giorno muore, perché è là che si trova la dimora degli spiriti malvagi, i wekufe: così almeno dicono gli antichi”. In questo modo, giorno dopo giorno, Likarayén imparava a conoscere l’admapu e a vivere conformemente alle sue leggi. * * *

Quindi fu il momento di afun-küyén: i nuovi ciuffi di aghi delle conifere, sino alla luna precedente così pallidi, ora si erano scuriti e non erano più distinguibili da quelli dell’anno precedente e le giornate si susseguivano calde e soleggiate. Ogni tanto una scossa di terremoto più violenta delle altre provocava grandi valanghe di pietre e di ghiaccio sul Peripillán. Il vulcano era tornato a sfidare Ngenechén, scagliando verso l’alto lapilli incandescenti: non aveva mai smesso di attrarre lo sguardo ed il pensiero di Likarayén, ora eccitata dalla rinnovata attività, ma la ragazzina obbediva al comando di Lalén Kusé e non si allontanava dalla grotta e dalla cura del suo gregge. Ora aveva imparato a lavare il vello di lana con la spuma che otteneva lasciando in ammollo la corteccia del quilláy, rendendolo lucido e morbido. “Vuole attraversare tutto il wenumapu con la sua sfida, ma Ngenechén è ben più in alto di quanto possano raggiungere le pietre di fuoco scagliate da Peripillán”. Era stata Lalén Kusé a parlare. Era sera e si trovavano nella grotta, sedute alla sua imboccatura. Il tempo era molto nuvoloso, ma non pioveva, e le nubi basse e nere riflettevano i bagliori della vetta del vulcano. “Ma quanto è alto, il wenumapu?” chiese Likarayén. “E’ così alto

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che non si può vedere neppure la sua parte più bassa”. “Ma sì che lo vediamo: eccolo lì, pieno di nuvoloni neri!”. “Ma quello non è ancora il wenumapu: è solo il rangiñwenu, dove ci sono i venti e le nuvole e dove possono risiederci anche i wekufe. Ma ben oltre, dove non ci sono né nuvole né venti e dove nessuno spirito maligno può andare, lì c’è il kiñeñón, il primo dei wenumapu. E sopra ancora c’è il epuñón, e poi ancora il külañón, e finalmente il meliñón: ed è solamente lì che risiedono gli spiriti degli antenati. Tranne, naturalmente, quelli che hanno voluto combattere Ngenechén”. “Allora i wekufe vivono dove ci sono le nuvole?”. “Sì, ma non solamente lì: vivono anche sulla terra, nascondendosi nei boschi e nelle acque, e nel miñchenmapu, le profondità che ci sono sotto la terra, dove ci sono grandi caverne che la luce del sole non ha mai sfiorato”. E la ragazzina ascoltava attenta, cercando di immaginarsi nella sua giovane mente quel mondo così vasto e difficile da capire. * * *

Quando fu il tempo di kogi-küyén maturarono le pigne delle rare araucarie, che erano state seminate tantissimi anni prima dalla stessa Lalén Kusé, e Likarayén le raccoglieva ed estraeva i saporiti ngülliw che aveva imparato ad apprezzare. Sul Calbuco rimaneva solamente qualche piccola chiazza di neve, nei punti più riparati dal sole e vicini alla sua sommità. Sola la parte alta del Peripillán rimaneva avvolta nella sua candida coperta di ghiaccio. Anche una sottile ed aguzza vetta che, più lontana, spuntava alla sua destra, rimaneva coperta da vasti ghiacciai, così come l’imponente massiccio che sovrastava la cordigliera andina, proprio nella direzione dove ogni mattina sorgeva il disco solare. Ora Likarayén imparava a filare. Prendeva il suo fuso, un bastoncino appuntito che attraversava una piccola patata rotonda, e con la mano attenta lo faceva girare velocemente sul suolo indurito della grotta mentre il filo si attorcigliava sul legnetto e Lalén Kusé raccomandava: “attenta, non così rapido che si formano dei brutti nodi ed il filo non rimane sottile ed uniforme”. La vecchia ragna incontrò in Likarayén una figlia inattesa, ma inconsapevolmente desiderata a lungo. Al pari di Millaray, anche Lalén Kusé trovava bellissimi quegli occhi di fiamma e quei capelli di fuoco che scendeva ai due lati di un viso bianchissimo e luminoso. Quell’affetto materno era un sentimento del tutto nuovo per l’anziana tessitrice: e questo amore per la ragazzina lo traduceva in forme e colori che intesseva nelle sue tele, dove le fibre più fini e sottili si intrecciavano alle delicate piume dei colibrì. Come ogni buona madre, insegnava a Likarayén che i folletti della natura, i ngen, erano stati generati nei tempi primordiali dai primi spiriti ancestrali affinché vegliassero sull’equilibrio di tutte le diverse forme in cui la natura si manifestava, in modo che la vita fosse preservata e difesa dalle forze maligne dei wekufe, gli spiriti distruttori. Ora Likarayén aveva compreso che la wala che l’aveva accolta, la Pincoya, era un ngenlafkén, un folletto del mare, che vegliava su tutte le forme di vita che popolavano le coste e le spiagge affidate alla sua cura. Aveva anche imparato a prestare attenzione ai ngenmawida, i folletti dei boschi più antichi e folti, dove gli spiriti ancestrali si recavano quando discendevano dalla sommità del wenumapu per rinfrescarsi con la bellezza della terra, quella che un giorno sarebbe divenuta la loro dimora. A volte la piccola machi si recava sola nella parte più fitta del bosco di conifere che copriva gran parte dei fianchi della montagna dove viveva, e rimaneva in silenzio, attenta ad ascoltare il brusio delle fronde mosse appena dall’alito degli spiriti, ed allora sentiva intensamente la loro presenza, e quando poi doveva fare ritorno alla grotta, altrettanto intensamente ne rimpiangeva la mancanza. Sapeva, adesso, che alcune grandi pietre dalla forma strana ma

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accattivante o dai colori bizzarri e gradevoli, erano anch’esse dei folletti: i ngenkura, e che ve ne erano di grandi e di piccolissimi. Imparò a distinguere la voce dei numerosi ngenkürüf, padroni dei venti, e a richiedere l’amicizia del ngenkütral, lo spirito del fuoco, ogni volta che accendeva il focolare nella grotta. Imparò, infine, che all’ombra di ogni uccello del cielo e di ogni animale del bosco c’è sempre il ngenüñén o il ngenkullíñ della sua specie, pronto a proteggerla se essa viene messa a rischio. * * *

Arrivarono le piovose giornate di kogi-küyén e i primi fiocchi di neve si fecero vedere sino in basso, ma imbiancarono solamente la sommità del Calbuco e della vicina cordigliera. Il Peripillán continuava a spruzzare improvvisamente di fiamma il rangiñwenu, il più basso dei cieli che compongono il wenumapu, quello popolato dagli spiriti malvagi e dai wekufe, ma queste sue ripetute sfide erano sempre di breve durata. Likarayén imparava a tingere il filato con le radici del wingán e del micháy, con lo stelo della kila, con i frutti del mañíu, con il legno del koyám e con le bacche del temú e trascorreva tutto il tempo che le restava disponibile, dopo aver compiuto i suoi doveri di pastorella e aver portato a termine gli incarichi che Lalén Kusé di volta in volta le dava, ad osservare ammirata la mano della vecchia ragna che tesseva e con il suo tessere generava la vita. L’osservava con crescente ammirazione a mano a mano che comprendeva la magica e ineguagliabile abilità che si celava dietro ogni più piccolo gesto: ma a poco a poco l’ammirazione, pur crescendo, cedeva il passo di fronte all’amore filiale sempre più grande che provava per l’anziana tessitrice. Quando giunse la fredda stagione del chomüngén con il suo lungo mese di rimuküyén, la cui durata è di due lune, la neve tornò a scendere abbondantemente dal cielo e a coprire nuovamente le falde del Calbuco, spingendosi giù in basso, sino alla pianura del fiume Petrohué. Tuttavia neppure la bianca e spessa coltre riusciva placare Peripillán, neppure momentaneamente, che spesso l’abbondante fumo che incessantemente continuava a salire dalla sua sommità prendendo la direzione del vento, lasciava il suo posto a folli scoppi di ira e di fiamme. Durante quelle fredde e umide giornate, presto buie, Likarayén imparò a disporre sul telaio un filo di maki ed uno di killáy, formando il tonowitrál per il suo primo tessuto. Ma intanto un nuovo We Tripantü si faceva avanti: per Likarayén era il suo nono compleanno e tre interi anni si erano ormai compiuti da quella notte in cui la dalka in cui era stata posta a dormire era stata afferrata da forze magiche e trascinata lontana, separandola da Millaray. Sebbene fossero sole, tuttavia la vecchia e la bambina attesero in veglia che la notte trascorresse per celebrare il sopraggiungere del nuovo sole. Nevicava fittamente e la notte era buia come la più profonda delle grotte del miñchenmapu. Eppure l’oscurità era spesso interrotta dall’infocato bagliore che improvvisamente esplodeva sulla sommità del Peripillán, attraversando e riflettendosi nei larghi fiocchi di neve che lentamente si adagiavano sul terreno, dove ogni pietra ed ogni asperità aveva lasciato posto ad un candido e uniforme tappeto. L’improvvisa eruzione di lapilli era accompagnata da un clamore arcaico che echeggiava sulla volta della grotta dove Lalén Kusé e Likarayén sedevano accanto all’ingresso, lontane dal focolare dove la fiamma ormai morente non rivaleggiava più con la brace bene accesa. “Sembrano gli occhi di Likarayén” pensò la vecchia ragna guardando due piccoli tizzoni che si erano separati dal focolare e che, isolati, brillavano nel buio. Quindi sollevò il suo sguardo verso il volto di Likarayén, seduta serena accanto a lei, ben avvolta nella sua pelliccia di puma.

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“Al principio dei tempi, prima ancora che il tempo avesse inizio - cominciò a raccontare Lalén Kusé - solo esisteva la grande oscurità. La terra era oscura e priva di ogni rilievo. Nessun colle interrompeva il lontano orizzonte, nessun mare lambiva le sue coste. Non c’erano boschi né animali che in essi potessero cercare un rifugio, né c’erano acque nelle quali i pesci nuotassero con la loro coda sinuosa. Anche il cielo era oscuro, mentre le stelle non avevano ancora fatto la loro comparsa, sicché nessun chiarore interrompeva il profondo sonno dei cieli e nessuna alba sopraggiungeva dopo la lunga notte. Non c’erano nuvole gravide di piogge, né esistevano farfalle o uccelli che gareggiassero nel volo. Ancor prima che nascesse il tempo, oltre il cielo che sovrasta la terra piatta e sterile, oltre la sommità del wenumapu, colà c’era la dimora dei primi spiriti ancestrali, quelli che hanno generato ogni altro spirito e folletto”. “Ma cosa c’era prima ancora che ci fossero gli spiriti primordiali?” domandò Likarayén. Lalén Kusé rimase in silenzio: era una domanda assai difficile quelle che le era stata posta dalla ragazzina. La fissò attentamente negli occhi e la bambina sostenne seria il suo sguardo, attendendo la risposta al suo quesito; poi, vedendo che la vecchia continuava a tacere “forse ho fatto una domanda sciocca” disse ancora. “No, Likarayén, ñi pichi domo, non hai fatto una domanda sciocca, tutt’altro”. E rimase in silenzio, riflettendo. Ma improvvisamente l’espressione attenta e seria di Likarayén si aprì in un aperto sorriso e la bambina esclamò con soddisfatto orgoglio: “eimi, Lalén Kusé, prima ancora degli spiriti primordiali, prima ancora che il tempo iniziasse il suo lento percorso, prima che la luce cominciasse a brillare, prima che fosse qualunque cosa, allora già c’era l’admapu, perché senza l’admapu nulla avrebbe potuto essere. L’admapu è il principio e il fine di ogni cosa”. Un improvviso ed intenso bagliore di fiamma attraversò la neve che scendeva fitta e proiettò verso l’interno della grotta due ombre rumorose e tremule. “L’admapu, ecco cosa c’era prima che ogni cosa fosse - ripeté la vecchia ragna rivolgendosi più a se stessa che alla ragazzina mentre anche il suo volto ossuto e spigoloso si distendeva in un sorriso sereno - mupindunguimi, ñi poyén pichi machi, hai detto una cosa vera, mia amata piccola sciamana, l’admapu è il principio ed anche il fine di ogni cosa!”. E questa volta fu Lalén Kusé colei che fissò Likarayén con rispetto e ammirazione. “Perché proprio io dovrò essere una machi? Ma lo sarò veramente?”. “Sì, lo sarai. Eimi ta machingeaimi Likarayén. Perché proprio tu? Questo lo sanno solo gli spiriti. Quasi sicuramente un tuo antenato fu un machi ed ora lui ha deciso di trasmettere a te questo filew, così come lui lo ha ricevuto a sua volta da un suo antenato, perché l’essere sciamano è una catena che non si dovrebbe mai interrompere”. “Ma perché?” insistette Likarayén. “Per combattere i kalku che sono gli strumenti dei wekufe, allo stesso modo come i machi sono gli strumenti degli spiriti ancestrali”. Likarayén non disse più nient’altro, ma ora Lalén Kusé sapeva che era giunto il momento di trovare un machi che potesse iniziare la ragazzina. Intanto la notte era trascorsa. A poco a poco la neve che continuava a scendere in larghe falde si era fatta lattiginosa e, verso la cordigliera, solamente un diffuso chiarore annunziava che il sole era sorto ed un nuovo anno aveva avuto inizio. * * *

Likarayén non lo sapeva, né si era mai imbattuta nelle sue tracce, ma un anziano machi viveva in una piccola ruka non distante dalla grotta dove lei era ospite di Lalén Kusé. La vecchia ragna non aveva ritenuto opportuno parlargliene, anche perché le pareva che lo sciamano fosse un uomo molto strano e misterioso. Sapeva solo che era molto vecchio e che era giunto da un luogo molto distante, forse dal Purén, e che

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conduceva una vita solitaria, da eremita. Mai il vecchio machi era venuto a visitarla, né mai alcuno era andato a fargli visita. Solamente una volta, per caso, si era imbattuta nella sua capanna e lo aveva veduto. Un breve saluto, e niente altro. Il suo modo di parlare non era quello huilliche, ma piuttosto quello del Purén; solamente la presenza del rewe con sette kemú davanti all’ingresso della sua ruka le aveva rivelato che doveva trattarsi di un machi molto potente. “Pom-pum-pum, mari-marí epunamún, amimalgén peñi Epatún” diceva il vecchio machi con una strana voce sibilante, fermandosi davanti al rewe dai sette gradini. Quindi tornava a girare lentamente intorno alla scala sacra, percuotendo con le punta delle dita un kultrún dipinto con delle linee rosse che s’incrociavano. Era molto vecchio. Il suo corpo, minuto per natura, era rattrappito per l’artrite, sicché camminava piegato in avanti e ponendo in evidenza una gobba molto pronunciata. Il suo volto era assai rugoso e gli occhi, piccoli, parevano quasi nascondersi tra quelle rughe. Indossava un poncho molto bello, o che un tempo doveva essere stato molto bello, poiché ora sembrava piuttosto vecchio e mal ridotto. Tuttavia conservava i resti di ricami disegnati da una mano molto abile e leggera, ed anche il tessuto, di molti colori, aveva un disegno di difficile realizzazione. La fascia che circondava la sua fronte tratteneva alcune foglie di canelo. Lalén Kusé e Likarayén mantennero un silenzioso rispettoso e ristettero immobili sotto la neve che continuava a scendere abbondante, a poca distanza dalla ruka dello sciamano. Questi le aveva viste avvicinarsi, ma non per questo aveva interrotto il suo rituale. “Pom-pum-pum, mari-marí epunamún, amimalgén peñi Epatún” ripeté nuovamente, ritmando le sillabe al suono del kultrún. La neve intorno al rewe era ghiaccia di tanto essere calpestata, ed era stata sicuramente portata via perché anche il primo gradino del rewe era sgombro. Su ognuno dei sette gradini vi era uno scodellino di legno. Fece altri tre giri intorno alla scala che unisce la terra al cielo, pronunciando parole in una lingua sconosciuta. “Forse questa è la lingua dei lituche” pensava Likarayén, che osservava ed ascoltava con grande interesse. “Pom-pum-pum, mari-marí epunamún, amimalgén peñi Epatún” disse ancora una volta, ora colpendo con più forza il kultrún usando il dorso della mano. Quindi si fermò. La vecchia e la bambina, timorose di disturbare il machi, non avevano neppure osato far cadere la neve che, continuando a scendere ininterrottamente, ricopriva loro le spalle e i capelli. Solamente ora osarono muoversi. “Entrate!” disse bruscamente lo sciamano con la sua voce sibilante, precedendole nella capanna. Il vecchio machi sedette su uno sgabello di legno coperto da una pelliccia di guanaco, mentre le due donne si accovacciarono sui bordi del focolare, di fronte a lui. Egli prestò poca attenzione alla vecchia ragna, ma fissò a lungo gli occhi di fiamma di Likarayén e la ragazzina sostenne il suo sguardo con altrettanta intensità, senza abbassare la vista. Ristettero per un buon tempo, immobili e in silenzio. “In genere incuto timore, e non solamente ai pichiche, ma vedo che tu non ti lasci intimidire. Mi sembri piuttosto sfrontata”. “Perdona, ma non volevo essere sfrontata. Solo che non mi da fastidio essere fissata, e mi piace osservare attentamente le persone... voglio dire, osservarle dentro, perché ciò che è importante, nelle persone, è ciò che non si vede. E sentirmi fissata mi produce una sensazione intensa, ed è bello vivere delle sensazioni”. “E questo che stai dicendo, da chi lo hai imparato?”. “Da una wala che mi ha ospitata a Llancahue, nella sua isola. E poi io volevo molto bene a un vecchio ngenpín, è stato quello che ha celebrato il mio katán pilún, anche se è passato tanto tempo da quando ha forato le mie orecchie che lo ricordo appena, e anche celebrato il mio lakutún, anche se di questo naturalmente non ho nessuna memoria”. “E non ti intimoriva, il ngenpín?”. “No: al contrario, stavo volentieri con lui. Stavo bene solamente con lui e con mamma Millaray e

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anche con la piccola chono...”. “Beh, se eri sfrontata con un ngenpín che può parlare con gli spiriti e celebrare il ngillatún e tutti e riti più sacri, non posso certamente stupirmi se lo sei ancora di più con un machi. “Ma tu sei un machi o un ngenpín? avevo capito che eri un machi, ma stai celebrando un rito accanto al rewe”. “Iñche ta machi, Likarayén rispose l’anziano con la sua strana voce sibilante - ma anche noi abbiamo i nostri riti ed anche noi parliamo con gli spiriti, e gli spiriti si rivolgono a noi con sogni e visioni, ma mentre i ngenpín parlano e invocano gli spiriti a nome di tutto il clan, e per questo celebrano il ngillatún e gli altri riti, noi machi possiamo rivolgerci a loro solamente a nome nostro. Ma a volte sono loro che scelgono noi per inviare i loro messaggi, ed allora noi dobbiamo comunicarli prima di tutto al ngenpín ed al lonko, ma anche a tutti coloro che gli spiriti ci indicano”. Mentre il vecchio gobbo parlava, Likarayén si accorse che la punta della sua lingua era divisa in due, ed anche il labbro inferiore aveva una vistosa cicatrice che lo divideva in due parti simmetriche. “Probabilmente è per quello che parla in modo strano” pensò Likarayén, ma tutto il suo modo di parlare le pareva strano, e non solamente quel suo continuo sibilare. “Perché sei venuta, malén?” disse l’anziano sacerdote. La ragazzina non rispose, ma si volse verso Lalén Kusé. “Sei tu che devi parlare - rispose la vecchia ragna alla muta domanda - non io”. Likarayén esitò, mentre il vecchio rimaneva in silenzio fissandola attentamente. Poi finalmente disse: “Un giorno io sarò una domo-machi. Lalén Kusé mi insegna a tessere, e mi insegna molte cose sull’admapu, ma dice che lei non può insegnarmi ad essere una machi: devi farlo tu. Per questo siamo venute qui”. Lo sciamano continuò a restare in silenzio, trapassando con i suoi occhi quelli di fuoco della ragazzina, per leggere dentro di lei, e Likarayén non abbassò mai il suo sguardo. Rimasero a lungo così, senza che le due donne osassero interrompere quel silenzio, quasi fosse esso stesso un rito sacro di iniziazione. Si sentiva di tanto in tanto il rumore sordo e leggero della neve che cadeva dai rami degli alberi, ed il crepitio allegro della fiamma nel focolare. Improvvisamente lo sciamano si diresse alla vecchia ragna: “ora va via”, le disse bruscamente. Allora Lalén Kusé si alzò e si allontanò in silenzio, ed il vecchio e la bambina rimasero soli, l’una di fronte all’altro. * * *

La vecchia ragna tornò al suo rifugio di roccia. Si sentiva un groppo alla gola e percepiva di essere tanto vecchia: “sono vecchia quasi quanto il mondo!”, pensò. Era la prima volta che provava delle sensazioni così strane. Si avvicinò al telaio dove la ragazzina imparava a tessere la sua tunica. Passò la mano sul tessuto, osservando attentamente i nodi alla ricerca di errori e di imperfezioni. Non le fu difficile trovarne aveva solamente nove anni Likarayén, era ancora una giovanissima malén, non una donna adulta - ma quanta abilità si poteva già scorgere nel tessuto, quanta passione nella scelta dei colori, quanta sensibilità nell’accostarli a formare tanti disegni. “E’ veramente una Lalén Pichi!” disse ad alta voce. Ma subito si incupì maggiormente: “no! è una piccola machi, questo è il suo filew”, ma questa volta lo disse con appena un filo di voce. Le sarebbe piaciuto tanto che il destino di Likarayén fosse diverso! Che bello se la ragazzina avesse potuto restare sempre con lei, imparare e crescere per diventare un giorno anche lei una vecchia ragna, così lei, Lalén Kusé, non sarebbe rimasta più sola. Eppure era la prima volta che provava queste sensazioni. Sempre era rimasta sola, e gli esseri umani, per lei, erano solo gli allievi ai quali doveva insegnare a tessere: così avevano stabilito gli spiriti, e a lei era sempre andato bene così. Ma ora... con l’arrivo di questa ragazzina impertinente e presuntuosa, che faceva tante domande sciocche ma che

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aveva tanta voglia di imparare, era tutto diverso. “Non fosse mai giunta! - esclamò ad alta voce muovendo con rabbia un paletto nel focolare acceso - non avrei ma imparato il significato della solitudine!”. Ma poi le venne da pensare che non avrebbe neppure provato quella sensazione, quel sentimento che aveva lentamente riempito tutta la sua anima da quando era giunta Likarayén. “Il machi ha capito tutto”, pensò ricordando l’inattesa pazienza con cui l’anziano eremita aveva sopportato l’impertinenza della ragazzina, la quale poneva domande in luogo di attendere che venissero rivolte a lei. “Forse lui era qui proprio per lei. Anche lui aspettava Likarayén, come me; anche a lui gli spiriti avevano parlato nel sonno e gli avevano ordinato di venire qui ed attendere una malén dagli occhi di fiamma e dai capelli rossi e dalla pelle bianchissima, nelle cui vene scorreva lo stesso sangue di Peripillán... altrimenti, perché sarebbe venuto proprio qui, di fronte al grande vulcano?”. E ricordò quando gli spiriti parlarono a lei, nel sogno, e le dissero che avrebbe avuto una piccola discepola, e che lei avrebbe dovuto tessere per lei un trariwe nel quale doveva rappresentare il suo filew. E lei, Lalén Kusé, si mise all’opera. Non conosceva quale fosse il filew della ragazzina, eppure le sue mani sapevano cosa fare, senza bisogno di essere comandate. Con piume di colibrì, quelle più sottili, filò le matasse di diversi colori che avrebbe utilizzato per tessere la fascia. Non ebbe bisogno di colorarle, poiché separò le delicate piume in base al loro colore, ed ora il tessuto stava lentamente nascendo. Lo andò ad osservare: lo stava tessendo con un piccolo telaio portatile, facile da nascondere - Likarayén non avrebbe mai dovuto vedere quel trariwe destinato a lei fintanto che non fosse giunto il momento della sua partenza - e guardò il disegno che si sviluppava senza che lei stessa potesse comprenderlo. Le sue dita intrecciavano ed annodavano il tessuto, ma si muovevano con una abilità che non era la sua, ma di qualcun altro. “Degli spiriti! - disse a se stessa - sono gli spiriti che si impossessano delle mie dita e intrecciando ed annodano”. Accarezzò il tessuto e lo guardò attenta, ponendolo anche controluce. I nodi erano così fini da essere assolutamente invisibili, e neppure il più piccolo punto di luce poteva attraversarlo. Era sottile come la tela di un ragno: ma anche i fili che utilizzava, dai colori diversi ma tutti ugualmente cangianti alla luce, erano sottili come il filo che produce il ragno. “Sono gli spiriti a comandare le mie dita, ma è l’abilità delle mie mani che crea questo tessuto meraviglioso! - disse orgogliosamente ad alta voce - e saranno proprio le mie mani a cingere con questo trariwe i fianchi di Likarayén il giorno in cui riprenderà la sua strada alla ricerca del suo destino...”. E qui la sua voce, dapprima orgogliosa, ora si fece nuovamente triste. “Non sarà mai la Lalén Pichi, purtroppo...” ed osservò la fascia che stava tessendo da diverse angolazioni. Come le piume del colibrì, anche il tessuto cambiava continuamente colore, secondo come cadeva la luce, ma con il colore, mutava anche il disegno, sicché dietro ogni icona se ne nascondeva un’altra, e ancora un’altra, e chissà quante, tutte per lei ugualmente ignote. Ma se gli spiriti muovevano le sue dita a comporre quei disegni e ad abbinare quei colori, sicuramente quando fosse giunto il momento Likarayén avrebbe saputo capire i messaggi occultati dietro quei nodi così sottili da essere invisibili. Quando sarebbe giunto il momento, non prima. Spesso, quando era sola, Lalén Kusé toglieva il telaio dal suo nascondiglio e si metteva all’opera. Mentre le sue dita tessevano, un senso di godimento enorme penetrava nel suo corpo e raggiungeva ogni suo membro e tutto il suo essere si sentiva percorso da una ondata di meraviglioso benessere. Anche in quel momento provava un impulso fortissimo che la spingeva a tessere: ma questa volta prevalse il dolore del pensiero che Likarayén non sarebbe rimasta, ma avrebbe dovuto andare per la sua strada che l’avrebbe portata lontano da lei. Le venne da pensare che forse Likarayén sarebbe partita proprio il

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giorno in cui lei avesse terminato quel trariwe. Allora fece uno sforzo enorme su se stessa e sull’impulso che la spingeva a tessere: ripose il telaio nel suo nascondiglio e tornò a sedersi accanto al fuoco, dando forma ai suoi pensieri facendo scorrere l’estremità di un legnetto nella brace del focolare. * * *

“Perché dici che dovrai essere una machi?” chiese il vecchio a Likarayén appena Lalén Kusé si fu allontanata. “Perché l’ho sognato”. “Quando?”. “Quando era il mio sesto We Tripantü, la notte prima di celebrare il mio katán pilún. Ho sognato un condor che nuotava nel mare, sembrava che volasse ma volava nel mare, sotto le onde, e sentivo che mi diceva eimi machingeaimi, ripetendolo più e più volte”. “Che altro?”. “Stavo male, molto male, me lo ricordo ancora adesso, tutte le ossa mi facevano male e pensavo che era meglio morire che sentire tanto male. Poi venne il ngenpín più importante di Quinchao, quello che celebra sul rewe, quello che mi ha sempre voluto bene, e mi chiese cosa succedeva e perché stavo così male. Allora io gli ho raccontato del mio sogno, e lui mi spiegò che esso voleva dire che un giorno avrei dovuto essere una machi. Io non avrei voluto, ma lui mi disse che dovevo accettare il mio destino, che era così. Poi il giorno dopo, durante il katán pilún, mi guardava e piangeva e io ho avuto tanta paura. Poi durante la notte io dormivo nella dalka e non so cosa sia successo, ma mi sono svegliata che ero nel mare e c’era la nebbia e non si vedeva niente. Ma poi una wala con due orche mi hanno spinto sino alla loro isola, Llancahue, e ci sono rimasta dodici lune, ma poi sono dovuta fuggire perché mi cercava Kaikaivilú, e allora sono rimasta altre dodici lune su una collina vicino al fiume Petrohué, dalRey Kusé, che mi ha insegnato a modellare l’üku, ma sognavo sempre il condor che mi diceva eimi machingeaimi, e poi volevo andare sul vulcano, a cercare Peripillán, non lo so perché, ma ho sempre tanta voglia di andarci, e ci sono andata due volte, ma poi ho mi sono imbattuta nel mankián che non mi ha fatto niente, ma ho avuto lo stesso paura, e sono scappata e Lalén Kusé mi ha accolto nella sua grotta e mi sta insegnando a tessere, ma lei dice che sarai tu a insegnarmi a essere una machi”. “Dunque sei stata chiamata, ad essere machi - disse il vecchio sacerdote quando la ragazzina ebbe terminato il suo lungo racconto - ma quale tipo di machi dovrai essere?”. “Perché mi chiedi questo? Forse ci sono sciamani diversi l’uno dall’altro?”. “Certamente. Anzitutto ci sono i machi del sole e quelli della luna...”. “Millaray mi diceva sempre che è lo spirito di Küyén che mi protegge e che devo esserle devota, alla luna”. “Una machi della luna, dunque. Bene, molto bene. Millaray è la tua mamma? Qualcuno dei tuoi nonni o dei tuoi avi era uno sciamano?”. “Millaray è come la mia mamma, ma non è la mia mamma. Io sono figlia della mamma-dormente perché dopo che il Thrauco l’ha violata non si è più svegliata ed è morta quando io sono nata. Millaray è la sorella della mia mamma-dormente, e mi ha allevato lei con il latte di una tricheca”. “E i genitori o i nonni di tua madre? Qualcuno di loro è stato un machi? qualcuno che sia già morto?”. “No. Io non lo so, ma non credo. Non ho mai sentito dire niente del genere”. “Va bene. Basta di domande. Viene con me”. Uscirono fuori dalla ruka e si misero accanto al rewe, uno ad ogni lato. Sulla sommità dell’alto altare dai sette gradini vi era un volto appena sbozzato, simile a un mamülche, ed era rivolto verso puelmapu, dove c’era la cordigliera, ora invisibile dietro la neve che ancora cadeva fitta, e verso il punto in cui sorgeva il sole. Anche i gradini che fungevano da altari erano rivolti al medesimo punto. Likarayén vide che il vecchio non si rivolgeva verso il rewe, ma verso la cordigliera, ed allora si mise anche lei nella stessa posizione. Il sacerdote pronunciava delle parole strane, in una lingua sconosciuta. Non era solamente

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il suo sibilare che rendeva strane le sue parole, ma era proprio una lingua sconosciuta, quella che pronunciava: adesso Likarayén ne era sicura. Rimasero a lungo fermi sotto la neve che scendeva e che imbiancava i gradini del rewe. Ora era più alta, ed il primo gradino stava scomparendo, sepolto dalla bianca coltre. Infine il sacerdote si riscosse, scrutò severamente la fanciulla dagli occhi di fiamma e le disse: “ora vattene. Torna domattina, quando il sole sia già ben alto”, quindi si volse e rientrò nella sua ruka senza più aggiungere nulla e sbarrandone l’ingresso. * * *

“Ora so perché sono qui e chi ho atteso durante questi anni” disse a se stesso il vecchio sciamano quando fu solo nella sua capanna. Un perimontún lo aveva spinto ad allontanarsi dal Purén, dove viveva, a raggiungere queste lontane contrade e a rintanarsi tutto solo vicino alla vetta del Calbuco, proprio di rimpetto a quel Peripillán dal quale si sentiva altrettanto attratto di quanto lo fosse Likarayén. Riconobbe subito la ragazzina per quello che era: una discendente dello spirito del grande vulcano. Il suo temperamento forte e combattivo era quello di Peripillán, ma la sua devozione all’admapu l’avrebbe resa ben accetta a Ngenechén. Tuttavia non era quello ciò che si aspettava. Il sogno profetico gli aveva mostrato grandi calamità: gli spiriti più antichi e importanti, i grandi pillán, erano profondamente adirati con gli uomini perché questi si allontanavano dalle tradizioni. Ferivano la madre terra con il solco, e non chiedevano il suo permesso; raccoglievano i suoi frutti, e non la ringraziavano; pretendevano di essere i padroni della terra, anziché agire quali custodi in attesa che gli spiriti ancestrali stabilissero colà la loro dimora. Nel perimontún l’anziano machi aveva visto l’orribile Kaikaivilú, ubbidendo agli ordini di Peripillán, scuotere violentemente la terra e sollevare le acque del mare e rimescolare l’una con l’altro. Aveva visto i mapuche fuggire e cercare la loro salvezza sulla sommità delle colline, ora trasformate in isole, ma aveva anche percepito quanto ciò fosse vano, tanto era grande l’ira degli spiriti. Tornò ad uscire dalla sua ruka. Ormai calava la sera e la lunga nevicata sembrava cessare. Qualche fiocco bianco continuava a volteggiare lentamente nell’aria prima di adagiarsi sulla bianca coltre che copriva ogni cosa, ma il grande vulcano ora era ben visibile, davanti a lui stesso. “Mari-marí, fücha Peripillán”, disse salutando il grande spirito prigioniero nelle viscere della terra. Quindi si avvicinò al rewe e, rivolgendosi sempre al vulcano, cominciò a declamare lentamente: "allora Kaikaivilú divenne lo strumento di Ngenechén per castigare gli uomini e cominciò a scuotere il suo lungo corpo e ad ogni scossa la terra tremava tutta violentemente, gli alberi sradicati alzavano verso il cielo le loro radici ed il mare ribolliva come una pelle piena d’acqua posta al fuoco e le acque cominciarono a crescere ed i mari uscirono dal loro letto e cominciarono ad innalzarsi sommergendo le spiagge. Dovunque fossero, gli uomini e le donne abbandonarono le loro fragili ruka, reggendosi a malapena in piedi sotto la furia delle scosse che agitavano la terra e furono facili vittime del panico quando videro le acque sollevarsi e coprire ogni spiaggia. Cercarono rifugio nei boschi, ma le acque continuavano ad innalzarsi e presto tutti i boschi rivieraschi furono coperti dal mare. Allora implorarono l’aiuto di Tentenvilú, il quale si accinse ad affrontare la battaglia. S’intrecciarono gli smisurati corpi delle due divine serpi, trattando reciprocamente di soffocarsi tra le vibranti spire, sollevando enormi ondate che spazzavano via ogni cosa lungo i litorali sabbiosi, abbattendo gli alberi così da mettere in luce le loro contorte radici, sconvolgendo le radure, spiazzando i colli, sollevando nuove alture ed il mondo nuovamente conobbe i clamori della guerra tra il luminosissimo Ngenechén ed il rosseggiante Peripillán e ne fu scosso sino alle sue più profonde radici. Ora era

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Kaikaivilú ad imporsi: le acque dei mari uscivano dai loro letti e s’insinuavano nelle vallate sommergendole e gli uomini scappavano tentando di anticipare la salita delle acque e di raggiungere le sommità più elevate per trovarvi rifugio ed allora imploravano il perdono di Ngenechén, ma Ngenechén, ancora adirato, rimaneva sordo alle loro preghiere e permetteva che la battaglia tra Tentenvilú e Kaikaivilú continuasse eterna, senza né vincitore né vinto”. Questo era quanto aveva visto il vecchio machi nel suo sogno. Ma aveva anche visto una via di uscita: un messaggero doveva andare nel wenumapu e rinnovare con gli spiriti primordiali, quelli che non furono generati da altri spiriti, il vecchio patto di amicizia che aveva nell’admapu il suo fondamento irrinunciabile. E nel perimontún aveva visto egli stesso, fronte a fronte con il vulcano sotto le cui viscere viveva Peripillán, accogliere il messaggero che avrebbe ristabilito il patto. Un werkén anziano, si aspettava, un messaggero che, come lui, fosse un machi. Ed ecco che, invece, arrivava una ragazzetta ancora bambina. Eppure era quello, il werkén che attendeva. Lo aveva capito immediatamente, quando l’aveva vista arrivare insieme a Lalén Kusé. I capelli rossi, gli occhi di fiamma la pelle della luna. E tutto quanto la bambina gli aveva detto coincideva. Ella era sangue del sangue di Peripillán, discendente dunque di uno spirito primordiale non inferiore a nessuno, tranne che a Ngenechén. Ma ella era anche una küyén-machi, una sciamana della luna, e in quanto tale cara a Ngenechén: chi meglio di questa bambina avrebbe potuto mediare nella grande lotta che contrapponeva i due spiriti antichi? chi più di lei poteva essere la gradita messaggera che avrebbe rinnovato l’amicizia tra i mapuche e gli spiriti? Il ngenpín che aveva infilato la cordicella nei lobi delle sue orecchie aveva pianto. Così aveva raccontato Likarayén. E aveva anche detto che il vecchio ngenpín l’aveva protetta. Ma certo! Lui aveva compreso tutto. Forse anche lui aveva avuto il suo perimontún che gli aveva svelato ciò che doveva rimanere arcano. Ecco perché aveva protetto la creatura, anziché restituirla a Peripillán, colui che certamente la reclamava. Non aveva permesso che la bambina fosse sacrificata, ma sapeva perfettamente quale fosse il suo destino. Il vecchio ngenpín di Quinchao le voleva bene, così aveva detto la ragazzina, forse l’aveva sentita come quella figlia che non poteva avere, questo la malén non l’aveva detto ma poteva essere così: ecco perché aveva pianto durante il katán pilún. Anche Lalén Kusé le vuole bene. Forse la vecchia ragna si illude di aver trovata la ragna giovane che rimarrà al suo lato. Ma non sarà così, non può essere. Likarayén è il suo nome: ma i fiori disperdono nel vento il loro polline ed il vento lo porta lontano, come i messaggi, che devono giungere anche negli angoli più nascosti. E’ tutto giusto: anche il suo nome, bianco fiore. E adesso tocca a lui, il vecchio machi di Purén, giocare la sua parte. * * *

“Mari-marí fücha-machi”. La vocina di Likarayén giunse attraverso la parete di canne della ruka. Il machi sorrise: “è impaziente di iniziare la sua istruzione, la pichi-domomachi” disse a se stesso, poiché il sole non era ancora alto ed il giorno doveva ancora entrare nella sua parte centrale. “Mari-marí Likarayén” rispose lo sciamano uscendo dalla capanna. Il tempo era nuvoloso, ma aveva smesso di nevicare e le nuvole erano alte. Il vulcano era davanti a loro, vicino e nitidissimo dopo l’abbondante nevicata, ed un pennacchio di fumo si alzava verso le nuvole che incombevano. Di quando in quando dei bagliori rossastri percorrevano per un istante il fumo nero, come tante saette di fuoco. La malén era accanto al rewe. Lo osservava con una curiosità inopportuna, eppure con rispetto, come se il sacro altare fosse qualcosa per lei famigliare ed allo stesso tempo sconosciuto. La raggiunse. Cercò di raddrizzare la schiena, ma una fitta dolorosa glielo

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impedì. Tirò indietro le spalle e in avanti il petto, per distendere meglio il suo scheletro deformato dall’artrite e dagli anni, ma anche quello fu inutile. La ragazzina lo fissava attenta. Era seria, eppure sorrideva. L’osservò meglio. Ora capiva: Likarayén sorrideva con gli occhi. Erano inquietanti quegli occhi color di fiamma, eppure sorridevano con una profonda dolcezza che ti toccava fin nell’anima. Ora capiva sempre meglio il vecchio ngenpín di Quinchao, innamorato dalla dolcezza di quello sguardo, ma anche cosciente del destino scritto nel filew della malén dai capelli rossi e dal volto dal colore della luna. “Come ti chiami?”. Il vecchio machi rise di fronte alla sfrontatezza della ragazzina, ma stette al gioco: “Antüwala, uccello del sole”. “Mi piace”. Lo sciamano rise nuovamente: “perché ti piace il mio nome?”. “Perché amo la pioggia, per tutte le sensazioni che mi fa provare quando scivola sulla mia pelle - rispose la malén - ma amo anche il sole perché la sua mano è calda e leggera e poi anche perché il sole è anche lo sposo della luna. Ma soprattutto amo gli uccelli e i fiori, perché sono ricchi di colore e volano nell’aria a portare i loro messaggi”. “Ma i fiori non volano!”. “Oh, sì che volano! portati dal vento”. “Bene, piccola sciamana, ora veniamo a noi”. “Ma io non voglio essere una machi. Vorrei essere rimasta a Chequián, con Millaray, ed essere e vivere come tutti gli altri bambini. Ma anche se non voglio, so che devo essere una machi. Che colpa ho commesso per essere stata allontanata da Millaray? cosa devo pagare? cosa ho fatto di male?”. “Non hai fatto nulla. Tutti sono colpevoli, ma tu non ancora. Sei troppo giovane”. “Perché dici che tutti sono colpevoli?”. “Perché nella vita ogni individuo si macchia prima o poi di una colpa grave: quindi tutti siamo colpevoli. Tranne quelli che sono ancora troppo giovani. Come te”. “Quindi non è un castigo, essere machi?”. “No: certamente non è un castigo, ma neppure è una fortuna. E’ così, e basta. C’è chi nasce machi, perché un suo antenato machi rivive in lui, c’è chi lo diventa dopo aver sofferto gravi malattie ed essere andato e tornato dal wenumapu, c’è chi viene chiamato per mezzo di una visione, di un sogno, come è successo a te”. Likarayén si voltò nuovamente verso il rewe. “Posso toccarlo?” “Solamente se lo fai con rispetto”. La ragazzina fece scorrere leggera la sua mano lungo il tronco, dalla parte non scolpita, seguendo le sue venature dal basso verso l’alto. “Di che legno è fatto?”. “E’ di canelo”. “Ho fatto una domanda sciocca: avrei dovuto immaginarlo da me. Ma Lalén Kusé dice che se non faccio domande per paura che siano sciocche, allora rimarrò sciocca io perché non imparerò nulla”. “Lalén Kusé ha ragione. La vecchia ragna è molto saggia”. “Le voglio bene. Mi sgrida sempre, ma è buona con me. Anche lei mi vuole bene. Non me lo dice, ma io lo so”. “Mupindunguimi, Likarayén”. “Sette gradini - disse ancora la giovane malén dopo averli contati ad uno ad uno perché proprio sette?”. “Non sono sette. Sono due volte quattro”. “Non capisco... eppure sono sette”. “Non hai imparato che le cose importanti non sono quelle che si vedono?”. “Questo mi diceva la wala”. “Appunto. Allora sta attenta. Il primo gradino, quello alla base del rewe, rappresenta il miñchenmapu, la terra dei wekufe, quella che viene visitata dai malvagi kalku, i loro alleati. Il secondo gradino rappresenta il mapu, dove machi e kalku si combattono, i primi in difesa dei pillán ed i secondi per sostenere i wekufe. Il terzo gradino rappresenta il rangiñwenu o ankawenu, la parte più bassa del cielo, dove ci sono i venti e le tempeste e dove i kalku possono volare e quindi anche nel terzo gradino il bene e il male si combattono. Quanti gradini rimangono?”. “Quattro”. “In realtà ne rimane solo uno, quello che rappresenta il wenumapu, dove vivono gli spiriti degli antenati. Ma il wenumapu, come il mapu, ha quattro direzioni, e quindi si scompone in quattro parti. Ecco perché il gradino più alto si scompone in quattro gradini. Il rewe, dunque, rappresenta la scala che l’uomo percorre per raggiungere il wenumapu, ma può anche non riuscire nel suo intento e finire nel miñchenmapu”. “Ma sono tutti così, i

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rewe? Voglio dire, hanno tutti quattro gradini che sembrano sette?”. “No. non sono tutti uguali. Ogni machi, così come ogni ngenpín, lo realizza così come lo sente. Perché il rewe non si ragiona: si sente, si ama. Ecco che ci sono rewe con meno gradini, di questo”. “Ma se è una scala, ci si sale sopra? Intendo dire, ci si sale proprio sopra?”. “Sì, ma solamente in alcune occasioni. Adesso, però, non fare più domande. Vieni dentro e ascolta quello che ho da dirti”. Zoppicando, s’incamminò versa la ruka e la ragazzina, dopo aver dato ancora uno sguardo al vulcano, lo seguì rapidamente. “Ho fatto un sogno, questa notte - disse la malén non appena furono seduti sulle pietre che circondavano il focolare nella ruka - ho sognato che volavo nel cielo e che salivo, salivo, salivo sempre più in alto, e che dall’alto vedevo le nuvole sotto di me diventare sempre più piccole, e poi non vedevo più nulla sotto di me, mentre intorno c’erano tante luci colorate. Sentivo di essere molto in alto, eppure non era come nel cielo, ma come se fossi nel mapu, però tutto era più bello, l’acqua più trasparente, i frutti più grandi, i fiori più colorati. Poi ho sognato che mentre volavo in mezzo alle luci colorate, volavo o camminavo, non lo so bene, il fatto è che è apparsa al mio lato una vecchia, ma non era tanto vecchia, ed era bella, aveva il viso dolce, e io non la conoscevo, non l’avevo mai vista prima, quella vecchia, eppure mi sembrava assai nota, ed anche amica mi sembrava, e mi disse di non avere paura, e io allora mi accorsi di essere nuda, ed anche la vecchia improvvisamente era nuda, mentre prima era vestita, e mi abbracciava strettamente e mi stringeva e infilava le sue gambe tra le mie ed eravamo come una sola cosa, e allora mi disse proprio così, che eravamo un corpo solo e mi chiamò machi-werkén del wenumapu e poi mi pareva di cadere di nuovo verso terra e attraversavo ad uno ad uno i quattro cieli, e poi l’ankawenu dove ci sono i venti e le nuvole, e poi giungevo a terra e mi ritrovavo nel mapu. Questo ho sognato durante la notte”. L’anziano machi non disse nulla, ma via via che Likarayén raccontava il suo sogno approvava con un breve cenno della testa. “Quanti anni hai, Likarayén?”, chiese il vecchio gobbo. “Ho compiuto da poco il mio nono We Tripantü e sono nata proprio il giorno di capodanno”. “Incominciamo dunque, che è giunto il momento che la tua formazione abbia inizio”. “Quindi anche tu credi che io debba essere una machi”. “Non si tratta di credere o non credere: puoi vedere la wala, Rey Kusé, Lalén Kusé. Solo chi ha l’occhio che vede le cose invisibili può vedere queste creature che rimangono sempre occulti agli esseri umani. Ma ricordati che sei domo: sarai una domo-machi, ma potrai solamente curare le malattie con le erbe e aiutare gli altri quando chiederanno il tuo aiuto. Ma non dovrai mai cercare di leggere il futuro, tranne che il tuo, né potrai fare tutto ciò che fa un wentru-machi. Ricordatelo bene. E ricordati anche che il tuo destino non lo conosci ancora, ma potrebbe essere molto diverso da come ora lo immagini: anche nel tuo sogno ti hanno chiamata machi-werkén, sciamana messaggera”. “Tutti alludono al mio destino. Ma qual è, il mio destino?”. “Lo comprenderai da sola quando sarai in grado di capirlo. Nessuno deve svelartelo. Ricorda che sei Likarayén, una pichi lik rayén, un piccolo fiore bianco, e bianco è il fiore del sacro canelo, ma sei anche una pichi lükan rayén, un piccolo fiore diviso”. “Come, diviso?”. “Diviso. Tra il mapu ed il wenumapu”. “Non capisco”. “Capirai quando sarà il momento che tu capisca. Ora aiutami ad alzarmi e andiamo fuori, accanto al rewe”. E la giovane ed il vecchio gobbo con il suo incedere sciancato uscirono nel bianco abbagliante del paesaggio innevato. * * *

“Lalén Kusé!”. “Dimmi, bambina mia”. “Perché i machi si vestono come le donne. E anche i ngenpín si vestono da donna, o almeno mi pare di ricordare che anche quello di

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Quinchao, quello che mi voleva bene, indossasse sempre una tunica”. Erano già trascorse molte lune da quando Likarayén si era recata dal vecchio machi, ma questa domanda non aveva osato fargliela. Le pareva che fosse qualcosa di molto intimo, quel vestire da donna, qualcosa di cui non si dovesse parlare. Ma con Lalén Kusé era diverso. E’ strano, perché la vecchia ragna non aveva mai rinunciato (né avrebbe potuto) a quei suoi modi bruschi e scostanti, ed anche il suo aspetto non era gradevole: eppure con lei Likarayén si sentiva perfettamente a suo agio e non esitava a porle qualunque domanda, ben sapendo che non di rado la risposta sarebbe stata “che domanda sciocca che hai fatto”. “Perché non lo chiedi ad Antüwala?”. “Non so... mi sembra una domanda da non farsi”. “Allora sei stata sciocca a non domandarglielo!”. “Ma il machi non vuole che io gli faccia domande. Dice che sa lui cosa deve dirmi e che io devo solo ascoltare. In silenzio”. “Il machi ed anche il ngenpín vestono come donna in quanto hanno superato la natura umana e partecipano di una natura superiore, indifferenziata. Ecco perché indossano la tunica”. Likarayén rimase in silenzio, riflettendoci sopra. Stava tessendo un trariwe, il primo trariwe realizzato interamente con la sua mano. Il disegno era molto difficile per una ragazzina ancora inesperta, e Lalén Kusé era sempre molto severa ed esigente. Un piccolo nodo disallineato, o un grumo della fibra, erano più che sufficienti per scatenare i suoi rimproveri. Ma ciò che pesava di più era il fatto che Likarayén percepiva che la minima imperfezione nel tessuto suscitava nella vecchia ragna una vera sofferenza. La malén era molto stanca. Andava solo di quando in quando dal vecchio machi, quando lui stesso glielo indicava, ma alla fine dell’incontro era completamente spossata e non di rado sofferente e febbricitante. Spesso non le era chiaro, ciò che avveniva. Quando Antüwala parlava, erano sempre cose assai difficili quelle che le spiegava, e capirle le costava sempre un grande sforzo, e talvolta neppure ci riusciva. Ma soprattutto si ritrovava completamente sfinita ogni qual volta l’anziano machi l’invitava a raggiungere lo stato di küimi, quella forma di estasi profonda che ti porta a perdere ogni coscienza di quanto avviene intorno a te e ti rende aperto ai messaggi degli spiriti. Antüwala le faceva inghiottire un poco di una spessa poltiglia di semi pestati insieme ad alcune erbe ed impastati con qualche goccia d’acqua. Subito tutto ciò che stava intorno a lei cominciava a girare sempre più forte, più forte, più forte... Poi anche i colori cambiavano, diventavano più intensi, ma soprattutto diversi: vivi. Ecco, diventavano vivi. Tentava di guardare il vecchio machi, ed che il suo corpo era diventato altissimo... no, si sbagliava... era lunghissimo e orribile. Il volto si contorceva in un ghigno feroce: Kaikaivilú. Ma no. Non era lungo come un serpente, ma al contrario, era tondo e verde. Sembrava una grossa pietra che rotolava in mezzo alle conifere. O erano le conifere che rotolavano? O era lei stessa che rotolava, ma in alto, sempre più in alto, no, non andava in alto, ma sempre più a est, a est, a est, sino ad essere immersa in un mare di luci e di colori. Allora si sentiva felice, finalmente felice ed appagata. Le luci le parlavano, le dicevano cose, ma lei non capiva cosa volessero dire. Parlavano in una lingua sconosciuta. Ogni tanto qualcosa comprendeva, ma il più le rimaneva ignoto. Ora galleggiava. Che bello che era! Galleggiava in mezzo alle luci colorate, cullata dalla brezza tiepida. Le luci erano rassicuranti, soprattutto quella chiara ed opalescente. Era la luce di Küyén: certamente! la proteggeva: Likarayén sentiva che quella luce l’avrebbe protetta. Ora voleva entrare nella luce. Non voleva più andare via da quel posto. Ma qualcosa la tirava dal basso. Sentiva che una solida presa l’aveva afferrata per le gambe e la trascinava in basso. Come pesava! “No! Non voglio! Voglio restare qui!”. Sono stata io, a gridare? Si. Sono io che grido perché mi vogliono trascinare in basso, ma io non voglio. Si sta così bene, qui!. “Likarayén, chew amualu nga?”. Ma questa non è la mia

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voce. Perché mi chiedono dove vado? io non voglio andare da nessuna parte. Voglio restare qui. “Likarayén, amukilmu!”. Perché mi dice di non andare? Io voglio andare verso quella luce. E’ la luce di Küyén. Ci devo andare. Ci voglio andare. Ma le gambe mi pesano troppo. Hanno legato un macigno, alle mie gambe, una montagna, ed ora mi trascina in basso. Non voglio. Le luci colorate si allontanano: restano lassù, in alto, in alto, mentre io scendo sempre di più in basso. Che male! Che male che fa! Quanto mi fa male! “La mia testa - disse Likarayén aprendo gli occhi - Quanto mi fa male!”. Antüwala le fece bere un liquido caldo da una piccola ciotola. “Ora va meglio?” le chiese sollecito. “Ewém nay! Che peccato! Avrei voluto tanto restare tra le luci colorate. E’ bello. La mia testa: mi sembra che mi sta scoppiando. Stavo così bene... Ewem nay! Perché mi ha fatto tornare?”. “Perché sì, Likarayén. Perché deve essere così. Il küimi va raggiunto a poco a poco, mai troppo a lungo”. E intanto le sorreggeva la testa, le faceva bere il liquido della scodellina e le rinfrescava la fronte febbricitante con una pezza di tessuto inzuppata di acqua. * * *

Altre volte Antüwala la faceva esercitare nel suono del kultrún. Le aveva insegnato come sostenerlo leggero usando la fascia sottostante, e come appoggiare ora la punta delle dita, ora le nocche, ora il palmo della mano, come modulare il suono, rendendolo più acuto o più grave, come ritmare le parole, e le parole che dovevano essere ritmate al suono del kultrún. Likarayén lo toccava con rispetto, intimidita dal rispetto che Antüwala mostrava ogni volta che sfiorava lo strumento. Le aveva anche spiegato, Antüwala, come era fatto, con la cassa di canelo, incavata in un grosso pezzo di tronco evitando quanto più possibile di tagliare le fibre. “Non bisogna interrompere il flusso della vita” le aveva spiegato il vecchio machi. E le aveva anche detto che dentro vi erano sedici piccole llanka rotonde, di colori diversi: “di quattro in quattro - le aveva detto - perché gli spiriti sono sempre di quattro in quattro, vecchi e giovani e maschi e femmine, e perché le direzioni del mapu sono quattro. Per quello dentro ci vanno quattro llanka, oppure otto, o dodici, o sedici, ma sempre di quattro in quattro. E poi ci vanno anche i semi”. “Quali semi” chiese Likarayén. “Quando ti faranno il tuo kultrún saprai quali semi e quali llanka collocarvi. Solo tu, lo saprai. E poi dovrai introdurvi il tuo soffio: è il tuo soffio, che da vita al kultrún, nient’altro che il tuo soffio. E per questo esso sarà solamente tuo e non potrà mai appartenere a nessun altro. Neppure a un ngenpín”. Intanto la neve si era sciolta con il calore delle prime giornate di walüng, la stagione del sole, ma più spesso era trascinata via dalla pioggia ancora insistente. Ora era il momento di raccogliere le erbe. Likarayén le conosceva già bene, sebbene la sua conoscenza fosse soprattutto istintiva, ed infatti le individuava facilmente anche quando non le aveva mai viste: guardandole, sfregandole, sentendo il loro odore o masticandone con cautela un piccolo frammento. Ma Antüwala le spiegava come usarle nel modo migliore: quali servivano a fare decotti, quali dovevano essere strofinate sul corpo, quali mescolate con il sudore o con le orine, quali bruciate lentamente nella brace ed aspirate. Le diceva quali servivano pure e quali dovevano essere mescolate tra loro per avere maggiore effetto, e quanto dell’una e dell’altra. Ma anche le insegnava come conservarle: alcune seccandole, altre lasciandole in infusione, altre sminuzzandole finemente, altre mescolandole con la sabbia del vulcano. Quando fu il tempo della frutta nuova, il machi iniziò ad insegnare a Likarayén a curare le malattie del corpo e dello spirito e a distinguerne le cause. “Ogni malattia, tanto del corpo quanto dello spirito - le diceva - può avere cause naturali oppure

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soprannaturali. Le cause naturali sono il freddo intenso o il calore eccessivo: queste malattie non sono gravi e bastano le sole erbe per curarle rapidamente”. Ed allora le indicava le diverse forme in cui potevano manifestarsi e gli effetti che provocavano, spiegandole di caso in caso quale cura fosse la più efficace. Antüwala attese che tornasse nuovamente il chomüngén con i suoi freddi intensi e le sua ampie nevicate prima di iniziare ad illustrarle le malattie più gravi, quelle che hanno cause sovrannaturali: “prestami molta attenzione, Likarayén. Quando il troppo freddo o il troppo caldo non sono la causa vera della malattia, allora essa corrisponde più all’anima che al corpo, anche se tu vedi che il corpo si è debilitato quasi a morirne. Essa, dunque, è provocata dall’azione di una forza malefica. Il più delle volte si tratta di un wekufe che ha chiesto l’aiuto di un kalku: questi allora compie una stregoneria, un kalkutún: per eseguirla, il kalku introduce un elemento mortifero nel cibo del malato, oppure lo pone a contatto con la sua pelle, o anche solamente con le sue unghie, a volte è già sufficiente questo, se la sostanza è forte e se il kalku è potente. Ma a volte il wekufe non ricorre al kalku, ma agisce direttamente: per farlo, può assumere la forma di una piccola luce saltellante, che la anchimallén, oppure di un sottile mulinello di vento appena visibile, il meulén, o anche di un uccello che vola ovunque senza farsi notare, il tué-tué. Questo fa il demonio per entrare in contatto con la persona che vuole distruggere, e in questo modo la avvicina e la penetra, e questo è quello che si chiama trafyekenún. E non è tutto, Likarayén. Può anche avvenire che una persona stia a contatto con una persona malata nella sua anima: e allora talvolta succede che quando il malato sta morendo lanci il suo ultimo respiro verso chi lo assiste, e questo respiro penetra e fa sì che anche chi assisteva il malato si ammali nello stesso modo e generalmente ne muoia: questa è la malattia del konün, la più subdola e la più malvagia di tutte”. Quando poi Antüwala vide che Likarayén era cresciuta in età ma anche nello spirito, ormai era entrata nel suo decimo We Tripantü, allora cominciò anche ad introdurla a poco a poco nei rituali sacri che permettono di combattere la malattia dello spirito. “Quando la malattia non è del freddo o del caldo ma è opera del wekufe, allora le erbe non bastano più - le diceva - ma ci vuole l’aiuto degli spiriti più potenti, dei pillán, ed è lì che dovrai dimostrare tutta la tua sapienza per compiere ogni rito nel modo perfetto. Ad imparare questi riti dovrai dedicare tutta te stessa durante molte lune, e non basterà ancora. Le stagioni si succederanno le une alle altre, e non basterà ancora. E ogni We Tripantü farà scordare quello precedente, e no basterà ancora. Tutta la tua vita dovrai dedicarci, e ogni volta saprai qualcosa di più, e riuscirai a compiere il rituale in maniera più esatta. Ma ricordati bene, Likarayén, che dovrai imparare per tutta la tua vita. Se un giorno tu credessi di aver ormai imparato tutto, allora sarà meglio che tu raggiunga la sommità del cratere di Peripillán, di questo vulcano che è qui, di fronte a noi, e che ad ogni momento ci fa sentire la sua sorda voce e spinge sino a questa ruka il suo alito fumoso, va sul bordo del cratere, se credi di aver imparato tutto, e buttati dentro. Ricordati bene, quello che ti ho detto ora. Non dimenticarlo mai più, Likarayén. Tu potrai imparare e crescere e diventare una grande machi solamente fino a quando tu sarai intimamente convinta di non sapere quasi nulla. Il dubbio fa crescere, la certezza uccide. Il dubbio si trova alla tua destra, la certezza alla tua sinistra. Il dubbio è wentru, la certezza è domo. Il dubbio è ricchezza, la certezza è miseria. Ricordati bene, quello che ti ho detto ora, e non dimenticarlo mai più”. E Likarayén assentì serissima ed attenta, in silenzio, con solamente un breve cenno della testa. Ma Antüwala vide che la malén aveva compreso e seppe che non avrebbe mai scordato le sue parole e che avrebbe fatto tesoro del suo insegnamento. * * *

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Quando Likarayén compì il suo undicesimo We Tripantü, Antüwala cominciò ad insegnarle l’arte più difficile del machitun: ad allontanare lo spirito maligno che, con o senza l’aiuto del kalku, il wekufe aveva introdotto nel corpo di colui che era malato nell’anima, prima trasferendolo in un piccolo rettile e quindi estraendo questo dal corpo del malato: “lo devi estrarre succhiandolo con forza - e le faceva vedere come si succhia uno spirito maligno dal ventre o dal polmone - e quando lo senti nella tua bocca devi sputarlo su queste foglie - e le faceva vedere quali erano le foglie giuste - e lo avvolgerai strettamente e lo brucerai. Ma devi fare molta attenzione, perché questi spiriti immondi sono agili e veloci, pronti a sfuggirti alla minima possibilità che gli darai. E se riusciranno a sfuggirti, allora dovrai rincorrerli e catturali. Alcuni potrai rincorrerli camminando dirittamente, ma per altri dovrai dar loro le spalle e non mostrare mai il tuo volto, ed alcuni li potrai catturare trascinandoti nel suolo, ed altri ancora saltando in aria, poiché svolazzano come una chuchac”. “Il machitun viene meglio se lo compi all’imbrunire, vicino al rewe - aggiungeva ancora Antüwala - ma più spesso dovrai farlo accanto al malato, nella sua capanna. E dovrai andare vestita con il tuo vestito migliore, perché anche gli spiriti malvagi esigono rispetto, e batterai il kultrún nei giusti modi e farai suonare le kaskawilla che porterai ai tuoi polsi, e canterai conformemente al rituale. Ma poi compirai i sacrifici accanto al rewe: ucciderai il lama o il cuchi che i parenti del malato ti avranno dato, ed estrarrai il cuore ed osserverai il fegato, ed anche la loro osservazione ti aiuterà a comprendere quale demonio si è impossessato del malato e come allontanarlo”. Ma soprattutto, e questa era la parte più impegnativa, Antüwala insegnava a Likarayén come entrare in trance e in quello stato interrogare gli spiriti per farsi rivelare chi era il wekufe che voleva la morte della persona, ed anche il nome del kalku che aveva compiuto il maleficio. “Ma questo tu dovrai conoscerlo ma non dovrai mai compierlo, poiché tu sei una domo-machi e non ti è concesso di compiere tutto quanto è nel potere del wentru-machi”. Infine il vecchio machi insegnò alla ragazzina i balli rituali che accompagnano il machitun. Era troppo vecchio, ormai, per poterli eseguire, e soprattutto l’artrite aveva così deformato il suo corpo ingobbito che gli sarebbe stato comunque impossibile eseguire qualunque passo che non fosse quell’incedere zoppicante che ormai gli era possibile solamente appoggiandosi al braccio di Likarayén, che cresceva via via che lui si rattrappiva. Allora le spiegava e si aiutava con i gesti e con le dita le mostrava come doveva muoversi e poi, mentre lei eseguiva il ballo, lui la correggeva e le spiegava dove sbagliasse e come superare l’errore. Fu così che Likarayén apprese il choike pürun, il ballo dello struzzo, ed imparò come compiere il lonkomew, un brusco movimento con la sua testa, ed ad avanzare con piccoli saltellini, il rüketu pürun, ed ancora il mellasnakém pürun, un movimento molto lento e marcato quasi a sfiorare il suolo, e a ballare trayén pürun, fronte a fronte, e a unire tutti i movimenti nella giusta successione e cadenza del machi pürun, il ballo dello sciamano. * * *

“Com’è bella questa malén!” esclamò tra di sé Lalén Kusé, guardando Likarayén che ormai cominciava a diventare una donnina. “Com’è brutta la vecchia ragna - pensava la ragazzina osservandola poiché si sentiva osservata - eppure quanto le voglio bene!”. Ora Likarayén era entrata nel suo dodicesimo We Tripantü e cominciava ad assumere le forme di una piccola donna. Likarayén era al telaio più piccolo e stava tessendo un nuovo trariwe. I fili che usavano non erano quelli che aveva filato lei, ma erano molto più sottili, sembravano poco più spessi di un capello, e glieli aveva dati Lalén Kusé. “Che bello che sta venendo

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questo trariwe! - esclamò compiaciuta - ma con un filo così perfetto tutto viene così bene...”. Lalén Kusé si avvicinò ad osservare il suo lavoro. “Il filo ha il suo merito e la tua mano ha il suo” disse e le sorrise. “Che brutta che è!” pensò ancora Likarayén guardando quel viso così secco ed rugoso, il collo piccolissimo che lo separava dal corpo magrissimo ma tozzo e corto, mentre le sue braccia e le sue gambe, sottili e lunghissime, sembravano spezzarsi in due ai gomiti ed ai ginocchi. Ma lo pensò con indulgenza e guardava quel sorriso, che sembrava una smorfia in quel volto deforme, eppure possedeva una enorme gentilezza e garbo. “Millaray sorrideva nello stesso modo” le venne da pensare, anche se era assurdo accostare l’immagine di Millaray, così bella e perfetta, a quella della vecchia ragna. “Sì. Sorride proprio allo stesso modo” pensò ancora, e ne era certa. “Un giorno, quando il machi mi dirà che sono pronta, tornerò da Millaray, finalmente!, ed allora indosserò questo trariwe e le dirò che l’ho tessuto con le mie stesse dita e che il filo lo ha filato Lalén Kusé, proprio lei stessa!, ed allora Millaray sarà orgogliosa di me e saremo nuovamente insieme”. “Stai proprio parlando come una sciocca, Likarayén! Millaray sarà orgogliosa di te se gliene darai ragioni ben più importanti e concrete che mostrarle un bel tessuto. Forse è solamente per questo che sarai una machi? per cingere i tuoi fianchi con una bella cintura? Comunque non sarà quello il trariwe con cui avvolgerai la tua vita quando tornerai alla tua Chequián...”. “Non sarà questo? E perché? E quale sarà il mio trariwe, dunque?”. “Ogni cosa a suo tempo, Likarayén, ma il tempo non è ancora giunto”. “Che bella che è Likarayén - mentre la ragazza aveva ripreso il suo lavoro al telaio la vecchia ragna aveva riannodato il filo del suo pensiero - che bella Lalén Malén che sarebbe stata... e invece sarà una domo-machi. Così ha stabilito il destino. Il suo e il mio”. “Sai, Likarayén... Pensavo che avresti potuto essere Lalén Malén se gli spiriti non avessero in un altro modo. Sarebbe stato bello. Io sono vecchia, vecchia quanto il mondo, e sarebbe proprio giunto il momento di avere una ragna giovane al mio fianco, che possa continuare il mio lavoro...”. Il pensiero di Lalén Kusé formulato ad alta voce fece sussultare Likarayén attenta al suo lavoro. “Sì, sarebbe piaciuto anche a me rimanere con te. Ma tu non hai bisogno di me. Ci sarà sempre e solo la vecchia ragna. Tu non hai bisogno di una ragna giovane: sei immortale. Sarai ancora tu, la ragna vecchia, a insegnare l’arte della tessitura alle ragazzine quando i nipoti dei nipoti dei figli di Millaray saranno già vecchi...”. “Io ci sarò sempre, è vero, ma sono vecchia”. “Quanto sono vecchia - pensava Lalén Kusé, silenziosamente ora, mentre Likarayén era nuovamente intenta sul suo telaio - quanto sono vecchia. E quanto sono sola! Non mi ero mai resa conto, prima d’ora di essere così sola. E stanca. Vecchia, stanca e sola: eccola qui la Lalén Kusé, nata quando è nato il mondo e destinata a vivere quanto vive il mondo. Il dono dell’immortalità! che beffa! In realtà è il castigo di una solitudine eterna, un castigo eterno per una colpa che non ho mai compiuto. Che beffa! Se non avessi mai accolto Likarayén forse non avrei ma sentito il peso di questa solitudine che mi era tanto famigliare... ma l’arrivo di questa ragazzina ha sconvolto tutto... ed ora che ho provato questo sentimento così nuovo, ora mi rendo anche conto fino in fondo del peso di questa mia solitudine che non avrà mai fine. Per tutti io sono Lalén Kusé, la vecchia ragna che insegna a tessere. Ma in realtà io sono solamente una vecchia: una vecchia tanto stanca e tanto sola”. E con quella sua voce così acuta e un po’ buffa, Lalén Kusé cominciò a cantare in una lingua sconosciuta: “Tornare improvvisamente ad essere una ragazzina dopo aver vissuto un secolo

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è come decifrare dei geroglifici senza la sapienza del saggio, tornare improvvisamente ad essere così fragile come un istante, tornare a sentire la profondità dell’universo come un bambino di fronte al Grande Spirito, ecco come mi sento in questo istante così fecondo. Il mio passo che retrocede quando il vostro avanza, lo scrigno dell’alleanza ha penetrato il mio nido con tutti i suoi colori e fluisce nelle mie vene ed anche la dura catena con cui ci lega il destino è come un fine diamante che illumina la mia anima serena. Ciò che può ottenere il sentimento non può ottenerlo il sapere e neppure il ragionamento più lucido, e neppure il pensiero più profondo; tutto cambia in un instante come per opera di uno spirito indulgente, ed allontana rancori e violenze: è solo l’amore con la sua scienza che ci restituisce tanta innocenza! L’amore è un mulinello di purezza originale, persino l’animale più feroce sussurra un dolce trillare, ferma i pellegrini, libera i prigionieri, l’amore con le sue lusinghe trasforma il vecchio in bimbo, solo il sentimento penetra nel malvagio e lo rende puro e sincero. Si spalancarono i battenti della finestra ed entrò l’amore con il suo mantello, come una tiepida mattina al suono della sua cetra ha fatto sbocciare il gelsomino, volando come una wala ha donato al cielo i suoi chaway e ha fatto che fossero solo diciassette i miei anni eterni7” * * *

“Likarayén - le chiese Lalén Kusé - quanto tempo è trascorso da quando non hai più visto un essere umano? Intendo dire, tranne il machi”. La stagione dei frutti, walüng, si avvicinava e il chiarore del giorno cominciava ad accorciare le notti: si era di primo mattino, pioveva a dirotto, mentre la vecchia ragna e la giovane donna erano sedute l’una accanto all’altra, impegnate a dipanare il morbido vello dei guanachi che avevano appena tosato. “Tranne il machi, dici? Beh, allora è da quando l’onda mi ha trascinata via da Caguach. Era la prima notte subito dopo il mio katán pilún, il mio sesto We Tripantü. Sei nuovi anni, sono trascorsi da allora! Ti rendi conto, Lalén Kusé, la metà della mia vita è trascorsa fuori del mondo... cioè...”. “Dici bene, Likarayén, proprio fuori del mondo, perché la wala, Rey Kusé, io, siamo tutti fuori del mondo, ed anche il vecchio machi ne è uscito”. “Non ci avevo pensato. La metà della mia vita... ma è l’unica metà che ricordo! Tutto ciò che era avvenuto prima di quella notte, mi sembra così confuso. Non capisco più cosa viene prima e cosa viene dopo. Mi ricordo, questo sì, di Millaray: mi basta chiudere gli occhi per vederla. Ricordo anche di una bambina chono: era buona ed aveva tanta paura; ma non ricordo più perché viveva con noi, ma forse non viveva con noi, non mi ricordo... però era buona e ci volevamo bene, anche se non ci capivamo. Poi ricordo il vecchio ngenpín. E’ solo un’immagine: è sopra di me, ho sentito male alle orecchie perché le sta forando, ma quello che ricordo è che il suo viso era vicinissimo al mio e piangeva. Ricordo bene: aveva gli occhi pieni di lacrime e una gli stava scivolando lungo la guancia, lentamente. Mi ricordo che avrei voluto abbracciarlo, mi faceva pena, non volevo che piangesse, perché lui mi voleva bene, ma non osai muovermi. Rimasi 7

da Violetta Parra, Volver a los diecisiete.

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immobile e poi tornai al mio posto, accanto a Millaray. Sei anni sono trascorsi! Invece non ricordo nulla della mia ruka. Avevo dei nonni, forse degli zii, non lo so, di loro non ricordo più nulla...”. “Beh, allora tra poco vedrai delle persone, degli uomini veri, intendo, come te”. Lalén Kusé la fissò attentamente e vide nei suoi occhi una profonda inquietudine: tuttavia Likarayén non disse nulla. “Perché io ti vedo, e anche il machi ti vede, se mi dici che sei invisibile per gli uomini?”. La domanda della ragazzina giunse inattesa ad interrompere il rumore monotono della pioggia. “Perché tu, giovane donna, possiedi la vista che vede dentro le cose, come i machi e i ngenpín”. “Allora tutti i machi ti vedono?”. “No. In realtà sono pochi i machi che mi vedono, perché sono pochi quelli che hanno l’occhio che vede le cose nascoste. E neppure tutti i ngenpín, mi vedono. O quanto meno non mi vedono per quello che sono, ma solamente per quello che sembro”. “Non ti capisco molto, ma parli in un modo che mi fa ricordare la Pincoya. Se non ti vedono per quello che sei, allora come ti vedono? E come fai a insegnare alle bambine a tessere la tela, se non ti possono vedere?”. “Se mi cercassero, ma non lo fanno, allora vedrebbero un grosso e brutto ragno appeso seminascosto tra l’intreccio di pali posto sopra il telaio, oppure che scende lentamente appeso al suo filo da una trave che sostiene il tetto della capanna. Questo vedrebbero. E le bambine non sanno, perché non lo vedono e non lo sentono, che quel brutto ragno che sale e scende dalla trave del tetto, si muove all’unisono con il loro telaio, e che ha allungato a dismisura le sue lunghissime zampe e, con così tanta leggerezza che neppure se ne avvedono, guida le loro piccole dita inesperte e fa sì che riescano ad annodare il filo e stringerlo intorno alla trama. E le mie zampe diventano sempre più leggere a guisa che le loro piccole mani diventano più esperte, sino a quando non c’è più bisogno di me e allora quel brutto grosso ragno che saliva e scendeva dalla trave appeso ad un esile filo improvvisamente risale e scompare e non lo si vede più. Ora, però, è giunto il momento che tu vada dal machi: portati la tua pelle di puma, perché non tornerai prima di paio di giorni. Va, dunque”. L’anziano machi non era solo. Sedeva su alcune pelli adagiate per terra, nella sua ruka, con il fuoco ben acceso (“e diventato sempre più freddoloso, negli ultimi tempi” pensò Likarayén), appoggiato in una posizione scomoda e contorta contro la parete di paglia della capanna. Due uomini erano con lui, rispettosamente in piedi. Uno basso e l’altro alto, erano nel pieno della loro maturità, ed il loro atteggiamento era quasi solenne. I loro poncho erano decorati e la fascia sulla loro testa assai elaborata. “Forse sono dei lonko” pensò Likarayén vedendoli, ma rivolse loro appena un breve cenno di saluto, “mari-marí”, e accorse subito dal vecchio: china su di lui, lo aiutò a raddrizzare un poco il suo corpo sempre più deformato e a sedersi in una posizione meno incomoda. Quindi si mise all’estremità opposta della minuscola capanna, rimanendo rispettosamente in piedi ed osservando in modo discreto e diffidente i due uomini presenti. “Feychi malén ngey kiñé domo-machi” disse il vecchio a modo di presentazione. “Come fa questa ragazza ad essere una machi” pensavano i due uomini mentre la guardavano silenziosi e contrariati “semmai con quegli occhi di fuoco e quei capelli che sembrano la lava del vulcano sarà una kalku”. Ma non osarono dire nulla. Likarayén aveva interrotto con il suo ingresso la loro conversazione, che ora riprese. Spiegava uno dei due all’anziano sciamano da quanto tempo il figlio del lonko rimaneva immobile steso sul suo giaciglio, senza più recuperare conoscenza. Dissero di come i machi si erano succeduti gli uni agli altri, senza ottenere nulla, mentre il giovane diventava ogni giorno più debole ed inerte. Antüwala ascoltava e taceva: teneva gli occhi socchiusi e, per chi non lo conoscesse, potava quasi sembrare che la sua mente vagasse lontano, che nulla udisse di quanto si

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andava dicendo, o che si fosse assopito. I due uomini ogni tanto s’interrompevano e si guardavano tra di loro perplessi, senza sapere se continuare o meno nel loro racconto. Ogni tanto osservano brevemente la ragazzina, e nel loro sguardo c’era diffidenza e timore. Poi, perplessi, riprendevano il loro racconto, senza che il vecchio mostrasse segno alcuno di udirli. Likarayén percepiva vivissima la diffidenza dei due uomini nei suoi confronti, nonostante non avessero detto nulla: le pareva di leggere nei loro pensieri, “questa non può essere una machi; è una kalku, certamente è una kalku” e vedeva che, ora, erano dubbiosi se avessero fatto bene a venire alla ricerca di questo sciamano così famoso. “Forse, un tempo era un grande machi - pensavano - ma ora è solamente un vecchio che non ha neppure più la forza di stare seduto: cosa siamo venuti a fare, quassù?”. Ma improvvisamente Antüwala li interruppe: “ho capito. Verremo subito tutti e due” e vedendo che lo guardavano perplessi, si affrettò ad aggiungere: “la giovane domo-machi viene insieme a me. Ora aspettateci fuori”. I due uomini uscirono dalla capanna: mentre passavano accanto a Likarayén , quello più basso rivolse alla ragazza uno sguardo pieno di paura ed antipatia. “Antüwala - domandò Likarayén non appena rimasero soli - perché hanno paura di me, se neppure mi conoscono? perché provano tanta antipatia nei miei confronti, se non gli ho mai fatto niente?”. “Perché sei diversa, ragazza mia, e gli uomini hanno paura della diversità. E’ anche per questo che voglio che tu venga con me. Fino ad ora abbiamo solamente parlato. Tante parole. Ora vedrai i fatti: farò un machitún e tu rimarrai sempre al mio fianco, mi aiuterai, seguirai ogni passo e comprenderai molto di più che con dieci volte dieci parole. Ma capirai anche qualcosa completamente diverso, che ti farà soffrire: la gente ha paura di te, perché i tuoi occhi ed i tuoi capelli di fiamma mostrano che il tuo sangue appartiene a Peripillán, e la tua pelle opalescente afferma che sei prediletta da Küyén. Già questo basta a causare timore. Ma sei anche una machi, una domo-machi, e ciò rende tutto più difficile”. “Ma tu stesso lo dici: sono machi, non kalku!”. “E tu credi che la differenza sia così grande? Credi proprio che machi e kalku appartengano a due stirpi diverse? che il bene ed il male siano sempre separati e contrapposti? che un machi non possa convertirsi in un kalku? Lo credi proprio? Se pensi questo, ti sbagli di grosso, Likarayén, ñi susunge”. Likarayén non sapeva che pensare. Era la prima volta che Antüwala le parlava in questo modo. Ma era anche la prima volta che il vecchio sciamano gobbo la chiamava susunge, ragazza prediletta. Una affermazione di affetto del tutto inattesa e proprio per questo ancora più bella e gradita. “Non è un dono essere machi, cara susunge, ma è un enorme onere. Soffrire più degli altri: è questo il tuo destino, ed è ora che ciò che deve compiersi abbia il suo inizio, poiché il tempo è ormai vicino. Ora aiutami ad alzarmi, che dovrai essere il mio bastone”. * *

Per raggiungere la sponda del grande lago ai piedi del Peripillán impiegarono l’intera giornata. Antüwala non volle la compagnia dei due uomini: dall’alto del Calbuco il lago era sempre ben visibile, almeno quando gli alti alberi della foresta non lo nascondevano agli occhi, e non era difficile rintracciare la loro destinazione finale: una grande ruka, accanto alla quale ve ne erano alcune più piccole, non lontano dalla sponda del lago e proprio al fondo di quell’ampio golfo che s’insinuava tra il Calbuco ed il Peripillán. Likarayén era agitata. Ripercorreva a ritroso quello stesso sentiero che aveva percorso cinque anni prima in compagnia di Lalén Kusé. Ricorda bene quanto fosse agitata, allora. La vista del mankián, prima, poi quella così inattesa e strana della vecchia ragna. Da allora Peripillán era un pensiero sempre presente nella sua testa, una attrazione profonda alla quale faticava a resistere, ma da allora non si era più allontanata dalla grotta di Lalén

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Kusé e dalla sovrastante ruka del vecchio machi. Scendendo verso la vallata del Petrohué, le pareva tornare indietro nel tempo e la fumosa vetta del vulcano ora l’attraeva con una intensità dolorosa. “Non guardarlo, Likarayén, non lasciarti attrarre da lui” le disse il vecchio sciamano che percepiva il pensiero della ragazzina. Fu una discesa molto faticosa. Il vecchio camminava con grandissima fatica e Likarayén intuiva quanto ogni passo gli costasse, il dolore che provocava nelle sue gambe magrissime e completamente deformate. Era leggero, il vecchio machi, che come si alimentava solamente con erbe, frutti selvatici e pinoli che una volta lui stesso raccoglieva e che ora era la ragazza a portargli, insieme al latte che le dava Lalén Kusé. Erano esattamente le stesse cose che costituivano l’unico pasto della giovanetta, che ormai neppure ricordava il sapore della carne, del pesce, dei frutti di mare o delle alghe. Quando raggiunsero la riva del lago il sole era già da tempo scomparso alle spalle della bassa cordigliera collinosa che separava il lago dal vasto oceano. La pioggia non aveva mai cessato di cadere ed anche se ormai la stagione fredda era finita, tuttavia Likarayén rabbrividiva dal freddo e dall’acqua che aveva inzuppato la sua tunica e la sua pelliccia di puma. “Povero Antüwala!” mormorò sapendo quanto fosse freddoloso il vecchio sciamano. Ma lui non si era mai lamento di nulla. Scendeva in silenzio, appoggiandosi con la mano (e talvolta con tutt’e due) alle spalle della ragazzina, ma il volto contratto da una smorfia di dolore e di stanchezza rivelava tutto lo sforzo che esso compiva. Si fermarono sulla riva del lago. Una spiaggia di pietre, le onde che andavano e venivano sul bagnasciuga, il tremolio della superficie dell’acqua picchiettata dalla pioggia. Likarayén sentì un nodo in gola che le impediva di respirare. Gli occhi si fecero gonfi e lucidi per il pianto trattenuto. Volle dire qualcosa al vecchio sciamano, ma non riuscì a proferire neppure una sillaba. Non riusciva a capire cosa le stava succedendo: sentiva che se avesse continuato nel tentativo di dire qualcosa, si sarebbe messa a piangere in maniera assurda e senza più freno alcuno. Antüwala la guardò: pur tra la luce del giorno che scemava e l’oscurità della notte che avanzava, il viso della malén tradiva tutta l’angoscia che provava. Con l’aiuto di Likarayén, sedette su una grossa pietra vicino alla riva, riparata per quanto possibile dalla pioggia. Likarayén guardava la superficie del grande lago, incurante della pioggia e del freddo che sino a poc’anzi la faceva rabbrividire. “Va in acqua, se vuoi” le disse Antüwala. Lei si voltò e lo guardò sorpresa. Ma allora cedette e si mise a piangere rumorosamente. Tornò a guardare il lago. Corse per guadagnare i pochi passi che la separavano dall’acqua, lasciando cadere la pelliccia che appoggiava sulle sue spalle, e si tuffò nel lago. Mentre era nell’acqua, si liberò della sua tunica, la tirò sulla spiaggia e si mise a sguazzare nuda nell’acqua, come non faceva più sin da quando era bambina. L’acqua le entrava in bocca, nel naso, e si accorse con meraviglia che era dolce, come l’acqua dei fiumi, anziché salata come quella del mare. Completamente nuda, s’immergeva con tutto il suo corpo, trattenendo il respiro, poi usciva con la sola testa, ma subito si rituffava nell’acqua: pazza, era pazza. “Sono folle” pensava, saltando nel lago mentre gli spruzzi che provocava si confondevano con la pioggia. Non capiva più di nulla, neppure se era disperata o felice. Si rendeva conto solo allora di quanto le mancava il mare, di quanto ella stessa fosse una creatura marina. Intanto si faceva buio e a poco a poco le sponde del Llanquihue si perdevano dell’oscurità. Il grande vulcano era completamente buio: ma il pennacchio fumoso alla sua sommità era percorso dai bagliori di fuoco, riflesso del lago di lava incandescente nel suo cratere. Non vide, Likarayén, la colonna di uomini con torce che avanzavano lungo la spiaggia e che avevano raggiunto il vecchio sciamano. Non sentì Antüwala quando disse

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bruscamente “lasciatela stare e aspettate!” agli uomini che volevano incamminarsi verso la ruka. Continuava a saltare nell’acqua e ora non aveva più dubbi: era pervasa da una grande ed intima felicità. A lungo si girava e si immergeva nel lago, senza mai guardare la sponda. Improvvisamente vide le torce. Rimase immobile per un istante. Quindi comprese che erano venuti ad aspettarli, ed allora corse verso la spiaggia, a tentoni cercò nel buio la sua tunica e l’indossò, e poi raggiunse il vecchio sciamano, raccogliendo la sua pelle di puma. “Va tutto bene, susunge, va bene così” le disse a bassa voce il vecchio prima che lei potesse scusarsi o dire qualunque altra cosa. “Ora possiamo andare” aggiunse rivolto agli uomini in attesa. Permise solo a Likarayén di aiutarlo a rialzarsi e quindi, appoggiandosi alla fanciulla, si avviò insieme alla colonna di uomini giunti ad accoglierli. Giunsero al gruppo di capanne che era notte fonda, mentre la pioggia continuava a scendere senza sosta. Fecero entrare il vecchio e la ragazzina in una piccola ruka. “Portale una tunica asciutta!” comandò lo sciamano a una donna che era lì in attesa. La donna scappò via e tornò immediatamente con vesti asciutte per entrambi. “Lasciateci soli!” comandò ancora lo sciamano. Tutti si affrettarono ad uscire. Allora cambiarono le loro vesti fradice con quelle asciutte. “Perdonami Antüwala - disse Likarayén - non capisco cosa mi sia successo, ma non mi sono accorta che fossero arrivati...”. “Va bene così, mia giovane domo-machi - rispose il vecchio - non scusarti. Ti ho già detto che va bene così” e la guardò dritta negli occhi e all’incerta luce del focolare acceso Likarayén vide che le sorrideva. Lui sempre così serio e solenne, ora le sorrideva. La malén, invece, rimase serissima: ma con i suoi occhi ricambiava il sorriso dell’anziano. * * *

Il malato era disteso sul suo giaciglio di pelli, accanto ad un focolare dalla fiamma alta e vivace. Quando i due sciamani entrarono, il vecchio e la ragazzina fianco a fianco, tutti tacquero, ma il brusio di stupore per gli occhi ed i capelli di fiamma di Likarayén era a mala pena trattenuto. L’uomo alto e quello basso che erano andati a chiedere il loro aiuto erano lì, in piedi, accanto alle loro donne, convinti di aver sbagliato cercando quel vecchio che si accompagnava ad una kalku. Ma Antüwala nonostante la sua deformità e la sua pronunciata gobba sollevò le braccia e squadrò tutti negli occhi, ad uno ad uno, girandosi lentamente su se stesso, e tutti compresero che il machi di Purén era certamente il più grande di tutti gli sciamani del Mapu. Il vecchio e la ragazzina si misero accanto al giaciglio dove il malato era disteso: Antüwala al lato destro e Likarayén a quello sinistro. Quindi il vecchio fece un cenno alla ragazzina e, ad una sola voce, iniziarono la preghiera ai quattro spiriti primordiali fücha chaw, il padre antico, kusé ñuke, la madre antica, weche wentru, lo spirito giovane maschile, ülcha domo, lo spirito giovane femminile - invocando il loro aiuto: “voi ci avete chiamato, voi ci avete dato questo potere - recitava la loro preghiera - con rispetto chiediamo ora il vostro aiuto”. Poi diedero inizio al sacro rituale. Iniziarono a battere all’unisono i loro kultrún. Il ritmo veloce e crescente, proprio della fase iniziale del machitún, così come Likarayén aveva appreso già da tante lune, ma che ora per la prima volta si trovava a percuotere il suo strumento per svolgere il rito magico. Alternava le nocche e i polpastrelli, e poi la palma della mano, e poi ancora i polpastrelli e le nocche, in un continuo alternarsi, sempre esattamente insieme, senza mai sbagliare un solo cambio di ritmo né un solo movimento, come se le quattro mani appartenessero ad un unico corpo. Poi lo sciamano iniziò il suo canto, mentre ruotando bruscamente le braccia faceva suonare i bracciali che portava ai polsi. Likarayén

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rispondeva con il suo canto a quello dell’anziano, alternandosi l’un l’altro nella voce mentre continuavano a percuotere all’unisono i loro kultrún cambiando costantemente ritmo ed accento. Improvvisamente, di tanto in tanto il suono secco del piccolo tamburo cessava bruscamente mentre le voci si univano nel canto, e poi il suono dei due kultrún si riannodava alla voce, completandola con una intensità che cresceva lentamente. Di tanto in tanto l’anziano sciamano buttava nel fuoco alcune erbe ed un fumo spesso ed aromatico riempiva la ruka. Tutti i famigliari del malato, le sue tre mogli, i numerosi figli ancora piccolini, i genitori, e molti altri, tutti erano intorno e mantenevano il più assoluto silenzio. Quindi i due machi iniziarono a strofinare vigorosamente il corpo esanime, battendo velocemente la pelle tesa e giallastra con il palmo delle loro mani. Intanto recitavano il ngillatúnmankutrán, alternandosi nella declamazione dei versi, e conclusero con l’invocazione al wekufe: “esci da questo corpo! Te lo ordiniamo in nome dei quattro grandi spiriti primordiali, coloro che tutto hanno generato!”. Il vecchio e la ragazzina parevano trasfigurati. La loro statura ora era molto più grande, stentava ad essere contenuta nella bassa ruka. Non solo gli occhi di Likarayén, ma anche quelli dello sciamano ora sembravano di fuoco: da essi scaturivano bagliori di tempesta. Poi il vecchio lanciò un grido, pronunciando parole in una lingua sconosciuta: allora anche Likarayén gli fece eco, ed iniziò una dialogo drammatico e inintelligibile tra l’anziano sciamano e la giovane apprendista al suo primo rituale. “Scacciate i wekufe!” gridò improvvisamente Antüwala ai presenti, ed essi proferirono grida selvagge, percuotendo strumenti improvvisati, saltellando sui loro piedi, improvvisando un folle girotondo attorno al malati ed ai due sciamani. Partecipavano tutti, anche le donne ed i più piccini: sembrava impossibile che la ruka potesse contenere tante persone e che tutte potessero compiere quella folle giravolta intorno ai tre senza sfasciarla. “Allontanalo, Likarayén. Ora! Ora! succhialo via, quello spirito immondo! Presto prima che fugga!” gridò infine Antüwala, ed allora Likarayén appoggiò la sua bocca sul petto nudo del malato, e percorse con essa il suo corpo. Ora lo sentiva: percepiva la presenza dello spirito all’altezza del fegato. Le sue labbra ne sentivano il movimento, guizzante come quello di una lucertola. Con la sua bocca lo seguiva, cercando di immobilizzarlo. Ci riuscì. Allora si mise a succhiare, con tutta la sua forza, mentre Antüwala batteva con le sue dita in un ritmo forsennato. la testa le girava. Ormai aveva raggiunto il küimi. Sentiva che stava galleggiando. Intorno a lei luci e colori. La serpe tentava di scivolare via, ma la sua bocca la seguiva attraverso la pelle tesa del malato senza mollare la presa. Succhiava con ogni forza. Ecco. Sentì la serpe immonda nella sua bocca. C’era riuscita. Il wekufe era uscito da quel corpo esanime. “Presto! presto!” disse a se stessa mentre la serpe si contorceva cercando di fuggire e mordeva a sangue la sua lingua. La sputò nella grossa foglia di pangui che teneva aperta nelle sue mani. Ebbe appena il tempo di vedere il suo corpo serpentiforme mentre ripiegava e ripiegava la grossa foglia sul demone per impedirgli di fuggire. Intanto cercava di raggiungere il fuoco. Volava. Volava. Eccolo, il fuoco, ma la foglia ripiegata dieci volte su se stessa si agitava forsennatamente, cercava di sfuggirle dalle mani. “Devo tenerla, a qualunque costo! - pensava Likarayén - non posso lasciarla fuggire!” e si buttò verso il fuoco ed introdusse nella fiamma le sue mani senza mollare la presa. Bruciava, come bruciava la sua pelle! ma non cedette. Ora la foglia bruciava anch’essa ed il demonio che conteneva si contorceva sempre più lentamente, fino a cessare ogni movimento. Allora una grande fiammata, prima intensamente rossa, simbolo del potere del pillán vincente su quello del wekufe, poi gialla, simbolo del disco solare che rinnova la vita, poi bianca, simbolo della

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guarigione che finalmente aveva luogo, e infine verde, simbolo della sua sapienza di machi. Solo allora Likarayén ritrasse le sue mani dal fuoco, intorno a lei tutto fu buio e perdette conoscenza. Lentamente la vita che l’aveva abbandonata, ora tornava a percorrere le sue vene. Likarayén aprì gli occhi. Era distesa accanto al fuoco e l’anziano sciamano era accanto a lei. Pregava nella lingua sciamanica che ora anche lei, almeno in parte, poteva comprendere. Tutti i presenti erano in attesa del verdetto. Un nome: quello del kalku che con la sua stregoneria aveva provocato la malattia. L’attesa di quel nome era segnata da una tensione assolutamente palpabile, quasi solida, che riempiva la ruka. Con molta fatica, Likarayén si sedette al suolo: la testa le doleva ferocemente e sentiva che intorno a lei tutto girava. Le mani le bruciavano atrocemente. Finalmente riuscì a mettere a luce le immagini, ed allora se le guardò, convinta di vederle carbonizzate. Invece erano rosse come il guscio di un gambero bollito, ma intatte. Solamente rimaneva quel rossore ed il dolore atroce a testimoniare quanto lei le avesse trattenute nella fiamma per bruciare la serpe nel cui corpo avevano costretto il wekufe. Si sentiva solamente sfinita. Avrebbe tanto voluto che il rito fosse concluso, ma mancava ancora quella parte finale, così importante, che era la rivelazione del nome di colui che si era posto al servizio del wekufe, quella parte che a lei, donna, sarebbe stata sempre proibita. Sentiva pena per se stessa, per le sue povere mani martoriate, per quella testa dove tutto sembrava che battesse e che volesse entrare ed uscire attraversando il suo cranio. Poi pensò nel vecchio machi, che aveva compiuto i suoi stessi movimenti, nonostante l’artrite che deformava le sue ossa, nonostante gli anni che pesavano come macigni sulle sue spalle, nonostante la gobba che gli impediva di ergere la schiena. Allora ebbe vergogna della sua debolezza. * * *

Quando il machitun si concluse, era già trascorsa non solo l’intera nottata, ma anche gran parte della giornata. Continuava a piovere: una pioggia fine, fredda ed uggiosa, che sembrava riportare la stagione indietro di un paio di lune. Le nuvole basse impedivano di vedere la parte alta del Peripillán, ma non si sarebbero stupiti di vederla tutta ammantata di neve fresca. Ai due machi venne messa a disposizione un ruka affinché potessero riposare. Rimasti soli, si distesero sui giacigli di pelle, ma solo il vecchio poté prendere sonno. La malén continuava a rigirarsi sulle morbide pellicce, troppo agitata e troppo stanca per potersi rilassare. La testa continuava a dolerle, la lingua era tutta maciullata e gonfia e le mani arrossate continuavano ad ardere come se fossero ancora nella fiamma viva. Era contenta di aver superato bene la prova alla quale era stata sottoposta. Antüwala non le aveva detto nulla, ma la sua espressione mostrava tutta la sua approvazione. Ora ripensava a quanto era avvenuto. Ciò che più l’aveva impressionata era la sensazione che aveva sentito quando dal tanto succhiare il wekufe imprigionato nella piccola serpe aveva attraversato la pelle del moribondo ed era entrata nella sua bocca. Ma era anche stupita per la grandissima forza che quel rettile così minuto aveva dimostrato quando, avvolto nella grossa foglia di pangui, l’aveva infilato e trattenuto nella fiamma. Non sapeva spiegarsi, perché si era comportata così. Doveva bruciarlo, il demonio, questo lo sapeva bene, ma il vecchio machi di Purén non le aveva mai detto che avrebbe dovuto trattenerla con le sue stesse mani nella fiamma ardente. Tante volte l’anziano le aveva descritto il momento tremendo in cui si risucchiava fuori l’immonda serpe dal malato, ed aveva cercato di raffigurarle anche ciò che in quel momento si provava, quali sensazioni e quali timori, ma viverli era tutta un’altra cosa. Quando lo sciamano terminò

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il machitun e rivelò il nome dell’autore della malvagia stregoneria, tutta l’attenzione dei presenti si concentrò sul proposito di immediata vendetta: il vecchio machi e la ragazzina, ma anche il malato, parvero dimenticati da tutti. Tutti si affannavano a parlare, chi manifestando il proprio stupore per quel nome, chi sostenendo di averlo sempre sospettato, chi invitando ad estendere la vendetta a tutta la famiglia del kalku. Il vecchio colse l’occasione di quella confusione per dare a Likarayén un bolo di erbe e semi senza farsi notare: “mettili in bocca e succhialo lentamente. Ti farà stare meglio... o almeno meno peggio”. Likarayén non sapeva come adesso si sarebbe sentita senza quell’intruglio che si era lentamente sciolto nella sua bocca. Sapeva solamente che si sentiva malissimo, ma provava una grande emozione al pensiero che anche il quel momento l’anziano sciamano si fosse preoccupato per lei. Quando già la sera si approssimava, lo sciamano si destò dal suo sonno pesante. Likarayén, ancora sveglia, immediatamente lo aiutò a sedersi. “Vieni - le disse - aiutami ad alzarmi e andiamo a vedere come sta il malato”. Alzarsi fu faticoso ed osservando la difficoltà con cui il vecchio si muoveva Likarayén si domandò come era possibile per lui suonare il quel modo il kultrún e le sonagliere che aveva ai polsi. In quel momento sembrava altrettanto agile di lei, che era appena tredicenne. “Quanti anni hai, Antüwala?”. Tanto tempo era trascorso insieme a lui, ma non glielo aveva mai domandato. “Sono così tanti che ho perso il conto, susunge”. Appoggiandosi alla ragazza, mosse qualche passo incerto. “Ora andiamo” disse, e si incamminarono insieme. Appena fuori della capanna, alcuni uomini erano in attesa. Accorsero immediatamente e li accompagnarono nella ruka del malato. Questo era ancora immobile, adagiato nel suo giaciglio, ma ora la sua pelle aveva recuperato un poco di colore e bastava appena guardarlo all’incerta luce del focolare, ora assai meno vivo della sera precedente, per capire che stava molto meglio. “Occupatene tu” disse a Likarayén. La fanciulla si avvicinò e si inginocchiò al suo lato. Gli toccò la fronte: era fresca. Gli prese il polso: il battito era debole, ma regolare. Infine scostò il manto che copriva il suo corpo nudo e cominciò a ispezionare punto per punto tutta la sua pelle, picchiettandola con la palma della sua mano. Poi appoggiò le sue labbra sul ventre dell’uomo e provò a succhiare leggera in corrispondenza del suo fegato. Il wekufe ripugnante se ne era andato, ne sentiva sicura: in quel corpo non c’era più nessuna presenza estranea. Infine, rimanendo ancora inginocchiata, si volse verso l’anziano machi, ma questi con un cenno appena percettibile la invitò a rivolgersi ai presenti. Allora Likarayén fissò lentamente ad uno ad uno tutti i presenti: le donne, i bambini, ma soprattutto i due uomini che erano venuti a chiamarli, rispettivamente padre e zio del malato. Inchiodò i suoi occhi di fiamma nei loro, con sfrontatezza, percependo benissimo tutta la loro antipatia, ma anche il loro rispetto nei suoi confronti. Quindi disse: “è libero da ogni presenza. Quest’uomo presto tornerà alle sue occupazioni ed ai suoi doveri”. Pronunciò queste parole con un tono di voce pacato, scandendo bene le parole, eppure tutti rimasero impressionati dalla autorevolezza che quella ragazzina che non aveva ancora l’età di maritarsi dimostrava. I due uomini abbassarono la testa. L’anziano machi rimase sempre in silenzio. Solo allora, senza neppure un cenno di saluto, si appoggiò a Likarayén ed insieme uscirono dalla ruka. Il mattino successivo sacrificarono ben tre guanachi agli spiriti. Fu il vecchio ad ucciderli con il coltello di ossidiana, ma fu la ragazzina che osservò i loro fegati e confermò quanto già detto la sera precedente. Quindi a metà giornata s’incamminarono sotto la pioggia per fare ritorno alla loro capanna, vicino alla sommità del Calbuco. Soli, poiché il vecchio non volle che nessuno li accompagnasse.

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Raggiunsero il luogo sulla sponda del lago dove Likarayén si era bagnata. Non si soffermarono neppure un istante, ma iniziarono subito la lenta e faticosa salita. La luce cominciava già ad essere poca quando videro un luogo dove una roccia sporgente forniva un piccolo riparo. Non avevano fatto molta strada, ma il vecchio stentava moltissimo a camminare e più volte solo la prontezza dei riflessi di Likarayén aveva impedito che cadesse, sostenendolo prontamente. Anche se al riparo dalla pioggia diretta, il suolo era tuttavia bagnato. Si distesero ugualmente. Antüwala era sfinito: non ce la faceva più. Likarayén dubitò persino che fosse possibile ritornare fin lassù, dove lo sciamano aveva la sua ruka, e pensò che forse era stato un errore rifiutare l’aiuto offerto. “Non dubitare, Likarayén. Ce la farò a risalire. Solo ora ho bisogno di riposare. Domani abbiamo tutta la giornata, per salire. A poco a poco ce la faremo. Non volevo l’aiuto di chi ti ha mostrato la sua ingiusta ostilità”. “Ma perché pensano che io possa essere una kalku? Perché hai detto che machi e kalku appartengono ad una stessa stirpe?”. “Perché è così”. Tacque per un poco, cercando di riposare. “E’ così, Likarayén. Vi sono persone alle quali gli spiriti conferiscono un potere straordinario. Possono usarlo a fin di bene, ed allora sono machi, oppure a fin di male, alleandosi ai demoni, ed allora sono kalku. Anche gli spiriti sono capricciosi: a volte aiutano e proteggono, altre volte sono irascibili e vendicativi. Se hai messo e tenuto le tue mani nel fuoco eppure non ti è successo nulla e non le hai ritirate ridotte a due moncherini carbonizzati, è perché uno spirito ti ha voluto proteggere: forse è stato il ngenkütral, il folletto del focolare, o forse lo stesso Peripillán, il potente spirito che domina ogni fuoco. Ma qualche forza soprannaturale ti ha protetta, altrimenti le tue mani non sarebbero più sane. Chissà se gli spiriti sono buoni e giusti...”. “Ma tu dubiti, Antüwala ? Non ne sei certo?”. “Io dubito sempre, Likarayén. Il dubbio è una grande ricchezza, mentre la certezza è una disgrazia. E’ il dubbio che fa sì che tu ti ponga interrogativi e ti faccia domande: ma in questo modo cresci e diventi fertile. La certezza, invece, rende egoisti e duri: quando uno è sicuro di essere nel giusto, cessa di chiedersi e cessa di ascoltare. Allora non impara più nulla, non cresce e invece s’inaridisce. Ecco perché il dubbio è una grande ricchezza dell’anima”. Rimase per un po’ in silenzio. Poi Antüwala aggiunse ancora: “ecco, dunque, che vi sono persone buone, ed altre cattive. Ma i più sono a volte buoni, e a volte cattivi, e questo avviene anche per coloro ai quali gli spiriti hanno conferito un grande potere. Se sono veramente buoni, allora agiscono sempre come machi, ma se la loro natura è malvagia, allora saranno kalku. Ma non di rado, a volte sono buoni e a volta cattivi, e così vi saranno momenti in cui meriteranno la fiducia, ed altri in cui giustificheranno l’odio di cui saranno oggetto”. “Ma tu sei buono, Antüwala, e io sono certa che non hai mai commesso nessuna malvagità”. “Anche tu sei buona, Likarayén, ed anch’io sono certo che non commetterai nessuna malvagità. Ma tu non vivere nella certezza che non commetterai mai nessuna malvagità, perché altrimenti sarà proprio questa stessa certezza che a poco a poco potrebbe renderti malvagia”. * * *

Vennero le giornate di sole e maturarono i frutti e raccolsero i pinoli. Poi la pioggia riprese a cadere noiosa, le giornate si accorciarono ed un nuovo We Tripantü si fece avanti. Per Likarayén sarebbe stato il suo quattordicesimo compleanno. L’esperienza del machitún aveva sconvolto la ragazzina. Aveva percepito in modo violento e drammatico l’alito degli spiriti e dei demoni ed ora più che mai avrebbe voluto che il suo destino non fosse quello di essere una machi. “Vorresti forse anche avere i capelli e gli occhi neri, anziché del colore del fuoco?” le chiese Lalén Kusé mentre erano

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intente a tessere e Likarayén manifestava i suoi dubbi sul suo destino. “Non me lo sono mai chiesta...” rispose dubbiosa la ragazza, e si rimise all’opera pensierosa. “No! - disse dopo un bel po’ che erano rimaste entrambe in silenzio - anche se gli esseri umani odiano i miei occhi di fiamma ed i miei capelli di fuoco, io voglio essere come sono. Millaray mi amava come sono e non credo che mi avrebbe voluta diversa. Ed anche il ngenpín, e la Pincoya, e il vecchio machi e Rey Kusé...”. “Anch’io ti voglio bene così come sei e non ti vorrei diversa”. “Vorrei solo che la gente accettasse la diversità degli altri”. “Gli esseri umani sono stupidi, Likarayén, non capiscono niente. Sono proprio stupidi. Dicono che è bello il bosco perché ci sono piante grandi e piccole, alcune perdono le loro foglie quando nell’aria c’è la neve ed altre le mantengono, alcune hanno fiori ed altre fanno frutti, ed i fiori sono belli, perché alcuni sono rossi come il copihue ed altri bianchi come il canelo, e poi sono ciechi di fronte alla bellezza della loro diversità. Sono proprio stupidi gli esseri umani”. Likarayén stava per replicare quando una violenta scossa la fece prima sobbalzare e poi cadere dal precario sgabello sul quale era seduta. La scossa giunse improvvisa, senza essere preceduta da quel rumore profondo che spesso l’anticipava di qualche istante. Tutto fu un sobbalzare, mentre dalla volta della piccola grotta cadevano pietre e frammenti di roccia. Ora sì che il rumore era assordante e la polvere che si era immediatamente sollevata rendeva confusa ogni cosa. Una pietra, non grande, colpì Likarayén sulla sua spalla sinistra, quella coperta dalla tunica. Durarono a lungo, le scosse, una dopo l’altra rendendo impossibile ogni movimento che non fosse trascinarsi penosamente sul suolo. Poi finalmente la terra si placò e tornò il silenzio. “Stai bene, Likarayén?”. La voce di Lalén Kusé era come sempre imperturbabile e non tradiva alcuna emozione. “Io sì. Tu?”. “Va tutto bene. Questa volta è stato piuttosto forte il terremoto. Corri, va subito a vedere cosa è successo dal machi”. Likarayén si rialzò e si diresse verso l’imboccatura della grotta. Continuava a piovere: una pioggia leggera leggera, che non riusciva a nascondere completamente il grande vulcano. Guardò verso la sua sommità: sembrava più viva di quanto non lo fosse prima. Lapilli incandescenti venivano scagliati verso il cielo e nel loro percorso lasciavano brevi scie luminose che subito si spegnevano. Il rumore di numerose frane attraversava il brusio insistente della pioggia. Sebbene fossero nel mese di rimu-küyén, la neve era molto in ritardo e non faceva ancora molto freddo. Solamente ora che era uscita Likarayén sentì un forte dolore alla spalla sinistra. Istintivamente vi portò la mano e la ritrasse appiccicosa per il sangue che aveva inzuppato la sua tunica. Non ci fece caso e si mise a correre in salita, per raggiungere prima possibile la ruka dello sciamano. “Bene. Speravo proprio che tu venissi”. Lo sciamano era a terra, nella piccola capanna rimasta intatta. Tuttavia non riusciva a rialzarsi. “Cosa ti è successo? Ti sei fatto malo? Ti è caduto qualcosa addosso?”. “Cosa vuoi che mi succeda, susunge. Sono vecchio e ogni giorno che passa diventa più difficile non solo camminare, ma anche solo rimanere in piedi. Adesso aiutami a rialzarmi e accompagnami al rewe”. Quando furono fuori e raggiunsero i gradini dell’altare, lo sciamano staccò le sue mani dalle spalle di Likarayén e le appoggiò sul rewe. Solo ora si accorse che la sua mano sinistra era imbrattata del sangue della ragazzina. Allora tracciò una croce nel terzo gradino, disegnando quattro linee parallele che si intersecavano due a due. Poi, sempre appoggiandosi all’altare per non perdere l’equilibrio, diede a Likarayén il suo coltello di ossidiana e le porse la sua mano destra. “Fammi un’incisione nel pollice” le ordinò. La ragazzina ricevette la lama nelle sue mani e la avvicinò esitando al pollice dello sciamano. “Profonda, falla, che deve sanguinare abbondantemente”. La malén diede un colpo secco e forte tuttavia il sangue sgorgò faticosamente. “Ormai sta smettendo di

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circolare nelle mie vene” commentò lo sciamano, mentre con il pollice tracciava un semicerchio ad ognuna delle quattro estremità della croce. Quindi rimase in silenzio, recitando mentalmente una lunga preghiera. “Ora riaccompagnami dentro - comandò quando ebbe terminato - e poi torna da Lalén Kusé. Io non ho bisogno di nulla. Sto bene”. Mentre Likarayén scendeva guardava il vulcano di fronte a lei. La pioggerellina era cessata e l’aria era pulitissima in quanto aveva spazzato via tutta la polvere sollevata dal terremoto e dalle frane che avevano fatto seguito alle scosse. Sì, ora era evidente: l’attività del vulcano si era improvvisamente accentuata e proprio sulla sommità stava facendo la sua apparizione una linea di fuoco che sembrava voler sgorgare dal cratere. L’immagine di quel fuoco assorbì totalmente la ragazza, dimentica di ogni cosa, anche del forte dolore alla spalla e del sangue ormai raggrumato che inzuppava la sua tunica. Scendeva lentamente, camminando piano piano, per rimanere più a lungo davanti a quello spettacolo meraviglioso che testimoniava tutta la potenza di Peripillán. * * *

Durante i giorni successivi la colata lavica cominciò a scendere verso la pianura del Petrohué. Ampia e impetuosa, fu tuttavia di breve durata. Rimase ben presto un lungo fiume nerastro che scendeva dalla vetta del vulcano, sul quale la neve non si tratteneva. Il machi continuava nel suo impegno per formare la giovane ragazza. Ma le sue forze erano ogni giorno più deboli. Parlavano del ngen, che è lo spirito universale che penetra ogni cosa che esiste, e man mano che il vecchio gobbo, che ormai non tentava neppure più di raddrizzare la schiena, andava avanti nella sua spiegazione, alla memoria di Likarayén tornavano ricordi che sembravano dimenticati di cose che le aveva raccontato Millaray quando andavano insieme nei piccoli campi o nei boschi. Ancora le spiegò lo sciamo che sin dall’inizio del tempo esiste il bene ed il male ed è la loro contrapposizione che crea la coscienza, base dell’admapu. “Dunque il male è necessario?” chiese Likarayén. “Certamente, è altrettanto necessario quanto il bene. Se non ci fosse il male, il bene non avrebbe alcun significato, e forse la vita intera sarebbe priva di significato”. Ma ora, contrariamente al passato, Likarayén doveva fare uno sforzo per rimanere attenta alle parole del machi, poiché il grande vulcano attirava senza pausa alcuna tutta la sua attenzione e riempiva il suo pensiero. Lo sciamano se n’avvedeva, ma non diceva nulla. Mancavano ancora tre giorni perché fosse We Tripantü. Ora la neve era scesa, ma ancora scarsa e bagnata, sicché più in basso si era subito sciolta con facilità. Era l’alba e Likarayén era scesa dove veniva custodito il gregge di guanachi e di lama per distribuire il fieno. Quando fu davanti al riparo, notò subito le orme del puma. La neve fradicia le rendeva confuse, ma era comunque evidente che il felino aveva azzannato un animale e poi lo aveva trascinato via, verso il basso. Non era la prima volta che un puma uccideva un animale del loro gregge, ma Lalén Kusé non se ne era mai fatta cruccio alcuno. “Gli animali non sono mica nostri - le diceva - ma appartengono alla natura. Dunque il puma ha bisogno quanto noi di prendere la sua parte e ne ha altrettanto diritto”. Non aveva alcuna ragione per farlo, eppure Likarayén volle seguire le tracce del puma. Scendevano verso la vallata ed erano ben evidenti, poiché la bestia trascinava la sua preda. Poi lo raggiunse, incontrandolo improvvisamente in una radura quando già aveva raggiunto la piana del Petrohué. Era una grossa femmina, dal bel mantello dal colore del miele. Aveva iniziato a sbranare il guanaco, ma come sentì sopraggiungere la ragazza si era posto guardingo, pronto a scattare. Likarayén si fermò ad una distanza di pochi passi. Non aveva paura. I puma erano numerosi nei boschi del Calbuco ed

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altrettanto numerosi erano stati gli incontri che la ragazza aveva avuto, ma né lei aveva recato fastidio all’animale, ne questo aveva mostrato aggressività nei suoi confronti. “Che bella bestia!” pensò guardando ammirata l’eleganza del suo corpo snello e allungato, mentre il felino agitava nervoso la coda. Se avesse voluto attaccare, sarebbe bastato un solo balzo e la gola di Likarayén sarebbe stata alla portata delle sue zanne. Ma se la ragazza fosse indietreggiata, non sarebbe successo nulla. Questo, dunque, avrebbe dovuto fare. E invece rimaneva lì, immobile, perché le piaceva guardare quella fiera ed ammirarne la bellezza. Si fissavano intensamente, l’una e l’altra, entrambe femmine ed accomunate dal colore rossiccio del loro pelo e dei loro occhi. Man mano che rimanevano immobili l’una di fronte all’altra la tensione anziché crescere sembrava spegnersi progressivamente. “Ti osservo perché sei bella e ammiro la tua bellezza e la nobiltà del tuo aspetto”, disse Likarayén ad alta voce, rivolgendosi al puma con tono fermo ma pacato. E il felino rimaneva immobile, senza volontà né di attaccare, né di fuggire, senza neppure dare segno di timore o di nervosismo. Continuavano ad osservarsi l’un l’altra, ed ora pareva che anche il puma provasse verso la ragazza la medesima simpatia che essa provava verso la fiera. Poi un bramito improvviso del vulcano fece sì che entrambe si voltassero all’unisono verso la sorgente del rumore. Allora improvvisamente Likarayén divenne dimentica di ogni altra cosa. Il puma, il bosco, il guanaco sbranato, tutto cessò di esistere nella sua mente. Il vulcano aveva riempito ogni suo pensiero. Cominciò a camminare nella radura. Ora il sole invernale era alto nel cielo, in una rara giornata senza nuvole. Attraversò la piana del Petrohué e cominciò a risalire il ripido fianco della montagna. Man mano che avanzava le sembrava di riconoscere i luoghi già percorsi e non tardò a incrociare la scura lingua di lava recente. Come la volta precedente, trovò più comodo seguire la colata lavica. Verso il suo bordo, essa era completamente fredda, ma nella sua parte centrale conservava ancora un poco di tepore. Tuttavia le asprezze della lava ben presto cominciarono a ferirle le piante dei piedi ed allora preferì proseguire lungo il bosco al suo limitare. Alcuni alberi erano bruciati, altri avevano i rami carbonizzati dal lato della colata ed ancora verdi da quello opposto. Risalì lentamente durante l’intera giornata senza mai fare alcuna sosta. Ogni tanto si guardava intorno, alla ricerca del mankián, ma non lo vide. Poi pensò che anche quella volta aveva percorso una colata lavica, ma non questa stessa, che era recentissima. Via via che risaliva gli alberi mutavano. Ora le conifere erano scarse, mentre dominavano i larici. Ma questi erano diversi: più piccoli e dal tronco spesso contorto. Poi improvvisamente, quando già il terreno cominciava ad essere innevato, giunse al limitare della foresta. Più in alto la sommità del vulcano era sgombra di alberi ma assai innevata. Il sole era già scomparso da un po’ di tempo dietro le lontane colline oltre il quale vi era l’oceano ed il cielo sereno stava incupendo anche dal lato di ponente. Il bordo della colata era pieno di anfratti e piccoli ripari, sicché non le fu difficile trovarne uno adeguato per trascorrervi la notte. Si sistemò come meglio poté. Temeva che facesse molto freddo: invece si accorse che anche il bordo della colata manteneva ancora un poco di tepore. Si sentiva colpevole: si rendeva conto di aver tradito, in un certo senso, Lalén Kusé. “Si sarà spaventata, la vecchia ragna - pensava - sarà andata a cercarla dal machi”. Poi si ricordò del puma e del guanaco sbranato. “Spero proprio che Lalén Kusé non sia scesa al recinto. Se vede quelle tracce è capace di pensare che il puma mi abbia assalita... che cattiveria che ho fatto allontanandomi senza dire niente. Non mi rendo neppure conto

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perché l’abbia fatto. Non ne aveva l’intenzione. Almeno al principio. Chissà se potrà capirmi, Lalén Kusé, che non ne posso fare a meno di avvicinarmi al vulcano. Mentre Likarayén era immersa in questi pensieri e non riusciva a dormire, un poco per la pena che si rendeva conto di causare ed un poco per l’eccitazione che le produceva la vicinanza della sommità del vulcano, anche Lalén Kusé era in veglia. Ma contrariamente a quanto la giovane credeva, la vecchia ragna sapeva perfettamente dove lei si trovasse. Quella mattina, infatti, poco dopo che Likarayén si era allontanata, ebbe la forte sensazione che non si sarebbe fermata dal recinto delle bestie, ma che si sarebbe allontanata. Avrebbe voluto correrle dietro, fermarla, ma ormai era tardi: la ragazza si era allontanata già da troppo tempo e non l’avrebbe più raggiunta. Era agitata, arrabbiata, con la giovane ma anche con se stessa, sebbene senza ragione. Allora andò a cercare il vecchio machi. Lo trovò disteso nella sua ruka: ormai, senza un aiuto, faceva troppa fatica a mettersi in piedi. Era molto serio e cupo in volto. Come la vide, neppure la salutò: “Likarayén è andata da Peripillán - disse non appena la vide - ma non deve. Non è ancora giunto il suo tempo”. “Cosa succederà? intendo dire, cosa le succederà a lei?”. “Chi vuoi che possa saperlo! solamente gli spiriti, o forse neppure loro. Noi possiamo solamente restare in attesa. Se succederà qualcosa, lo sentiremo”. Fu così che la vecchia ragna volle rimanere nella ruka del vecchio sciamano gobbo, ormai alla fine dei suoi giorni, in attesa di un segno rivelatore. Provava una angoscia profonda e guardando gli occhi del machi seppe che anche lui sentiva la sua stessa pena. Attraverso l’ingresso della capanna, che aveva lasciato aperto poiché lo sciamano così aveva voluto, osservava i bagliori sulla sommità del vulcano. Anche dopo che la colata era cessata, i bagliori tuttavia continuavano e di quando in quando una piccola esplosione scagliava lapilli infuocati in ogni direzione. “Che pazza!” mormorò tra se più volte durante quella notte di veglia. Poi il machi le parlò, inaspettatamente poiché Lalén Kusé credeva che si era assopito. “Non è pazza - le disse - ma debole. Non riesce a sopportare il richiamo di Peripillán. Se torna, deve andarsene da qui. Lontano. Falla andare via, Lalén Kusé, non lasciarla rimanere qui. Deve ritornare alla sua isola, ora è giunto il tempo del suo ritorno”. “Se ritorna...” pensava la vecchia ragna senza osare manifestare ad alta voce il suo timore. Poi, non reggendo oltre, sedette fuori della ruka, osservando immobile il vulcano fumoso e i primi segni dell’aurora che si affacciava nel nuovo giorno, indifferente al freddo che rivestiva di brina le sue dita così sottili. Anche Likarayén attendeva ansiosa l’apparire della prima luce che anticipa l’alba. Ascoltava eccitata il continuo brontolio del vulcano, di quando in quando interrotto da una esplosione di rabbia. La sommità non poteva essere lontana: gli improvvisi spruzzi di lapilli ora le sembravano molto vicini, anche se dal punto in cui si trovava la vetta del vulcano rimaneva coperta dalle gibbosità del suo fianco. Non appena le parve che ci fosse un barlume di luce, uscì dal suo improvvisato giaciglio e riprese la salita nella neve. Ora camminava bene, poiché la bianca coltre era gelata abbastanza da sostenere il suo piede, ma non così tanto da impedirle il passo. La notte era di luna nuova e ci si vedeva ancora molto poco, ma la massa scura della lava contrastava con il bianco della neve. Continuò a risalire verso la sommità, convinta che improvvisamente le sarebbe apparsa davanti agli occhi: ma non fu così. Finalmente il primo debole chiarore dell’alba vicina rese a poco a poco visibile il paesaggio. Alla sua sinistra Likarayén vedeva lo scuro fiume di lava che risaliva verso la sua origine, ed alla sua destra il bianco della neve. Davanti a se una grossa gobba copriva la vista della vetta. “Ormai ci sono - pensava - si tratta ancora di raggiungere quella specie di collina e la sommità del vulcano sarà lì, finalmente davanti ai miei occhi...”. Ma una volta raggiunta quella ondulazione, più oltre vi era una alta muraglia di ghiaccio.

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Formava una parete verticale, alta quattro o cinque volte lei stessa, ricca di appigli, ma troppo scivolosi per poter essere utilizzati. Tentò una volta ed un’altra ancora di risalirla, ma non ci riusciva ed il ghiaccio, misto a ghiaia e scisti, le feriva i piedi più della roccia. Decise dunque di seguire la colata lavica alla sua sinistra. Superò la gibbosità, ma ve ne era ancora un’altra che le impediva di vedere la cima. Ora il sole stava sorgendo alla sua destra e rendeva il paesaggio fantasmagorico, privo di colore: solo il bianco della neve e del ghiaccio ed il nero della lava. Verso il bordo della colata ora vi era neve gelata e scivolosa, ma nella sua parte centrale rimaneva pulita ed asciutta. Continuò ad avanzare faticosamente, mentre i suoi piedi scalzi lasciavano ogni volta tracce di sangue. Raggiunse finalmente anche l’altra gibbosità ed ora sì: finalmente la vetta del vulcano era davanti a lei! Era ancora distante, ma non vi era più nulla che si frapponesse tra lei e la sua sommità. Animata dalla sua vista, ora camminava più veloce, quando il terreno lo permetteva tentava addirittura di correre per qualche passo. Ora sentiva che il suolo su cui camminava tremava quando un boato annunciava l’esplosione dei lapilli sul cratere, e qualche volta questi cadevano con traiettorie di fuoco anche vicino a lei. Subito sotto il cratere la colata si faceva più ripida e tiepida. Ora non camminava più, ma si arrampicava aiutandosi con le mani. Il brontolio era divenuto intenso e gli improvvisi boati assordanti. Doveva essere ormai vicinissima. Quegli spuntoni di lava che sembravano indicare il cielo, dovevano essere proprio sul bordo del cratere. Li raggiunse. Sembravano formare una stretta cresta frastagliata ed oltre... eccolo lì, il cratere. Pieno di denso fumo bianco, dall’odore forte ed acre che pizzicava il naso e gli occhi e faceva tossire. Likarayén si affacciò sul cratere. Mantenendo il suo corpo dietro una grossa sporgenza rocciosa, si sporse e guardò verso il basso: un grande lago di fuoco dalla superficie ribollente si trovava sotto di lei e riempiva tutto il fondo del cono, quasi perfettamente rotondo. Ogni tanto si formava una grossa bolla che esplodeva improvvisa spruzzando intorno la lava. La malén sentiva il suo corpo diventare preda di una frenesia folle. L’attirava enormemente quel lago di lava infuocata, e avrebbe voluto buttarcisi dentro a capofitto. Al colmo di questa eccitazione, lanciò un grido, “Peripillán! Sono io! Likarayén”, e immediatamente il potente pillán le rispose con una esplosione di rabbia. Una cascata di lapilli e di spruzzi incandescenti sgorgò improvvisa dalla superficie del lago di lava e investì tutto il bordo del cratere, andando a perdersi verso il cielo. Likarayén istintivamente ritrasse la testa dietro la roccia che la proteggeva, ma sentì sulla sua fronte un feroce bruciore. Gridò, questa volta per il dolore, mentre cercava di ripararsi dagli spruzzi che ancora ricadevano. Poi il vulcano tornò a placarsi. Ora l’eccitazione aveva ceduto il passo alla paura. Likarayén approfittò della pausa per iniziare la discesa, lungo la stessa colata lavica seguendo la quale era salita. Inizialmente scendere le parve più difficile che risalire, ma quando raggiunse la parte meno pendente poté andare spedita e, spesso, anche correre per qualche breve tratto, insensibile alla roccia che le feriva i piedi. Sentiva la fronte ardere come se ancora ci fosse il fuoco, o come se esso fosse penetrato attraverso la pelle. Non osava toccarsela. Un altro boato ed un’altra esplosione di lapilli. Likarayén si mise a correre. Cadde, si rialzò, si mise nuovamente a correre. Voleva raggiungere e oltrepassare il muro di ghiaccio - il fronte seraccato di uno dei tanti ghiacciai che inanellavano la vetta - per poi scendere lungo il terreno innevato. Superata la prima gibbosità, si sentì più sicura, poiché essa ora copriva le sue spalle. Poi ancora il secondo avvallamento ed il muro di ghiaccio fu superato. Allora abbandonò la colata e cominciò a correre veloce, lasciandosi scivolare lungo la neve, cercando dove il pendio era più ripido per guadagnare velocità. Ed ecco che le giungevano incontro i

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primi alberi, e poi questi diventavano via via più spessi, sino a quando si ritrovò nella foresta di conifere. Ora il sole era alto e la neve diventava sottile. Non si poteva più scivolare, ma poteva correre veloce, e Likarayén corse senza mai prendere fiato sino a quando si ritrovò nella piana del Petrohué. Allora si lasciò cadere sul suolo e rimase immobile mentre il cuore pareva dovesse scoppiarle nel petto. Prese fiato e si calmò un poco. Appoggiò la fronte su una zolla umida di terra e vide che le calmava il bruciore. Ora che il cuore le batteva in modo normale e non era più in preda al panico, tornò a pensare a Lalén Kusé. “Povera vecchia ragna, come la sto trattando male” disse a se stessa. Quindi si rimise in cammino. Il sole non era ancora tramontato quando raggiunse la grotta dove Lalén Kusé la stava aspettando. “Dunque sei tornata - le disse bruscamente - Peripillán non ti ha voluta. Lo credo bene: sei troppo stupida, ragazza dagli occhi di fiamma. Ora vieni qui e fatti curare quella fronte, che sei bruciata fino all’osso”. Un’ondata di incredibile tenerezza riempì Likarayén che buttò le braccia al collo di Lalén Kusé e si strinse strettamente a lei. Era la prima volta che lo faceva, e la vecchia ragna non la respinse. Poi la ragazza la guardò in viso e vide che gli occhi nerissimi della vecchia erano gonfi e lucidi. * * *

Sfinita dalla lunga camminata e per tutte le emozioni vissute, Likarayén si addormentò profondamente, sebbene il suo sonno fosse molto agitato. Perciò non si accorse che durante la notte Lalén Kusé si era allontanata. “Mari-marí Antüwala”. “Likarayén è tornata” disse lo sciamano in risposta al saluto della vecchia. Non era una domanda, ma un’affermazione. “Dunque, tu sapevi?”. “E’ sangue del sangue di Peripillán. Likarayén non può fare a meno di sentirsi attratta da lui. Ma non deve”. “Proprio di questo, volevo parlarti, Antüwala”. “Sì, lo è”. “Che cosa, lo è”. “Likarayén è figlia del Vulcano. Era questa la domanda che tu volevi farmi”. “Sì, è vero: era quella”. “Non potrà mai essere la tua Lalén Malén, la giovane ragna. - aggiunse Antüwala - Non è quello il suo destino”. “Lo so: non è quello il suo destino. Però sarebbe bello se potesse esserlo. Non ho mai visto una giovinetta tessere così bene. Le mani sue non le ha ricevute dalla sua madre-dormente, ma da Millaray, la grande tessitrice”. Rimasero in silenzio appena appena rischiarati dalla debole brace del focolare che si stava spegnendo. “Dunque è veramente la figlia del Vulcano - riprese a dire Lalén Kusé sangue dello stesso sangue. Da lì vengono i suoi occhi ed i suoi capelli di lava”. “Likarayén è come Segünpán, che era anche figlia del Vulcano”. “Parlami di Segünpán”. Allora Antüwala cercò di accomodare un po’ meglio il suo corpo deforme sulle pelle dove si era accovacciato, ristette un tempo silenzioso, come a ordinare le idee, e poi cominciò a raccontare. “Molto tempo fa, c’era una lonko che viveva ai piedi di un vulcano, non ricordo più quale vulcano fosse. Egli aveva tre figlie: una si chiamava Kullepán, la seconda Lafkenpán e la quepuche Segünpán. Ma nessuna delle sue figlie gli apparteneva: una era della sabbia, una del mare ed una del vulcano. La più piccolina, Segünpán, era molto intelligente. Voleva sempre tessere, solamente quello le piaceva, nient’altro che tessere, sino da quando era ancora piccolina. Mangiava molto poco, e con suo padre e sua madre e le sue sorelle parlava appena quando era indispensabile. Non perché fosse scontrosa o cattiva, ma solamente perché le piaceva solamente affacendarsi sul suo telaio. Il lonko chiedeva a se stesso: «perché mi è uscita così, questa figliola? E’ tanto diversa, questa fanciulla, che sembra essere di un altro mondo»”. “Come Likarayén” lo interruppe Lalén Kusé. “Come Likarayén, sì”.

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“Segünpán continuava ad essere come era, rimanendo al margine della sua stessa famiglia, ed il tempo trascorreva senza cambiamenti. Un giorno il lonko volle andare nelle terre ad oriente della Cordigliera. Partì con la sua sposa e con la quepuche, forse sperando che il viaggio in loro compagnia potesse servire a mutare l’atteggiamento della ragazza. Attraversarono le montagne, passando da un colle che rimane ai piedi di un vulcano infuocato, la ragazza lo fissava come incantata: «che felice che è colui che può fare qui la propria ruka! Come sarebbe bello salire sino a raggiungere la sua cima!». Il lonko le rispondeva: «No! è molto pericoloso. Il vulcano non è vuoto: ha un suo padrone!». Completarono il loro viaggio e quindi fecero ritornarono alla loro capanna. Ma l’atteggiamento della fanciulla non era mutato: trascorreva la giornata sul suo telaio e per tutto il tempo pensava al vulcano. Diceva: «un giorno, io costruirò la mia ruka sul vulcano. A me il vulcano non farà mai nulla di male. Lo amo!». Un giorno il vulcano s’incollerì: ardeva, lanciava sassi in ogni direzione, non cessava di rivoltarsi nelle sue stesse viscere. Il lonko aveva riunito tutto il clan. Celebrarono un ngillatún e implorarono lo spirito del vulcano dicendo: «perché ci fai questo, se noi siamo di questo posto? Siamo già tanto poveri, perché ti scuoti e distruggi le nostre capanne?». Segünpán rimaneva muta. Quella notte il lonko sognò il vulcano che gli diceva: «dammi una delle tue figlie, affinché io mi plachi. Se non mi darai una tua figliola, la mia ira non si placherà sino a che non avrò distrutto ogni cosa». Il lonko raccontò il suo sogno alla sposa ed alle figlie. Disse sua moglie: «se il vulcano vuole una nostra figlia, bisognerà dargliela». Ma il lonko non voleva. Fu Segünpán che allora disse: «è me che vogliono, e io ci vado! Da là potrò aiutare il clan affinché tutti vivano meglio». Allora il lonko convocò tutti gli uomini e disse: «devo sacrificare la mia figliola, condurla sul vulcano, aprire il suo petto, strappare il suo cuore mentre sta ancora battendo ed offrirlo allo spirito del vulcano, lasciandolo infilato sulla punta di una lancia, piantata nel suolo». Tutti rimasero ammutoliti, perché è dura da accettare la morte. Segünpán disse allora: «nel luogo dove io verrò sacrificata, piantate un canelo dal fiore bianco». Così si compì ogni cosa, e quello stesso giorno il vulcano si spense ed il canelo fiorì di un bianco fiore. Gli anni trascorrevano, ma la famiglia di Segünpán rimaneva triste. Ma un giorno un viaggiatore passò, si fermò nella ruka del lonko e gli disse: «non essere triste. Io sono passato accanto al vulcano e ho visto il canelo fiorito e alla sua ombra c’era Segünpán intenta a tessere al suo telaio, ed era felice, e aveva le trecce lunghe e mentre tesseva sorrideva». Allora la gente del clan cominciò a visitare quel luogo, e c’era il canelo sempre coperto di fiori bianchi, ed anche se nessuno vide Segünpán, tuttavia chi era malato sfiorando il canelo guariva, e se era disgustato si rasserenava, e se aveva un problema trovava la soluzione. Mi nonna mi raccontava - concluse Antüwala - che Segünpán non era sangue dell’uomo, ma era figlia del vulcano, e per questo fu reclamata8”. * * *

“Lo so!”. “Che cosa sai già, Antüwala?”. “Dove sei andata e perché. Ora fammi vedere questa bruciatura”. Era l’alba della vigilia di We Tripantü e Likarayén era salita alla capanna del vecchio sciamano per scusarsi e spiegare il suo comportamento. Antüwala osservò attentamente la bruciatura dello spruzzo di lava: piccola ma profonda, si trovava esattamente nel bel mezzo della fronte, subito al di sopra del trarilonko, ed 8

Tra le numerose versioni del ngutrám di Segünpán, ci siamo attenuti a quella riportata da Sonia Montecino in Sol viejo, sol vieja (Ed. Sernam, Santiago 1995), in quanto ci è parsa la più completa e fedele allo spirito del testo originario.

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aveva la forma di una croce. “Dunque Peripillán non ti ha voluto?”. “E’ la stessa cosa che mi ha detto Lalén Kusé”. “La vecchia ragna non capisce niente. E neppure tu. Vi sbagliate di grosso se credete che Peripillán non ti voglia!”. Intanto faceva scorrere il suo dito indice irrigidito dall’artrite in una piegatura innaturale lungo la piccola cicatrice, seguendone la forma e tracciando così una croce sulla fronte di Likarayén. “I quattro punti cardinali dell’universo...” mormorò rivolto più a se stesso che alla ragazza. “Cosa gli hai gridato, esattamente, quando hai visto l’occhio rosso del vulcano?”. “Ero così eccitata...”. “Questo me l’hai già detto. Voglio sapere che cosa hai gridato. Le parole precise che hai detto”. “Ho gridato il suo nome, e anche il mio. E poi gli ho gridato che ero lì”. “Stupida! Mocciosa presuntuosa! Saccente! Credi forse di poter sfidare gli spiriti? Questo è quello che hai imparato in tutti questi anni? Credevo che tu fossi una machi capace di vedere lontano ciò che non è dato di vedere, è invece sei solo una stupida bambina insolente e presuntuosa!”. Alle parole seguì uno schiaffo. Non fu forte - il vecchio non aveva più forza - ma, in tutta la sua vita, era la prima volta che qualcuno alzava le mani su di lei. Likarayén rimase immobile, impietrita dal gesto. “Non scacciarmi, Antüwala. Ti prego, non scacciarmi. Hai ragione. Lo so che hai ragione. Non capisco perché mi sono comportata in questo modo. Non capisco più nulla di cosa stia passando nella mia mente. Ma io non voglio sfidare gli spiriti, tanto meno Peripillán. Non lo voglio sfidare, te lo giuro! credimi! E’ tutto sbagliato, lo so, eppure non posso fare a meno di pensare anche in questo momento in quell’occhio rosso. E’ come se risucchiasse la mia mente, è come se io mi fossi buttata nel cratere. Stavo per farlo. Credo che stavo per farlo...”. “Certo che lo avresti fatto! lo so bene. Quello spruzzo di lava ti ha salvato, ti ha fatto rinsavire, finché dura”. “Ti prometto che non metterò più il mio piede...”. “Taci - la interruppe bruscamente Antüwala - che domani stesso ti rimangerai la tua promessa!”. Likarayén rimaneva in silenzio, con la testa bassa. Il vecchio sciamano le sollevò il volto e la guardò negli occhi: rossi e lucenti come la stessa lava. “Non puoi promettere, perché non potresti mantenere. E’ nel tuo filew questo vulcano. Sarà sempre lui ad avere il possesso della tua mente. Non sono arrabbiato perché sei andata sul vulcano: sapevo che prima o poi l’avresti fatto. Già da tempo mi aspettavo che tu ci andassi, anche se dubitavo che avresti fatto ritorno. Credi che non ti abbia visto quando appoggiandoti ad una roccia ti affacciavi sul cratere e guardavi in basso? Credi che non abbia tossito anch’io quando i vapori del vulcano ti toglievano il respiro e ti bruciavano la gola? Credi che non abbia visto con i tuoi stessi occhi il grande lago rosso incandescente? Credi che non abbia sentito i tuoi muscoli nel momento in cui avrebbero voluto dare alle tue gambe quella spinta che ti avrebbe fatto precipitare nell’imbuto di fuoco? Credi che non abbia visto quello spruzzo che ti ha salvato?”. Il vecchio si fermò. Negli ultimi giorni faceva fatica a parlare ed il suo tono di voce era sempre più basso sicché a volte costava udirlo. “Io so tutto, Likarayén, e capisco tutto. Non puoi resistere a Peripillán: nessuno può resistere a lungo alla sua volontà. Tanto meno tu, così debole”. Prese fiato e tirò un lungo sospiro. “La mia rabbia è per le tue parole - riprese ancora - perché erano parole di sfida, non di invocazione. Non si sfidano gli spiriti. Mai! Impara a essere umile, Likarayén, non superba”. Mentre le diceva queste parole, continuava a tenere la sua mano sotto il mento della ragazza per impedirle di abbassare il suo volto, e guardava i suoi occhi di brace nei quali la vergogna si mescolava all’orgoglio. Poi le fece una fugace carezza passando la mano sui suoi capelli rossi. “Ora andiamo” le disse infine. “Dove?”. “Fuori. Prendi il kultrún e aiutami”. Likarayén aiutò Antüwala a rialzarsi e a raggiungere il rewe vicino alla ruka. Il vecchio

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si appoggiò all’altare e liberò le spalle della ragazza. “Dammi il kultrún e sali - le ordinò lo sciamano - sali tu al mio posto. Io non ne ho più la forza”. La malén lo guardò interdetta: era la prima volta che lo sciamano le chiedeva di salire sul rewe. Poi, in silenzio e aiutandosi con i sottili tronchi al suo lato, lentamente si inerpicò sulla scala sacra, sino a raggiungere la sua sommità. Quindi, senza aspettare che Antüwala glielo dicesse, si rivolse verso oriente e iniziò a ritmare il canto che dava inizio al ngillatún. Allora lo sciamano cominciò a battere la pelle tesa del piccolo tamburo con le nocche delle sue dita, all’unisono con il canto di Likarayén. “Adesso scendi - le ordinò Antüwala quando il canto ebbe termine - e porta qui tutta la legna e le fascine che ci sono nella capanna e mettili intorno al rewe”. Likarayén lo guardò interrogativa, ma non osò chiedere una spiegazione e si affrettò a fare quanto le comandava lo sciamano. Mentre disponeva la legna intorno all’altare, aveva iniziato a nevicare lentamente: dei fiocchi piccoli ed asciutti, che presto rinnovarono il biancore della neve sporca che ricopriva già da qualche tempo ogni cosa. Non era molta la legna che aveva il vecchio, poiché era lei stessa che la rinnovava costantemente e la capanna era piccola e non avanzava molto spazio. “Ora disponi anche la paglia del tetto?” disse Antüwala. “La paglia del tetto? ma...”. “Fa quello che ti dico. Non discutere!”. Likarayén obbedì e ad uno ad uno tolse i mannelli di paglia del tetto della ruka e li dispose insieme alle fascine, intorno alla base del rewe. “Ora le canne delle pareti”. E la capanna si convertì in uno scheletro di rami affumicati, legati tra loro con una corda di ñocha. La neve che continuava a scendere fine cominciava a imbiancare le poche cose che c’erano nella capanna, ormai disarmata, e spegneva il fuoco del focolare privo di copertura. “Mantieni acceso il fuoco, aggiungi del legno, mantienilo ben vivo - ordinò ancora il machi - e taglia i legami, il mio coltello è accanto al focolare, e porta tutti i pali qui”. Ormai il rewe era in buona parte coperto dalla catasta di legna e lo sciamano non poteva più appoggiarsi ad esso. Allora Likarayén lo aiutò a raggiungere un albero vicino, affinché avesse ancora un sostegno. “Bene! - disse ancora il vecchio machi - bene! Ed ora il fuoco. Porta il fuoco, accendi la catasta!”. “Ma perché bruciare il rewe? Perché?”. “Perché questa è la notte di We Tripantü e domani sarà il primo giorno di un nuovo anno. Ubbidisci, Likarayén, fa quanto ti dico”. Continuava a nevicare, ora un poco più forte, ma le fascine di paglia del tetto e le canne delle pareti e i pali della struttura, secchi e affumicati dagli anni, non tardarono ad accendersi e ben presto il rewe fu avvolto dalle fiamme. Un fumo nero e spesso si alzava verso il cielo, e spesso la legna e le canne scoppiettavano lanciando tutt’intorno tante scintille incandescenti. “Perché?” chiese ancora Likarayén. “Perché il rewe appartiene agli spiriti, non agli uomini, e deve essere restituito a coloro ai quali appartiene. Tutto appartiene agli spiriti, Likarayén, la terra e quanto essa contiene: alberi, fiori, animali, pesci. Noi possiamo cogliere solo i frutti, della terra, ma essa non ci appartiene. Essa appartiene agli spiriti e noi ne siamo solamente i custodi. Ora il rewe deve tornare agli spiriti. Il suo momento si è compiuto”. Attesero fino a quando il rewe si spezzò in due tronconi ardenti che caddero nel grosso falò. Allora l’anziano machi si riscosse. “Hai ancora tu il mio coltello?” chiese alla ragazza, che glielo porse. “Tienilo con te. Aiutami a camminare, che abbiamo una lunga strada da compiere”. “Ma dove vuoi andare?”. “Lassù!” rispose il vecchio indicando la sommità del Calbuco con un cenno del volto ed appoggiandosi alle spalle di Likarayén. E la strana coppia si avviò, mentre la neve continuava a scendere in fiocchi asciutti e sottili. * * *

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Fu una salita estremamente penosa. La sommità del Calbuco non era lontanissima dalla ruka del machi, ma il vecchio stentava enormemente a camminare ed ogni passo che avanzava era una vera conquista. Solamente la sua forza d’animo, e la sua testardaggine, ebbero la meglio sul pendio e sulla neve. Finalmente raggiunsero la vetta quando già il sole era tramontato. Un vento gelido ed intenso li accolse: faceva volteggiare la neve fresca dando vita ad un grande mulinello bianco che sferzava la loro faccia. Il vecchio machi si lasciò cadere pesantemente su un grosso masso, incurante della neve che lo copriva e del gelo incalzante. Pareva aver perso ogni sensibilità. “Vieni qui, accanto a me, susunge”. Likarayén sedette sulla neve al suo lato. “Ascoltami bene. Tu non devi più restare qui. Devi andare via. Se rimarrai qui non resisterai al suo richiamo - e intanto accennava al grande vulcano che visto dalla sommità del Calbuco appariva molto più snello, formando un cono perfetto - e non è ancora giunto il tuo tempo. Torna a Chequián. Là c’è un ngenpín che ti aspetta. Sarà lui che completerà la tua educazione. Io ho finito e sono contento di quello che ho potuto fare per te”. Vi fu una pausa, mentre la neve continuava a scendere, imbiancando le loro spalle. “Prendi il coltello - riprese a dire il machi e fa una incisione sul pollice della tua mano destra”. Likarayén fece quanto gli disse ed alcune gocce di sangue arrossarono la neve fresca. “Ora qui” disse ancora lo sciamano porgendo il suo pollice. Quando il sangue sgorgò anche dalla sua carne, il vecchio unì il suo pollice a quello di Likarayén. “Unendo il mio sangue con il tuo, Likarayén, io ti dono la mia lingua, affinché tu abbia la tua parola possa sempre essere saggia, e ti dono i miei occhi, affinché tu possa vedere ciò che rimane nascosto agli altri. Ecco che il potere che gli spiriti mi hanno concesso io lo trasferisco a te, Likarayén, affinché tu ne faccia sempre buon uso ed esso continuo ad essere impegnato nella lotta contro il wekufe, che non avrà mai fine. Machi Likarayén: fa onore al tuo nome!” La malén restò sempre in assoluto silenzio, intimorita per la solennità della cerimonia. Poi finalmente disse: “ma io non sono ancora pronta. Sono troppo giovane, per essere una machi. Ho ancora tanto bisogno di te, della tua guida, delle tue parole...”. “Sei molto giovane, susunge, ma ora la tua guida sarà il ngenpín. I miei giorni si sono compiuti. Torna a Chequián. Se saprai compiere il tuo filew, un giorno ritroverai Millaray, ed anche la madre-dormente”. Il vecchio fece un profondo respiro, poi aggiunse ancora: “ora lasciami, Likarayén, che la notte è giunta ed io sono venuto qui a morire”. “No! no! non voglio!”. “Perché non vuoi, Likarayén? Io sono sereno. Non devi aver paura della morte. Non è una brutta bestia. Essa è bella o brutta, dipende da come abbiamo vissuto la nostra vita. La mia è stata piena e bella ed anche la morte mi pare bella. Finalmente potrò riposarmi... mi sento così stanco. Ho avuto tanti discendenti. Ho avuto anche dei figli, sai, ma soprattutto ho avuto tanti discepoli - come te, Likarayén, ma solo te ho chiamato susunge - e tutti i giovani machi che ho formato sono anch’essi figli miei. Quanti figli, che ho, quanta discendenza che ricorderà e onorerà il mio nome! Non piangere, Likarayén, non devi piangere, non c’è ragione alcuna per piangere. Tutta la mia discendenza mi ricorderà, ed allora io avrò la forza per iniziare un altro percorso. Ho bisogno di tanta forza, Likarayén cara, perché il cammino che devo compiere ora è molto più difficile di quello della vita. E’ il sentiero contorto del wenumapu, con tutti i suoi gradini. Tu ci sei già stata, nel wenumapu, tu ci vai durante il küimi. Io ora ci andrò e ci resterò per sempre, in mezzo alle luci ed ai colori. Se saprò compiere il mio cammino e superare le prove che mi attendono allora verrà il tempo in cui anch’io sarò uno spirito e mi unirò agli altri pillán. Non piangere, dolce susunge, ma impara ad accettare la morte, perché è essa da un senso

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alla vita. E’ questo il mio ultimo insegnamento, Likarayén. Ma ora va, va, lasciami solo davanti a Peripillán”. Ma questa volta Likarayén non ubbidì al comando dello sciamano. Rimase accanto a lui, mentre la neve continuava a scendere distendendosi come un freddo manto di ghiaccio, coprendolo con il suo stesso corpo, cercando di riscaldarlo mentre a poco a poco il corpo di Antüwala diveniva rigido e gelido. * * *

“Non è giusto! Non è giusto!”. Likarayén gridava disperata nella grotta di Lalén Kusé mentre la vecchia ragna le accarezzava i capelli rossi. “E’ un uomo tanto buono...”. “E’ vero, il vecchio machi era un uomo molto buono”. “Ma allora non doveva morire. La morte è cattiva e il bene dovrebbe sempre sconfiggere il male”. “Lo sai che non è così, Likarayén. La morte non è cattiva ed il bene non sconfigge il male. Semmai è vero il contrario. E’ il male che sconfigge spesso il bene, poiché colui che è malvagio non ha scrupoli, mentre chi è buono li ha. Chi è malvagio è disposto a tutto pur di compiere il male, mentre chi è buono è attento a non fare danno a chi è innocente, e quindi non è disposto a tutto pur di compiere il bene”. Continuava ad accarezzarle i capelli, mentre fuori la neve continuava a scendere lentamente. A poco a poco la ragazza finalmente cessò di piangere. “Vieni, ora” le disse Lalén Kusé conducendola per mano in fondo alla grotta, dove teneva il suo telaio, quello che usava solamente lei e che non aveva mai permesso a Likarayén di toccare. Le tolse la tunica ed il trarilonko che indossava. Poi prese un’altra tunica che era nascosta sotto un tessuto ripiegato con cura. Era bianchissima, come nessun tessuto può essere bianco, e lucida come il ghiaccio. Il filo con cui era tessuta era così sottile ed i nodi così minuti che era impossibile distinguerli. Lungo tutto il suo bordo correva una decorazione rossa, dove le croci rosse si alternavano a dei cerchietti. Lalén Kusé gliela mise sul corpo, annodandola sulla sua spalla sinistra: “questa tunica è bianca come il tuo nome ed è rossa come i tuoi occhi - le disse - ed è tessuta con il filo sottile che produce il mio corpo e che è forte e resistente come nessuna fibra può esserlo”. Fece una pausa, poi aggiunse con fare solenne: “tu hai ricevuto molto amore, nella tua vita. Ti ha amato la tua madredormente che ha fatto ritorno da Ngülchenmaywe, il luogo dal quale mai nessuno ha fatto ritorno, per poterti partorire. Ti ha amato Millaray, che ti ha allattato con il latte della sua volontà. Ti ha amato il ngenpín, che ha vegliato per la tua anima. Ti ha amato la Pincoya, che ti ha nascosto e ti ha insegnato che cosa è veramente importante e ti ha aiutato a sentire. Ti ha amato Rey Kusé, che ti ha donato la capacità di creare le forme e ti ha aiutato a intuire. Ti ha amato il vecchio machi, che ti ha donato il suo potere e ti ha aiutato a conoscere. Ti ho amato io, Lalén Kusé, che ti ho aiutato a immaginare e che avrei voluto che tu potessi essere la giovane ragna, ma non è questo il tuo destino. Dunque hai ricevuto tanto amore, Likarayén, ma ora tocca a te restituire l’amore che hai ricevuto”. Mentre le parlava in questo modo, cinse sulla sua fronte un trarilonko del colore del fuoco, lasciando alla vista la cicatrice che Peripillán aveva lasciato sulla sua fronte. Poi le mostrò un trariwe: “questo è il trariwe che cingerà i tuoi fianchi”. Mentre lo dispiegava lo faceva muovere alla pallida luce che si insinuava dall’apertura della grotta. “L’ho tessuto con un filo che ho ricavato dalle minute piume del colibrì. Guardalo bene, osserva bene ogni suo disegno. Sono cinque riquadri, come vedi, ed ognuno di essi si chiama ñimín. Quando te lo cingerai ai fianchi, dovrai sempre prestare attenzione affinché solo questo ñimín, il primo, rimanga visibile, mentre gli altri quattro dovranno sempre essere nascosti.

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Questo disegno rappresenta un uomo e questa linea orizzontale che c’è sul suo capo sta a significare il grande cerchio di legno con il quale gli uomini, nei tempi passati, protessero le loro teste dai raggi infuocati di Antü che voleva castigare la loro colpa: non essere rimasti fedeli all’admapu. Il secondo ñimín rappresenta Kaikaivilú mentre lotta con Tentenvilú: esso, dunque, sta a significare la lotta tra il male ed il bene, che non ha e non avrà mai termine. Il terzo rappresenta gli uomini-delfini, il popolo kawelche, che Tentenvilú salvò in questo modo quando le acque coprirono le cime delle colline su cui avevano trovato rifugio. Nel quarto ñimín viene disegnato un ngenpín nell’atto di invocare il perdono degli spiriti e nell’ultimo, infine, puoi vedere la nascita di una nuova generazione finalmente riconciliata con i pillán”. Likarayén prese nelle sue mani il trariwe e lo osservò con ammirazione. I dieci e dieci colori del colibrì mutavano riflettendo la luce, sicché i cinque disegni sembravano essere vivi. “Guarda come cambiano i ñimín alla luce. Ognuno di essi forma dieci immagini nuove e diverse - aggiunse Lalén Kusé mentre faceva ondeggiare il lungo trariwe - ed anche questo ha la sua ragione di essere. Ognuna di queste immagini, quando sarà il momento, saprà indicarti il percorso che dovrai compiere. Ora ti pare un riflesso confuso di tanti colori. Ma quando sarà il momento, ogni colore assumerà la sua forma ed il trariwe darà la giusta risposta alla tua domanda. Ma solo quando sarà il suo momento, non prima”. Glielo cinse ai fianchi. “Ora è giunto il momento più triste, piccola ragna che ti ho vista crescere”. La prese per mano e l’accompagnò sino all’ingresso della grotta. “Va, Likarayén. Va! Torna a Chequián, va a cercare Millaray. Non tornare mai più tra questi vulcani, alle sponde di questo grande lago. Ma non dimenticarli neppure, che non potresti. Tieni, Likarayén - e così dicendo posò quattro piccole pietre scure e tondeggianti nel palmo della sua mano queste sono quattro gocce di lava di Peripillán. Portale via con te: un giorno le userai. Ma ora prendi subito la tua strada, non verso il Petrohué, ma dal lato opposto, dove giungerai sulle sponde del grande mare. Parti subito e non voltarti indietro per nessuna ragione”. E la spinse fuori della grotta, sotto la neve che continuava a scendere lenta. Likarayén s’incamminò. Scendeva lungo il pendio innevato della montagna, con gli occhi chiusi. Sapeva che doveva obbedire, ma le pareva che il suo cuore le si fosse spezzato dal dolore e fosse diventato insensibile ad ogni cosa. Le due persone che in questi anni aveva amato sopra ogni altra cosa, erano venute a meno nell’arco di una notte e di un solo giorno. Ora comprendeva le parole del vecchio machi mentre il rewe bruciava: perché quello era We Tripantü, il primo giorno di un nuovo anno. Lalén Kusé era rimasta sulla soglia della grotta, guardando la ragazzina scendere lungo il pendio innevato e scomparire presto tra gli alberi. Eppure, anche quando Likarayén non fu più visibile, la vecchia ragna rimase nella stessa posizione, guardando quello spazio vuoto che la neve poteva coprire ma non riempire. Solo quando giunse il buio della notte finalmente si riscosse. “Sono tornata ad essere me stessa: solamente una vecchia, una vecchia tanto stanca e tanto sola”.

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dialogo secondo

TENTENVILÚ Andò dunque Kaikaivilú veloce per tutti i mari alla ricerca della fanciulla. Andò dunque il Thrauco attraverso i boschi e le montagne alla ricerca della fanciulla. Le lune si alternavano con le lune e le stagioni con le stagioni e le celebrazioni del We Tripantü si ripetevano mentre i messaggeri di Peripillán continuavano nella ricerca. Venne finalmente il giorno in cui il Thrauco vide la giovinetta, tra i boschi dove era nata. Allora venne il Thrauco durante la notte nel sogno di ciascuno e disse: "un meraviglioso destino attende la mia figliola: ella sarà la sposa di Peripillán, il potentissimo spirito del fuoco, ed andrà a vivere insieme a lui nelle viscere della terra". Tutti coloro che udirono queste parole disperarono per la fanciulla e temettero per loro stessi, ben conoscendo il potere degli spiriti degli antenati e ben conoscendo la loro ira quando vengono disattesi i loro comandi. Col cuore gonfio per la disperazione, si rivolsero a Ngenemapu, spirito della terra. Ma Ngenemapu non volle opporsi alla volontà di Peripillán. Inutilmente anche la stessa la giovine si rivolse a tutti gli altri spiriti: inutilmente poiché tutti la abbandonarono. Finalmente si rivolse anche a Ngenechén, luminosissimo tra tutti gli spiriti, splendido nel suo aureo colore. Ma vane furono le sue preghiere poiché Ngenechén aveva deciso di castigare i lituche che avevano violato il sacro patto e più non erano i custodi della terra, ma pretendevano esserne i padroni. Disse Ngenechén irato: “avete avuto l’ardire di cingere la terra con steccati, ed ora chiedete il mio aiuto? Avete avuto l’ardire di dire che la terra vi appartiene, come se fosse un cucciolo di lama: ma avete forse voi allevato la terra con il latte del vostro seno arido? l’avete forse riscaldata col calore del vostro ventre? l’avete forse nutrita col frutto delle vostre braccia? Non è forse stata allevata la terra dall’opera rinnovatrice di Pu Am, il grande spirito universale? Non è forse stata riscaldata dal mio stesso calore? Non è forse stata nutrita con l’acqua dello spirito delle nuvole e delle piogge? Come potete dunque dire che la terra è vostra, quando la terra appartiene solamente agli spiriti? Come potete dunque dire che la terra è vostra, quando voi siete ne solamente i suoi custodi? Siete stati sordi alle leggi dell’admapu, avete violato i comandi di Ngenemapu, sopportate dunque il giusto castigo che ora vi punisce!”. Ecco, tuttavia, che Tentenvilú, pietosa creatura dall'enorme corpo serpentiforme, figlia di una coppia di pillán fedeli a Ngenechén, fu commossa dal pianto di Millaray, colei che era più che una madre, e volle aiutarla. Giunse d'innanzi a lei e le disse: "affida la tua figliola alle mie cure ed io la salverò raggiungendo la cima di questo colle, molto in alto, dove la luce di Ngenechén è così calda che nessuna creatura che non sia da lui benedetta può resistere". La madre giustamente ripose la sua fiducia in Tentenvilú ed affidò la sua figliola alla smisurata serpe. Questa aprì le sue enormi fauci e la giovinetta vi fu depositata. Quindi Tentenvilú ascese immediatamente il dolce fianco del colle

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che sovrasta Chequián e Matao e giunse ad una sacra caverna nella quale si trova la sua dimora. L'enorme serpente figlio di Peripillán venne e chiese a gran voce a Tentenvilú di rendere la fanciulla poiché già promessa sposa di suo padre. Senza risposta rimase la richiesta di Kaikaivilú. Ancora una volta chiese, ordinò, minacciò: mai ebbe risposta poiché Tentenvilú aveva deciso di difendere la fanciulla e di proteggerla di fronte a qualunque richiesta. Kaikaivilú tornò adirato nelle viscere della terra e cominciò a scuotere il suo lungo corpo e ad ogni scossa la terra tremava tutta violentemente, gli alberi sradicati alzavano verso il cielo le loro radici ed il mare ribolliva come una pelle piena d’acqua posta al fuoco. Kaikaivilú impiegò tutta la sua magia: e le acque cominciarono a crescere. Kaikaivilú impiegò tutta la sua magia ed i mari uscirono dal loro letto e cominciarono ad innalzarsi sommergendo le spiagge. Dovunque fossero, gli uomini e le donne abbandonarono le loro fragili ruka, reggendosi a malapena in piedi sotto la furia delle scosse che agitavano la terra e furono facili vittime del panico quando videro le acque sollevarsi e coprire ogni spiaggia. Cercarono rifugio nei boschi, ma le acque continuavano ad innalzarsi e presto tutti i boschi rivieraschi furono coperti dal mare. Quando le acque giunsero sino alla caverna di Tentenvilú, prontamente giunse Kaikaivilú minaccioso a reclamare la giovinetta. Ma Tentenvilú non cedette e riprese Likarayén nelle sue fauci e scivolò in alto, verso la cima del colle, dove - fedele alla promessa pronunciata - depositò la giovinetta coprendola con un copricapo di legno, sacro a Ngenechén, ed affidandola alla sua protezione. Poi scese Tentenvilú e si accinse ad affrontare la battaglia. S’intrecciarono gli smisurati corpi delle due divine serpi. S’intrecciarono una volta ed una volta ed una volta ancora, trattando reciprocamente di soffocarsi tra le vibranti spire. S’intrecciarono i corpi affusolati, sollevando enormi ondate che spazzavano via ogni cosa lungo i litorali sabbiosi, abbattendo gli alberi così da mettere in luce le loro contorte radici, sconvolgendo le radure, spiazzando i colli, sollevando nuove alture. S’intrecciarono gli smisurati corpi delle due divine serpi ed il mondo nuovamente conobbe i clamori della guerra tra il luminosissimo Ngenechén ed il rosseggiante Peripillán accompagnati dai rispettivi seguaci ed il mondo nuovamente ne fu scosso sino alle sue più profonde radici. S’intrecciarono gli smisurati corpi delle due divine serpi e gli uomini che ora popolavano la terra ne ebbero terrore: non solamente lottavano Tentenvilú e Kaikaivilú utilizzando la possanza fisica dei loro muscoli, ma ricorrevano anche a tutte le loro arti magiche, più poderose della loro stessa forza immane. Ora era Kaikaivilú ad imporsi: le acque dei mari uscivano dai loro letti e s’insinuavano nelle vallate sommergendole. Gli uomini allora scappavano tentando di anticipare la salita delle acque e di raggiungere le sommità più elevate per trovarvi rifugio. Tentenvilú, senza interrompere la lotta, alitava quanto più possibile gli sventurati uomini che non riuscendo a mettersi a salvo perivano miseramente nelle acque: ed ecco che con il magico alito di Tentenvilú i corpi di questi infelici si trasformavano, facendosi più affusolati, le loro

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gambe si univano convertendosi in una poderosa coda, le loro braccia diventavano agili pinne, sicché questi esseri tornavano a nuova vita trasformati in kawél. Ora era Tentenvilú ad imporsi: le acque tornavano verso le loro sedi naturali e la terra delle vallate rivedeva la luce del sole. Gli uomini tuttavia rimanevano sulle sommità così a stento raggiunte e costruivano scudi di legno affinché i loro occhi non osassero posarsi sulla divina sembianza di Ngenechén, ora assai visibile attraverso quell’apertura chiamata Antü che egli stesso aveva fatta nel cielo tanto tempo addietro per ammirare l’opera creatrice della prima donna. A lungo lottarono le due serpi e gli spruzzi di acqua e di fuoco della loro ira foravano ad uno ad uno i quattro strati del wenumapu e raggiungevano gli spiriti. Tanto a lungo si avvicendarono le stagioni che gli uomini sopravvissuti ne perdettero il conto. Amaramente si lamentavano gli uomini. Si lamentavano amaramente gli uomini ed imploravano il perdono di Ngenechén, il più splendente tra tutti gli spiriti del wenumapu, quello dal colore dell’oro. “Con che scopo ci siamo salvati dalla furia delle acque se ora dobbiamo ugualmente morire di fame e di inedia senza più poter percorrere le vallate per solcare la terra ed introdurre in essa il seme e per raccogliere i frutti che i boschi ed il mare ci offrono?” Così si lamentavano gli uomini. Allora gli spiriti si riunirono tutti nel wenumapu. Chi era favorevole al perdono, chi al castigo, ma Ngenechén, ancora adirato poiché gli uomini non facevano più caso alle leggi dell’admapu, rimase sordo alle preghiere dei primi e volle che la battaglia tra Tentenvilú e Kaikaivilú continuasse ancora, senza né vincitore né vinto, fino a quando un nuovo patto non avesse rinnovato quello infranto.

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quechu troy

Kurüfil Finalmente Likarayén giunse sulla sponda del mare. Aveva iniziato la discesa dal Calbuco dal lato opposto a quello del grande vulcano e, obbediente al comando della vecchia ragna, aveva vinto la tentazione di voltarsi per guardarlo ancora una volta. Era certa che se si fosse voltata non avrebbe resistito al richiamo di quel grande lago di fuoco e sarebbe risalita sul cratere. Ben presto incontrò un piccolo fiume gelato e ne aveva seguito il letto sino a raggiungere un lago incassato tra le montagne. Quando lo raggiunse si era fatta notte, senza che la neve avesse mai dato tregua. Ormai la bianca coltre era spessa e camminare era divenuto molto faticoso: spesso risultava più facile lasciarsi scivolare in qualche maniera lungo il pendio. Trascorse la notte all’addiaccio, mal riparata da un grosso albero e non appena vi fu un poco di luce fu ben contenta di rimettersi a camminare, nonostante fosse stanca. Camminò ancora per l’intera giornata, lungo il letto di un altro fiume che scorreva tranquillo. Ora la neve si era convertita in una pioggia sottile e gelida, che tuttavia cessò nel pomeriggio, mentre il vento meridionale spazzava via le nuvole più basse e gravide di acqua. Quando già il sole tramontava quasi davanti a lei, giunse in uno spiazzo libero di alberi. Solo allora si voltò e vide il vulcano Calbuco che aveva lasciato alle sue spalle. Istintivamente i suoi occhi cercarono la vetta, dove un vecchio machi congelato era rimasto per sempre immobile, come una pirka, sentinella del Peripillán. Troppe cose si erano succedute in un tempo troppo breve. Doveva camminare, andare avanti, anche se sfinita, pur di non pensarci. Annullare il pensiero con la fatica: questo doveva fare. Proseguì ancora all’incerta luce della sera che scemava lentamente, e poi affidandosi a quella ancora più incerta di Küyén, che aveva fatto capolino come una timida linea di poco spessore. Tuttavia era facile seguire il letto del fiume ed ormai il terreno era quasi in piano. Camminò tutta la notte e quando il cielo cominciò a schiarirsi era arrivata sul bordo di una alta sponda boscosa: sotto di lei le onde del mare andavano ad infrangersi su una lunga e larga spiaggia pietrosa. Una grande distesa di acqua era davanti a lei. Le venne il dubbio di avere raggiunto il grande lago Llanquihue, ma non poteva essere, poiché il vulcano incandescente non era lì, a bagnare i suoi fianchi coperti di colate di lava. Scese facilmente lungo l’alta sponda, afferrandosi ai numerosi cespugli, e raggiunse la spiaggia. Con le mani a coppa raccolse un poco di acqua e se la portò alla bocca: era salata, dunque aveva finalmente raggiunto il grande mare. Intanto l’alba era sopraggiunta. Il sole, tuttavia, avrebbe ancora tardato molto tempo prima di farsi vedere, coperto dalla grande massa del Calbuco. Era il mare. L’odore di salsedine. Ricordi sopiti da tanti anni che si ridestavano. La Pincoya. Chequián. Caguach. La chono. Millaray. Soprattutto Millaray. Si guardò intorno, ma non c’era nessuna traccia di vita. Non un’esile filo di fumo a tradire la presenza di una ruka, non un’orma a rivelare il passaggio di una donna. Alcuni scogli fornivano un buon riparo. Likarayén li raggiunse: si tolse la fascia e la tunica e li avvolse con la vecchia pelliccia di puma, ormai così malandata da essere quasi inservibile. Ripose anche il coltello di ossidiana che le aveva lasciato Antüwala. Nuda, con solamente il suo trarilonko, si buttò nell’acqua gelata del mare. Il freddo intenso fu come una dolorosa botta allo stomaco che le bloccò la respirazione. Era quello di cui aveva bisogno. Dolore fisico. Un intenso dolore fisico capace di coprire quello dell’anima. Uscì dall’acqua ma rimase nuda, bagnata, con la brezza del mattino che la faceva tremare violentemente. La marea era bassa. Gli scogli più lontani dalla riva erano tappezzati di

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cozze. Si accorse di avere fame. Cominciò a raccogliere una cozza e la ruppe con una pietra. Com’era buona! Anche questo sapore risvegliata tanti ricordi che non sapeva di avere. Un’altra, pi ancora un’altra. Un riccio di mare dalle tante punte affilate. Lo raccolse con cura, attenta a non pungersi. Poi aprirlo in due con lo spigolo di una pietra stretta ed affilata, e succhiare con avidità le sue cinque lingue giallastre dal sapore forte e amarognolo. Dentro il riccio c’era un piccolo granchio vivo. Lo mise in bocca e lo masticò. Le parve avere anch’esso un sapore squisito, sebbene dimenticato da tanto tempo. Continuava a tremare per il freddo intenso, ma non voleva coprirsi. Voleva avere freddo, voleva sentire quel dolore fisico. L’acqua di mare le provocava un bruciore al pollice, sul taglio non ancora del tutto rimarginato, ricordo di quando aveva unito il suo sangue a quello di Antüwala. Ecco: ora sapeva cosa doveva fare. Come non ci aveva pensato prima. Tornò agli scogli dove aveva deposto la sua roba. Il coltello di nera ossidiana dalla lama tagliente. Lo prese e ne saggiò il filo. Aprì la bocca e spinse fuori la sua lingua quanto più le fu possibile. Appoggiò la lama sulla sua punta e cominciò a incidere. Era resistente, dura: non fu facile. Finalmente l’estremità della sua lingua era divisa in due parti, come quella di Antüwala. Era molto doloroso. Sanguinava tantissimo. Tornò ad immergersi nell’acqua gelida del mare, con la bocca aperta. Vedeva arrossare l’acqua intorno a lei. Rimase a lungo ferma, tremando per il freddo, finché fu certa che non usciva più sangue. Allora uscì e tornò sulla spiaggia. Il dolore intenso le faceva girare la testa. Cercò di asciugarsi un poco rotolandosi dove c’era un poco di sabbia. Ora il sole fece capolino alle spalle del Calbuco. Si rimise la tunica e la fascia con i colori del colibrì. Non la guardò, non ne sentiva il bisogno. Sapeva che aveva fatto quanto doveva. Era la cosa giusta, anche se ora sentiva un dolore lancinante e le girava la testa, come quando i primi sintomi le facevano capire che stava raggiungendo il küimi. Non avere con sé il giusto lawén. Doveva andare alla sua ricerca, trovare il ngenlawén e chiedere il suo aiuto. * * *

Trascorse l’intera giornata tra gli scogli, in un agitato dormiveglia. Aveva freddo, ma si sentiva anche la fronte ardere. Ogni tanto si toccava il segno del vulcano: ma la ferita si era richiusa e sentiva che si era formata una grossa crosta. Avrebbe voluto mangiare ancora, ma la lingua le faceva troppo male. Provò a parlare: ma neppure questo era possibile, per il dolore lancinante che sentiva ogni qual volta la lingua batteva sui denti o sul palato. Credette di stare troppo male per riuscire a dormire, ma non fu così. Dormì a lungo, molto a lungo, anche se di un sonno agitato, e si svegliò solamente quando il sole era già alto ed i suoi raggi tiepidi, nonostante la stagione fredda, le accarezzavano il viso. Si alzò. La lingua continuava a farle molto male. Aveva sete, tanta sete. Camminò lungo la spiaggia, verso occidente. Sapeva solamente che doveva allontanarsi dal Peripillán, questo avevano comandato Antüwala e Lalén Kusé, e che per raggiungere Chequián avrebbe dovuto andare verso sud. Ma dal punto dove si trovava, verso sud c’era solamente il mare, mentre ad ovest la costa formava un vasto golfo e poi si dirigeva verso sud. Guardò il cielo. Cominciava a riempirsi di grosse nuvole spinte dal vento settentrionale. Presto avrebbero coperto il sole e la pioggia sarebbe tornata a cadere insistente. Non andò lontano, che trovò un ruscello di acqua fresca e pulita. Bevve avidamente e a lungo, nonostante l’acqua le bruciasse la lingua. Se la sentiva molto gonfia. Si specchiò dove il ruscello formava una piccola pozza immobile: la sua lingua era molto gonfia ed un taglio lungo come l’unghia del suo pollice divideva simmetricamente la sua punta. Un taglio esatto, preciso, che rendeva la sua lingua uguale a quella di Antüwala. Si sentì

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soddisfatta. Riprese a camminare, seguendo la costa bassa e boscosa, sino a quando sopraggiunse la sera. Pensò che non aveva nessuna fretta di arrivare. Il cielo ora era coperto da nuvoloni bassi e scuri. La pioggia non avrebbe tardato. Cercava un riparo, quando vide una modesta ruka. C’era dunque qualcuno. Si avvicinò. La capanna era molto malandata. L’intreccio di canne che servivano a sbarrarne l’uscio era disfatto e tirato poco distante. Entrò. La ruka era completamente vuota ed abbandonata da tempo. Aggiustò un poco la paglia del tetto: poteva andare bene e per quella notte l’avrebbe protetta dalla pioggia. Questa volta dormì poco e male. Sicuramente aveva la febbre. Si svegliò più e più volte, sentendo la pioggia battere insistente sulla paglia: tuttavia il tetto reggeva sufficientemente. Quando si alzò al mattino seguente - doveva essere ancora molto presto perché era quasi scuro - si sentiva molto più stanca e sofferente della sera precedente. La lingua doveva essere gonfiata ancora di più. Le pareva che non potesse stare dentro la sua bocca, che dovesse soffocarla. “Ngenlawén - fu la sua muta preghiera - ti supplico: ho bisogno del tuo aiuto”. Si mise sulle spalle la vecchia pelle di puma e si addentrò nel bosco che giungeva sino alla spiaggia. Girovagò per tutta la giornata, sempre sotto la pioggia, ma infine trovò quanto cercava. Era pomeriggio inoltrato quando fece ritorno alla capanna. Guardò se c’era qualche orma: nulla. Cercò una pietra liscia con la superficie un poco concava, un’altra tondeggiante che potesse servire da pestello e con la valva di una grossa conchiglia che c’era sulla spiaggia raccolse un poco di acqua piovana. Quindi entrò nella ruka e cominciò a preparare il rimedio per il suo male. Trascorse la notte immersa in un profondo sonno: al suo bolo, infatti, Likarayén aveva anche aggiunto alcuni semi soporiferi, ed il loro effetto era stato salutare. Quando si risvegliò, era l’alba. Si sentiva molto meglio. La lingua le faceva ancora male, ma era sopportabile, ma soprattutto era completamente sgonfia. Provò ad articolare qualche parola ad alta voce: riusciva nuovamente a parlare in modo naturale, ora, ma i suoni che emetteva erano strani e confusi, come se la voce non fosse più sua. Pensò che doveva imparare di nuovo a parlare, se voleva essere compresa da chi l’ascoltava. “Antüwala mi ha dato la sua lingua - pensò, o forse lo disse ad alta voce - ecco perché non mi sembra più mia, questa voce. Ora appartiene agli spiriti, come apparteneva agli spiriti la voce di Antüwala, e per mezzo della mia lingua bifida gli spiriti, se lo vorranno, parleranno agli uomini”. Si sentiva più serena. Il dolore per la morte del vecchio sciamano e per aver dovuto lasciare Lalén Kusé cedeva lentamente il posto all’accettazione ed alla consapevolezza del proprio destino. Ma cominciava anche ad accendersi una fiammella tenera: l’immagine di Millaray tornava lentamente alla sua memoria e riacquistava quella centralità totale che aveva avuta un tempo. La voglia di rivederla la spronava a rimettersi al più presto in movimento, ma allo stesso tempo sentiva un grande bisogno di quiete. Tardava, dunque, ad alzarsi. Dall’esterno ogni rumore giungeva morbido ed ovattato. Sbirciò facilmente attraverso il traliccio sconnesso che fungeva da muro per la ruka abbandonata: uno spesso bianco manto di neve aveva coperto ogni cosa, anche la sommità degli scogli che sporgevano tra le onde placide del mare. Tuttavia non faceva molto freddo. Accarezzò con le dita leggere la sua tunica: “così leggera eppure così calda”. Guardò il trariwe che aveva ripiegato prima di stendersi a dormire. La luce lattiginosa che filtrava attraverso le fessure della capanna era troppo tenue per mettere in evidenza i cangianti riflessi del filo di piuma con cui era stato tessuto: ogni icona mostrava solamente il disegno che era stato annodato, senza lasciarne trasparire di

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reconditi. “Ma d’altronde - pensava Likarayén - non ho nessuna domanda da porgli. So già da me cosa devo fare: tornare da Millaray”. Si alzò, annodò il trariwe intorno ai suoi fianchi, cinse la su fronte con il trarilonko del colore del fuoco, come i suoi capelli, si mise a tracolla la bisaccia di pelle con le poche cose che aveva con sé - il coltello di ossidiana, del lawén che aveva colto il giorno precedente, qualche piccola llanka che aveva attratto la sua attenzione -, assicurò con una spilla di osso la pelle di puma sulle sue spalle e si rimise in marcia. Camminava lentamente nella neve spessa e farinosa, che continuava a cadere in fiocchi grossi e leggeri, formando intorno a lei un muro bianco che non permetteva vedere quasi nulla. Tuttavia mantenere il giusto percorso non era difficile: bastava camminare mantenendosi paralleli alla spiaggia che restava alla sua sinistra, a poca distanza. Di quando in quando Likarayén si fermava, raccoglieva con la sua mano un poco di neve e la beveva avidamente. L’acqua gelida ben presto fece cessare il dolore alla lingua e si accorse che adesso poteva parlare molto meglio, sebbene con quella strana voce sibilante che, come ora sapeva, era la voce di Antüwala, ma apparteneva agli spiriti. Se dopo queste brevi soste riguardava i passi percorsi, vedeva come la neve che cadeva cancellava rapidamente le sue impronte, sicché in poco tempo ogni traccia del suo passaggio era persa. Likarayén proseguì per l’intera giornata. Non era molto sicura del cammino che stava percorrendo: solo la vista del grande golfo raggiunto due giorni prima la rassicurava che seguendo il profilo della costa si sarebbe comunque diretta verso il meridione. Gli unici indizi della sua direzione erano la spiaggia e la luce del sole, pur se invisibile dietro lo spesso muro di fiocchi di neve. In questo modo si rendeva conto che la sua direzione non era costante, ma seguiva la linea della costa marina, ricca di anfratti. In un paio di occasioni le parve udire delle voci: ma giungevano sino a lei ovattate e confuse. Preferì ignorarle e proseguire per la sua strada. In un’altra occasione riconobbe impronte evidenti di piedi sulla spiaggia. Ormai la neve era piuttosto alta, le giungeva sino al ginocchio. Perciò queste orme, ancora nitide, provavano che non lontano da dove lei si trovava vi erano uomini e donne, capanne e focolari accesi. La tentazione di seguirle fu subito soffocata dal dubbio: “perché? Non ho bisogno di nulla, io, devo solo continuare per la mia strada. Che aiuto mi possono dare, gli altri?”. Poi, più tardi, quando già imbruniva e si chiedeva dove avrebbe trascorso la notte, disse a se stessa che aveva ragione Antüwala: lei era presuntuosa. Certo che aveva bisogno di aiuto. Era stanca, infreddolita, non sentiva neppure più i suoi piedi gelati, aveva bisogno di sedersi accanto ad un focolare, di bere una scodella di acqua calda, di dormire su una pelliccia asciutta, di chiedere quanto era distante la sua isola, Chequián, la spiaggia dove era nata. Ma poi ricordò anche la diffidenza ed anche l’antipatia esibita nei suoi confronti quando si trovò in mezzo alla gente, anche se era accorsa insieme al grande machi per sanare un malato. Per gli uomini lei non era una machi: non l’avrebbero mai accettata - solo i ngenpín, ma loro vedevano ciò che gli altri non vedevano, ed anche i machi, loro sì che l’avrebbero capita - ma non gli altri. Per la gente che non la conosceva, lei sarebbe stata solamente una giovane donna dalla tunica bianca e rossa, rossa come i suoi occhi ed i suoi capelli, rossa come il suo trarilonko: non una machi, ma una kalku. Dunque era meglio che proseguisse per la sua strada, senza chiedere niente a nessuno. A Chequián sarebbe stato diverso. Lì sarebbe stata in seno al suo clan, l’avrebbero accolta, difesa e capita, era la sua famiglia, o i parenti dei suoi parenti. Doveva solo arrivare a Chequián e intanto camminare, solo camminare, senza chiedere niente a nessuno.

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Ma intanto sopraggiungeva la notte senza che avesse trovato un riparo. Vi era ancora un poco di luce: appena quanto bastava per guardarsi intorno. La neve era sempre più alta e camminare diventava difficile. Un mucchio di canne rotte ammucchiate sulla riva. No: non erano rotte, ma tagliate. Qualcuno le avrà tagliate per farne qualcosa: forse per costruire una ruka o riparare i danni di una stagione inclemente. Ma che importa? Eccole lì, pronte per essere usate. Allora Likarayén scelse un punto della spiaggia, sufficientemente lontano da essere ben al sicuro dalla marea, dove il terreno formava un gradino alto quanto le sue spalle. Appoggiò trasversalmente le canne, una parallela all’altra, tra il bordo del gradino e la spiaggia, come un piccolo tetto. Creò una sorta di tana, aperta alle due estremità, con il tetto che dal lato del mare faceva anche da muro. Con la neve chiuse rapidamente una estremità e coprì le canne stesse, schiacciandola per indurirla. Infine si introdusse nell’improvvisato giaciglio, dove poteva starci solamente rimanendo ripiegata su se stessa. Con le sue mani spinse la neve sul suolo verso l’apertura rimasta, chiudendo quasi interamente anche quella e rendendo così un poco più profonda e meno incomoda quella tana. Quindi si avvolse meglio che poté nella pelle di puma, si mise in bocca alcune foglie che l’avrebbero aiutata a sopportare meglio il freddo e cercò di tendersi per quanto il poco spazio glielo permise. Fuori la temperatura era fredda ma non particolarmente rigida. L’umido vento del nord recava un abbondante carico di neve, ma non il ghiaccio che spaccava le labbra e induriva la pelle. Presto Likarayén non sentì neppure più il freddo. Aveva fame, questo sì, ma ora la lingua non le faceva più male, né se la sentiva gonfia: l’indomani avrebbe raccolto i numerosi molluschi attaccati agli scogli e ne avrebbe mangiato in abbondanza. Bastava solo che aspettasse che la marea fosse bassa, e gli scogli in secco sarebbero stati ricchi dei frutti del mari e sgombri di neve. Ora doveva solo dormire. Stava facendo quanto era giusto. Doveva continuare per la sua strada. Sognò Lalén Kusé. La sua grotta accogliente, il calore del focolare, i tessuti che prendevano vita sul telaio, il suo volto così brutto e così dolce. Avrebbe dovuto rimanere con Lalén Kusé. Attendere la bella stagione per fare il suo viaggio. Ma Lalén Kusé volle che lei si allontanasse subito. Anche Antüwala voleva che lei se ne andasse subito. Lontano dal vulcano. Sognò Peripillán: il grande lago rosso che ardeva nel suo cratere, rotondo come l’occhio di un falco. Sognò che lei si buttava in quel mare di lava, e che la lava l’accoglieva nel suo seno, rossa come i suoi capelli, rossa come i suoi occhi. Benvenuta sangue del mio sangue. Sognò che Peripillán, il grande spirito infuocato, l’accoglieva con quelle parole: benvenuta, Likarayén, sangue del mio sangue. Sognò Millaray. Da tanto tempo non sognava più Millaray... Faceva tanta fatica a ricordare il suo volto. Millaray, che la stava ancora attendendo; Millaray che l’accoglieva nel suo giaciglio e lei che si infilava tutta nuda sotto la sua tunica per sentire il contatto del suo corpo caldo a contatto con la sua pelle, Millaray che tesseva una tunica per il suo katán pilún. Che sogno sciocco! Lei era ormai una donna quasi in età di maritarsi: quanto era distante il suo katán pilún! Nel sogno, Likarayén allungò le sue mani a toccarsi le orecchie: eccoli lì i suoi chaway... Ma quello suo era un sogno o un ricordo che riaffiorava dopo tanto tempo? E ancora sognò il ngenpín. Era chino su di lei e piangeva. Di questo ne era sicura: non era un sogno ma un ricordo. Ma perché piangeva il ngenpín? Lei non glielo aveva chiesto. Come si chiamava? Ma neppure questo, sapeva. Non capiva più se era sveglia o stava sognando. Doveva essere notte fonda. Era tutto buio. Neppure un accenno di luce filtrava nella tana. Eppure non aveva più sonno. Ora era sveglia, ne era certa, ma era ancora troppo presto per alzarsi. Era troppo buio per vedere qualcosa. Tuttavia qualcosa l’aveva svegliata. Delle voci, ecco cos’era: aveva

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sentito delle voci. Stette attenta: sì, erano delle voci, ma lontane e confuse. No, non erano confuse, ma lontane. La voce di una donna che parlava con un bambino, la voce di un bambino che le rispondeva. Forse una madre con il suo figliolo. “C’è qualcuno, devo uscire”. Cominciò a scavare nella neve: un cunicolo all’estremità della tana, dove si infilò. Ma non finiva mai di scavare! Poi improvvidamente la neve cadde sulla sua testa e vide che c’era un debole sole, velato dalle nuvole. Ora le voci erano forti, spaventate. Uscì fuori. La neve aveva tappato ogni cosa e la tana che lei aveva preparato era appena visibile: una ondulazione solo accennata sulla spiaggia innevata. Una donna si trovava proprio lì. Teneva un bambino per mano, un pichiche che forse aveva quattro anni, o neppure. Aveva una cesta in mano. La marea era bassa e la cesta era piena di cozze: c’erano anche due grossi granchi. “Mari-marí, lamngén”, disse Likarayén con quella strana voce sibilante, accennando ad un sorriso. Ma la donna la guardò spaventata, lasciò cadere la cesta e scappò di corsa, tenendo in braccio il suo bambino. “Eccolo qui, il mio filew - pensò Likarayén con rabbia - spaventare le donne e i bambini! Ma non sono stata io a chiedere agli spiriti questo destino!” ma subito di sentì colpevole dei propri pensieri. Sapeva che se Antüwala l’avesse ascoltata, avrebbe rimproverato aspramente le sue parole; e lo avrebbe fatto anche Lalén Kusé. “E Millaray? anche lei mi rimprovererebbe?”. Raccolse la cesta, vi ripose i frutti di mare che la donna aveva lasciato cadere nella neve e la depositò ben visibile accanto alla sua tana. La marea era ancora bassa, gli scogli coperti di mitili bene in vista. Sfamarsi fu facile e veloce: quindi Likarayén riprese il suo cammino verso l’arcipelago del Chiloé. * * *

Che strana sensazione che provava al trovarsi nuovamente su una dalka. A Likarayén era rimasto un ricordo confuso ma ricco di dettagli di un lungo viaggio su una dalka in balìa delle onde. Ricordava molte cose, anche se confondeva ciò che era avvenuto prima e ciò che era successo dopo. Ma il rollio della barca, il rumore delle onde che si infrangevano sullo scafo, il battito dei remi nell’acqua, gli spruzzi del mare, gli eleganti salti dei delfini, tutti questi erano ricordi che tornavano a riaffiorare nella sua mente man mano che riviveva le stesse cose. La dalka era grande, o almeno così pareva alla ragazza che si era accovacciata sulla prua, dando le spalle ai vogatori. Non voleva guardarli, e neppure voleva vedere il grande cono del vulcano alle loro spalle, ormai lontano, dal cui cratere era tornata a fluire la lava incandescente che si apriva la strada in mezzo alla neve ed al ghiaccio: sembrava una enorme ferita sanguinante, uno squarcio sulla carne viva. Taceva. Non aveva nulla da dire a quella gente. Guardava alcuni fili di fumo che si alzavano dalla riva opposta del largo canale di mare - Chiloé le avevano detto che si chiamava quella vasta regione montagnosa e boscosa verso la quale stava navigando - e si augurava che coloro che vivevano in quelle capanne fossero migliori di quelli che lasciava alle sue spalle. Oh, sì, avevano risposto alle sue domande. Si erano anche offerti di farle attraversare il canale, ed avevano posto subito in mare la dalka. E’ vero, pensava Likarayén, ma non era per gentilezza che lo facevano, ma per paura. Aveva camminato a lungo (quanti giorni erano già trascorsi dopo We Tripantü? forse dieci, forse qualcuno di più?) e nel suo peregrinare si era imbattuta più volte in qualche ruka. Rispondevano al suo saluto, ma con diffidenza, senza cessare di fissare i suoi capelli rossi ed i suoi occhi di fuoco. Se chiedeva di riposare, la facevano entrare e sedere vicino al fuoco e le offrivano una scodella dove non mancavano due belle patate e qualche grossa cozza affumicata (altri

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ricordi che tornavano alla sua mente: odori e sapori divenuti da tanto tempo sconosciuti, ma che ora rammentava), le offrivano anche un giaciglio caldo e asciutto dove dormire, ma tenevano lontani i bambini e le donne, mentre a lei sarebbe piaciuto tanto carezzare la testa di un bambino... Le pareva impossibile suscitare tanta diffidenza in uomini e donne ai quali non aveva fatto niente. Era immediata, la diffidenza, di fronte al suo aspetto, ma non appena pronunciava qualche parola con il suo strano parlare sibilante, non appena si accorgevano della sua lingua divisa, la diffidenza si trasformava in paura. “Domo-machi” le dicevano con un rispetto che era esagerato per lei così giovane, ma aveva anche sentito qualche donna allontanare i bambini pronunciando quella parola che le era così odiosa “kalku”. “Domo-machi” davanti a lei, “kalku” alle sue spalle. Forse in quella grande isola che chiamano Chiloé sarebbe stato diverso, diceva tra sé e sé, ma sapeva bene che non era così. Ormai la riva le veniva incontro. Sentì il rumore delle pietre sul fondo della dalka, poi saltò a riva. “Chaltú, pu lamngén”. Solo quello disse ai vogatori che l’avevano accompagnata. “Chaltú, malén-machi” fu la loro risposta, altrettanto breve, mentre si affrettavano a girare la dalka verso la riva opposta per fare ritorno alla loro spiaggia. Nessuno aveva sentito nominare Chequián, ma lì dove era arrivata conoscevano Caguach. Likarayén non sapeva dove rimanesse né l’uno né l’altro luogo, ma ricordava vagamente i viaggi in dalka da Chequián a Caguach: non erano viaggi lunghi, quindi dovevano essere l’uno vicino all’altro. Sempre seguendo la spiaggia, era arrivata in un luogo dove il grande mare sembrava non avere più fine e dove le onde erano alte e lunghissime. Era una punta, oltre la quale la spiaggia andava diritta verso settentrione. C’erano alcune capanne, lì vicino. Carelmapu, questo era il nome di quel luogo. Le dissero anche che Caguach era molto lontana, che era un’isola piccola, ma che se attraversava il canale e seguiva la spiaggia di quella grande isola di fronte a loro, andando prima verso la cordigliera e poi verso il meridione, sarebbe arrivata in luoghi dove forse conoscevano anche Chequián. Cosicché ora si trovava nell’isola di Chiloé, in una spiaggia che chiamavano Pugueñun, altrettanto innevata di quella di Carelmapu, pronta a riprendere il suo cammino in mezzo alla neve ed alla diffidenza. * * *

Nella grande isola del Chiloé, sembrava che tutti o quasi conoscessero Caguach. Pochi ci erano stati, ma ne avevano sentito parlare o conoscevano qualcuno che vi era stato. Ma questo era tutto. Si sentiva più vicina a casa, ora che tutti le confermavano che andava nella direzione giusta, ma si sentiva sempre circondata dalla stessa diffidenza. Likarayén proseguiva per la sua strada, i primi giorni sotto una pioggia intensa che per lo meno aveva sciolto la neve e reso più spedito il cammino. Poi il vento gelido che proveniva dal willimapu si impose e cessò la pioggia, subito sostituita dal ghiaccio. Qualcosa tuttavia le parve cambiato nell’atteggiamento della gente che incontrava. La diffidenza continuava immutata, ma il suo aspetto sembrava non stupire più nessuno. Spesso quando lei chiedeva quale fosse la strada che conduceva a Chequián, si sentiva indicare il percorso più rapido per giungere a Quicaví, luogo per lei sconosciuto, come se pensassero che quella era la sua vera meta. A Quicaví ci giunse comunque, poiché seguendo la linea della costa non poteva fare a meno di arrivarci. Seppe di essere vicina a quella località così spesso nominata quando s’imbatté in uno stretto braccio di mare che penetrava profondamente nell’isola, stretto tra due ripidi pendii. La marea stava calando ed il sole era ancora alto. Vide che numerosi banchi di sabbia stavano affiorando nel fiordo e pensò che forse quando la marea fosse stata al minimo avrebbe potuto attraversarlo evitando di dare un lungo giro

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tutt’intorno. Sulla sponda opposta del fiordo tre figure sostavano immobili: erano tre uomini vestiti con abiti femminili ed ognuno aveva seco il suo kultrún. Parevano anche loro in attesa della bassa marea. Così fu. S’incrociarono dopo qualche tempo nel bel mezzo del braccio di mare ora prosciugato e i tre la guardarono con attenzione. “Giungi troppo tardi, giovane machi - disse quello che sembrava il più anziano - l’incontro è già concluso”. “Non so di che incontro parli, fücha machi, io vado a Chequián”. “Dunque non vai all’incontro di Quicaví?”. “No. Non so neppure dove sia questo posto che tutti mi nominano. Tutti me ne parlano come se io fossi diretta a Quicaví, ma io devo arrivare a Chequián...”. “Sei molto giovane per essere già una machi, eppure... lo sei, non è vero?”. “Sì, lo sono”. “Hai un modo strano di parlare. A volte il tuo accento è huilliche, come il nostro. Altre volte è quello dei mapuche del nord. Vieni dal Purén?”. “No. Non ci sono mai stata nel Purén, ma il machi che mi ha fatto da maestro veniva da quel luogo”. “Chi è il tuo maestro?”. “Antüwala”. Sentendo questo nome i tre si guardarono tra loro. Quindi si rivolsero alla fanciulla con una attenzione assai maggiore, tradendo un improvviso rispetto. “Dunque sei una discepola di Antüwala...” era più un commento che una domanda, ma Likarayén annuì ugualmente con un breve cenno della testa. “Ma dove si è nascosto, Antüwala? Dopo che si è allontanato dal Purén, nessuno ne ha più saputo nulla, anche se correva voce che vivesse sulla sponda del lago Llanquihue, come un eremita solitario”. “La sua ruka si trova vicino alla sommità del Calbuco... cioè, era lì, ma l’abbiamo bruciata, quando abbiamo bruciato il rewe...”. “Cosa vuol dire che avete bruciato il rewe?”. Ora era stato il più giovane dei tre a parlare. “Ha voluto che lo bruciassimo, prima di morire”. “Antüwala è morto? - di nuovo era il più vecchio a parlare - quando?”. “La notte di We Tripantü. Io sono restata con lui sino alla fine. Poi sono partita per raggiungere Chequián. Antüwala me l’ha ordinato. Mi ha detto che non dovevo più restare vicina a Peripillán”. “Perché proprio a Chequián? Ti ha forse dato qualche incarico?”. “Nulla di ciò. Semplicemente perché io sono di Chequián. Là c’è la mia famiglia”. “Ci pare che tutto questo è molto complicato e la marea sta già cominciando a risalire. Ti accompagniamo noi sino a Quicaví. Non ci vuole molto”. Così i tre sciamani tornarono sui loro passi per accompagnare Likarayén. A Quicaví c’erano numerosi machi, che provenivano da posti diversi. Per la ragazza erano tutti nomi di luoghi privi di significato. Invece suscitava molta attenzione il fatto che lei fosse stata discepola di Antüwala, che tutti sembravano di conoscere, non tanto di persona, quanto di fama. Le chiesero molte cose: come fosse morto, cosa facesse sul Calbuco, come vivesse, ma anche perché lei era diventata una sua discepola e come mai si trovava in quel luogo. Likarayén spiegò più volte cosa fosse avvenuto e rispose a molte domande. Ma ciò che creò maggiore stupore - e ammirazione nei suoi confronti, e forse anche invidia - fu quando disse che Antüwala le aveva fatto dono dei suoi occhi, della sua lingua e del suo potere. “Se Antüwala ti ha ordinato di andare a Chequián, faremo sì che tu ci vada - concluse il machi più anziano - ma è un viaggio lungo e ci vogliono due intere giornate, se ci sono dei vogatori validi e freschi. Qui a Quicaví non mancano certamente: ci pensiamo noi a trovarli. Tu partirai domattina, molto presto, prima che spunti l’alba, così potrai approfittare della luce della luna piena”. * * *

La notte la trascorse nella ruka di un pescatore di Quicaví. Fu uno dei machi, ad accompagnarla nella capanna e a presentarla alla famiglia che ci viveva, e finalmente Likarayén non si sentì oggetto di diffidenza e di ostilità, anche se i suoi capelli rossi come la lava ed i suoi occhi di brace suscitavano comunque inquietudine. Non le fecero

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nessuna domanda, neppure dopo che il machi se ne fu andato lasciandola con loro. Le diedero una ciotola ben colma di pesce affumicato e di patate, e non appena l’ebbe terminata si affrettarono a colmargliela nuovamente. Era da tanto tempo che Likarayén non mangiava così abbondantemente, in compagnia di altre persone, dove anche i bambini erano numerosi, senza dover stare sulla difensiva né sentirsi oggetto di ostilità. Mentre mangiava il cibo bello caldo, seduta su una pietra accanto al focolare, una delle mogli commentò che quando lei era ancora una ragazzina aveva sentito dire che nell’isola di Quinchao era nata una bambina dagli occhi rossi. “La figlia del Thrauco!” esclamò la moglie favorita, ma l’uomo le zittì adirato e Likarayén non fece loro caso. Continuava a soffiare il vento del sud. Likarayén era nuovamente accucciata sulla prua della dalka, rapidamente spinta da quattro giovani vogatori. Era ancora notte, ma la luna piena illuminava la strada. Questa volta non avrebbe voluto dare le spalle agli uomini: finalmente nessuno aveva mostrato diffidenza nei suoi confronti, ma solo curiosità, anche se nessuna aveva osato porle delle domande. Ma non voleva girarsi poiché a settentrione c’era il cono perfetto del Peripillán, ora lontano. Nella notte non era visibile, ma invece si distaccava quel puntino rosso che segnalava il suo cratere. Inoltre si sentiva eccitata all’idea di tornare dopo tanti anni da Millaray. Guardando la direzione verso cui si muoveva la dalka le pareva di avvicinare il suo ritorno. Infine non voleva parlare. Non le piacevano le parole, quando non erano necessarie, e scopriva la bellezza del silenzio. Likarayén non sapeva che tacere era una sua vecchia abitudine infantile, e che la bellezza del silenzio non era una sua nuova scoperta, ma una riscoperta. Quando apparve il chiarore dell’alba, la dalka aveva attraversato un largo canale e navigava prossima ad una isola boscosissima, coperta da morbide colline. “Ecco Mechuque!” disse uno dei vogatori. Likarayén guardò l’isola alla sua sinistra, che formava un promontorio basso e arenoso che si spingeva sin quasi alla dalka. Alla sua destra l’isola del Chiloé presentava una costa molto alta che scendeva a picco nel mare, formando una frastagliata scogliera: “da lì non ci sarei potuta passare” pensò la malén osservando gli spruzzi bianchi che formavano le onde infrangendosi sugli spuntoni di roccia. Davanti a lei sorgeva un’altra isola: vedeva un promontorio alto e coperto da una spessa vegetazione scura. Le pareva che avesse un aspetto famigliare, quel promontorio. Che fosse quella Chequián? “L’isola davanti a noi è Meulín, e quella piccolina alla sua destra è Pulilihue: è così bassa che sembra che la marea debba sempre sommergerla”. La voce del vogatore giunse alle sue spalle in risposta alla sua muta domanda. Delusa, Likarayén si voltò: “allora non è quella Chequián?”. “No, lamngén, non è quella. Ma Chequián non è un’isola, bensì un promontorio che si trova all’estremità meridionale dell’isola di Quinchao. E’ ancora lontano, ci arriveremo solamente domani sera. Se il tempo ci aiuta, questa notte dormiremo sulla spiaggia di Caguach”. Likarayén sussultò. La spiaggia di Caguach... ma non era lì che... Era agitatissima, doveva calmarsi, riacquistare il dominio di se stessa. Aveva voglia di piangere, forse i suoi occhi erano gonfi, le pareva che lo fossero. Guardare fisso davanti a sé: non doveva voltarsi, non dovevano vedere che una machi piangeva. “Ma non mi ha chiamato machi pensò - ma mi ha chiamato lamngén! Allora sto veramente tornando a casa!” e si mise a piangere silenziosamente. Anche se non avrebbe voluto, sentiva che le lacrime scivolavano tiepide lungo il suo viso. “Non devo voltarmi. Non devono vedermi piangere”. Avrebbe voluto dire loro “chaltú!, chaltú pu lamngén!, chaltú!” per quel lamngén che la faceva felice, ma temeva che con quel groppo in gola non avrebbe potuto dire nulla e che avrebbe tradito il suo pianto. Rimase dunque immobile, guardando Meulín che lentamente si avvicinava, mostrando una profonda insenatura che penetrava nel suo interno. Sulla sponda di quel braccio di mare vedeva alzarsi lentamente verso il

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cielo degli esili fili di fumo. Le venne alla mente l’immagine di un focolare con lunghe filze di molluschi stesi ad affumicare, e pesci dal corpo tenuto aperto con piccoli bastoni, anch’essi esposti al fumo, e canestri di patate appoggiate sull’intreccio di rami posti sopra il focolare. Quando la dalka raggiunse la punta di Meulín il sole era molto alto, ma il cielo cominciava a velarsi di nuvole. Il vento stava cambiando direzione. Ora non era più gelido, ma quasi tiepido e soffiava alle sue spalle. “Guarda quelle alte colline che si vedono dietro l’isolotto di Pulilihue, lamngén Likarayén, è quella l’isola di Quinchao. Ma Chequián resta molto più a sud: conviene arrivarci da Caguach”. “Allora quella è Quinchao! - disse tra sé Likarayén - lì c’è Millaray che mi aspetta. Forse su quella collina così alta c’è la ruka del ngenpín che piangeva per il mio katán pilún... chissà se si ricorda di me? forse ora potrà dirmi perché piangeva...”. Poi s’insinuò un altro pensiero più inquietante. “Era vecchio il ngenpín. Forse non vive più”. Pensare che l’anziano sacerdote fosse morte, le fece tornare alla mente l’immagine del cimitero di Chequián. Non era sicura di ricordare nel modo giusto. Aveva però una vaga memoria di alte statue di legno, molto alte “o forse non sono alte, ma ero io che ero piccola”, i mamülche ecco! ora ricordava anche come si chiamavano - e la memoria si faceva più precisa: un grande prato con i mamülche allineati, e un rewe all’estremità. O era nel centro? “Dovrò farmi un rewe!” disse a sé stessa, e quella fu la prima volta che fu veramente cosciente del suo essere machi. Intanto la dalka era approdata su una piccola spiaggia, subito alla sinistra della punta di Meulín. “Dobbiamo riposare, lamngen, ed anche mangiare qualcosa. Anche tu avrai fame! Guarda quell’isola davanti a noi: quella è Caguach. E quella piccola alla sua sinistra è Teuquelín, mentre questa alla nostra destra è Tac. Sembra una sola isola, ma in realtà sono due: quella che vediamo è Dungech; Tac rimane subito dietro, ma quando il pilcan è grande, allora il mare si ritira e per un breve tempo si uniscono a formare una sola isola. In mezzo a loro c’è una grande piattaforma di pietra: nelle notti di luna ci viene la Pincoya a ballare... già, ma voi mapuche del nord non sapete nulla della Pincoya...”. “Ma io non sono del nord! io sono di Chequián!” e li fissò negli occhi ad uno ad uno. “Io sono di Chequián”, ripeté ancora una volta, rivolta verso Caguach e parlando a se stessa. Caguach, la Pincoya. Quale fiume di emozioni e di ricordi, tutti insieme, che si accavallavano gli uni agli altri... Scesero sulla spiaggia che già cominciavano a cadere le prime gocce di pioggia. Allora i vogatori disposero sulla dalka dei legni incurvati e cominciarono ad appoggiarvi sopra le pelli impermeabili di tricheco. Likarayén si mise ad aiutarli, e si accorse che sapeva bene cosa doveva fare ed anche i vogatori si resero conto che quella strana ragazza dai capelli e dagli occhi di fuoco e dalla lingua bifida e con l’accento del Purén era una donna delle loro terre. Improvvisamente la pioggia si fece intensa. La ragazza e i quattro vogatori mangiavano in silenzio dei grossi gnocchi di patate arrostiti nella brace (“sono milcao, questi” ricordò Likarayén, contenta di non aver dimenticato il loro nome). Poi uno disse: “allora tu sei di Chequián, lamngén?”. Likarayén non rispose subito. Rimase in ascolto del rumore della pioggia che cadeva sulle pelli di tricheco distese sopra l’imbarcazione. Le pareva un rumore bellissimo, un suono dolce come quello del kultrún. Si rendeva ben conto che la domanda ne sottintendeva un’altra. Poi si decise: “sì, sono io la domopichiche dagli occhi di brace e dai capelli di fuoco che era scomparsa da Caguach, portata via da un’ondata mentre dormiva su una dalka come questa. Sono io, sì, la figlia del Thrauco, ma ora sono tornata a casa, lamngén”.

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Non vi furono commenti, e continuarono a mangiare in silenzio. Ma poi fu la volta di Likarayén a riannodare il discorso. Osservava attenta il più piccolo dei vogatori, dai lineamenti un poco rozzi, ma dolci: “Lamngén, eimi ta chono?” gli chiese improvvisamente la giovane ragazza. “Chono ngeñ” confermò il giovane. “Ricordo che quando ero bambina c’era una ragazzina chono che viveva con noi. Era poco più grande di me. Ci volevamo bene, ricordo che ci volevamo bene, anche se non di capivamo molto, perché lei non parlava mapudungún, ma ci volevamo bene lo stesso”. “Sarà stata catturata in qualche scorreria”. “Sì, mi sembra di ricordare che fosse proprio così. Era una ragazzina tanto spaventata. Non è giusto, non si dovrebbero catturare le ragazzine”. “No, non è giusto, ma la vita è questa”. Ci fu una lunga pausa, poi improvvisamente il giovane riprese a parlare: “anche mia madre fu catturata, però non l’hanno trattata male. E mia madre mi diceva che sulla sua canoa, quando lei era una bambina, c’era una ragazzina huilliche che era stata catturata dai chono. E neppure lei era trattata male, ma mia madre si ricorda che i primi tempi aveva paura di tutto. Poi questa ragazzina crebbe, ebbe dei figli, e i suoi figli furono chono e battagliarono contro i huilliche, così come io ho battagliato contro i chono. E’ questa la vita: ma non mi sembra tanto male, se la si sa accettare così com’è”. Poi spinsero l’imbarcazione nuovamente in mare e tornarono a vogare veloci sotto la pioggia intensa. Quando raggiunsero la spiaggia di Caguach cominciava ad essere scuro e la pioggia continuava a scendere insistente. “E’ qui che si celebra We Tripantü? è questa la spiaggia?”. “No, lamngén, quella spiaggia rimane dalla parte opposta dell’isola. Domani ci passeremo vicini”. “Non ricordo... mi sembrava questa... si assomigliano tutte, queste spiagge...”. “Sì, è così. Si assomigliano tutte”. “Chaltú! E’ tutto il giorno che remate per me e non vi ho mai detto grazie. Chaltú, pu lamngén”. “Non ce n’è bisogno, malén - disse il chono - noi tutti sappiamo capire come ti senti. Sembri ora sconvolta, ora spaventata, ora felice. Tutto allo stesso tempo”. “Feichi ngey, è così”. Nonostante la pioggia intensa Likarayén non volle rimanere nella dalka, ma si diresse verso il bosco. I vogatori non le chiesero nulla: percepivano la sua emozione e comprendevano bene come in quei frangenti spesso si preferisse restare in solitudine. La ragazza si guardava intorno mentre anche l’ultima luce del giorno si spegneva a poco a poco. Guardava gli alberi, le erbe ancora schiacciate dalla neve che solo l’abbondante pioggia aveva sciolto, gli arbusti, le felci. Non erano molto diversi da quelli che c’erano nella piana del Petrohué. Anzi: improvvisamente le parve di essere tornata proprio là, e istintivamente alzò il suo volto alla ricerca del grande vulcano. Ma vedeva solamente un muro di pioggia sempre più buio. Chissà se anche da Caguach si poteva vedere il grande vulcano? Lei c’era stata sulla sua sommità, ma i suoi occhi seppero vedere solamente quel grande occhio di lava incandescente e null’altro. Chissà se dalla sommità del grande vulcano si può vedere Caguach? La pioggia continuava a scendere ma scivolava sulla sua vecchia pelle di puma, e scivolava anche sulla tunica di Lalén Kusé, così sottile eppure così calda. Invece inzuppava i suoi capelli rossi e scorreva lungo il suo volto. ma le piaceva: le pareva una carezza. Con la sua mano destra si aggiustò il trarilonko e sfiorò la cicatrice che le aveva lasciato Peripillán: il suo segno. Era rimarginata, ma le aveva lasciato un ispessimento della pelle a forma di croce. Non si era mai più specchiata nell’acqua. “Chissà che aspetto ha?” le venne da chiedersi, mentre le sue dita scivolavano leggere percorrendo la cicatrice, nello stesso modo come lo aveva fatto Antüwala. Le venne da pensare a Lalén Kusé, con il suo strano corpo deforme, quelle braccia e quelle dita così sottili, quella faccia piena di rughe, quella strana voce in falsetto. “Lalén Kusé - disse ad alta voce, quasi una invocazione - vecchia ragna tessitrice...” e si sovvenne di quanto fosse vecchia,

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incredibilmente vecchia. “E una vecchia tanto vecchia e tanto sola” disse ancora ad alta voce, senza sapere che forse in quello stesso momento Lalén Kusé stava pensando proprio in lei, Likarayén, e stava dicendo quasi la stessa cosa: “sono solamente una vecchia, una vecchia tanto stanca e tanto sola”. Allora decise di tornare alla dalka. Partirono al mattino presto, sotto la pioggia battente che di quando in quando si volgeva in nevischio. Aiutati dal vento che soffiava da nord, seguirono il canale di Cualchún e costeggiarono la costa orientale di Caguach, sino alla punta di Dempén. “E’ quella lì la spiaggia dove si celebra We Tripantü” disse il chono. Sul lato destro della punta si vedeva un’ampia spiaggia arenosa. Likarayén era accucciata a prora, fuori del riparo della pelle di tricheco, indifferente alla pioggia che continuava a correre lungo i suoi capelli. Un nodo alla gola le impediva di parlare e gli occhi bagnati dalla pioggia ma forse non era pioggia - le impedivano di vedere. Fece solo un cenno lievissimo con la sua testa, per dire che aveva sentito. Allora il chono piantò nell’acqua il remo destro e fece bruscamente virare la dalka. Gli altri tre vogatori lo guardarono interrogativi, ma compresero subito e bastarono poche vogate perché la dalka approdasse sulla spiaggia. “Va, Likarayén - disse il chono - noi ti aspettiamo qui”. Allora Likarayén saltò sulla spiaggia, senza rispondere nulla e senza neppure voltarsi. Non voleva che vedessero il suo viso. Si mise a correre verso il canneto che la cingeva, lo raggiunse e si buttò a terra, nascosta da tutto e da tutti. Allora si mise a piangere, rumorosamente, a volte anche gridando. Tutta la sua tensione, ma anche il suo dolore, la disperazione, gli affetti persi e lontani, tutto uscì alla luce. Piangeva, singhiozzava, gridava, si rigirava sulla sabbia, si graffiava. “Iñche ta Likarayén, fey pichi rayén. Millaray, Millaray, chono-malén, Millaray, Millaray, iñche ta Likarayén, fey pichi lik rayén, we küpatuñ, ora torno, iñche küpatuñ, Millaray, Millaray...” e non capiva perché piangeva così disperata, proprio ora che finalmente tornava, e poi ancora gridava “ñi Pincoya, ñi tremo Pincoya; Rey Kusé, ñi trüf Rey Kusé; Antüwala, ñi küme machi; Lalén Kusé, ñi poyén kusé...”. E ricordava la bellezza della Pincoya, la destrezza di Rey Kusé, la bontà del vecchio machi e l’amore che la univa alla vecchia ragna, e si struggeva per non essere ancora insieme a loro. Poi si calmò. Allora si alzò, si riassettò un poco la tunica infangata e si guardò intorno. Disseminati ovunque, c’erano i resti del We Tripantü. Le buche servite per cucinare il curanto, la cenere dei falò trasformata in una fanghiglia, il prato dove forse era stato giocato il palín, il luogo purificato, il re we, con al centro l’altare dai tanti gradini. Likarayén si avvicinò al rewe. Rimase immobile davanti ai gradini, che guardavano l’occidente, sicché stando di fronte a loro era rivolta ad oriente. Allora prese il coltello di ossidiana che portava nella sua bisaccia, incise il suo pollice e con il suo stesso sangue fece una croce sulla superficie orizzontale di ogni gradino, iniziando da quello più basso. Su quello più alto, quello che rappresentava la dimora degli spiriti, ad ogni estremità della croce tracciò un semicerchio aperto verso l’esterno. Più volte dovette incidere il suo pollice con la lama affinché potesse completare il rito. Quindi tornò alla dalka. I quattro l’attendevano in silenzio, riparandosi dalla pioggia con la pelle del tricheco. Avrebbe voluto ringraziarli, ma non poté dire nulla. Si unì a loro per spingere l’imbarcazione in mare e poi tornò ad accucciarsi a prua, sotto l’acqua. La dalka riprese il mare. Poco dopo sentì che una mano si appoggiava sulla sua spalla destra. Non si voltò, ma le parve che fosse la mano del chono. Strinse la sua spalla. “Chaltú” disse Likarayén, con un bisbiglio appena udibile. La mano le fece una breve carezza sui capelli e poi si allontanò. “E’ quella lì, Chequián. Dietro a quella isoletta bassa”. Likarayén non si voltò, ma accennò con la testa che aveva compreso. Da quando erano ripartiti da Caguach i suoi

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occhi non si erano mai staccati da quel promontorio scosceso. Non appena lo vide seppe che era quello lì, che ora era davvero tornata a casa. Era ancora lontano. Vi giunsero al calare del giorno. Ancora una volta Likarayén sentì il rumore delle pietre che strisciavano sotto la chiglia dell’imbarcazione che si fermava sulla spiaggia. Sentiva che le sue gambe le tremavano. “Non potrò camminare, non ci riuscirò” pensava. Poi una voce alle sue spalle le disse: “sei arrivata, Likarayén. Sei a Chequián. Non hai bisogno di dirci nulla, non devi neppure voltarti. Va, corri se vuoi, non girarti perché non vogliamo vedere una machi che piange, ma possiamo capire e ti capiamo. Sei tornata a casa, Likarayén, sei tornata a casa tua”. Allora Likarayén scese dalla dalka e si mise a correre sulla spiaggia, senza più guardare alle sue spalle. * * *

“Mari-marí, machi Likarayén”. Era un vecchio, che aveva parlato; un vecchio alto e solenne che si trovava poco oltre i canneti della spiaggia di Chequián. Likarayén sussultò. Lo osservò. Lo riconobbe. “Sei tu”, disse. “Sì, sono io. Ti aspettavo”. Gli occhi dell’uno incrociarono quelli dell’altra e penetrarono profondamente nella loro anima. Poi Likarayén gli corse incontro e lo abbracciò. “Fücha ngenpín - ripeteva più volte - vecchio sacerdote, sei proprio tu”. “Sì, Likarayén, ñi susunge, sono io, e ti rivedo quando mai più avrei pensato di rivederti ancora”. E Likarayén fu contenta di sentirsi chiamare allo stesso modo come la chiamava Antüwala: susunge. “Millaray? Come sta Millaray? E tu? Perché piangevi quel giorno? Me lo sono chiesta tante volte, perché ogni volta che ricordavo te rammentavo solamente i tuoi occhi pieni di lacrime, non il tuo viso o il tuo aspetto, solo i tuoi occhi”. “Ne avevo ben ragione, di piangere. Vedo che indossi ancora i chaway da bambina, gli stessi che Millaray mise ai lobi delle tue orecchie...”. “Sì, sono sempre gli stessi”. “E’ bello rivederti - disse ancora Likarayén dopo una breve pausa ritrovarti, poterti parlare. Ricordo che mi volevi bene. Sei come un padre, per me, e non so neppure il tuo nome...”. “Kurüfil. Iñche ta Kurüfil”. “Kurüfil, dunque... quanto volte mi sono chiesta qual era il tuo nome. E Millaray? come sta, Millaray? Mi aspetta ancora?”. Ma il vecchio ngenpín rimase in silenzio sotto la pioggia. “Va a casa, Likarayén, torna a casa tua, che avremo molto tempo per parlare. Va, ora”. Likarayén sentì che non doveva fare domande, ma solamente tornare a casa. “Ci sai andare? vuoi che ti ci accompagno?” le chiese ancora il sacerdote. Ma Likarayén fece un cenno di diniego. “Credo di sì, credo che saprò trovarla”. Lo fissò intensamente negli occhi e si allontanò tra gli alberi, mentre il ngenpín rimase fermo sotto la pioggia ad osservare la fanciulla dai capelli di fuoco, quella piccola donna che lui amava come una figlia, mentre si allontanava nella prima oscurità della sera. Likarayén riconobbe la ruka non appena la vide. Anche alla penombra e sotto la pioggia scrosciante. Tremava. Se sentiva soffocare. Entrò bruscamente, senza prima chiedere, come un improvviso colpo di vento. L’uomo accanto al focolare si alzò bruscamente e la donna diede un piccolo grido. Poi “Likarayén” esclamarono entrambi ad una sola voce. La ragazza li guardò e le parvero estranei, non sconosciuti, ma estranei. Si guardò intorno, ma nella ruka c’erano solamente loro, che adesso la guardavano increduli, senza osare né muoversi né parlare. Poi la donna ripeté con un filo di voce “Likarayén...”, quasi esitando. “Iñche ta!” rispose bruscamente, senza più cercare chi non c’era. Infine, con un filo di voce che non era la sua voce “Millaray? dov’è Millaray?” domandò. La donna e l’uomo si guardarono. Poi lei abbassò gli occhi e fu lui a risponderle: “non c’è più. Se ne è andata. Millaray se ne è andata...”. “Cosa vuol dire che se ne è andata?

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Dov’è Millaray? Dov’è?”. Ora gridava, mentre gli occhi le scoppiavano, perché sapeva benissimo qual era la risposta, lo aveva sempre saputo, eppure gridò in faccia ai suoi nonni quel “dov’è Millaray” con una enorme rabbia, come se fossero loro i colpevoli della sua assenza. La donna rimaneva con la testa china. Fu l’uomo che ancora una volta le rispose. “Siediti, Likarayén, che sei tutta inzuppata d’acqua. Siediti accanto al fuoco. Mangia qualcosa di caldo. Stai male, sei tutta arrossata...”. Ma la ragazza faceva segno di no con la testa, e intanto li guardava con gli occhi lucidi - no! questa volta non avrebbe pianto, non davanti a loro! - e vedeva che erano due vecchi, solo due vecchi che vivevano soli nella loro ruka. Tornò a guardarsi intorno. Vide un piccolo telaio, di quelli trasportabili. Sopra c’era un trariwe incompiuto. Si avvicinò. Lo prese con delicatezza tra le sue mani e cominciò ad accarezzarlo. “Posso?” chiese incerta, non più dura, ma gentile, con un accento infantile. “Certo che puoi - questa volta fu la donna a parlare - è un trariwe che stava tessendo per te, pichi rayén”. “Non chiamatemi così!” ma lo disse senza durezza. “Era Millaray che ti chiamava sempre pichi rayén”. “Lo so, ma voi non chiamatemi così”. “Per favore” aggiunse dopo un istante, con un filo appena di voce. Intanto guardava il trariwe ed accarezzava i suoi nodi, così fini e così precisi. “Lo stava tessendo per me” pensava, mentre suo nonno parlava e le diceva che Millaray era scomparsa il giorno dopo che l’onda aveva portato via la dalka dove lei stava dormendo, e che più nessuno l’aveva vista, ma il ngenpín aveva detto che non dovevano più attenderla, ed avevano eretto anche il suo mamülche, accanto a quello della sorella che lei amava tanto, erano l’una accanto all’altra, insieme, e loro erano restati soli, attendendo che lei, Likarayén, facesse ritorno, perché il ngenpín aveva detto che era viva, che era stata rapita dalla Pincoya, ma Millaray non aveva sentito le parole del ngenpín, Millaray aveva creduto che lei fosse annegata, ed era diventata folle dal dolore e poi era scomparsa, l’avevano lasciata distesa sul giaciglio, ma era scomparsa e più nessuno l’aveva vista, e loro avevano anche fatto dei sacrifici al rewe, perché tornassero, Millaray ma anche Likarayén, e ora lei, Likarayén, era tornata, ed era la benvenuta nella loro capanna, che era anche la sua capanna, ma Millaray, no, lei non era più tornata... Likarayén continuava a passare leggera la sua mano sul trariwe. “Non voglio piangere, non voglio piangere” pensava, mentre la voce del nonno le giungeva da tanto lontano, parole, solo parole, che non comprendeva, che non sentiva, che non voleva, parole, un brusio inutile, Millaray non c’era più, quello era l’unica cosa che importava, non tutte quelle parole. “A che servono tante parole?” pensava, mentre le sue orecchie continuavano sorde. “E la piccola chono?” chiese interrompendo le parole del nonno. “La chono? ci hanno raccontato che si è buttata in acqua, voleva nuotare per raggiungere la dalka che si perdeva nel buio, nuotava veloce, nessuno avrebbe potuto trattenerla e neppure raggiungerla. La sentirono che gridava il tuo nome. Likarayén, gridava, Likarayén, Likarayén. Poi basta, non è più tornata neppure lei...”. Dunque tutt’e due erano scomparse. E lei, Likarayén, che ci faceva in quella ruka che ora sentiva estranea, con quei due vecchi che le erano indifferenti? Tornò a guardarsi intorno. Guardò le pelli che servivano da giaciglio (“Vuoi dormire, Likarayén, vuoi distenderti? sarai stanchissima” diceva suo nonno, o forse sua nonna, ma cosa le importava?), pensava che su una di quelle pelli ci aveva dormito lei, abbracciata a Millaray, ora ricordava, Millaray la infilava sotto la sua tunica e lei rimaneva nuda avvinghiata al corpo di Millaray. Quanti ricordi! Poi si accorse che i due vecchi ora tacevano. Forse le avevano fatto una domanda, ma Likarayén non sapeva che cosa, forse aspettavano una sua risposta, ma non sapeva cosa rispondere. Non poteva più restare, lì,

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doveva andare via, sotto la pioggia, doveva cercare un rewe. Li guardò. Faceva fatica a vederli. “Non voglio restare qui. Voglio vivere sola, non voglio nessuno vicino a me”. Li osservò attenta, mentre diceva queste parole, e si accorse che la anziana tradiva un sospiro di sollievo. “Dunque, anche loro temono i miei capelli e i miei occhi rossi...” ma vide che non era vero, negli occhi della donna non c’era timore, ma piuttosto una grande tristezza, vecchia di anni. Tornò ad carezzare il trariwe incompiuto. “Posso tenerlo?” chiese titubante. “Ma certo che puoi tenerlo, Likarayén - rispose la anziana - e anche il telaio. Era quello che usava Millaray, lei voleva usare solo quello e non voleva che nessuno di noi glielo toccasse: prendilo tu, se lo vuoi, da quando Millaray non è più tornata nessuno lo ha mai toccato, tante volte me l’hanno chiesto, ma io non ho mai voluto che nessuno lo toccasse. E’ il telaio della mia quepuche, dicevo io, non può più essere di nessun altra donna - e mentre diceva questo la donna incominciava a piangere timidamente - Millaray era la mia quepuche, e io le volevo bene, anche se non ci capivamo, ma io le volevo bene lo stesso. Ma tu sì, prendilo tu quel telaio, perché Millaray avrebbe voluto così, io lo so bene, Millaray...” ma si interruppe e si mise a piangere. Likarayén si avvicinò alla donna, e passò la sua mano sui suoi capelli, poi le sollevò il volto, la fissò negli occhi, e quello fu il primo momento in cui entrambe si sentirono vicine, e infine si girò lentamente e uscì dalla ruka. Fuori venne accolta dalla pioggia fitta e dal buio della notte. * * *

Kurüfil non dormì quella notte. Si chiese se avesse agito nel modo migliore, lasciando che Likarayén scoprisse la verità nel modo più duro. Forse avrebbe potuto dirgliela lui a poco a poco: tuttavia pensava che così come aveva agito fosse giusto. Ora, però, non doveva lasciarla sola. Aveva avuto tutta la notte a sua disposizione per comprendere ed accettare. Il vecchio sacerdote era certo che la ragazza non si sarebbe fermata nella ruka dei nonni. Il giorno prima, l’aveva attesa per tutto il giorno su quella spiaggia. Sentiva che sarebbe ritornata quel giorno: lo aveva letto nelle viscere del piccolo animale sacrificato sul rewe, glielo avevano confermato i suoi sogni negli ultimi tempi. La riconobbe già da lontano. Non visto, era nel canneto e osservava il largo braccio di mare che separava la spiaggia da Caguach. Non appena vide la dalka sotto la pioggia, anche se non era neppure possibile ancora discernere quante persone vi fossero sopra, tuttavia seppe immediatamente che quella piccola figura accucciata a prua era Likarayén. In quel momento si sentì felice. “Gli spiriti ascoltano sempre le nostre preghiere - si disse - ma raramente le esaudiscono. Però questa volta lo hanno fatto e mi hanno permesso di rivedere Likarayén”. Mentre si rigirava insonne nel suo giaciglio pensava alla giovane machi. Che avesse il potere, lo sapeva da tanto tempo: fin da quando era una piccola pichiche. Ma rivederla ora, percepire che il suo potere era veramente grande, pur così giovane, osservare quell’espressione nei suoi occhi di fuoco che la rendeva tanto simile ai grandi machi del Purén, quello non se lo aspettava. Pensava che di fronte a lui ci sarebbe stata una ragazzina ancora tutta da formare, con qualche conoscenza, certo, soprattutto la conoscenza del liwén e del suo potere, ma quando se la vide davanti percepì che quella ragazzetta aveva bruciato le tappe della sua formazione, e che già sapeva entrare ed uscire dal küimi dominandolo lei stessa. Quanti anni avrà, si chiese. Fu facile fare il conto, poiché era nata il giorno di We Tripantü, e dal giorno della sua scomparsa erano trascorsi otto anni, ben otto anni. “Dunque ne ha quattordici, poco più di quanti ne aveva Millaray quando scomparve”. Ma Millaray non era scomparsa, era morta, questo il

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ngenpín lo sapeva bene. Lui aveva deciso di celebrare il suo funerale, pur senza corpo, ed aveva voluto che Millaray avesse il suo mamülche accanto a quello della sorella. Ma sapeva di più, di quanto aveva detto, molto di più. “Quanto assomiglia a Millaray!” esclamò ad alta voce girandosi per l’ennesima volta sul suo giaciglio. Non si riferiva al suo aspetto esteriore, naturalmente, ma al suo modo di essere, di muoversi, di parlare e di sentire. “E’ figlia di Millaray più ancora che della stessa madre dormente”. E poi le venne ancora da chiedersi se fosse anche figlia sua, in qualche modo, e provò a ricordare ogni cosa del breve incontro, sperando di trovare qualche indizio nel suo modo di essere che gli permettesse di dire: “ecco, questo lo ha assorbito da me”. Poi pensò che quando era bambina non aveva bisogno di un padre: Millaray le bastava completamente. “Che sciocco che sono! - esclamò - è ora che ha bisogno di un padre, e io rimango qui a rigirarmi su questo giaciglio”. Si alzò subito. Mancava ancora parecchio prima che sorgesse l’alba, ma lui non aveva bisogno della luce per camminare e per vederci. Si pose sulle spalle una pesante pelle di tricheco e s’incamminò nella notte, sotto la pioggia. Camminò velocemente, e giunse al cimitero prima ancora che ci fossero i primi cenni di luce. Rimase appartato, vicino ad un grosso alerce che lo riparava un poco dalla pioggia, dove avrebbe potuto vedere i due mamülche. Era sicuro che Likarayén sarebbe andata lì, ma non era altrettanto sicuro che avrebbe compreso. Quando il cielo piovoso cominciò ad assumere un tono lattiginoso, la vide arrivare. La sua tunica bianca era completamente infangata, certamente si era buttata per terra a piangere tutto il suo dolore ed aveva trascorso così gran parte della notte. La vide avanzare incerta. Ma non appena Likarayén scorse il rewe si diresse decisa nella sua direzione. I suoi gradini erano rivolti verso la cordigliera, e Likarayén si mise nella stessa posizione, parallela alla scala sacra, in posizione di preghiera. Stette immobile a lungo, mentre a poco a poco il cimitero schiariva, ed il vecchio ngenpín vedeva come la ragazza si muoveva e gli sembrava di intuire persino le parole che pronunciava ed il nome dello spirito che invocava: Peripillán. Poi Likarayén si girò e guardò i mamülche: ferma dov’era, soffermava un istante il suo sguardo su ogni simulacro, passandoli in rassegna tutti, ad una ad uno. Quindi si diresse decisa nella direzione giusta. Quando fu davanti alla coppia di simulacri, si fermò e impose loro le sue mani con rispetto: prima uno, poi l’altro. Poi si inginocchio davanti a quello della madre dormente e guardò la piccola pozza d’acqua che c’era ai suoi piedi. Si accorse che era assolutamente immobile, che la pioggia cadeva tutt’intorno, ma non osava toccare quella piccola pozza: neppure una piccola goccia osava sfiorarla e turbare la sua superficie. Allora Likarayén si chinò sino a toccarla con il suo volto, con le sue labbra. Sentì che era lievemente salata. Allora sollevò il busto, chiuse la sua mano destra a coppa e cominciò a raccogliere le lacrime che essa conteneva e ad offrirle alla sua bocca. Bevve tutte le lacrime della piccola pozza, e poi ancora portò alla sua bocca il fango bagnato da quelle lacrime, fino a quando incontrò due piccoli dischi di osso finemente incisi. Allora si fermò e vide che ora la pioggia cadeva anche dove prima c’era stata quella pozza di lacrime. Lasciò che la pioggia dilavasse quei due dischi piatti, poi si sfilò i suoi chaway infantili, tolse il filo rosso che li tratteneva e lo mise nei due dischi che aveva raccolto. Poi infilò ai lobi delle sue orecchie i chaway di Millaray, l’unica cosa che era rimasta di lei, oltre alle sue lacrime. Infine si volse verso l’invisibile ngenpín e disse: “mari-marì, chachay Kurüfil. Dunque tu sapevi?” e gli sorrise, ed anche il vecchio ngenpín le sorrise e si sentiva felice poiché Likarayén lo aveva chiamato padre. Allora Kurüfil le porse la mano e le disse: “vieni, ñawe Likarayén, andiamo a casa”, e Likarayén si sentì felice perché il vecchio ngenpín l’aveva chiamata figlia.

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* * *

Era ancora presto quando giunsero alla ruka del vecchio ngenpín. Avevano camminato con passo veloce sotto la pioggia, senza indugiare in parole. Ora erano seduti nella capanna del sacerdote, sulle pietre che circondavano il focolare. Likarayén non era mai entrata in quella capanna, o almeno non ricordava di averlo mai fatto. Senza una ragione, si aspettava di trovare una ruka piccola e spoglia, ma piena di recipienti con erbe, semi, bacche, foglie, liquidi sconosciuti. Invece quella era una capanna piuttosto grande e comoda, con abbondanza di pelli e di tessuti, ma anche oggetti curiosi, pietre dalla forma inconsueta, simulacri di legno che sembravano piccoli mamülche, una pietra sulla quale vi era inciso un triangolo. Il sacerdote aveva dato a Likarayén una sua tunica, pulita e asciutta. C’erano molte tuniche nella capanna: tutte rigorosamente femminili, così come la tradizione imponeva tanto ai machi quanto ai sacerdoti, e quelle che erano distese sopra le altre mostravano un tessuto fine e dalle decorazioni molto ricche, eseguite da mani piccole ma molto determinate. Mentre indossava la tunica del sacerdote, pesante ma morbida (“è fatta tessendo solamente il filo ottenuto dal vello del ventre dei cuccioli di guanaco” pensò Likarayén ricevendola dalle mani del sacerdote), si rese conto che era la prima volta che indossava una veste asciutta da quando aveva lasciato la grotta di Lalén Kusé. Anche il sacerdote osservava con attenzione la tunica che Likarayén si era sfilata: “questa non è opera di mani umane - disse - ma ne parleremo più tardi”. Solo “se tu vorrai parlarne, naturalmente” si affrettò ad aggiungere dopo qualche istante”. E intanto porse a Likarayén una scodella di latte che aveva messo a intiepidire sul fuoco. “Sai, quando si diventa vecchi, si ricomincia a mangiare come quando si è bambini” disse per giustificare la strana presenza del latte. “E’ latte di guanaco - disse Likarayén a mo’ di risposta - ne ho bevuto così tanto, in questi anni, che mi sembra di essermi nutrita solamente di questo latte”. Bevve in silenzio tutto il contenuto della sua tazza. Poi riprese a parlare: “latte di guanaco o di lama, erbe, frutti selvatici, ngüllíw, solo di quando in quando qualche patata. Ho la testa troppo confusa per fare il conto, ma credo che non ho mai mangiato nient’altro che quello per almeno quattro anni. Solo una volta, ho mangiato carne: per il machitún”. “Hai mangiato come una pewenche. Sicuramente avrai vissuto nella cordigliera. Ma hai parlato di un machitún: forse vi hai preso parte? hai suonato il kultrún?”. “Ho suonato il kultrún e ho cantato all’unisono con il machi, ma poi lui ha voluto che fossi io a estrarre il wekufe dal corpo del malato, da sola, ed il wekufe era entrato in un serpentello che scivolava via, ma io non l’ho mollato, non è riuscito a sfuggirmi, e ho messo nel fuoco le mie mani che lo stringevano e l’ho tenuto nella fiamma fino a quando non si è carbonizzato completamente, e gli spiriti mi hanno protetta ed alle mie mani non è successo nulla”. “Dunque hai compiuto tu tutto il machitún...”. “No, non tutto. E’ stato Antüwala che ha fatto il riconoscimento del kalku: ciò è precluso, alla domo. Così mi ha insegnato Antüwala. Lui è...”. “So benissimo chi è Antüwala, susunge, ma pensavo che fosse morto da chissà quanti anni... e invece è il tuo maestro. Questo spiega tante cose... soprattutto ora capisco perché hai bruciato il tempo. Hai un grande maestro”. “Ma ora è morto” disse Likarayén a bassa voce dopo una breve pausa di silenzio. “Dunque è morto... ma doveva essere vecchissimo, dieci volte dieci dovevano essere i suoi anni... Quando è morto? Tu lo sai?”. “Certo che lo so: sono rimasta con lui sino a che il suo corpo non è diventato freddo e rigido. E’ rimasto seduto su una pietra, impietrito per sempre davanti a Peripillán, sulla cima del Calbuco. Sono rimasta con lui questi ultimi anni, e prima di morire a voluto che bruciassi tutto, la sua ruka, ma anche tutto ciò che c’era, anche il kultrún, persino il rewe”. “Che uomo! ha celebrato il suo

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funerale prima ancora di essere morto...”. “Ma tu lo conosci, Kurüfil?”. “No, susunge, almeno non di persona, ma di fama sì, sì che lo conosco”. “Anche lui mi chiamava susunge”. “Allora ti voleva molto bene: questa è una parola molto rara in bocca a un machi. Ed anche in bocca a un ngenpín”. “Quando abbiamo fatto il rito del sangue, mi ha donato il suo coltello di ossidiana. E’ l’unica cosa che ho di lui. Oltre a tutto quanto mi ha insegnato”. “Avete unito il vostro sangue? Ti ha dunque consacrata?”. “Sì, mi ha consacrata machi e mi ha donato i suoi occhi e la sua lingua”. “Non so se comprendi tutto il significato di questo gesto. Non si è limitato a consacrarti, ma continua a vivere in te. Ha avuto tanta fiducia, in te, che ha voluto donarti tutto sé stesso, il suo stesso filew. Credo che dovremmo parlare a lungo, bambina mia, perché anche se sei una machi consacrata dal più grande sciamano di tutto il Purén, tu per me rimani la mia bambina dagli occhi di fiamma, ma parleremo più tardi, con calma. Ora devi decidere cosa vuoi fare... se è che intendi rimanere nella tua isola”. “Sì, è qui che voglio restare. Antüwala me lo ha ordinato, ma voglio comunque rimanere qui, ma non con i miei nonni, ora che non c’è più Millaray. Voglio vivere sola”. “E’ la scelta migliore”. * * *

Likarayén andò per i boschi alla ricerca di un luogo dove allestire la sua ruka. Tuttavia non sapeva dove dirigersi, se rimanere vicino al ngenpín, oppure alla sua famiglia (questo sarebbe stato più giusto). Quando la luce del giorno aveva superato il suo culmine, la giovane machi si trovava in un piccolo pianoro il cui alto bordo precipitava verso il mare con un alto salto. Era rivolto verso est, e ciò le parve di buon auspicio. Da lì vedeva alcune isole: una di esse le pareva Caguach, ma non ne era sicura. Allora volle per la prima volta interrogare il suo trariwe. Si mise sotto un grosso rovere che la riparasse un poco dalla pioggia, poi sciolse il nodo della fascia che cingeva i suoi fianchi e la fece ondeggiare lentamente alla luce grigiastra del cielo nuvoloso. Anche se i colori non luccicavano luminosi come quando erano sfiorati dal sole, tuttavia un disegno parve prendere corpo. Likarayén osservava attentamente il primo ñimín, l’unico che non rimaneva nascosto, il quale rappresentava una grande testa poggiata su un minuscolo corpo, e sopra di essa vi era una linea orizzontale:

Sempre osservandolo intensamente cominciò a cantare sommessamente: “s’intrecciarono gli smisurati corpi delle due divine serpi ed il mondo nuovamente conobbe i clamori della guerra tra il luminosissimo Ngenechén ed il rosseggiante Peripillán accompagnati dai rispettivi seguaci ed il mondo nuovamente ne fu scosso sino alle sue più profonde radici e gli uomini che ora popolavano la terra ne ebbero terrore: non solamente lottavano Tentenvilú e Kaikaivilú utilizzando la possanza fisica dei loro muscoli, ma ricorrevano anche a tutte le loro arti magiche, più poderose della loro stessa forza immane. Quando era Kaikaivilú ad imporsi le acque dei mari uscivano dai loro letti e s'insinuavano nelle vallate sommergendole. Allora gli uomini allora scappavano tentando di raggiungere le sommità più elevate per trovarvi rifugio e

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costruivano scudi di legno affinché non potessero i loro occhi posarsi sulla sacra sembianza di Ngenechén, ora assai visibile attraverso quell'apertura chiamata Antü che egli stesso aveva fatta nel cielo tanto tempo addietro per ammirare l'opera creatrice della prima donna”. Mentre cantarellava tamburellando con la palma della mano sul suo ginocchio, continuava a dondolare lentamente il trariwe e a poco a poco dieci e dieci riflessi diversi di colore cominciarono a modificare l’immagine: ed allora Likarayén vide in quel cerchio rosso il proprio volto, e in quel corpo il proprio corpo che si faceva sempre più piccolo, e in quella linea orizzontale una barriera che la proteggeva dagli sguardi degli estranei. Allora comprese ciò che doveva fare e cominciò senza fetta a fare ritorno dal ngenpín. Giunse all’imbrunire. “Ho trovato il luogo giusto - disse al ngenpín - è una altura che scende veloce sul mare. Traiguén: mi hanno detto che si chiama così. Da lì si vede Peripillán, così mi hanno detto, quando il tempo è sereno e l’aria pulita. E poi, proprio di fronte, ci sono Quenac e Caguach, e si vede Alao e Apiao, e la piccola isola bassa senza nome che c’è tra Chequián e Caguach, e si vede anche Tiquia, e dietro la Cordigliera...”. “Va bene, va bene, so bene dove rimane, non è tanto distante da qui. Domani ne parliamo con il lonko e ti aiuteremo costruire la tua ruka”. L’indomani di buon mattino si recarono insieme dal lonko. A Likarayén il suo volto parve sconosciuto, tuttavia era ancora il lonko di un tempo. Con otto anni di più, naturalmente, ma che non avevano mutato molto il suo aspetto. Anche se rivide Likarayén con stupore, non ne mostrò segno alcuno e rimase impassibile. Naturalmente la voce dell’inatteso ritorno della fanciulla dai capelli rossi e dagli occhi di fuoco si era diffusa immediatamente di ruka in ruka, ed il lonko si aspettava una sua visita. Likarayén percepì immediatamente la diffidenza del capoclan, e lui se ne avvide: “ascoltami, Likarayén, non è il tuo aspetto a incutermi timore. Ti ho visto appena nata, ti ho visto crescere, eri una bambina buona, taciturna ma buona, come lo era Millaray che ti ha allevata. E’ quella tua lingua che mi preoccupa, o più esattamente, la ragione per cui è così, perché non è stato un incidente, è un rito che per qualche ignota ragione tu hai voluto celebrare sul tuo stesso corpo, non è forse vero?”. Likarayén annuì in silenzio, ed il lonko continuò dicendo: “io non credo che sia male che una domo possa essere machi. Se gli spiriti la chiamano e le danno questo potere, vuol dire che così deve essere. Il ngenpín sa come io la penso e sa anche che io ti ho difeso quando...”. “Lo so bene: è così” disse bruscamente il ngenpín per troncare un discorso che rischiava di rivelare ciò che non doveva esserle rivelato. “Ti dico la verità, Likarayén, preferirei vederti tornare per formare una famiglia, per avere figli tuoi, ormai hai quasi l’età di farlo. Se uno dei miei figli dei miei figli maschi ti volesse per moglie, sarei contento, credimi Likarayén. Quei tuoi capelli di fiamma sono inquietanti quanto i tuoi occhi, è vero, ma niente di più: poi uno ci si abitua e non se ne accorge neppure”. Ma questo non era vero, e lo sapevano entrambi. “Ma è il tuo voler essere machi che mi preoccupa...”. “Non voglio esserlo, lo sono!” lo interruppe Likarayén. “Certamente, lo sei. E qui è il punto più dolente. Tu sai che sopra la piana di Achao vive una vecchia domo-machi - no, Likarayén non lo sapeva - è tutti la tacciano di kalku, anche se nessuno ha mai potuto dire nulla per sostenere questa accusa. Ecco perché sarebbe meglio se tu fossi semplicemente una malén, una bella ragazza da marito, ma so già che quando compirai il tuo primo machitún ci saranno molte difficoltà. Credimi, Likarayén, io non ti voglio male, ma ti dico la verità. Tu sei una machi, Likarayén, io non lo nego e neppure voglio oppormi a questo. Ma ricordati sempre che in quanto domo tu puoi essere solamente uno strumento passivo degli spiriti degli antenati. Non sostituirti mai a chi in quanto wentru ha il diritto di essere il loro interprete”.

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Likarayén lo trapassò con i suoi occhi di fiamma, da parte a parte, come mai una donna avrebbe dovuto osare. Ma il lonko sostenne il suo sguardo. “Mupindunguimi fücha lonko - disse infine la ragazza - iñche kim’ñ mi ta mupindunguimi. Tu dici la verità, grande capo, io lo so che dici la verità. Iñche ngeñ machi-domo, iñche ta. Ma se è questo il tuo timore, la tua preoccupazione è inutile. Io non compirò nessun machitún, perché non è questo quanto gli spiriti hanno disegnato per me. Io non conosco il loro disegno, ma non è in questo modo che io combatterò il wekufe. Raccoglierò il liwén e lo offrirò a chi me ne farà richiesta, questo sì, ma solo questo farò”. “Se è così, Likarayén, non posso che essere contento per il tuo ritorno - rispose il lonko con evidente sollievo - è voglio anche che tu sappia che i nostri usi non impediscono ad una machi-domo di unirsi ad un uomo e di avere dei discendenti che un giorno possano onorare e mantenere ben viva la sua memoria”. Ma a questo Likarayén non seppe cosa rispondere. Non aveva mai riflettuto sul fatto di essere ormai una ragazza matura per il matrimonio, forse ancora un po’ giovane, ma neppure tanto, che avrebbe potuto avere dei figli... Ma percepiva nel suo intimo che non era questo il disegno che gli spiriti avevano tessuto per lei. Il ngenpín mandò a dire che aveva bisogno di un aiuto per costruire una ruka: subito. E nonostante la pioggia, gli aiuti non tardarono ad arrivare. Dieci mani si aggiunsero a quelle di Likarayén e cinque asce di pietra tagliarono grossi rami, tolsero loro le fronde e diedero punta ad una estremità, che venne piantata nel terreno per la profondità di un intero braccio. Altre dieci mani si aggiunsero, inviate dal lonko, ed altre asce di legna tagliavano rami più sottili, lunghi e flessibili che venivano intrecciati a quelli piantati verticalmente. E vennero anche il padre ed i fratelli di Millaray, e tagliarono le sottili canne per completare l’opera e trassero numerose pelli di tricheco. Dieci ed altre dieci ed ancora dieci mani lavorarono sotto la pioggia sinché vi fu un bagliore di luce ed allora il nudo scheletro della ruka era innalzato. Piccola, rettangolare, lunga il doppio dell’altezza della ragazza e larga la metà di quanto era lunga, aveva il suo ingresso ad una estremità di uno dei due lati maggiori, rivolto verso sud. Lo scheletro era ben poca cosa rispetto al lavoro che avrebbe richiesto costruire la ruka, per quanto piccola essa fosse. “Vieni a dormire da noi, finché la tua ruka non sarà finita - le disse suo nonno - a tua nonna farà piacere”. “Vieni a dormire da noi, che sei la nostra nipote e le nostri mogli saranno contente di riceverti” le dissero i fratelli di Millaray, ma Likarayén pensò a Millaray ed alla piccola chono che non c’erano più e rispose di no all’uno ed agli altri. “Chaltú, chaltú - ripeteva ringraziando tutti per quell’aiuto giunto così spontaneo ed anche inatteso - ma non ne ho bisogno. Dormirò qui, mi avete portato anche le pelli di tricheco, mi ripareranno dalla pioggia. Chaltú, chaltú”. Rimasta sola, adagiò due grossi pelli di tricheco ad alcuni robusti bastoni appoggiati allo scheletro della ruka, così da improvvisare un riparo, appoggiò un’altra pelle al suolo ed ancora ne ebbe una nella quale avvolgersi e quella fu la prima notte da quando era ritornata a Chequián che poté prendere veramente sonno. Il giorno seguente altre mani giunsero ad offrire il loro aiuto. Il lonko inviò in dono un piccolo guanaco, affinché fosse ucciso e ci fosse carne abbondante per tutti coloro che aiutavano, ed anche un otre di pelle pieno di muday, affinché non mancasse neppure la buona birra. E legarono i pali ed intrecciarono le canne ed anche il tetto ebbe la sua forma. Mancava tuttavia il lavoro più lungo e difficile: rivestire il tetto di canne con mannelli di fieno sui quali scivolasse l’acqua, e così anche l’esterno delle pareti, mentre il loro interno sarebbe stato reso impenetrabile al vento rivestendo con una miscela di fango e paglia finemente sminuzzata ogni fessura e infine coprendolo con un fitto intreccio di canne sottili. Ma per quel lavoro era necessario attendere che venisse il

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tempo caldo, affinché fosse possibile raccogliere e seccare il fieno per fare i mannelli e potesse asciugare il fango e la paglia sminuzzata che intonacava i muri. Likarayén ringraziava tutti, grata dell’aiuto ricevuto: “va bene così, Grazie, ma non mi occorre altro. Va bene così. Va bene così”. Per quella notte dormì ancora avvolta nelle pelli di tricheco, mentre il rumore della pioggia che picchiettava sul tetto improvvisato le ricordava tanti momenti della sua infanzia. Poi il mattino seguente si alzò non appena vi fu un accenno di luce, si rimise all’opera. Ora era sola: finalmente sola. Grata adesso per quella solitudine, così come sino a ieri era grata per l’aiuto ricevuto. Allora pensò di usare le pelli per coprire il tetto. Quattro, ne aveva, giusto quanto bastavano, ance se in questo modo avrebbe dovuto dormire sulla nuda terra. Le rimaneva solamente quella vecchia pelle di puma, troppo piccola e incapace di impedire all’umidità del terreno inzuppato di acqua di passare. Quando finì di legare con ogni cura le pelli al tetto, la giornata era nella sua parte centrale. Mangiucchiò quanto era avanzato del guanaco e intanto rifletteva su cosa fare per rendere meno bagnato il suolo della capanna. Indossava ancora la tunica che le aveva prestato il ngenpín, mentre la sua era rimasta nella capanna del sacerdote. Pensò di chiedergli ancora una pelle di tricheco - lui ne aveva tante! - mentre gli avrebbe restituito la sua tunica. “Mari-marí, susunge - disse il vecchio sacerdote quando sentì la voce della ragazza che chiamava davanti alla sua capanna - entra, entra pure”. “Mari-marí chachay Kurüfil” disse lei dopo essere entrata, vedendo che il ngenpín era solo. Non si sarebbe mai permessa di mancargli di rispetto chiamandolo in quel modo così famigliare e così poco ieratico davanti ad altre persone, e non lo avrebbe fatto neppure quando era solo, se non si fosse resa conto che al vecchio ciò faceva piacere. Le venne da pensare che è quando uno invecchia veramente che più che in altri momenti della vita vorrebbe avere accanto a se un figlio non ancora uomo. Chissà perché, ma il vecchio ngenpín le fece venire alla mente Lalén Kusé. “Ho usato le pelli di tricheco per coprire il tetto, ma non ho più nulla da appoggiare sul suolo...”. “E sei venuta a chiedermi qualche pelle - la interruppe il sacerdote ridacchiando - e hai fatto bene”. “Ma volevo anche restituirti la veste...”. “Quello è meno vero” disse ancora, sempre ridacchiando. “Solo una pelle... me ne basta una...”. “Con una pelle non ci fai niente. Ce ne vogliono quattro per coprire il fondo della tua ruka, almeno quattro. Riesci a portarle via da sola? E riprendi la tua tunica, ma tienila questa che ti ho dato. Avvolgi la tua veste nelle pelli, così non si bagna e nella tua capanna potrai cambiarti: vuol dire che per una notte dormirai asciutta”. Il giorno seguente finalmente smise di piovere. Venne il vento del sud, freddo ma asciutto, e spazzò via le nuvole. Likarayén ne approfittò per lavare la tunica che le aveva donato Lalén Kusé e per cercare alcune erbe, senza allontanarsi dalla sua ruka. Man mano che la pioggia cessava ed il cielo si rasserenava, la malén diventava più inquieta. Ad ogni momento scrutava l’orizzonte, guardando a nord, mentre il cielo diveniva sempre più sgombro di nuvole. Finché improvvisamente apparve davanti ai suoi occhi. Lontano, bellissimo, un cono perfetto, ammantato di neve, e quel punto rosso incandescente e quella piccola linea, anch’essa di fuoco, che scendeva sul suo fianco come una ferita sanguinante. Osservava Peripillán trattenendo il respiro. “Con quanto voglia tornerei lassù, sino al cratere, per guardare ancora quell’occhio di fuoco” e mentre mormorava queste parole provava un desiderio intenso di buttarsi dentro quell’occhio di fuoco, di annegare in quella enorme fiammata. “Quanto avevano ragione Antüwala e Lalén Kusé quando mi hanno detto che dovevo andare lontano da Peripillán! Come erano

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nel vero!”. Aveva parlato ad alta voce ed era talmente incantata dalla visione del vulcano, che non si era accorta di non essere più sola. “Mari-marí Likarayén”. Era la voce del ngenpín, ma non era solo. Con lui veniva un giovane dall’aspetto chono, con un carico di pelli. “Mari-marí fücha ngenpín, mari-marí lamngén” rispose la ragazza. “Ho pensato che ti sarebbe venuta utile qualche altra pelle, ed anche qualche tunica. Io sono vecchio ed ormai il tempo della vanità è già trascorso da molti anni, per me”. L’uomo che lo accompagnava depositò ai piedi di Likarayén il suo carico. Poi a un cenno del vecchio sacerdote si allontanò in silenzio. “Perdonami, susunge, ma ho ascoltato le tue parole. Vuoi che ne parliamo?”. “Sì, chachay Kurüfil. Ho tanto bisogno di capire”. “Allora vieni con me. Non è questo il luogo giusto”. Raggiunsero il cimitero. Il sacerdote aveva sentito nel modo giusto. In quel luogo Likarayén si sentiva più serena, soprattutto ora che sapeva che in qualche modo Millaray era dentro di lei. Lo disse al ngenpín, quando arrivarono. “Lo è sempre stata dentro di te, nella tua anima. Io credo che le vostre anime in realtà non si sono mai separate, e forse neppure si sono separate da quella della madre dormente. E’ qualcosa di misterioso, di incomprensibile. E’ strano, ma in tutti questi anni mai nessuno si era accorto di quella pozza di lacrime che il vento e la pioggia non potevano neppure sfiorare e che la terra non poteva intorbidire. Quando mi dissero che Millaray era scomparsa, ho pensato che poteva essere venuta solamente qui, davanti al mamülche di sua sorella. Pensa a quanto tu ami Millaray. Bene, è così che Millaray amava sua sorella. Si sentiva colpevole: aveva torto, naturalmente, ma si sentiva colpevole. Tu eri il piccolo fiore che sua sorella le aveva affidato. Sai, non è stata tua nonna, ma Millaray a importi il nome e a tenerti in braccio durante il lakutún, è ti ha sempre chiamato il suo piccolo fiore, pichi rayén, e diceva che queste erano le uniche parole che la tua mamma, la mamma dormente, aveva pronunciato prima di morire, nell’unico momento in cui recuperò i sensi smarriti. Feichy ngey ñi rayén. Queste furono le parole di tua madre, della tua mamma dormente, ed affidò il suo fiore a Millaray. Allora aveva solamente sei o sette anni, Millaray, ma ti difese come una femmina di puma difende i suoi cuccioli: con le zanne e con i denti. Non aveva latte, nessuno aveva latte per te: ma Millaray tolse il latte a una tricheca morta, e ti allattò dandotelo con la sua stessa bocca. Non avevi nessuna possibilità di sopravvivere. Nessuna. Solo la volontà di Millaray poté compiere un prodigio che neppure gli spiriti avrebbero potuto compiere. Quanto ti ha amato, Millaray! tu, il suo piccolo fiore, eri tutta la sua vita, e quando il suo fiore è scomparso nel mare, la sua vita si è spezzata. Ed allora è scomparsa. Ma io sapevo che era qui, che poteva venire a cercare conforto, da sua sorella. Per questo sono venuto a cercarla qui. Pioveva tantissimo quella notte. L’attesi per tutta la notte, ma non la vidi arrivare. All’alba mi avvicinai al mamülche della tua mamma dormente. Allora vidi quella piccola pozza che la pioggia non osava sfiorare. Mi sono inginocchiato. Avevo un presentimento. Toccai quella pozza con le mie labbra, sentivo che non dovevo toccarla con le mie mani: era leggermente tiepida e un poco salata. Mi resi conto che erano lacrime: le lacrime di Millaray, tutto quello che restava di lei. Ma vidi che dentro la pozza c’era qualcosa ancora: i suoi chaway. Intuii che li aveva lasciati per te ed allora fui certo che tu saresti tornata. Da quel giorno io ho sempre vegliato su quella pozza, perché ci furono momenti in cui sentii che forze malevole giravano intorno ad essa. Dovevo vegliare. Anch’io volevo molto bene a Millaray, come ne voglio a te adesso. Non riesco a comprendere - sai, ci sono tante cose che neppure i ngenpín possono comprendere - ma sono certo che la mamma dormente, Millaray e tu siete una sola creatura, che tutte e tre vivete in uno stesso corpo, che in certi momenti si è

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sdoppiato, ma che ora è tornato ad essere uno ed uno solo. O forse i corpi sono davvero tre, ma l’anima, quello sì, ne sono certo, l’anima è solamente una”. Si sedettero per terra, non lontani dal rewe. Il loro sguardo era rivolto verso sud, per propiziare le loro parole, e la sacra scala restava alla loro destra. Allora Likarayén iniziò il suo racconto, con ordine, cominciando da quando si era ritrovata sola sulla dalka, sino a giungere al suo ritorno a Chequián. Trascorse in questo modo il resto della giornata e si fece sera. Il ngenpín ascoltava attento, di quando in quando ponendo una domanda, oppure evidenziando qualche contraddizione o qualche incoerenza nella successione dei fatti. Talvolta i ricordi più vecchi si confondevano nelle parole di Likarayén, e la successione di alcuni eventi si faceva confuso. Ma l’insieme di quanto era avvenuto in quegli otto anni prendeva chiaramente forma nella mente di Kurüfil. Il ngenpín corrucciò la fronte solamente quando la ragazza gli narrò il rituale che aveva compiuto a Caguach, sul rewe. Likarayén se ne accorse: “ho fatto qualcosa di sbagliato?”. “Sì, Likarayén, hai commesso qualcosa di molto sbagliato. Perché l’hai fatto?”. “Non lo so. Durante questo viaggio ho fatto tante cose che non mi so spiegare. No, già da prima, da quando sono andata per dare il fieno al gregge e invece sono salita sino alla sommità di Peripillán e ho guardato il suo occhio ardente. Ecco, da allora ho fatto tante cose che non so spiegarmi, che non capisco perché le ho fatte. Ma non volevo mancare di rispetto agli spiriti, quello no. Ero accanto al rewe e in quel momento mi ricordavo perfettamente del katán pilún, di te che eri chino su di me, dei segno che tu aveva fatto sul rewe. Mi è venuto di fare gli stessi segni perché volevo essere sicura che ero tornata veramente, e mi sembrava che se il rewe era di nuovo come allora, forse sarebbe stato come se io non fossi mai andata via, ed avrei trovato Millaray ad aspettarmi nella ruka, e mi avrebbe rimproverato perché mi ero allontanata senza il suo permesso, ma poi mi avrebbe detto di sedermi vicino a lei, accanto al telaio. Per questo ho fatto quei segni, che la pioggia scioglieva altrettanto rapidamente di quanto io li facevo. Non so spiegarmi meglio, Kurüfil, ma non volevo mancare di rispetto, questo no”. L’anziano ngenpín rimase in silenzio a riordinare il filo delle sue idee, quindi “ascoltami bene - disse - non devi mai confondere il tuo ruolo e devi rimanere al tuo posto. Sempre. Tu sei una machi, anche se la tua formazione deve ancora completarsi e anche se sei così giovane, tuttavia sei una machi. Ma non sei un ngenpín. Perciò ti è proibito compiere riti che spettano al ngenpín. Compirai quelli che dovrai compiere, come machi, sul tuo rewe, ma solamente su quello”. Poi la invitò ad alzarsi e insieme si avvicinarono alla scala sacra, ponendosi di fronte ai suoi gradini. “Vedi, Likarayén, il rewe ha tanti significati. Quello che tu conosci, rappresentare il cosmo, dal miñchenmapu al wenumapu. Ma può rappresentare anche molte altre cose. La tua vita, per esempio. Questo primo gradino - e così facendo prese la mano di Likarayén e si chinò appoggiandola sul gradino più basso della scala sacra - è quanto ha fatto per te la madre dormente: ti ha dato la vita fisica, nella sua forma più elementare. Questo, dunque, è il gradino della vita. Nel secondo c’è quanto ti ha dato Millaray - e intanto accompagnò la mano della fanciulla sul gradino superiore - e cioè la coscienza di appartenere ad una comunità, alla quale sei legata da affetto, ma anche dai doveri verso gli altri. Questo, dunque, è il gradino della partecipazione al mapu. Gli esseri umani più disgraziati si fermano al primo gradino: sono simili a bestie. Ma i più arrivano al secondo: sono membri di una comunità, ma qui si fermano. La Pincoya, invece, ti ha aiutato a raggiungere il terzo gradino, il gradino delle sensazioni, quello che ci rende capaci di vedere ciò che è veramente importante e che non è mai quello che sembra. Poi Rey Kusé ti ha aiutato a raggiungere anche il quarto gradino, quello della intuizione: ti ha insegnato a creare le forme che tu hai nella tua mente, a dar vita ai tuoi

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sogni, a renderli reali. Lalén Kusé, poi, ti ha donato il quinto gradino, quello dell’immaginazione: andare alla ricerca del tuo destino costruendo passo dopo passo gli elementi necessari che hai potuto intuire. Antüwala, infine, ti ha aiutato a raggiungere il sesto gradino, quello della cognizione: grazie alla cognizione puoi comprendere pienamente ciò che le sensazioni, le intuizioni e l’immaginazione comunicano alla tua anima. E’ dal perfetto equilibrio da questi quattro dominî dell’anima umana - sensazione, intuizione, immaginazione e cognizione - quando nessuno prevale sull’altro ma tutti si integrano in maniera sinergica, che l’essere umano acquista la conoscenza vera e si trasforma in un kimche, in un uomo saggio e capace di essere partecipe dell’anima universale, il Pu-am, e quindi di avvicinarsi agli spiriti e di non temere la morte, che è la strada per raggiungerli9. Ma questo rewe, come vedi, ha sette gradini. Ti rimane ancora, dunque, l’ultimo gradino: prendere coscienza del tuo filew, perché questo è il gradino della coscienza, il più elevato di tutti, il più nobile e bello, ma anche il più doloroso. E’ un gradino riservato a pochissimi esseri umani, Likarayén, e dovrai esserne degna”. “E sarai tu ad aiutarmi, vero Kurüfil?”. “No, ñawe, non ci sarà nessuno ad aiutarti. Questo è un gradino che dovrai conquistare da sola”. Ormai era buio. Il ngenpín e la machi tornarono alle loro capanne: la luna calante era più che sufficiente per quegli occhi che vedevano ciò che non era visibile. * * *

Avvolta nelle sue pelli e con una veste asciutta Likarayén dormì serena. La lunga chiacchierata con il ngenpín era servita molto. Aveva raccontato quanto le era successo, e da lui aveva potuto conoscere quanto non sapeva o non poteva ricordare. Soprattutto pensava alla madre dormente e a Millaray. Le piaceva credere che tutt’e tre avessero una sola anima, le pareva plausibile perché ciò spiegava quel legame così stretto che le univa tutte e tre, anche se non era sicura che fosse proprio così. Tuttavia le parole del sacerdote l’avevano rasserenata moltissimo e quando si risvegliò - era l’alba e la pioggia ricominciava a cadere monotona - pensò che forse sarebbe stata felice. Decise che per il fondo della sua ruka poteva bastare una sola pelle, e utilizzò le altre per foderare dall’esterno le pareti della capanna. Le cucì con cura e rimase soddisfatta del risultato. Quando la sera cominciò a farsi avanti, giunse il giovane chono. Lo mandava il ngenpín a le recava un recipiente di cuoio spesso, di quelli che, purché colmi di acqua, potevano essere posti sulla fiamma. E ancora due pacchi di alghe essiccate e numerose filze di cozze e sargassi secchi ripiegati su se stessi. “Assomiglia un poco ad un toldo chono” disse il giovane. “Veramente?”. “Sì, davvero, sono così, tutti ricoperti di pelli di tricheco e di guanaco. Voi huilliche ci avete sconfitto ed ora noi parliamo la vostra lingua. Ma siete voi a mangiare nel modo in cui mangiamo noi, e molte delle cose in cui credete sono i nostri credi e le avete assorbito quando le nostre donne che voi avete catturato in guerra vi hanno dato il loro latte e hanno allevato i vostri bambini. Voi credete di averci sconfitto, di avere conquistato le nostre terre, ma invece siamo noi che stiamo conquistando voi, senza che ve ne accorgiate. Ed ecco che ora anche la tua ruka sembra il toldo di un chono. Ma sarà per poco. Quando avrai il fieno secco, toglierai queste pelli ed allora prenderà l’aspetto di una ruka”. Likarayén l’ascoltava attenta. Pensava nella sua piccola amica chona, pensava che era annegata cercando di salvare lei, la nipotina di chi l’aveva strappata alla sua famiglia, pensava che era morta chiamando il suo nome, forse l’unica parola mapuche 9

Sono debitore di questi concetti al filosofo huilliche Julio Tereucán A., direttore dell’Instituto de Estudios Indígenas de la Universidad de la Frontera (Temuco), che ha avuto la gentilezza di spiegarmeli con grande profondità e chiarezza di linguaggio.

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che aveva imparato durante la sua breve prigionia. “Anche lei mi ha dato qualcosa. No, non qualcosa, ma moltissimo: la sua stessa vita”, così pensava Likarayén e seguendo un impulso fissò il chono negli occhi e gli disse: “ti sbagli, lamngén, perché questa capanna non sarà mai rivestita con mannelli di paglia, ma solamente con pelli, allo stesso modo di un toldo chono. E’ così poco quello che posso fare per pagare un debito”. L’uomo non comprese il senso di quelle parole: tuttavia rimase contento al pensiero che nell’isola di Quinchao ci fosse un toldo che assomigliasse, almeno un poco, a quelli che costruiva la sua gente. * * *

Durante la notte la pioggia cadde intensa. Picchiettava rumorosa sulla pelle tesa che rivestiva il toldo, ma quel suono piacque a Likarayén. Ascoltandolo, fu contenta dell’idea che aveva avuto e le tornarono alla mente tante piccole cose della sua amica chona, tanti particolari che sembravano perduti. Poi, quando si addormentò, la sognò. O forse non era lei, perché in realtà quella che sognò era una bambina più piccola, che aveva la stessa età che aveva lei allora, cinque anni, dal volto tondo e dagli occhi nerissimi: nel sogno quella bimbetta le sorrideva, ma non con la bocca, che rimaneva seria, ma con quei suoi occhioni così neri e così belli. Sorrideva proprio come sorrideva lei stessa. Quando il mattino fece il suo ingresso nella ruka, pioveva ancora, ma ora molto più dolcemente. La giovane machi dedicò la mattinata alla ricerca delle grosse pietre rotonde che avrebbe messo intorno al suo focolare. Nell’isola di Quinchao le pietre non sono abbondanti, a meno che si vada a cercarle lungo le scogliere della costa. Ma la riva era distante dal luogo elevato dove Likarayén aveva voluto alzare la sua capanna, sicché dovette girovagare qua e là per trovarne a sufficienza. Quando tornò con un grosso sasso - forse quello sarebbe stato l’ultimo, pensava - incontrò suo nonno con i due zii, Mariñamko e Antüñamko, che la stavano aspettando accanto alla sua capanna. Ai loro piedi c’erano due telai. C’erano le loro mogli e numerosi bambini. “Questa è la mia domo - disse Mariñamko - che tu non puoi ricordare, eri troppo piccola, ma lei si ricorda di te ed è contenta di rivederti”. “E queste sono le mie due mogli, che tu non hai mai conosciuto perché mi sono sposato un anno dopo la tua scomparsa” disse il minore dei due fratelli. Likarayén sorrise ironica quando lo zio le disse che sua moglie era contenta di rivederla, ma poi la guardò negli occhi, e le parve di ricordarla, e vide che nei suoi occhi c’era veramente la contentezza di rivederla. “Sì - disse allora rivolta a Mariñamko credo veramente che sia contenta di rivedermi, ma tu ti sbagli: io mi ricordo di lei”. “Puoi ben dirlo, Likarayén: sono felice di rivederti, perché non ho mai temuto i tuoi occhi ed i tuoi capelli rossi, e credi di aver compreso il vostro mutismo, tuo e di Millaray, con la quale andavo d’accordo. Potesse tornare anche lei, un giorno! Il mio nome è Kallfüllanka e queste sono le mie pichi domo. Ho avuto anche due pichi wentru, ma purtroppo sono morti e non potrò più avere bambini, così almeno ha detto il machi” e Likarayén intuì tutto il dolore che quella donna provava per non aver potuto dare un figlio a suo marito che potesse perpetrare il patronimico della sua famiglia. Le altre donne erano le due mogli di Antüñamko, che avevano numerosi bambini di entrambi i sessi, ma non dissero il loro nome e non presentarono i loro figli. Rimasero gentili ma in disparte, in attesa che il loro marito le presentasse, ma Antüñamko preferì rimanere in silenzio. Entrarono i tre uomini, ma la capanna era così piccola che faceva fatica a contenere quattro persone, e posarono sul suolo i due telai che furono di Millaray: quello fisso e quello mobile. Quest’ultimo portava ancora il trariwe che la sua mamma adottiva non

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avrebbe mai concluso. Fu contenta di accarezzare nuovamente quelle larga fascia di tessuto dai ricchi disegni che la sorella della mamma dormente stava tessendo per lei. Furono tutti gentili, forse un po’ troppo. Una gentilezza che forse, pensò Likarayén, serviva a nascondere il disagio che provavano di fronte al suo aspetto. “Ma può darsi che sia solamente io a farmi tanti problemi per il mio aspetto - diceva tra sé - forse il disagio nasce perché in realtà siamo degli sconosciuti. Io questi due uomini ancora giovani proprio non li ricordo. Per molto che li osservo, non ci vedo nulla di Millaray, in loro, e neppure nel volto di mio nonno”. Ma nonostante questi pensieri, Likarayén fu gentile, anche se non aveva nulla da offrire, neppure un fuoco acceso per asciugare le vesti fradice, né una scodella di acqua tiepida. Ma ad un cenno di suo nonno (lo fece mentre lei guardava altrove, ma se ne accorse), gli zii con le loro famiglia salutarono e si allontanarono velocemente. Sola con suo nonno, seduti su l’unica pelle che le era rimasta per coprire il fondo della piccola ruka, rimasero a lungo in silenzio, senza sapere che cosa dirsi. “Sono contento che tu sia finalmente tornata, Likarayén. Forse non mi crederai, ma sono contento veramente, ed anche la nonna. Ci sarebbe piaciuto che tu fossi venuta a vivere con noi... potresti ancora farlo...”. “Grazie, nonno, ma preferisco stare sola. E’ da tanto tempo che sono abituata a stare sola. E una machi, uomo o donna che sia, deve vivere sola. Così vuole la tradizione”. Un altra lunga pausa di silenzio, mentre la ragazza pensava che stavano mentendo entrambi. I suoi nonni non l’avrebbero voluta nella loro capanna, almeno non sua nonna, anche se forse era vero che erano contenti di averla rivista, che lei fosse ancora viva. E lei non aveva mai vissuto sola, se non per trascorrere poche notti. Il viaggio di ritorno a Chequián: quello fu il periodo in cui era rimasta sola più a lungo. “Tu forse credi che la nonna non ti voglia vedere, che non ti voglia bene - riprese a dire suo nonno - ma ti sbagli. Questi due telai, prima di essere di Millaray, furono della madre dormente, la maggiore dei nostri figli. Sai, quando fu violata dal Thrauco era prossima alle nozze. Era allegra, felice, stavano sempre insieme, la tua mamma dormente e la nonna, erano inseparabili, proprio come lo eravate tu e Millaray. Tua nonna esagerava: la mamma dormente era il suo figlio prediletto. Non era giusto, sbagliava, ma era così. Anch’io le dissi tante volte che sbagliava, ma a volte certe cose nascono sbagliate e anche se uno lo capisce, non riesce a fare a meno di sbagliare. Tu non puoi immaginare quanto tua nonna ha sofferto in quegli otto mesi durante i quali la tua mamma dormente ti ha tenuto nel suo grembo. Forse se fosse morta subito dopo la violenza subita, tua nonna avrebbe sofferto di meno. Ma vederla morire così lentamente, giorno dopo giorno, senza mai riprendere conoscenza, senza ma mangiare se non le poche gocce di cibo e acqua che tua nonna infilava di prepotenza nella sua bocca. Quando poi sei nata tu, c’era solamente Millaray perché noi eravamo andati a Caguach per il We Tripantü, e la tua mamma dormente morì, tua nonna perse la ragione per il dolore. Non è con te, che ce l’ha, non sono i tuoi occhi ed i tuoi capelli rossi ad allontanarla da te, ma è l’atroce violenza che ha subito sua figlia, e che tu impersoni senza averne nessuna colpa, è quello ciò che odia. Non sei tu, quella che vuole respingere, ma è la violenza compiuta su sua figlia. E’ tanto difficile, tutto questo. Io ero molto attaccato a Millaray, come lo eri tu, e mi sono sempre sentito in colpa per la sua scomparsa”. “No, nonno - pensò Likarayén mentre ascoltava in silenzio - non quanto me, che non ti sei neppure accorto che i chaway che porto alle orecchie sono quelli di Millaray!”, ma poi sentì di essere ingiusta nei suoi confronti.

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“Se noi fossimo stati diversi - continuava a dire suo nonno - intendo dire, diversi nei tuoi confronti, non sarebbe nato quel vostro rapporto così intenso, e anche bello, ma che escludeva tutti gli altri e che alla fine ha distrutto Millaray”. Fece ancora una pausa, mentre Likarayén rimase in attesa, e poi aggiunse: “vorrei che tutto fosse stato diverso, vorrei che tu fossi la nostra giovane nipote... ora hai poco più degli anni che aveva Millaray quando è scomparsa... se potessimo ricominciare a ricostruire un legame tra di noi... voglio essere tuo nonno, per te, non un estraneo. Ed anche tua nonna, lo vuole, anche se per lei è tutto più difficile. Questi telai: dopo che è scomparsa Millaray non ha più permesso che nessuno li toccasse. Tante donne glieli hanno chiesti, ma lei non li ha voluti dare a nessuno, neppure ai suoi figli quando glieli hanno chiesti per le loro mogli. Eppure è stata lei che mi ha detto di portarteli, che era giusto che ora fossero tuoi”. Likarayén guardava suo nonno negli occhi. Era un vecchio buono, che aveva sofferto e che stava soffrendo: avrebbe voluto consolarlo, ma sapeva che non era possibile. Rimasero per un poco in silenzio, ascoltando il rumore della pioggia che stava crescendo di intensità. Avevano acceso un fuoco, sulla nuda terra umida, e Likarayén si alzò per aggiungervi qualche rametto a ravvivare la fiamma. Poi tornò a sedersi accanto a suo nonno, sempre in silenzio. “Guarda questo, Likarayén - disse ancora suo nonno aprendo una sacca di pelle che aveva con sé, dalla quale tolse alcune fasce - questi sono i trariwe di Millaray e della mamma dormente e questi sono i loro trarilonko. E questi ancora sono i chaway della tua mamma dormente. E tutto quanto rimane a tua nonna delle sue figlie. Ha voluto che ti portassi anche queste reliquie, perché per lei sono delle vere reliquie, che li tenessi tu. Credimi, Likarayén, tua nonna non riesce ad accettarti perché non può, non perché non vuole. Vorrebbe riuscirci, ma non le è possibile, eppure ti vuole bene lo stesso. E’ così. Torna a vivere insieme a noi. Cominciamo a ricostruire quei legami che si sono interrotti. Torna a casa tua, dove hai vissuto i tuoi anni di bambina, dove ci sono tutti i tuoi ricordi di allora...”. Likarayén lo guardava triste, scuotendo lentamente la testa in segno di diniego. “E’ come tu dici, nonno. La vostra ruka è piena dei miei ricordi, ma soprattutto c’è il ricordo di colei che vorrei accanto a me e che mi manca tantissimo e che non potrà esserci mai più. Anch’io vi voglio bene, credimi, ma non si possono costruire dopo quei legami che non sono nati quando dovevano sorgere. L’amore tra due esseri umani non è dettato dal sangue, ma dalla comunanza di una vita: dalle carezze che la madre da alla figlia, anche dai suoi rimbrotti; dai suoi sorrisi ed anche dalle volte in cui si piange insieme. Tutto questo è mancato quando era il momento giusto perché così fosse. Ora non è più possibile. Ci può essere amore, tra noi, ma io non posso essere vostra nipote, né voi potete essere i miei nonni. Non è questione di non volere, è che ormai non può più formarsi quel legame. Sarebbe una finzione. Io vi voglio bene e ti credo quando tu mi dici che tu mi vuoi bene e che me ne vuole anche la nonna. Ma non basta. Io resto qui, in questa toldo che ora mi ricorda una ragazzina chona... stavano bene, insieme, anche se credo che non ci potevamo capire. E poi te l’ho detto: io sono una machi, devo vivere sola, non posso farne a meno...”. Rimasero ancora in silenzio, accompagnati dal rumore triste della pioggia e da quello allegro della fiamma. Poi il nonno si alzò, sorrise a Likarayén e le disse ancora: “capisco, bambina mia, e non ce l’ho a male per le tue parole. Però ogni tanto passa, passa che ti aspettiamo”. Si incamminò sotto la pioggia mentre Likarayén annuiva. Poi, prima che sparisse tra gli alberi, la ragazza gli gridò ancora: “ringraziala la nonna, dille che la ringrazio davvero, che capisco quanto le costa dare a me tutto quello che le era rimasto delle sue figlie, che so che mi vuole bene... diglielo, diglielo”.

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* * *

Il lonko ascoltava Kurüfil. Il vecchio ngenpín parlava di questo e di quello, ma era venuto da lui per dirgli qualcos’altro, il lonko ne era certo. Il sacerdote sapeva bene come ci si doveva comportare e dunque avrebbe lasciato per ultimo quanto gli stava a cuore: l’avrebbe detto con noncuranza, quasi fosse qualcosa privo di importanza. Dopo averlo salutato, quando il ngenpín stava già per uscire dalla grande ruka del lonko, solo allora disse: “pensavo che forse potresti incaricare Likarayén di tessere qualcosa per la tua moglie prediletta, mi windomo. Non è bene che Likarayén sia una machi...”. “No, non è bene...” confermò il lonko annuendo. “Già c’è una domo-machi e in troppi vedono in lei una kalku e ne hanno paura...”. “Una ce n’è, ma sarebbe meglio che non ci fosse...”. “Sarebbe meglio se nessuna si avvedesse che Likarayén è una machi”. “Si, sarebbe meglio...”. “Pensavo, dunque... che se tu incaricassi Likarayén di tessere qualcosa per la tua windomo, allora anche le mogli di molti altri uomini vorrebbero indossare un trariwe tessuto da Likarayén, o un trarilonko, e lei penserebbe a tessere e non penserebbe ad altre cose... Ma forse sto dicendo una sciocchezza. Sono vecchio, e i vecchi talvolta dicono sciocchezze... Non fare caso alle mie parole, fücha lonko, che tu sai benissimo da te cosa è meglio fare. Chaltú, fücha lonko, chaltú” e si allontanò sotto la pioggia. Likarayén era nel suo toldo. Aveva tra le mani alcune matasse di filo di colori diversi che le aveva lasciato suo nonno insieme ai due telai ed era seduta davanti a quello mobile. Aveva pensato di completare il trariwe che aveva iniziato Millaray più di otto anni prima, ma poi non volle toccarlo. “Devo lasciarlo così com’è. Lo indosserò sotto la tunica, direttamente sulla mia pelle, ma non devo completarlo”. Guardava le matasse colorate. Un filo era grossolano, diseguale: “forse questo sono stata io stessa a filarlo, mentre Millaray mi insegnava come far girare velocemente il fuso, con regolarità e senza strappi...”. Aveva voglia di iniziare un trariwe, anche se non ne aveva bisogno. Aveva il suo, di piume di colibrì, ed anche quello che fu della sua madre dormente. Ma sentiva un grande desiderio di tessere, di far avanzare tra le sue dita il filo, di annodarlo, di dare vita ai colori. Cominciò a disporre l’ordito e la trama, poi, usando le matasse più fini, iniziò a fare i primi nodi. Sentiva le sue mani scivolare leggere e le parve anche di udire la voce stridula e acuta di Lalén Kusé. Acuì tutti i suoi sensi sperando di riuscire a percepire le esili ed impercettibili zampine della ragna mentre guidavano le sue dita. Poi si alzò e si avvicinò al telaio disposto sopra il focolare acceso. Cominciò a seguire con gli occhi i legno che cominciavano appena appena a annerire coprendosi di fuliggine alla ricerca del corpo sfuggente di qualche piccolo ragno. Poi ne vide uno, grosso, nero, tondo, che si dondolava mentre scendeva appeso al suo sottile filo lucente. Avvicinò la palma della sua mano sotto il ragno, ma questo immediatamente riprese a salire e scomparve tra le travi che sostenevano le pelli del tetto. “Non ti vuoi fare vedere, Lalén Kusé, ma so che ci sei. Lo so, che ci sei!”. “Mi manchi” aggiunse dopo una breve pausa, e le venne da pensare che erano tante le persone che le mancavano. Poi si rimise al telaio e riprese ad annodare la fascia. Non si accorse che il tempo passava. Già aveva annodato il trariwe per una lunghezza pari allo spessore di quattro o cinque dita, quando si sentì chiamare. Si alzò e andò a sollevare il lembo di pelle che usava come uscio e solo allora si accorse che aveva cessato di piovere. La windomo del lonko era lì, con una sacca di pelle. “Mari-marí lamngén, entra, entra”. La moglie del capo clan entrò titubando appena un poco. Era la prima volta che vedeva Likarayén, anche se naturalmente gliela avevano più volte descritta. L’aspetto della ragazzina la intimidiva, anche se non voleva essere scortese e la giovane machi, anche se se ne accorse, non ne ebbe a male. Ormai si era abituata a

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questo senso di disagio che, tranne Kurüfil, tutti provavano nei suoi confronti e non ci faceva caso. Tanto più che questo disagio non si era mai tradotto in ostilità o antipatia. La windomo si avvicinò al telaio. “Ti dispiace?” chiese mentre si chinava ad osservare il trariwe appena iniziato. “E’ bello, sai tessere molto bene, veramente”. “Grazie. Ho avuta una maestra molto valida”. “E’ stata davvero brava. Chi era?”. “Millaray! - rispose Likarayén senza neppure rendersi conto delle sue parole - Millaray mi ha insegnato a tessere”. Solo allora la windomo si accorse del trariwe di piume che indossava Likarayén e della bianchezza perfetta della sua veste, così sottile e dal nodo invisibile. “La veste e questo trariwe, non li ho tessuti io, ma li ha fatti per me la mia maestra. Ed anche il trarilonko che porto sulla mia fronte lo ha tessuto lei”. La windomo guardò incredula la finezza di quel lavoro. Le pareva impossibile che una mano umana potesse annodare un filo così sottile, e tanto meno una ragazzina che quando era scomparsa forse non aveva neppure quattordici anni. Poi sollevando lo sguardo verso la fronte di Likarayén vide la cicatrice a forma di croce subito al di sopra del trarilonko, ma non osò dire nulla. “Mi hanno detto che le tue mani sono magiche sul telaio, ed è proprio vero. Volevo chiederti... se tu volessi tessere un trariwe per me... ti ho portato molti fili di tanti colori... se tu puoi?”. “Certo che posso! - si affrettò a rispondere Likarayén - che bello! mi piace tanto lavorare al telaio!”. Quello fu il suo primo lavoro, ma poi ve ne fu un altro, ed un altro ancora, e ben presto tutte le donne più in vista dell’isola di Quinchao si facevano vanto di indossare un trariwe tessuto da Likarayén, e cominciarono a soprannominarla Lalén Pichi. Quando Likarayén lo seppe, ne fu commossa sino a piangerne.

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kayu troy

Likarayén Infine pukém ebbe termine: la stagione delle lunghe piogge gelide e del nevischio cedette il posto a pewü, dal tempo così variabile, dalle piogge ora assai più violente di quelle del pukém, ora leggere e sottili come una nebbia, ma anche dalle prime tiepide giornate di sole, quando i rami degli alberi si coprono di nuove foglioline dal delicato colore che risaltano tra le foglie più scura della stagione precedente. Quando non era al telaio, Likarayén trascorreva le giornate nei boschi alla ricerca del prezioso lawén. Sebbene tutti sapessero che la ragazza era una machi, tuttavia tanto il ngenpín, quanto il lonko e la sua famiglia aveva diffuso la notizia che la ragazza non avrebbe esercitato il machitún, sicché ogni diffidenza nei suoi confronti sembrava essere venuta a meno. Si era creata, tuttavia, una sorta di attesa: un episodio che confermasse una volta per tutte se veramente Likarayén voleva solo attenersi al ruolo di raccoglitrice e dispensatrice di lawén e di straordinaria tessitrice, senza interferire in un operato che secondo i più doveva essere riservato ai maschi e che poteva avere conseguenze molto gravi negli equilibri interni tra le famiglie che costituivano il clan: l’identificazione e quindi la denuncia pubblica del kalku, colui che aveva causato la malattia, con la conseguente faida che ne sarebbe derivata. Tutti riconoscevano l’abilità della ragazza nel conoscere e nel trovare le diverse erbe, bacche, semi e foglie, così come era anche nota la sua capacità di preparare il giusto bolo, e quella certamente era una pratica propria dei machi, ma che non causava sospetti o apprensioni. Era anche evidente il potere di Likarayén, che infatti quando vi era qualche bambino malato giungeva rapidamente e senza bisogno di essere interpellata, recando il giusto rimedio, quello che sanava rapidamente l’infermo, ma senza praticare nessun machitún. “Come hai saputo che c’era mio figlio ammalato?” le chiedevano: “l’ho sognato” si limitava a rispondere il più delle volte la malén. Certamente l’intuizione della malattia che richiedeva il suo aiuto e l’abilità nel lawén erano indici di potere sciamanico, questo tutti lo sapevano bene, ma l’assenza di ogni pratica di machitún era tranquillizzante. Non sempre Likarayén anticipava la richiesta, sicché non di rado venivano a cercarla da ogni parte dell’isola di Quinchao per chiedere il suo intervento. In questi casi, Likarayén preferiva limitarsi a preparare la medicina, mescolando le erbe necessarie, e a darla a coloro che l’avevano cercata, senza recarsi di persona. Però ci andava più tardi, per sapere se quanto aveva loro dato aveva sortito il giusto effetto. Tuttavia era inevitabile che Likarayén non potesse limitare la sua arte sciamanica alla sola raccolta del lawén. Prima o poi avrebbe sentito la necessità di raggiungere il küimi, l’estasi, e di possedere il proprio rewe per mezzo del quale rivolgersi agli spiriti, ed allora il suo potere sarebbe stato di pubblico dominio, senza più alcuna riserva, e avrebbe causato inquietudine nel clan. Il ngenpín ne fu certo quando la stessa Likarayén gli disse: “chachay, in cambio di un poncho molto bello e di un trariwe ho chiesto che mi portassero un grosso tronco di canelo”. Likarayén andava spesso a trovare il ngenpín e se erano soli amava chiamarlo chachay, e Kurüfil amava essere chiamato in quel modo. Non gli disse quanto era lungo il tronco di canelo, ma non era necessario. Tutto era chiaro. “Speravo che non ne sentissi il bisogno, Likarayén. Mi preoccupa quanto farai”. “Non ho chiesto io agli spiriti il potere di vedere le cose occulte, né quello di avere la forza per combattere il wekufe. Io voglio vivere al margine di tutto e di tutti, chachay, così come già sto facendo, e voglio continuare a vivere in questo modo... Non praticherò mai il machitún, ma ho bisogno del mio rewe e del mio kultrún”.

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Il ngenpín osservava il corpo così minuto e magro della ragazza. Sapeva che si nutriva solamente di erbe e di frutti di mare: solo più tardi il suo cibo si sarebbe arricchito di qualche frutto selvatico, mentre ora a volte il suo lavoro era compensato con qualche ciotola di latte di lama o di guanaco. “Ti è così necessario alzare il tuo rewe, ñi ñawe?”. “Sì, chachay, mi è indispensabile. Nel sonno lo vedo, con tutti i suoi particolari, ed anche il mio trariwe mi ha indicato che è giunto il momento. Lo sguardo del sacerdote si posò sulla fascia dai dieci e dieci riflessi colorati che cingeva i fianchi della ragazza. Egli ne conosceva la sua virtù, poiché Likarayén glie ne aveva parlato. “Cos’hai dunque visto?”. “Facendolo oscillare alla luce questa volta è stato l’ultimo dei ñimín che ha mostrato una immagine che non avevo mai vista prima”. “Com’era questa immagine?”. Likarayén non aveva mai dispiegato il suo trariwe davanti a nessuno, come era giusto, sicché solo il primo dei ñimín era visibile agli occhi, mentre gli altri risultavano ripiegati verso l’interno. La ragazza raccolse un bastoncino e cominciò a disegnare sul suolo l’immagine che le era apparsa:

“C’è anche altro?”. “Sì, chachay. Ho anche visto nel sogno che il volto alla sommità del rewe era infuocato, ma continuava ad ardere senza consumare il legno”. “E tu hai capito il significato del tuo sogno?”. “Sì” rispose Likarayén, senza tuttavia dare nessuna spiegazione. Il ngenpín non disse nient’altro. Restò a guardare pensoso il disegno che Likarayén aveva tracciato sulla sabbia, preoccupato per i sette gradini che Likarayén aveva disegnato. Sette, come il rewe del cimitero di Quinchao, ma anche come quello di Antüwala, ma questo Kurüfil no lo sapeva. il massimo che può avere una scala sacra. “Le cose saranno come devono essere e ciò che deve compiersi si compirà” disse infine. E poi aggiunse ancora: “ora va, ñi ñawe, che domani ti manderò chi possa fare il kultrún di cui avrai bisogno” e mentre Likarayén si allontanava pensava che il suo modo di camminare e di muoversi era uguale a quello di Millaray, la figlia che avrebbe voluto avere. * * *

Dovettero trascorrere molte lune prima che il rewe fosse finito. Era disteso al suolo, su un fianco, affinché i suoi sette gradini che guardassero verso puelmapu. Likarayén volle realizzarlo senza l’aiuto di alcuno e dedicò ad esso gran parte del suo tempo. Usò il fuoco e le asce di pietra per sgrossarlo e quelle di ossidiana per terminarlo, poi con la pietra vulcanica porosa rese liscia la superficie dei gradini e infine tracciò i tratti del volto che coronava il rewe con la lama, il dono di Antüwala. Non ebbe più tempo per tessere, ma non tardò a diffondersi la notizia che Likarayén stava scolpendo la sua scala sacra ed allora più nessuno le chiese di tessergli una fascia o una tunica. Preoccupato, il lonko si rivolse a Kurüfil. “E’ così - gli rispose il sacerdote - e così ha da essere” gli rispose il sacerdote. Non appena Likarayén iniziò a scolpire la sommità del rewe, giunse l’artigiano inviato da Kurüfil. Si trattava di un artigiano anziano, certamente il più abile di tutta l’isola, ed era il medesimo che aveva costruito quasi tutti i sacri kultrún dei machi e del ngenpín.

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Egli stesso trasse una grossa sezione di un tronco di canelo, già scorticata. Tra Likarayén e l’artigiano non ci fu bisogno di parlare: la ragazza carezzò il legno prezioso, seguendo l’andamento delle sue fibre, quindi volle tenerlo per alcuni giorni con sé. Durante il giorno, era al suo lato mentre scolpiva il rewe; durante la notte lo deponeva nel suo stesso giaciglio e dormiva al suo lato. Il giorno convenuto, l’artigiano tornò e la ragazza gli rese il grosso legno: “feychi ngey” fu la sua approvazione, e l’artigiano si mise subito al lavoro. Usando un’ascia di ossidiana diede al legno la forma di una grossa scodella, prestando attenzione a seguire quanto più possibile l’andamento delle fibre, così da non interrompere il flusso della vita. Poi trasse la pelle di un giovane guanaco, la tagliò in un cerchio il cui diametro era di un buon palmo maggiore di quello del kultrún e la dispose in una scodella piena di acqua. Infine preparò le fibre che sarebbero servite per distendere la pelle sul tamburo e per impugnarlo. Quando tutto fu pronto, entrò nel toldo di Likarayén insieme alla giovane ragazza. Anzitutto dispose la pelle del guanaco, ancora bagnata, sul suolo, con il vello verso l’alto. Quindi spalmò l’interno del kultrún con il grasso del guanaco e poi lo appoggiò ben centrato sulla pelle distesa, con la sua imboccatura verso il basso. Allora cominciò a incidere il bordo della pelle, formando piccoli fori a due a due, in modo tale che ripiegando su se stesso il bordo medesimo questi fossero coincidenti, ma prima di ripiegare il bordo, vi introdusse una spessa treccia realizzata con i cascami della stessa pelle. Infine inserì una corda di cuoio nei fori, intrecciandola a modo di rete intorno al kultrún. Prima di tirare la corda medesima e così sigillare il tamburello, lo diede a Likarayén e uscì dal toldo. Una volta sola, Likarayén rimase a lungo ammirando il suo kultrún e sorridendogli con i suoi occhi mentre il suo viso rimaneva severo e impassibile. Poi estrasse da un piccolo recipiente quattro piccoli globetti di lava del Peripillán che le aveva donato Lalén Kusé quando si era allontanata dal suo renü: li tenne sul palmo della sua mano, mentre li osservava con attenzione. Neri, porosi e arrotondati, parevano tiepidi: anzi, Likarayén ne era sicura, erano rimasti tiepidi sin da quando li aveva raccolti, mentre si arrampicava verso il cratere del vulcano. Infine li introdusse nel kultrún sollevando un angolo della pelle non ancora testa. Quindi inserì anche quattro semi di canelo. Poi si avvicinò al fuoco quasi sopito e vi aggiunse un ramo, anch’esso di canelo, dalle foglie ormai secche ma inumidite immergendole nell’acqua. Lo appoggiò non nel centro del focolare, ma sulla brace intorno ad esso: china su sé stessa, cominciò a soffiare sino a che le foglie umide cominciarono a bruciare quasi senza fiamma ma con uno spesso fumo biancastro. Allora inspirò una boccata di quel fumo, quindi si avvicinò al kultrún, tornò a sollevare il lembo della pelle che lo avrebbe sigillato e soffiò al suo interno il fumo che aveva nella sua bocca, affrettandosi a stringere quanto più possibile la treccia che chiudeva la pelle intorno allo strumento, prima che il fumo che aveva soffiato al suo interno potesse disperdersi. Solo allora con voce chiara e decisa richiamò l’artigiano nel toldo. Il vecchio entrò, si inginocchiò davanti al kultrún, ancora appoggiato al suolo della capanna ma ora rivolto verso l’alto, e come convenuto gridò ad alta voce verso lo strumento, senza osare neppure sfiorarlo con le sue mani: “kepatunge, kepatunge machi Likarayén ka ñuke-umakentu ka Millaraywén!”. Allora la ragazza, anch’essa inginocchiata verso il kultrún, gridò a sua volta: “akutuiñ, akutuiñ, ayuwe ñi piuke!”. Solo allora il vecchio artigiano prese nuovamente il kultrún nelle sue mani e strinse con forza la treccia che distendeva la pelle, sigillando quanto era in esso contenuto. Poi inumidì la pelle del tamburello e lo pose ad essiccare non lontano dal fuoco, affinché rimanesse ben tesa. Quindi si allontanò senza più pronunciare neppure una parola.

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Quando il giorno precedente Likarayén gli aveva chiesto di invocare, insieme al suo nome, anche quello della ñuke-umakentu, la madre dormente, e di Millaray, l’artigiano non rispose nulla, limitandosi ad annuire. Ma la richiesta gli parve molto strana. Quando si allontanò dal toldo, anziché andare alla sua ruka raggiunse il vecchio ngenpín e gli disse quanto gli era stato richiesto. Kurüfil ascoltò con attenzione le parole dell’artigiano, quindi lo invitò ad attendere fuori della sua capanna, nonostante la pioggia che cadeva insistente. Una volta solo rifletté sulla strana richiesta di Likarayén. Di per sé, non gli parve sconveniente, ma si domandò se essa era legittima. A lei sola, Likarayén, gli spiriti avevano dato il potere, e a nessun altro. Ma il suo filew lo aveva ricevuto attraverso la madre dormente, quindi non era illegittima la sua richiesta. Poi pensò in quella pozza magica ai piedi del mamülche che lui stesso aveva curato (ma anche amato) durante otto lunghi anni, quella pozza che né la pioggia né il vento avevano mai osato sfiorare, e che ora era essa stessa parte di Likarayén. Sì: quanto la ragazza voleva fare era legittimo. Poi pensò che in quel kultrún, insieme all’anima di Likarayén e della sua madre dormente, ci sarebbe stata anche quella di Millaray, ed allora sentì che una profonda serenità penetrava in tutto il suo corpo e comprese fino a quanto Millaray vivesse in quella bambina dai capelli rossi e dagli occhi di fiamma che solo la sua volontà aveva fatto sopravvivere. Si chiese, quindi, se Millaray e Likarayén fossero ancora due persone distinte, o piuttosto fossero un solo essere, una sola anima. “Forse è sempre stato così, forse l’anima è sempre stata una sola che per una stranezza del destino si è trovata a dimorare in due corpi diversi” disse a sé stesso. “Ma queste cose le sanno solamente gli spiriti e a noi non è concesso di comprenderle” concluse. Ma sentì di essere felice perché, ora ne era certo, Millaray era ancora viva. “Fa quanto ti viene chiesto!” disse all’artigiano che attendeva immobile vicino all’ingresso della sua ruka. Poi, mentre aggiungeva un bel ceppo al fuoco, disse ad alta voce: “Millaray è viva!” e un brivido di emozione e di felicità percorse il suo corpo rinsecchito dagli anni. * * *

Pochi giorni più tardi - non pioveva ed il sole era alto nel cielo - il ngenpín giunse alla ruka di Likarayén. Lo accompagnavano il lonko e tutti i machi dell’isola, anche la vecchia domo-machi. C’erano anche i nonni e gli zii di Likarayén, con le loro mogli ed i loro figli. Tutti erano cupi in volto e volentieri avrebbero evitato di partecipare al rito che avrebbe avuto luogo se il ngenpín non avesse usato tutta la sua autorità per comandare la loro presenza. Likarayén era in attesa, immobile vicina all’ingresso della sua ruka, in un atteggiamento ieratico, rivolta verso Peripillán dalla cui vetta incandescente continuava ad alzarsi un filo di fumo grigiastro. Aveva predisposto la buca che avrebbe accolto il rewe, a poca distanza dall’ingresso del toldo, e prossima al bordo dell’altura prospiciente il mare: non lontana da questa, vi erano altre tre buche molto più piccole. Quando tutti giunsero e si disposero in silenzio vicino alla buca, Likarayén vide la contrarietà nei loro volti. Cercò lo sguardo del ngenpín, ed anche lui la fissò negli occhi: il suo viso era severo, preoccupato, ma Likarayén vi lesse il suo immutato affetto e l’incoraggiamento che le voleva trasmettere. Vide anche l’improvviso bagliore di ira furiosa che attraversò lo sguardo della domo-machi quando si accorse che il rewe aveva sette gradini, forse l’unica a non esserne ancora informata. Tutti erano in attesa. Likarayén, lentamente e con il kultrún ai suoi piedi, girava la sua testa guardandoli ad uno ad uno. Anche i suoi nonni erano presenti. Allora con un gesto lento e misurato afferrò la lama di ossidiana di Antüwala con la mano sinistra e si incise profondamente il pollice destro, facendo sgorgare un abbondante fiotto di sangue. Quindi

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prese il kultrún dalla pelle ancora immacolata e disegnò sulla sua superficie lattiginosa quel simbolo che sintetizza in una sola immagine l’insieme di tutta la religiosità mapuche:

“Ecco questa superficie di pelle - disse Likarayén ad alta voce mentre faceva scivolare sul kultrún il suo pollice insanguinato - a rappresentare il mapu che ricopre e nasconde al minchenmapu. Qui traccio la croce che indica i quattro punti cardinali del mapu: qui, in alto, il mio sangue disegna la porta del puelmapu, attraverso la quale possiamo entrare nel mondo degli spiriti. Ecco i quattro soli che rappresentano le quattro stagioni: il pukém, il tempo della pioggia; il pewü, il tempo dei germogli; il walüng, il tempo del raccolto; il chomüngen, il tempo delle stoppie. Sono quattro, i soli, come quattro sono gli spiriti che hanno la loro dimora in questo kultrún: Elmapu, colui che ha generato la terra che ci alimenta e ci sostiene; Ngenemapu, colui che governa la terra e garantisce che ogni cosa occupi il giusto posto; Elchén, colui che ha generato gli uomini; e Ngenechén, colui che governa gli uomini affinché siano fedeli alle leggi dell’admapu, così come io sono loro fedele. Ecco che ora traccio su ogni sole quattro semicerchi, poiché ogni spirito è composto da quattro spiriti: fücha, lo spirito maschile antico; kusé, lo spirito femminile antico; weche, lo spirito maschile giovane; e ülcha, lo spirito femminile giovane”. Poi depose nuovamente il kultrún ai suoi piedi e fece un cenno a Kurüfil. Questi si dispose al lato destro del rewe disteso al suolo. Un altro machi si mise al suo fianco ed altri due dall’altro lato della sacra scala. Poi, insieme, la sollevarono e la infilarono nella buca vuota, orientata in direzione del luogo dove nasce il sole, verso l’isola di Apiao ed il vulcano Huequi, ben visibile dietro ad essa. Ad uno ad uno tutti gli altri machi buttarono alcune zolle di terra nella buca, mentre giravano intorno al rewe, e continuarono in quel modo sino a quando la buca fu colma. Allora, mentre il ngenpín ed i tre machi continuavano a tenere immobile il rewe, gli altri machi, ed ora anche i nonni di Likarayén, si misero a danzare freneticamente intorno alla scala sacra schiacciando il suolo e lanciando acute grida. Di quando in quando aggiungevano altra terra, sì da compensare quella che veniva compressa. Solo la machi-domo rimase al margine di tutto ciò, adirata e in assoluto silenzio. Infine tutti si allontanarono di alcuni passi, anche coloro che sostenevano il rewe, ormai solidamente piantato nel terreno. Quindi il ngenpín prese tre piccoli alberelli che aveva portato con sé: avevano pochi rami dalle foglie giovani, le radici ben sviluppate ed arrivavano appena all’altezza del ventre del sacerdote. Egli diede il primo di essi a Likarayén: era un albero di canelo e la giovane machi lo dispose in una delle tre buche che aveva preparato e la riempì di terra. Poi fece lo stesso con il giovane albero di alloro ed infine con quello di maqui. Allora tutti i presenti si misero nuovamente intorno al rewe, ogni machi con il suo kultrún tra le mani. Si misero a colpire all’unisono la superficie del tamburo, prima lentamente e quasi solo sfiorandola, poi sempre più velocemente e con maggiore

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intensità. Likarayén, intanto, si era avvicinata nuovamente al rewe. Con la lama di ossidiana incise ad uno ad uno tutti i polpastrelli delle sue dita e con le sue mani insanguinate tracciò su ognuno dei sette gradini del rewe il medesimo disegno che aveva tracciato sul suo kultrún. Infine prese nuovamente la lama di ossidiana e con essa incise profondamente il suo labbro superiore e lasciò che il suo sangue scorresse e cadesse con un fiotto intenso alla base del rewe, assorbito velocemente dalla terra smossa. Quindi, con cautela, cominciò a salire sulla scala sacra, sino a raggiungere la sua sommità, attenta a non farla ondulare ora che la terra era ancora smossa ed i tre alberi erano troppo giovani per poter sostenere il rewe. Volse il suo sguardo verso oriente e quindi si mise a pregare nella misteriosa lingua sciamanica, all’unisono con il suono del suo kultrún e con tutti gli altri sciamani. Quando ebbe concluso, tutti i machi cessarono il loro suono e rimasero in silenzio, in attesa delle parole della nuova machi. Likarayén osservò intensamente il lontano vulcano alla sinistra del rewe. Poi si volse verso il ngenpín e disse con voce ferma: “we iñche ta Likarayén: we machingeñ”. Quindi attese alcuni istanti. Fissando il lonko disse ancora: “anche se ciò mi è stato concesso dagli spiriti, la mia volontà non è quella di esercitare l’arte del machitún, ma quella di dedicarmi alla preghiera ed al raggiungimento del küimi. Dunque raccoglierò il lawén che cura i mali del freddo e del caldo, e mi dedicherò solamente a quelli, e mi asterrò dal curare i mali che hanno un padrone e dal praticare il machitún, che ho già praticato nel passato. Non estrarrò il wekufe dai malati dell’anima e non lo costringerò nel corpo di una serpe e non lo brucerò stringendolo e trattenendolo con le mie stesse mani nella fiamma ardente fino a quando non sia solo carbone, come ho già praticato nel passato. Così farò poiché questa è la mia volontà”. Mentre diceva queste parole, il sangue del suo labbro profondamente tagliato continuava a scivolare lungo il suo mento, macchiando di rosso la sua bianca tunica. Alle parole di Likarayén, il sollievo del lonko e degli altri machi fu immediato, ed anche il ngenpín, sempre così severo, le sorrise. Ancora maggiore fu la loro approvazione, poiché i vaghi accenni della ragazza fecero loro comprendere quanto ella fosse addentro all’arte del machitún e più di uno era a conoscenza di quanto fosse grande il maestro che aveva avuto. Disse dunque il lonko: “benvenuta tra di noi, machi Likarayén. Che tu sia sempre al servizio del bene nella lotta contro i wekufe”. Poi, con una voce molto meno formale, aggiunse ancora: “ma di questo non ho nessun dubbio, Likarayén”. Solo allora la vecchia domo-machi che sino a quel momento si era mantenuta in disparte e in silenzio prese la parola: “Likarayén è sangue del sangue di Peripillán: egli la reclama e pertanto deve essergli restituita”. Ma tutti gli altri machi la zittirono immediatamente e presero le difese della ragazza. Il ngenpín stava per imporre il silenzio, quando Likarayén stessa prese la parola: “è vero: io sono sangue del sangue di Peripillán e gli appartengo. Lo so bene. Ne sono certa da quando sono salita alla sommità del suo cratere e ho visto il suo grande occhio di fiamma ed il suo dito mi ha raggiunto ed ha segnato la mia fronte”. Allora tutti capirono il significato di quella cicatrice e quanto poco sapevano del mistero di quella ragazza. Rimasero in silenzio mentre la vecchia domo-machi si allontanava velocemente. Infine il lonko si tolse la fascia che portava alla sua fronte, arricchita da numerose preziose llanka traslucide dall’intenso colore verde, si avvicinò a Likarayén e gliene fece dono. * * *

A parte i misteriosi riti che, in assoluta solitudine, Likarayén celebrava sul suo rewe, nulla era cambiato nella vita della ragazza. Tranne il fatto di vivere da sola rifuggendo da ogni rapporto con i giovani (che, d’altronde, neppure la cercavano, intimoriti com’erano

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dai suoi capelli rossi e dalla sua natura di machi) e di dedicarsi alla ricerca del liwén, la sua vita trascorreva non dissimile da quella delle altre ragazze dell’isola. Aiutava nel lavoro collettivo dei piccoli campi o nella raccolta dei frutti di mare in occasione dei grandi pilcán, insieme agli altri membri del clan raccoglievano i frutti selvatici quando era la stagione, partecipava ai ngillatún di terra e di mare, i riti propiziatori che si celebravano prima di seminare un campo o di raccogliere i frutti della terra o del mare. Kurüfil le aveva chiesto, in una occasione, se riteneva di dover partecipare in maniera più significativa alla celebrazione del ngillatún, ma Likarayén non volle: “non è bene che io sia una officiante - rispose - ma è preferibile che io vi partecipi come ogni altro membro del clan, insieme alla mia famiglia”. Il ngenpín ed il lonko celebrarono la decisione della ragazza. Likarayén si era anche riavvicinata alla famiglia. Spesso andava a rendere visita ai suoi nonni, come era suo dovere, ma soprattutto frequentava la ruka di Mariñamko. Si trovava a suo agio con la sua unica moglie, Kallfüllanka, rattristata per la sua incapacità di dare alla luce un altro bambino, l’atteso maschio. “E’ così perché qualcuno ha maledetto mia moglie” le disse un giorno suo zio. “E’ così, lamngén Mariñamko” confermò Likarayén. “Allora perché non fai qualcosa? Quando tu eri piccola e tutti ti evitavano, Kallfüllanka non ti lesinò mai una carezza o una parola gentile...”. Di questo Likarayén non ne aveva memoria, ma intuiva che era così, che questa donna l’aveva sempre trattata con gentilezza e senza sentire alcuna repulsione per il suo aspetto. Ecco perché Millaray stava volentieri con la cognata. “Dunque? - insistette suo zio mentre la donna l’osservava in silenzio e speranzosa - perché non fai qualcosa per lei, ora che puoi?”. Likarayén attese a lungo prima di rispondere. Voleva bene a quella donna, spesso stava con le sue bambine e qualche volta queste l’accompagnavano nei boschi alla ricerca del sacro lawén. Avrebbe voluto aiutarla, veramente, ma sapeva di non doverlo fare. Kallfüllanka non aveva più partorito poiché un kalku lo impediva. Un machitún forse avrebbe potuto allontanare dal ventre di quella donna l’immondo essere che ne aveva preso possesso, gonfiandolo e presentandosi al tatto come un corpo arrotondato e ben visibile sotto la pelle tesa. Forse lei avrebbe compiuto con successo il machitún inutilmente tentato dagli altri machi. Ma poi? Avrebbe dovuto pronunciare il nome del kalku maledetto che aveva preso possesso del ventre della moglie di suo zio, e avrebbe scatenato la vendetta. Ma non doveva farlo. L’ordine di Antüwala era stato perentorio, anche se non le aveva proibito di esercitare il machitún. “Perché questo non rientra nel mio potere, lamngén Mariñamko. Vorrei poterlo fare, ma non è nel mio potere”. Poi si rivolse alla donna: “credimi, Kallfüllanka, darei tutto quello che possiedo per poter fare il machitún necessario, ma non mi è possibile. Credimi”. E la donna vide negli occhi di Likarayén lucidi di lacrime trattenute che la giovanissima machi le diceva il vero, e che soffriva per lei. “Ti credo, Likarayén” le rispose con un filo di voce. Quando nell’isola di Quinchao si seppe che Likarayén non aveva voluto esercitare l’arte del machitún neppure per permettere alla moglie di suo zio di avere un bambino maschio, tutti ne furono contenti ed ella si trovò nuovamente impegnata ai suoi telai. Tornò nuovamente ad essere Lalén Pichi, e fu la prima ad esserne contenta. I tre alberelli attecchirono - segno propizio: era certamente favorita dagli spiriti - e la stagione in cui maturano i campi ed i frutti del bosco compì il suo termine. Le maree si alternavano, la Pincoya danzava sulle piattaforme che le erano state approntate, il pesce ed i molluschi abbondavano. Solo le violente eruzioni dei numerosi vulcani che circondavano l’arcipelago, e soprattutto le frequenti scosse telluriche, non di rado violente e distruttive, creavano inquietudine.

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* * *

Mancavano ancora tre lune affinché si celebrasse un nuovo We Tripantü, il primo per Likarayén dopo il suo ritorno. Si sentiva accettata dal clan. Ormai il suo aspetto non intimoriva più nessuno: solamente incuriosiva i bambini che a volte le facevano domande un poco sfacciate sul perché di quei capelli e quegli occhi di fiamma. Gi adulti rimproveravano la curiosità, ma Likarayén non se ne aveva a male, al contrario: “perché il mio sangue è di Peripillán - rispondeva ai bambini che la interrogavano - per questo i miei capelli ed i miei occhi hanno ricevuto la sua luce ed il suo colore”. Una sera, quando già la luce calava, a Likarayén parve di essere seguita. Nonostante la pioggia, era andata a raccogliere alcune erbe e stava facendo ritorno al suo toldo. Quando aveva raggiunto lo spiazzo antistante, dove sorgeva il rewe ed i tre alberelli, lo vide. Piccolo, tozzo, orribile, dalla enorme testa coperta da un cappuccio che terminava con un lungo cono: ai suoi piedi aveva deposto una grossa clava nodosa e nella sua mano destra stringeva un lungo bastone. Era fermo, appoggiato ad un albero, e la guardava. Anche Likarayén rimase immobile, ricambiando intensamente il suo sguardo. Allora il Thrauco portò alle labbra l’estremità del pahueldún e cominciò a soffiare, lentamente. Sorse un suono dolce, grave e profondo che sembrava giungere dal profondo della terra. Lentamente il Thrauco cominciò ad avanzare verso Likarayén che ancora rimaneva immobile davanti al rewe. Sentiva una profonda attrazione per quel nanerottolo orribile e deforme: le pareva impossibile resistere al suo fascino. “Ecco cosa ha provato la madre dormente” le venne da pensare, ed allora un odio intenso colmò ogni sua vena e inchiodò i suoi occhi in quelli del Thrauco e pareva che una sottile ma ardente fiamma investisse l’essere magico e lo bruciasse. Ora anche il Thrauco s’immobilizzò. Tentò di avanzare ancora un passo - era così vicino a Likarayén che gli sarebbe bastato sollevare un braccio per raggiungere il suo volto - ma non ci riuscì. Anche le sue mani erano immobilizzate, la destra strettamente chiusa sul pahueldún ora muto. Sul suo volto apparve una orrenda smorfia di orrore e con un immenso sforzo riuscì a girarsi e iniziò una folle corsa attraverso il bosco, abbattendo al suo passare ogni cosa: sembrava la traccia lasciata dal camahueto e nel bosco rimase una lunga e stretta ferita. Likarayén riuscì a scuotersi solamente quando il Thrauco scomparve inghiottito dagli alberi ed anche ogni rumore del suo violento incedere cessò completamente. Ora iniziò a tremare violentemente, mentre la pioggia scivolava sul suo volto e sulla sua veste. Con un enorme sforzo riuscì a compiere pochi passi, quelli che bastavano per raggiungere il rewe. Allora si lasciò cadere ai suoi piedi, abbracciandone la base, sicura che solo in quel modo sarebbe stata al sicuro. Solo il ngenpín seppe quanto era avvenuto. Non fu Likarayén ad informarlo, ma un perimontún. Si svegliò nel cuore della notte e corse a lungo, nonostante il peso degli anni, sino a quando arrivò al toldo della ragazza. Ormai la prima luce dell’alba attraversava la pioggia e la giovane machi era ancora lì, immobile, abbracciata al rewe, accovacciata in una pozza fangosa. Accorse da lei, s’inginocchiò al suo lato e le sollevò il volto, terrorizzato all’idea di vederlo privato per sempre di ogni coscienza. Ma Likarayén aprì i suoi occhi rossi e guardò sollevata il sacerdote: “non c’è riuscito - disse con fatica quando finalmente si riprese - l’ho sconfitto. Io, Likarayén, ho fatto fuggire il Thrauco e ho vendicato la mia madre dormente”. Il ngenpín percepì appieno tutta la superbia delle parole della ragazza e ne fu dispiaciuto. “Attenta - le disse - che forse il Thrauco non voleva possederti, ma solamente trovarti. E ti ha ritrovata”. “Forse è come tu dici, chachay, ma io non lo temo più”. Poi, dopo una pausa, aggiunse con tono più umile: “perdona il mio orgoglio, Kurüfil, non volevo essere superba. Io non voglio sfidare gli spiriti, ma non voglio neppure più fuggire. Ho detto una sciocchezza. Non si

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può sconfiggere il Thrauco, ma ho sconfitto il terrore che mi causava, ed ora non ho più paura di incontrarlo nuovamente”. Il vecchio ngenpín ascoltò con attenzione le parole di Likarayén, ma scosse preoccupato e triste la testa. “E se il Thrauco non volesse possedere te, ma la tua anima?” chiese improvvisamente il sacerdote. Ma più che una domanda, pareva quasi un’affermazione. “Non è facile per il wekufe impadronirsi dell’anima di un machi, a meno che questi fosse disposto a convertirsi in kalku” rispose Likarayén, che subito aggiunse: “ma io non sarò mai un kalku”. “E’ vero, Likarayén: anch’io sono certo che tu non potresti mai trasformarti in uno stregone malvagio. Per impadronirsi della tua anima il Thrauco dovrebbe ucciderti. Allora l’anima vagherebbe nell’ankawenu e in quel momento essa è molto debole e può essere catturata”. “Non lo comprendo. Antüwala non mi ha mai chiarito che cosa veramente sia l’anima. Millaray, la Pincoya, Lalén Kusé, il machi che mi ha fatto da maestro: tutti hanno sempre parlato dell’anima come di qualcosa di conosciuto, ma nessuno mi ha aiutato a capire che cosa essa sia”. “Perché non corrispondeva a nessuno di loro, farlo, ma soltanto a me che sono un ngenpín”. Ora Likarayén sembrava essersi ripresa. La pioggia continuava a scendere gelida, insistente e sottile. Il sacerdote la aiutò a rientrare nel suo toldo ed accese il fuoco affinché si asciugasse e si riscaldasse. Sedettero entrambi sulla nuda terra, come piaceva a Likarayén, osservando la luce tremula della fiamma nel focolare. Poi Kurüfil cominciò a spiegare a Likarayén cosa fosse l’anima, aiutando le sue parole disegnando con un bastoncino sul suolo i concetti che spiegava.

pillán o wangülén morte

pu-am

am

pillü

alwe

pu-am

anima prigioniera del

kalku

“Esiste un’anima universale: Pu-am. Essa permea ogni cosa, anche quelle che non hanno vita. E’ il grande Spirito, che non ha nome perché non ha bisogno di nomi. Esiste anche l’anima di ogni essere vivente, la am, e in un modo che non possiamo comprendere, ogni anima è in contatto con ogni altra anima. Per questo quando un bosco muore, noi ci soffriamo: l’anima del bosco si allontana e la nostra anima rimane sola e debole”. Il vecchio sacerdote cercava di spiegare con chiarezza concetti molto difficili. “E quando uno muore?” chiese Likarayén. “Quando uno muore la sua am per qualche tempo rimane ancora nel corpo. Ma quando gli amici ed i parenti cessano di piangere il morto, allora essa si allontana dal cadavere e si trasforma in pillü. Deve raggiungere l’isola di Ngülchenmaywe, dove starà al sicuro, ma finché non la raggiunge e vaga nelle vicinanze dei luoghi dove e vissuta, può essere catturata da un kalku e schiavizzata alla volontà dei wekufe. Per quello dopo il funerale bisogna gridare e scacciare l’anima del

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morto, affinché si diriga velocemente verso Ngülchenmaywe. Quando la raggiunge, il pillü si trasforma in alwe, e in questa forma continua a vagare in ogni luogo, anche dentro di noi, ma non può più essere catturata dal kalku perché ora è molto più potente del wekufe che comanda lo stregone. Se il morto ha avuta molta discendenza e la sua discendenza continua ad onorarlo e a ricordarlo, allora è anche possibile che il suo pillü si trasformi in pillán oppure in wangülén, anziché in alwe: ma questo è un onore riservato a poche anime. poi il tempo trascorre e tanto i pillán come gli alwe tornano ad essere Pu-am. E così il cerchio si chiude e tutto si rinnova, come in un immenso e infinito We Tripantü cosmico10”. Allora Likarayén si mise in ginocchio per osservare meglio il disegno che il sacerdote aveva tracciato sul suolo. * * *

Molti videro la pista aperta nel bosco, ma la attribuirono al camahueto e né il ngenpín, né Likarayén vollero smentire quell’affermazione. Ben presto la cosa fu tuttavia dimenticata poiché le eruzioni dei vulcani che si susseguivano le une alle altre violente e prolungate, ed anche le scosse del terreno che erano sempre più frequenti, avevano centrato l’attenzione di tutti. Fino a quando, tre giorni prima di We Tripantü e quando ormai tutti si rallegravano per la prossima festa, venne la scossa più violenta. Il vento sud si era imposto ed il suo gelido soffio aveva allontanato le nuvole e la pioggia. Il giallo disco di Antü aveva iniziato la sua discesa dietro le colline dell’isola grande di Chiloé. Likarayén era accanto al rewe ed osservava il cono lontano di Peripillán, con la sua vetta infuocata ed il pennacchio di fumo chiaro o rosaceo per i riflessi del cratere, ma anche del tramonto incipiente. Fu allora che giunse la scossa. Dapprima fu in maniera lenta e prolungata, ma poi la terra cominciò a sussultare violentemente mentre Likarayén dovette abbracciare fortemente il rewe por poter sostenersi: ma anch’esso oscillava da un lato e dall’altro, come una fragile dalka in preda ad una immane tempesta. Un tremendo boato copriva le grida che giungevano da ogni lato. Le parve di sentire che il suo toldo stesse crollando, ma non riuscì neppure a voltarsi per guardare cosa succedesse. Rimaneva avvinghiata come poteva al rewe, e vedeva davanti a lei il mare improvvisamente bianco di spuma. Allora, con orrore, vide che la piccola isola piatta e disabitata che si frapponeva tra la punta di Traiguén, dove sorgeva il suo toldo, e le isole di Alao e di Apiao e dietro a queste, più lontano, il grande vulcano di Minchinmawida coperto di neve e di lunghe colate di lava, sprofondava nel mare. Poi, finalmente, il terremoto terminò, ma la piccola isola non riapparve più. Il suo toldo era abbattuto. Solo il rewe era rimasto intatto. Perfettamente dritto, solo i due ampi fossi al lato della sua base testimoniavano l’ampiezza delle sue oscillazioni. Allora vide che il mare cominciò ad ingrossare e a sollevarsi: l’ampia spiaggia di Alao scomparve sotto l’acqua, così come le scogliere di Caguach e di Quenac. E vide che il mare continuava ancora a salire, mentre tutti i vulcani entravano violentemente in eruzione e riempivano il cielo di alte fiammate, di fumo nero e spesso e di profondi boati. Il Corcovado, il Michinmawida, il Huequi, l’Hornopirén, il Peripillán, ed altri ancora: tutti insieme lanciavano al wenumapu la loro sfida di fuoco. Likarayén corse lungo la collina, alla ricerca del ngenpín. La notte si avvicinava quando raggiunse la sua ruka, anch’essa abbattuta. Anche altri machi erano convenuti in quel luogo che la presenza del sacerdote rendeva sacro, ma anche uomini, donne e bambini. 10

Anche per questi concetti sulla trasformazione ciclica dell’anima sono debitore a Julio Tereucán A., ma anche ad altri esponenti della cultura mapuche con i quali ho potuto confrontarmi a Temuco.

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Forte ed inattesa, improvvisamente si udì la voce della vecchia domo-machi che ad alta voce recitava le parole dell’antica tradizione: “Ngenechén è adirato con i mapuche poiché non hanno osservato la sua legge. Le donne hanno offeso la terra solcandola per obbligarla a dare i suoi frutti. Le donne hanno reso schiava la terra. Le donne hanno dimenticato Ngenechén e si sono rivolte a Ngenemapu, ma Ngenemapu è rimasta sorda ai loro richiami. Ngenechén è adirato poiché dovevamo essere i custodi della terra ed invece abbiamo voluto trasformarci nei suoi padroni. Ngenechén è adirato poiché abbiamo osato innalzare quinchos per impedire che tutti godessero dei frutti della terra. Ngenechén è molto adirato e solamente un messaggero che gli assicuri il nostro pentimento potrà placare la sua ira. Dobbiamo dunque mandare un messaggero a Ngenechén per ristabilire l’antico patto. Poiché le donne ci hanno condotto a infrangere quanto stabilito, donna dovrà essere la messaggera. Si dovrà dunque inviare una messaggera a Ngenechén. Dovrà essere la vergine più bella tra tutte le belle. Dovrà essere la vergine più pura tra tutte le pure. Dovrà essere la vergine più nobile tra tutte le nobili. La sua voce dovrà essere come il canto degli uccelli e fresca come la rugiada e la sua pelle morbida come la vigogna, opalescente come Küyén e bianca come il fiore del canelo. I suoi capelli dovranno essere rossi come la lava, i suoi piedi leggeri come il passo del guanaco ed i suoi occhi rossi come la fiamma e come il fiore della fucsia. Si allestisca, dunque, un letto di fiori, funghi e muschi per la messaggera e tutti i machi cerchino i frutti segreti che senza uccidere addormentano il corpo e a questi frutti uniscano i fiori, i funghi ed i muschi, e questi frutti vengano usati per preparare la sacra bevanda! Berrà la messaggera la bevanda, ed il suo corpo si farà pesante; si stenderà la messaggera nel suo letto di fiori, funghi e muschi profumati, mentre le sue membra si intorpidiranno e diverranno insensibili. Sarà chiamato il più anziano tra tutti i ngenpín per officiare il solenne ed estremo rito.” * * *

Quando spuntò l’alba una enorme folla si era accalcata intorno al luogo dove sorgeva la ruka del grande sacerdote. Non pioveva, ma era impossibile comprendere se il cielo fosse coperto di pesanti nubi, oppure sgombro e sereno, poiché una spessa cortina di fumo biancastro avvolgeva ogni cosa. Alcuni gridavano, molti erano feriti. Vi erano donne che piangevano i mariti morti nel terremoto e mariti che piangevano le loro donne, e gli uni e gli altri piangevano i loro figli. Un’altra scossa di terremoto scaraventò al suolo chiunque non avesse dove sostenersi: ma fu di breve durata. Un improvviso soffio di vento spazzò per un istante la densa cortina di fumo, che subito tornò a ricomporsi. Allora tutti poterono vedere come il mare stesse già raggiungendo anche il luogo dove essi si trovavano, ben al di sopra della vecchia spiaggia: ora le cime dei cipressi più alti, quelli che si ergevano presso la riva, spuntavano appena dalle onde agitate del mare. Ma ciò che terrorizzò la folla fu il vedere una immane e nera massa serpentiforme, forse grande come tutta la collina di Putique, che spingeva le acque verso l’interno dell’isola in un ribollire di schiuma. “Kaikaivilú, Kaikaivilú!” gridò la folla in preda al panico mentre cercava di guadagnare in una folle corsa la cima delle colline circostanti, percorrendo a ritroso la strada che Likarayén aveva appena compiuto per raggiungere la ruka di Kurüfil. “Allontaniamoci da qui. Presto! - gridò il lonko al di sopra del confuso vociare della moltitudine - ma con ordine”, ma ogni comando era inutile e incapace di trattenere l’orrore di cui era preda l’intero clan. La giovane machi si allontanò dalla folla e cercò un luogo isolato tra gli alberi. Non pochi erano stati sradicati e quasi tutti avevano più di un ramo spezzato a testimoniare la

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violenza del sisma. Quando fu sola, Likarayén sciolse il suo trariwe e cominciò a farlo oscillare, osservando con attenzione il disegno del secondo ñimín:

Nonostante la penombra creata dallo spesso fumo i riflessi colorati del piumaggio del colibrì diedero ancora una volta vita al trariwe, e Likarayén cominciò a vedere che il suo volto e quello del Thrauco si sovrapponevano al simbolo della lotta tra le due immense serpi: Tentenvilú e Kaikaivilú. Era dunque chiaro che quanto era avvenuto tre lune prima doveva essere messo in relazione con quanto ora avveniva: tuttavia non comprendeva come. Intanto dal cielo cominciavano a scendere dei leggeri fiocchi. Sembravano neve, ma non si scioglievano, il loro colore era giallastro ed avevano l’odore del fumo e dello zolfo. “Cenere, dunque” pensò Likarayén, e si diresse verso la folla che continuava a gridare terrorizzata, ma che ora invocava la protezione dell’anziano ngenpín. Vide che i machi circondavano il vecchio sacerdote ed il lonko. Si avvicinò anch’essa, sino a porsi al fianco di Kurüfil. La vecchia domo-machi era anch’ella presente. “Eccola lì la causa di tutto!” gridò non appena scorse Likarayén, additandola. “Taci, vecchia kalku, che sei tu la causa della nostra sventura!” gridò qualcun altro tra la folla e la fanciulla riconobbe la voce di sua nonna, e gliene fu grata, mentre anche altre voci si univano ostili alla vecchia machi-domo. Poi, improvvisamente, qualcuno scagliò una pietra che colpì la vecchia nella fronte ed il suo sangue cominciò a scorrere. Allora fu la volta dell’anziano ngenpín che si interpose tra la domo-machi e colui che aveva scagliato la pietra. Era rosso per l’ira, e gridò con la sua voce solenne: “guai a colui che osa colpire il corpo sacro di un machi! Colpisca me, se ne ha il coraggio!” e coloro che avevano già raccolto le pietre da scagliare le lasciarono cadere al suolo ed abbassarono vergognosi le loro fronti. Il lonko decise di indire immediatamente una riunione con il ngenpín e tutti i machi, anche la vecchia e Likarayén. Si appartarono in una radura ormai coperta dalla cenere. La vecchia domo-machi prese subito la parola, ma venne immediatamente interrotta dagli altri. Kurüfil, tuttavia, la invitò a parlare. “Voi tutti mi odiate - iniziò a dire la vecchia, scandendo lentamente le parole e guardandosi intorno - e mi accusate di essere una kalku. Ma non è vero, non lo sono, il ngenpín lo sa bene, così come sa bene che le mie parole sono veritiere”. Attese un istante prima di proseguire, mentre tutti volgevano il loro sguardo verso il sacerdote, che rimaneva imperscrutabile e immobile, osservando la vecchia domo-machi. “Questo è il castigo degli spiriti - riprese a dire la vecchia - e non potrà mai cessare, poiché abbiamo violato la sacra legge dell’admapu. Pertanto nessun perdono è possibile”. “In cosa l’abbiamo violata? parla chiaro, kusé machi” disse qualcuno. La donna si voltò verso colui che aveva parlato. “Tu? proprio tu hai il coraggio di chiederlo? Tu che hai chiuso il tuo campo con uno steccato? Tu che non partecipi più al lavoro comune? Tu che quando parli del campo che hai lavorato dici la «mia» terra, come se la terra potesse essere di qualcuno?”. “Il lonko ha deciso che chiunque poteva dissodare la terra vergine e seminarla senza l’aiuto di nessuno e che solo questi avrebbe potuto coglierne i frutti, e sempre il lonko ha deciso che chiunque poteva sottrarsi al lavoro comune nei campi,

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tranne che quando il lonko stesso lo comandasse, anche se in questo modo non avrebbe potuto avere nulla del raccolto comunitario. Questa è la legge del lonko, e nessuno l’ha violata!”. “Ma la legge del lonko è la legge dell’uomo - ribatté ancora la vecchia - mentre l’admapu è la legge della grande madre terra, è la legge della natura, è la legge che c’era prima ancora che ci fossero gli spiriti, prima che il tempo stesso avesse inizio. La legge della natura nasce dall’amore che essa ha per tutte le sue creature, mentre la legge dell’uomo nasce dall’avidità e distrugge la natura, e con essa distruggerà anche l’uomo”. Si guardò intorno, mentre i machi inorridivano di fronte alle parole della vecchia che insultavano e ponevano in discussione l’autorità stessa del capoclan dell’isola. “Finisci quanto hai da dirci, kusé machi” disse ancora il ngenpín, impedendo al lonko di ribattere alla parole della vecchia. “Questo ho ancora da dirvi: il lonko ha osato fare leggi dell’uomo in sostituzione dell’admapu! Questa colpa è la più grave di tutte le colpe. Ma egli rappresenta tutti noi. Noi lo abbiamo eletto, noi lo abbiamo voluto, noi lo abbiamo posto alla testa del clan. E pertanto la sua colpa è la colpa di tutti noi. Ecco perché io vi dico: plachiamo gli spiriti, restituiamo a Peripillán colei che gli appartiene per diritto poiché nelle sue vene scorre il suo stesso sangue. Sia Likarayén la nostra messaggera nel wenumapu; lei, il cui nome rayén richiama il fiore che disperdendo nel vento i suoi semi, fa sì che essi raggiungano anche la sommità delle montagne, dove i pillán hanno la loro dimora; lei, il cui nome lik ricorda il bianco fiore del sacro canelo; lei, il cui nome likün ci dice che è divisa tra il mapu ed il wenumapu. Chi meglio di lei, dunque, può essere la messaggera capace di dichiarare agli spiriti il nostro dolore ed il nostro pentimento? Restituite Likarayén a Peripillán, poiché è a Lui che appartiene!”. Quindi, senza più attendere oltre, si allontanò veloce e si perse tra la nebbia fumosa di cenere. Ma anche Likarayén era scomparsa nella nebbia, ma solamente l’anziano ngenpín se ne avvide. * * *

Rabbia, voci concitate, disprezzo, rifiuto. Queste le voci e gli stati di animo non appena la vecchia domo-machi si fu allontanata. Anche il lonko, pur tacendo e sforzandosi per rimanere distaccato ed impassibile, non riusciva a nascondere la sua rabbia. Veniva richiesto il sacrificio di Likarayén, ma l’attacco era verso la sua persona, la sua autorità: era la sua autorità che veniva screditata, era lui stesso il vero oggetto del sacrificio che veniva richiesto. Solo il ngenpín restava in silenzio, scuro in volto e pensieroso. Tuttavia nessuno sosteneva le parole della vecchia sciamana, ma, al contrario, tutti erano scesi in difesa di Likarayén, anche i molti tra loro che poco più di otto anni prima avevano decretato la sua morte. Il primo ad esserne soddisfatto fu il lonko: in questo modo senza che egli intervenisse neppure per difendere sé stesso, salvando Likarayén condannavano la vecchia domomachi e rafforzavano la sua autorità ed il suo prestigio. Kurüfil rifletteva. Non appena la vecchia iniziò a parlare, seppe perfettamente quali sarebbero stati i suoi argomenti e, soprattutto, le sue conclusioni. Quante volte lui stesso aveva sconsigliato il lonko dal permettere che l’individualismo e la cupidigia avessero il sopravvento. “La legge del lonko è la legge dell’uomo” aveva detto la sciamana e più volte aveva esortato il capo del clan a non creare leggi sue, che la sola legge valida e gradita agli spiriti era l’admapu. Certamente Kurüfil dissentiva dall’accusa sciagurata mossa verso colui che era stato eletto a rappresentare l’intera comunità, ma per la forma in cui era stata posta, ma in realtà ne condivideva la sostanza. Tuttavia non ne accettava la conclusione. “Già una volta gli spiriti hanno salvato Likarayén e hanno dimostrato che la fanciulla non era il sacrificio che loro desiderano” ripeteva a sé stesso prima che un dubbio potesse anche

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solo sfiorare quella certezza. Ma un sacrificio era necessario, questo era vero, e dopo sarebbe stato necessario tornare alla fedeltà rigorosa dell’admapu, sopprimendo ogni legge dell’uomo. Ma solamente dopo, parlando a tu per tu con il lonko, evitando qualunque parola che potesse minare la sua credibilità. Un ngillatún si rendeva dunque necessario, e sarebbe stato celebrato subito, l’indomani, appena il tempo di farlo sapere di bocca in bocca a tutta l’isola. Un grande ngillatún, grande come non ce n’era mai stato nessuno, dove tutti avrebbero offerto qualcosa. Questo era quanto si doveva fare e questo disse a tutti i presenti, ponendo termine alla riunione. * * *

Likarayén aveva raggiunto quanto restava del suo toldo. La cenere che continuava a cadere a poco a poco livellava i resti della capanna abbattuta ed il rewe si ergeva solitario in mezzo a quel manto giallastro che copriva ogni cosa. Si avvicinò alla sacra scala e vi poggiò sopra le palme delle sue mani. Mentre ormai si faceva sera, pensava a quanto aveva detto la vecchia machi. La donna la odiava, questo era evidente, eppure forse le sue parole non nascevano solamente dall’odio che provava nei suoi confronti. Pensò al ñimín del suo trariwe, quello che non aveva saputo comprendere. Esso rappresentava i due grandi serpenti mentre si affrontavano e lottavano l’uno contro l’altro, scuotendo la terra e sollevando i mari, proprio come era avvenuto il giorno precedente. Ma poi vi aveva scorto lei stessa ed il Thrauco: lei che si opponeva al Thrauco, alla volontà di Peripillán, era dunque la causa della immane lotta tra i due draghi? Il suo rifiuto di sottostare alla volontà del Thrauco era forse lo strumento per mezzo del quale gli spiriti castigavano gli uomini? Ben sapeva quanto fosse nel vero, la vecchia machi, quando affermava che la legge della natura nasceva dall’amore che essa ha per tutte le sue creature, mentre la legge dell’uomo nasceva dall’avidità che distrugge la natura e con essa anche l’uomo. Provò ancora a sfilare il trariwe dai suoi fianchi e a farlo oscillare davanti a quella luce ormai tenue. Osservò attentamente il quarto ñimín, quello che rappresentava simbolicamente il ngenpín nell’atto di chiedere agli spiriti di perdonare gli uomini:

Ancora una volta i riflessi colorati mutarono lentamente l’immagine tessuta e le linee si spostarono e si sovrapposero, prima formando la croce, simbolo del potere del machi, e poi tornarono a formare l’immagine iniziale, ma ora in essa Likarayén riconobbe la sua stessa lingua divisa, quella che lei medesima aveva reso biforcuta con la lama di ossidiana che Antüwala le aveva lasciato. “Dunque la vecchia machi ha detto il vero. Sono io stessa colei che deve recarsi dagli spiriti a implorare il perdono... Non dagli spiriti, ma da uno spirito. Peripillán che da oltre quattordici anni mi sta attendendo...”. E vide vivo davanti a sé l’immenso occhio di lava del vulcano e nuovamente sentì l’attrazione che le suscitava quel cono infuocato eppure coperto di ghiacci. “Non è ancora giunto il tuo tempo: così mi disse Antüwala quando tornai dal vulcano. Non mi disse che non ci dovevo andare, ma che non era ancora giunto il mio tempo. Ma ora sì

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che è giunto”. Cercava di scrutare l’orizzonte lontano, ma la spessa cortina di cenere che continuava imperterrita a cadere nel buio della notte rendeva invisibile anche il bagliore dei vulcani più vicini. “Ora è giunto il momento” ripeté un’altra volta. “Anche il mio nome, ora mi è chiaro, ed anche in questo la vecchia machi ha detto il vero. Kurüfil lo sa, lo ha sempre saputo che il mio destino è questo”. Scuoteva la testa, quasi a voler schiacciare questo destino che rifiutava. “Non è giusto - ripeteva a sé stessa - non è giusto. Sono così giovane... non ho ancora neppure quindici anni, non è giusto che sia questo il mio destino” e continuava a scrollare la testa in segno di diniego. Ma poi improvvisamente un’immagine di un lontano passato penetrò nella sua mente: il ngenpín chino su di lei che piangeva. Era durante il katán pilún, si era chinato su di lei ed aveva gli occhi pieni di lacrime. “Certo! il ngenpín sapeva già allora quale fosse il mio destino... ecco perché piangeva! l’ha sempre saputo!”. “Il settimo gradino del rewe, quello più elevato, quello che dovrò conquistare da sola, senza nessun aiuto. Così mi disse chachay: nessuno mi avrebbe aiutato. E’ il gradino più alto, io stessa ho scolpito sette gradini sul rewe e Kurüfil lo ha approvato perché mi ha creduto, ha creduto che io avessi la forza per salire fin sul settimo gradino... ma io questa forza non ce l’ho. Sono giovane, sono tanto giovane, voglio vivere, voglio avere anch’io la mia parte di felicità, non è giusto, non è giusto...”. “Non è giusto. Io devo vivere. Noi dobbiamo vivere, tutt’e tre: io, Millaray e la madre dormente. Tutt’e tre siamo in un solo corpo, e questo mio corpo non ha mai conosciuto un uomo e anche se è matura per partorire, non ha neppure un figlio che possa tramandare la mia memoria, neppure uno, e senza memoria, senza discendenza non esiste nessun futuro, nessun percorso nel wenumapu da poter percorrere. Senza una discendenza, non potremo mai essere uno spirito ancestrale. Non è giusto, non è giusto. Io voglio vivere!”. Intanto un primo debole chiarore faceva la sua apparizione, mentre la leggera cenere continuava a cadere e ad avvolgere ogni cosa. Likarayén si staccò dal rewe e cominciò ad accatastare ai piedi della sacra scala i pali del toldo, sfilandoli da sotto le pelli. Poi vi mise tutta la legna che poté raccogliere, e poi il kultrún, e poi ancora cercò le poche cose che restavano della madre dormente e di Millaray, ed anche il trariwe che ella non aveva mai completato. “Non è giusto, non è giusto” mormorava tra le lacrime mentre con le pietre da fuoco innescava un poco di muschio secco. “Non è giusto, non è giusto” mormorava tra le lacrime mentre portava nella pira la piccola fiammella. “Non è giusto, non è giusto” mormorava tra le lacrime mentre il fuoco si alzava e si avvolgeva intorno al rewe dai sette gradini. “Non è giusto, non è giusto...”. * * *

Era sorto l’ultimo giorno dell’anno. La nebbia fumosa rendeva tutto vago e scuro, come se la notte non volesse cedere il posto allo spirito di Antü ma rimanere lei stessa, eterna. La cenere continuava a cadere lentamente, e formava ovunque uno strato, talvolta più spesso di un piede. Le acque che si erano sollevate dopo il maremoto non avevano più fatto ritorno nei loro alvei. Le numerose capanne che sorgevano nei pressi delle spiagge erano rimaste sommerse dal mare, con tutti i loro averi. Anche molti campi erano andati persi, in quanto generalmente si trovavano nelle rare pianure dell’isola: Quinchao, Achao, Curaco. Tutti coloro che erano sopravvissuti, ed anche quei feriti che erano in grado di muoversi, concorrevano verso il cimitero situato sulla collina che sovrastava Quinchao, lo stesso dove era stato sepolto anche il corpo della madre dormente. Nell’area sacra accanto al cimitero si sarebbe celebrato il ngillatún. L’emergenza vissuta avrebbe

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fatto sì che la cerimonia fosse più breve del solito, avendo una durata di solamente due giorni e sovrapponendosi al We Tripantü. Era ancora presto ma il ngillatún aveva avuto inizio. Tutti coloro che avevano raggiunto il luogo dove si sarebbe celebrato, erano entrati nell’area sacra, in fila indiana, e correvano lungo il suo perimetro lanciando alte grida verso il cielo per spaventare i wekufe e così purificare l’area stessa. Il ngenpín dirigeva il complesso rituale, aiutato da alcuni machi che per l’occasione erano stati nominati ngillatufe. Alla conclusione del rito di purificazione dell’area sacra venne alzato un altare costituito da una pelle appoggiata ad uno scheletro di legno: esso fu costruito di fronte al rewe, ad una distanza che consentiva agli officianti di potersi muovere agevolmente. Al suo lato vi erano alcuni recipienti di pelle e di legno, quelli che era stato possibile recuperare in mezzo a tanto disastro, nei quali era stata versata tutta la birra di mais offerta da coloro che partecipavano al rito. Fuori del recinto sacro una ampia area era stata adibita per ricevere le offerte che quasi tutti recavano: qualche lama e numerosi guanachi, uccelli, cani selvatici, ma anche filze di molluschi, pesci affumicati, pacchi di alghe pressate, cestini di fagioli, vassoi di patate secche. Poi ebbe finalmente inizio il primo dei cinque balli riservati agli uomini, i tregilpurún. Solo molto più tardi, quando già la notte si sarebbe fatta avanti, avrebbero avuto inizio i balli ai quali partecipavano anche le donne, gli amupurún, quelli che accompagnano il sacrificio. Likarayén era molto lontana da tutto ciò. Vagava per i boschi, lasciando sulla cenere che continuava a scendere le profonde orme dei suoi piedi nudi. L’odore acre del fumo solforoso di quando in quando la faceva tossire e spesso doveva sputare la cenere che respirando le andava in bocca ed in gola. Camminava angosciata, ripetendo più volte “non è giusto” come una litania. Si diresse verso la spiaggia di Chequián. Ora il mare giungeva in mezzo ai boschi: la ruka dei suoi nonni era stata spazzata via dalle acque ed era difficile persino riconoscere i luoghi. Guardò verso Caguach, ma l’isola non era visibile dietro la cortina di cenere che cadeva dal cielo. Era il momento della giornata in cui la marea avrebbe dovuto raggiungere il suo punto più basso, anche se in quella penombra diventava difficile capire quanto potesse essere alto il sole. Se almeno si fosse messo a piovere! avrebbe spazzato via quella cenere e l’aria sarebbe tornata respirabile. Dal punto dove si trovava guardava davanti a sé. La piattaforma costruita per il ballo della Pincoya avrebbe dovuto emergere, mentre ormai era sotto chissà quanta acqua. “Forse non riemergerà mai più - disse a sé stessa - e dovremo fare delle altre piattaforme”. Mentre diceva questo le parve vedere una piccola figurina snella e leggiadra tra la cenere, nella quale le sembrò di riconoscere la wala. Forse era solo un sogno dettato dal desiderio di rivederla, anzi, era sicuramente così, eppure anche solo illudersi di vederla le dava un senso di sollievo. Osservava tra la nebbia l’incerta figura e le pareva che anche lei guardasse nella sua direzione e le parlasse, ed anche se non udiva nessuna voce, le sembrò di udire le parole della Pincoya: “Likarayén, Likarayén sembrava che le dicesse - io ti ho insegnato a godere delle sensazioni e a comprendere che cosa è veramente importante e ti ho dato il mio amore: ora tocca a te. Likarayén, Likarayén, ora tocca a te...”. Allora la malén fuggì via da quel luogo, dicendo ancora una volta a sé stessa “non è giusto, non è giusto!” e poi ripeté le stesse parole gridandole con quanta voce aveva in corpo: “non è giusto, non è giusto!”. Correndo tra gli alberi, inciampò in uno dei tanti rami caduti e si trovò faccia a terra, nella cenere. Un ruscello che scorreva in quel luogo l’aveva trasformata in una poltiglia che le ricordò l’argilla, e quasi istintivamente ne prese un pugno nelle sue mani ed iniziò

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a modellarla. E guardava quella palla di cenere ed acqua che non manteneva nessuna forma, ed allora le parve di vedere in quelle macchie il volto di Rey Kusé che muoveva la sua bocca e le diceva: “Likarayén, Likarayén: io ti ho insegnato a cogliere le intuizioni e a dare corpo ai tuoi sogni e ti ho dato il mio amore: ora tocca a te. Likarayén, Likarayén, ora tocca a te...”. E ancora una volta la giovane machi si rialzò e si mise a correre per scappare anche da lì, mentre con le due mani si tappava le orecchie per non udire quella voce. Il giorno doveva essere ormai ben inoltrato, ma Likarayén continuava ancora a vagare nel bosco. Ecco che vide un grosso ragno nero che passava lentamente tra un ramo ed un altro, tessendo la sua tela. “Lalén Kusé - mormorò - come vorrei essere insieme a te, nella tua grotta” e intanto guardava il ragno. Ma le parve che l’animale si fermasse e le dicesse: “Likarayén, Likarayén, io ti ho insegnato a coltivare l’immaginazione e a realizzare i tuoi sogni e ti ho dato il mio amore: ora tocca a te. Likarayén, Likarayén, ora tocca a te...”. Ed un’altra volta ancora la fanciulla rifiutò di ascoltare quelle parole e scappò via senza meta. Finalmente trovò un poco di acqua pulita, anche se scorreva in un letto di cenere. Bevve avidamente e poi si lavò il viso sporco per quel fumo giallastro e appiccicoso. Poco più in alto, il fiumiciattolo formava una piccola pozza. Ormai la notte si avvicinava e quasi non vi era più luce. Likarayén raggiunse la pozza e si inginocchiò sulla sua sponda, attenta a non turbare quell’acqua ancora pulita. Poi chinò il suo viso verso l’acqua per bere ancora un poco e lo vide riflettersi. Bevve avidamente e a lungo, e poi si sollevò lentamente. Ora l’acqua era mossa e deformava il riflesso del suo volto. E le parve che esso non fosse più il suo volto, ma quello di Antüwala, ed anche lui le diceva: “Likarayén, Likarayén, io ti ho insegnato la strada della conoscenza, quella che ti ha permesso di parlare con gli spiriti e ti ho dato il mio amore: ora tocca a te. Likarayén, Likarayén, ora tocca a te...”. Ma questa volta Likarayén non fuggì più: non disse più “non è giusto”. Sapeva di averlo sempre saputo che ora toccava a lei: sin da quando la vecchia domo-machi aveva pronunciato le sue parole. Lo sapeva bene quando aveva bruciato tutte le sue cose, i ricordi più cari che aveva, le poche reliquie di Millaray e della madre dormente, ma anche il suo kultrún ed il suo rewe. Certo che lo aveva sempre saputo, che ora toccava a lei, anche se non avrebbe voluto, anche se era così giovane, anche se aveva ancora tanta voglia di vivere. Ma era giusto così, poiché così doveva essere. Ed anche il ngenpín lo sapeva bene: per questo aveva permesso che la vecchia sciamana dicesse quanto doveva dire e non aveva consentito che fosse interrotta. Ora toccava a lei, dunque, e sapeva bene quanto dovesse fare, senza bisogno alcuno di sfilare il trariwe che cingeva i suoi fianchi e di leggere l’ultimo ñimín. Il suono dei balli e delle preghiere le indicava dove si celebrava il ngillatún e Likarayén si incamminò lentamente nella notte verso l’area sacra. Iniziava la notte di We Tripantü. * * *

Il sacrificio stava per iniziare. Uomini e donne danzavano i balli dell’amupurún e tutti i machi, anche la vecchia sciamana, suonavano all’unisono i loro kultrún. Il recinto dell’area sacra era delimitato da una fila quasi ininterrotta di torce accese, ed altre torce illuminavano il rewe e l’altare. Il ngenpín stringeva nella sua mano destra un coltello di pietra, e una fila di uomini avanzava lentamente trascinando i lama ed i guanachi

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spaventati e recalcitranti, i primi che avrebbero con il loro sangue colorato di rosso il rewe e l’altare, ancora immacolati. Likarayén entrò nell’area sacra. Tutto il suo corpo tremava e solo con un enorme sforzo di volontà riusciva ad avvicinarsi al rewe, passo dopo passo. Kurüfil la vide ed un gelo improvviso bloccò ogni suo movimento. La guardava impietrita, mentre la fanciulla avanzava lentamente, gli occhi negli occhi, dimentico della bestia che gli offerenti porgevano al suo coltello. Likarayén giunse davanti al rewe, fronte a fronte al ngenpín. L’offerente comprese che qualcosa di grave stava per avvenire ed allontanò la lama dall’altare. “Tu lo hai sempre saputo, chachay”. “Sì, ñi ñawe, l’ho sempre saputo”. Likarayén estrasse il coltello di ossidiana che portava infilato nel trariwe e lo porse al sacerdote. Intanto il suono dei kultrún era sempre più rapido ed intenso. Il sacerdote lasciò cadere l’altro coltello e prese la lama che Likarayén gli tendeva. Uno dopo l’altro, tutti si accorsero di quanto stava avvenendo ed il suono dei tamburi cessò improvvisamente. Ma allora ecco che un ritmo simile, ma più lento e assai più profondo parve sorgere dalle viscere de miñchenmapu a sostituire i kultrún ora muti. Likarayén si dispose accanto all’altare e slegò il nodo della tunica sulla sua spalla sinistra: il bianco tessuto che Lalén Kusé aveva tessuto ricadde e, trattenuto solamente dal trariwe, lasciò scoperto il petto della ragazza. Tutti tacevano: solo il battere della terra, intenso e profondo, proseguiva nella sua celebrazione. Kurüfil esitava. Gli occhi colmi di lacrime, non riusciva più a vedere nulla. “Addio chachay amato - gli disse Likarayén - non esitare. Fa quanto devi compiere”. Il sacerdote guardò attraverso le lacrime il volto di quella fanciulla che amava tanto e vide che i suoi occhi di fiamma gli stavano sorridendo dolcemente, lo stesso sorriso di quando era ancora bambina. “Addio, ñi susunge” riuscì a risponderle nonostante il groppo alla gola. “Ora raggiungerò il settimo gradino?”. “Sì, figliola mia: ora lo raggiungerai ed il settimo gradino sarà piccolo per contenerti. Anzi, l’hai già raggiunto, ñi ñawe”. “Fa subito quanto devi fare, che ora ne ho la forza, ma fallo subito, prima che il terrore mi tolga ogni coraggio”. Allora l’anziano sacerdote con l’affilata lama di ossidiana di Antüwala squarciò il petto di Likarayén e con le sue stesse mani estrasse il suo cuore ancora palpitante. Le trutruka lanciarono al cielo il loro lamento ed i kultrún si misero a palpitare all’unisono con il cuore sanguinante di Likarayén. Il corpo della fanciulla cadde ai piedi del ngenpín, abbracciato alle sue ginocchia, con il volto ancora rivolto verso di lui: esso era rimasto sereno ed i suoi occhi di fuoco, ormai immobili per sempre, lo fissavano intensamente e dolcemente e continuavano a sorridergli. Kurüfil adagiò il cuore della vergine messaggera su un nido di rami di canelo e lo depose con dolcezza sul settimo gradino del rewe, quello più elevato. Poi trattenendo con le sue mani la testa di Likarayén stretta sulle sue ginocchia, voltò il suo capo verso la folla radunata tutt’intorno e si mise a piangere senza più alcun ritegno. Poi il vecchio sacerdote si inginocchiò davanti al rewe ed abbracciò il corpo senza vita di Likarayén. Intorno all’anziano ngenpín ed alla bella malén intanto le danze previste dal rituale si erano riavviate e, mestamente, il ngillatún volse alla sua conclusione. E nonostante il buio della notte si vide chiaramente un grande condor dalle lunghe ali scendere ed afferrare con i suoi artigli il cuore sanguinante di Likarayén, sollevarlo con delicatezza e risollevarsi in volo dirigendosi verso settentrione, dove si trovava il grande cono incandescente del Peripillán. Ed allora la cenere cessò di cadere e, improvviso e intenso, il freddo vento del sud venne con il suo soffio e spazzò ogni nebbia: lontano, oltre le isole, il grande vulcano fu nuovamente visibile. Trascorse un lungo tempo, senza che nessuno osasse muoversi e neppure parlare. Poi sulla vetta del monte di fuoco dove

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dimorava il grande spirito incandescente apparve una grande fiammata. Una sola: poi ogni bagliore cessò. ù Kurüfil ancora abbracciato al corpo di Likarayén trovò ancora la forza di mormorare: “susunge, susunge, hai raggiunto l’immenso occhio di fuoco che ti attendeva da quindici anni”. Intanto il disco di Antü faceva la sua apparizione dietro la cordigliera: la notte di We Tripantü era conclusa, un nuovo anno aveva inizio. * * *

Tutti tacevano, rispettando il dolore del vecchio sacerdote, ma anche attendendo che la cerimonia avesse pieno compimento. Facendosi forza, il ngenpín depose delicatamente il corpo di Likarayén ai suoi piedi e quindi si alzò in piedi, sollevando le braccia verso il wenumapu. Attese ancora un momento e poi disse con voce forte e decisa: “andate e raccogliete tutti i rami di canelo che troverete, ma solamente di canelo poiché la pira dove verrà cremato il corpo di questa machi dei sette gradini sarà una pira sacra. Andate, dunque, e tornate prima che il sole sia al suo culmine”. Rimase solo con il corpo di Likarayén ai suoi piedi. Sapeva di amarla, ma non si era mai accorto di quanto fosse intenso il suo amore per quella fanciulla. “Non è giusto, non è giusto - diceva a sé stesso tra i singhiozzi - Likarayén non ha discendenti che possano tramandare la sua memoria; neppure dei discepoli, ha. Nessuno. Nessuno. E Millaray che viveva in lei, anche Millaray ora è morta e ha perso quella sola opportunità di avere dei discendenti che Likarayén le aveva donato. Non è giusto, questo non è giusto”. Rimase a lungo immobile a rendere l’ultimo omaggio alla giovanissima machi che aveva voluto consegnarsi al potente Pillán che la reclamava. A poco a poco la gente tornava recando il legno del canelo. Allora il ngenpín scelse solo i rami più perfetti e solo con questi comincio ad elevare la pira funebre, di fronte al rewe, verso puelmapu. Quando il sole raggiunse il punto più alto del suo percorso, la pira era pronta. Si fecero allora avanti i nonni di Likarayén. Vollero essere loro a sollevare il corpo della fanciulla e a deporlo sulla catasta di rami. Poi Kurüfil afferrò una torcia che nessuno si era preoccupato di spegnere e con essa accese la pira. Grandi fiamme e contorte volute di fumo chiaro presto coprirono pudicamente il corpo di Likarayén, che continuò a bruciare sino a quando sopraggiunse la notte. Ancora una volta il ngenpín rimase solo davanti ai resti della pira trasformata in un grande braciere ardente. Con un ramo di canelo continuava a rivoltare la brace, affinché neppure il più piccolo resto di Likarayén rimanesse integro, ma tutti si convertisse in cenere e si mescolasse intimamente alla cenere del canelo. Così trascorse l’intera notte e quando nuovamente venne l’alba rimaneva solamente una fine polvere bianca ormai fredda. “Millaray ebbe una seconda opportunità, convertendosi in una pozza di lacrime. Ma tu, Likarayén, neppure questa hai avuto”. Così pensava il ngenpín ancora chino su quella bianca polvere che fu il corpo di Likarayén. Immerse in essa l’indice ed il medio della sua mano destra e la fine cenere aderì sulla sua pelle umida. Con essa si tracciò sul suo volto la doppia croce che simboleggia il filew del machi: una grande croce che copriva tutto il suo volto. Quando le sue dita sporche di cenere per due volte incrociarono la sua bocca, un poco di quella cenere toccò le sue labbra. Il ngenpín passò su di esse la sua lingua, mentre continuava a riflettere sull’ingiustizia commessa dagli spiriti al pretendere il sacrificio di una fanciulla innocente che ancora non aveva alcuna discendenza. Allora gli venne l’idea: “anche tu, Likarayén, anche tu avrai una seconda possibilità!” esclamò, e cominciò a riempirsi la bocca con la cenere bianca. Poi si sollevò in piedi e si

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guardò intorno. C’era solamente la vecchia domo-machi: era immobile e osservava il sacerdote con lo sguardo severo. “Tu sai bene, Kurüfil, che le mie parole non erano dettato dall’odio per Likarayén, ma dall’amore per la verità”. “Sì, domo-machi, lo so bene. Lo sempre saputo. Prima ancora che tu iniziassi a parlare, sapevo quanto avresti detto, e sapevo anche che le tue parole avrebbero fatto breccia nel cuore di Likarayén, anche se io avrei voluto che non fosse così. Ma ora ti prego: va dal lonko e digli di chiamare tutti i capifamiglia, che vengano subito qui, ma insisti: devono venire veramente tutti, anche i malati ed i feriti”. La vecchia si allontanò. Prima che il sole iniziasse la sua discesa, l’area sacra era nuovamente piena di folla, come durante la celebrazione del ngillatún, ma questa volta era una folla silenziosa e interdetta, poiché nessuno conosceva il motivo del richiamo del sacerdote. Quando gli parve che ormai fossero giunti tutti, comandò che gli portassero alcuni grossi recipienti colmi d’acqua. Poi si rivolse con voce ferma a tutti i presenti: “Likarayén ci ha donato sé stessa. E’ stato un dono enorme, poiché il piccolo fiore, così la chiamava Millaray, non ha discendenza che possa perpetuare il suo sangue e la sua memoria. E ciò non è giusto. Non può essere. Non lo voglio consentire. Perciò adesso io vi comando: ad uno ad uno passerete davanti a me, ed io vi porgerò una scodella. In essa vi è dell’acqua dove disperderò le ceneri di Likarayén. Ognuno di voi berrà un sorso di quest’acqua. In questo modo Likarayén non verrà dispersa, ma sarà in ognuno di voi e ogni vostro discendente sarà anche un suo discendente”. Poi, a bassa voce affinché nessuno potesse udire, aggiunse ancora: “questo, almeno, io spero”. Poi disse ancora con voce alta e ferma: “in questo modo Likarayén avrà una grande discendenza, la più grande che mai sia stata vista nel mapu, e così la sua anima si convertirà in un grande pillán e la sua voce sarà grandissima quando implorerà la benevolenza degli spiriti e sarà certamente bene accetta!”. Ed allora una lunga processione di uomini s’incamminò e passando davanti al ngenpín ogni uomo, giovane o vecchio, sano o malato, bevve un sorso di quell’acqua dove erano state disperse le ceneri di Likarayén, la giovane machi di Chequián, sangue del sangue di Peripillán.

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epilogo

Küla Wangülén Volò il condor sino alla vetta del grande vulcano, là dove una profonda voragine permette di osservare il fiammeggiante occhio di Peripillán, colui che con Ngenechén è il più luminoso tra tutti gli spiriti, colui che invano si contorce poiché ha da pagare il suo delitto. Il condor, allora, lasciò cadere in questa profonda voragine fiammeggiante il giovanissimo cuore di Likarayén avvolto nel ramo di canelo. Era secco, il ramo di canelo, ma non appena il sangue del cuore di Likarayén lo sfiorò, subito rinverdì e si coprì di fiori bianchissimi. Allorquando il condor lasciò cadere il cuore della giovanissima Likarayén, anche il ramo di canelo fiorito che lo aveva amorosamente avvolto si disperse nel vento. Ecco dunque che i suoi petali cominciarono a volteggiare nell’aria ed a moltiplicarsi una volta, ed un’altra, ed un’altra ancora, sino a riempire tutto il cielo. Quasi fossero una coltre di nubi leggere, così i petali del fiore del canelo, resi infiniti dalla volontà di Ngenechén, cominciarono a ondeggiare nella volta celeste. Poi si trasformarono in tenui fiocchi di neve. Caddero volteggiando i fiocchi di neve. Ma rimasero sospesi nell’aria i petali del fiore di canelo, continuando così a convertirsi in neve. Nevicò a lungo. Si lamentavano le rosse membra di Peripillán che scivolavano lungo i pendii del grande vulcano al contatto con la neve, sollevando nuvole di spesso vapore. Ma nulla poté l’ira di Peripillán contro la volontà di Ngenechén: la neve a poco a poco spense ogni braccio incandescente e ridusse Peripillán ad un immobile silenzio. Allora anche la lotta tra Tentenvilú e Kaikaivilú ebbe finalmente termine. Forte dell’appoggio dell’aureo splendore, Tentenvilú immobilizzò Kaikaivilú e lo costrinse, sconfitto, nelle viscere della terra, coprendolo con alti colli affinché colà se ne stesse cheto. Ma i mari, ormai sollevati, non tornarono più nei loro letti originali, poiché Ngenechén volle che i lituche non scordassero la sua giusta ira: dove prima si stendeva una vastissima e boscosa vallata, ora si adagiava un ampio mare ondulato. Dove prima dolci pendii collinosi limitavano la vallata, ora sorgevano decine e decine di isole, grandi e piccole, tutte coperte da un candido e luminoso manto di neve. Questo, dunque, fu l’ultimo castigo di Ngenechén, ma anche il suo perdono, poiché ora Kaikaivilú era ridotto all’impotenza e i lituche sopravvissuti poterono raggiungere i nuovi litorali e cogliere i frutti di questo grande e ricco mare che era sorto per volontà di Ngenechén. Il mare interno, dunque, fu il grande dono di Ngenechén agli uomini, simbolo del suo perdono. Indugiava tra i vivi l’anima di Likarayén, restia ad allontanarsi dai luoghi amati della sua infanzia. Indugiava accanto al suo maestro l’anima di Likarayén, restia a separarsi da colui che chiamava padre e amava come tale. Indugiava tra le ruka dei suoi parenti l’anima di Likarayén, restia a raggiungere il mondo delle anime. Allora i lituche lanciarono grandi urla al cielo e percossero gli alberi con flessibili verghe e fecero suonare le trutruka ed i kultrún per spaventare l’anima di Likarayén, affinché si allontanasse da quei luoghi dove il kalku avrebbe potuto carpirla.

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Vagò a lungo l’anima di Likarayén, sempre seguita da dieci volte dieci kalku che volevano farne la loro schiava. Vagò a lungo l’anima di Likarayén, sino a raggiungere la riva del grande canale dove sostava la tempulkalwe. Per quattro volte la tempulkalwe chiese quattro llanka a Likarayén per condurla a Ngülchenmaywe e per quattro volte Likarayén poté soddisfare la sua richiesta. Giunse quindi la sua anima nell’isola delle anime, dove il kalku non poteva raggiungerla, e lì sostò a lungo, poiché trovò ad attenderla le anime di cole che era stata sua madre e di colei che le aveva fatto da madre. Si unirono dunque le tre anime sicché parevano essere una sola anima. I lituche ebbero figli ed i loro figli generarono altri figli che si unirono con le loro donne per dare vita ai nipoti. Quattro generazioni trascorsero, ed altre quattro ancora, ma la memoria di colei che si era offerta come messaggera non si perdeva, ma veniva trasmessa ai nipoti affinché questi raccontassero ai loro nipoti la storia di Likarayén. Agli spiriti del cielo dirigevano la loro richiesta durante i ngillatún affinché Ngenechén ed Elchén proteggessero l’anima di Likarayén ed il wekufe non potesse minacciarla. Quattro generazioni trascorsero, ed altre quattro ancora, ma i lituche non dimenticarono Likarayén e continuarono a chiamarla ñuke e a dirsi suoi figli. Allora a eterna memoria di quanto era avvenuto, vi fu un grande prodigio nella parte più alta del cielo. Quando infatti i lituche volsero gli occhi al cielo, videro che tre nuove piccole luci brillavano intensamente nel wenumapu: Likarayén è il nome della stellina più luminosa e bianchissima, Millaray si chiama quella più piccola dall’intenso riflesso verde e la terza stella è conosciuta come Ñuke-umakentu, la madre dormente, ed il suo colore ha l’azzurro del mare. Le tre stelle sono sempre insieme ed è per questo che sono conosciute con il nome di Küla Wangülén. Mupindunguy

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GLOSSARIO Nell’arcipelago del Chiloé si parla spagnolo. Tuttavia la tradizione linguistica mapuche è tuttora ben viva attraverso numerose espressioni di uso comune. Con riferimento al presente testo, segnaliamo i termini mapudungún che vengono quivi impiegati e che, quindi, richiedono una traduzione. La grafia impiegata generalmente è quella più propriamente mapudungún: tuttavia si mantiene quella spagnola nei casi in cui la radice mapuche è inserita in un termine geografico, in modo da evidenziare la correlazione (per esempio usiamo quincho [recinzione] anziché kincho per non perdere la correlazione con Quinchao [spiaggia con recinzioni]). admapu, insieme del modo di essere, dei riti e delle tradizioni mapuche afun-küyén, gennaio ailla, nove, nono akutun, essere qui (akutuiñ, siamo qui) alerce, (spagnolo) larice di grandi dimensioni, simile alla sequoia alwe, anima di una persona morta da molto tempo am, anima di un essere vivente amukilmu!, non andare! ankawenu, una delle parti che costituiscono il wenumapu antü, sole -ao, (chono) suffisso che indica un luogo o spiaggia dove si approda con facilità ayuwi, felice camahueto, animale mitico chachay, padre (vezzeggiativo famigliare) challanco, challanco, specchio formato da una pozza d’acqua chaltú, grazie chaway, orecchini che, uomo, gente, popolo chelkura, pietra con aspetto umano chelle, piccolo gabbiano chew amualu nga?, dove vai? Chiloé (chelle hue), regione di gabbiani chod, giallo chomüngén, autunno co, ko, acqua cuchi, maiale (cavia peruviana) curanto, cibo preparato in una buca e cotto con pietre arroventate dalka, imbarcazione realizzata con tre grandi tavole di legno domo, donna (usato come prefisso attribuisce a un sostantivo il genere femminile) eimi, tu, saluto famigliare epew, racconto annedottico di un fatto reale epu, due, secondo epuñón, una delle parti che costituiscono il wenumapu ewén nay!, che peccato! fey, feichi, questo filew, destino consapevole, percorso della vita, coscienza fücha, grande, antico

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glor-küyén, marzo-aprile -hue, suffisso che indica un luogo huilli, sud huilliche, popolo del sud huillín, nutria iñche, io iñche ta, io, io sono iney, chi? kai (cuchi), maiale kalfü, azzurro kalku, stregone (in senso negativo), fattucchiere kalkutún, stregoneria malvagia kam, oppure karü, verde katán pilún, perforazione dei lobi delle orecchie delle fanciulle kawél, delfino kawelche, popolo marino kayu, sei, sesto kechu, cinque, quinto kelgo, telaio portatile kelü, rosso kepantuinge, venite kimche, uomo saggio, sapiente kim’n, sapere, comprendere kiñe, uno, primo kiñeñón, una delle parti che costituiscono il wenumapu kogi-küyén, febbraio-marzo küimi, estasi, stato di trance küla, tre, terzo külañón, una delle parti che costituiscono il wenumapu kulliñ, animale selvatico kultrún, tamburo sacro küme, buono küpatun, tornare kura, pietra, roccia kusé, vecchio kutrán, malattia kutrán küyén, mestruazione kutre, vagina küyén, luna, mese lafkén, mare, oceano, grande lago lafkenmapu, ovest, occidente, ponente lakutún, cerimonia di imposizione del nome lalén, ragno lamngén, sorella (detto da un uomo), fratello o sorella (detto da una donna) lawén, erba o bacca medicinale lik, bianco likün, diviso, compartito litu, primordiale, originario

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lituche, popolo delle origini llanka, piccola pietra alla quale si attribuisce un valore particolare lonko, testa, capo machi, medico, sciamano, mago (in senso positivo) machingén, essere o diventare machi machingéñ, sono machi machingeaimi, sarai machi machingeáñ, sarò machi machitún, rituale compiuto dal machi per sanare una persona malata malén, ragazzina mamülche, simulacro antropoforme di legno usato per segnalare una tomba mankián, uomo convertito in pietra mapu, terra, nazione mari, dieci, decimo mari-marí, saluto meli, quattro, cuarto meliñón, una delle parti che costituiscono il wenumapu mi, tuo miñchenmapu, mondo sotterraneo, inferno misawün, mangiare insieme muday, birra ricavata dal mais, dai legumi o da frutti fermentati mupindunguimi, dici la verità mupindungún, dire la verità mupindungúñ, dico la verità mupindunguy, è la verità ngeimi, tu sei ngen, essere, sembrare ngeñ, io sono ngey, è ngen, spirito dominatore ngen-, prefisso che indica ciò che domina e protegge qualcosa ngenemapu, spirito della terra ngenküra, spirito di una pietra ngenkürüf, spirito del vento ngenkütral, spirito del fuoco ngenlafken, spirito protettore di un lago ngenlawén, spirito serpentiforme che protegge le erbe medicinali ngenmawida, spirito della foresta ngenpín, sacerdote, sciamano che celebra il ngillatún ngenrepü, folletto che protegge un sentiero ngenwinkul, spirito della montagna ngillatufe, colui che celebra il ngillatún ngillatún, rito sacro ngülliw, pinolo ngutrám, racconto di natura storica o mitologica ñawé, figlia (detto dal padre) ñi, mio ñimín, ognuna delle icone rappresentate nel trariwe ñuke, madre

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pahueldún, bastone magico palín, gioco di gruppo simile al jockey pangui, grossa foglia peñí, fratello (detto da un uomo) perimontún, visione, sogno premonitore pewü, primavera pewma, sogno pichi, piccolo pichiche, bambino pikumapu, nord, settentrione pilcán, marea pillán, spirito degli antenati, vulcano pillel-küyén, settembre pillü, anima di una persona morta da poco piuke, cuore powgtén, sciamano che cura gli spaventi e lo stupro del Thrauco poyén, amato pu, particella che si antepone a un sostantivo per formare il plurale Pu-am, anima universale che permea tutto quanto esiste pukém, inverno puelmapu, est, levante, oriente pura, otto, ottavo quepuche, figlio ultimo nato quincho, recinto di bastoni intrecciati o di canne rangiñwenu, una delle parti che costituiscono il wenumapu rayén, fiore reke, uguale, simile relke, sette, settimo renü, grotta rewe, altare sacro a forma di scala con i gradini intagliati nel tronco rimu-küyén, aprile-maggio ruka, casa, capanna sumpall, essere mitico che vive nell’acqua susunge, figlia o bambina prediletta ta, particella eufonica affermativa; talvolta sostituisce il verbo essere tempulkalwe, donna-balena che trasporta le anime dei morti a Ngülchenmaywe ten-ten, salvare, trovare rifugio thor-küyén, giugno-luglio toki, ascia toki-kura, ascia di pietra (simbolo del potere del lonko) trarilonko, fascia di stoffa che cinge la fronte trariwe, cintura di stoffa che cinge i fianchi tremo, bello troy, parte di qualcosa, capitolo di un libro trüf, leggero, agile trutruka, strumento musicale a fiato walüng, estate üku, argilla, creta üñén, uccello

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vilú, serpente wala, uccello marino, versione al femminile del sumpall wangülén, stella we, nuovo, ora We Tripantü, capodanno wefún-küyén, mese dei primi frutti (marzo-aprile) wekufe, demonio -wen, suffisso che sottolinea che persone di natura diversa vengono considerate insieme wenumapu, cielo werkén, messaggero wewl-küyén, ottobre-novembre widüfe, vasaio willimapu, sud, meridione windomo, moglie prediletta win-küyén, agosto wiña, felino simile a un piccolo leopardo witrál, telaio fisso di grandi dimensioni

Si riporta, infine, il calendario mapuche utilizzato nel testo: CALENDARIO MAPUCHE1 stagione

mese

durata

equivalenza indicativa

pukém

thor-küyén

2 lune

giugno-luglio

win-küyén

1 luna

agosto

pillel-küyén

1 luna

settembre

wewl-küyén

2 lune

ottobre- novembre

wefun küyén

1 luna

dicembre

afun-küyén

1 luna

gennaio

kogi-küyén

2 lune

febbraio-marzo

glor-küyén

1 luna

marzo-aprile

rimu-küyén

2 lune

aprile-maggio

pewü

walüng

chomüngén 1

adattato da un testo del XVIII secolo

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