Marcia (1922)

June 9, 2017 | Autor: Rocco Luigi Nichil | Categoria: Storia Della Lingua Italiana, Lessicografia italiana, Storia delle parole
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1922. MARCIA

le trasformazione dei gusti, costumi, comportamenti di milioni d’italiani, corrispose nel fascismo, com’è noto, anche una forte tensione – e un’attenzione massima – verso la lingua nazionale. Si pretendeva che diventasse, «se non “rivoluzionaria” (che pure fu la necessità e il sogno di tutti i rivoluzionari, veri o falsi che fossero), almeno fortemente caratterizzata e riconoscibile come fascista, sia, e soprattutto, nei suoi tratti lessicali, sia nei suoi tratti sintattici» (Leso, 1973, p. 140). Avversario, tenace e mordace, tanto dei modi raffinati o estenuati di certa tradizione espressiva, quanto della concretezza e “ragionevolezza” tecnica del linguaggio dell’intellighenzia borghese, liberale, imprenditoriale dell’Italia del Nord, lo stesso condottiero; nel 1933, in due “fogli di disposizioni” del PNF (cfr. Dal Pont, Nitti, 1968, p. 31), Achille Starace prima inviterà i giornali di partito a riprodurre in grassetto l’appellativo di duce (31 gennaio 1933) e poi imporrà di scrivere questo, negli “atti d’ufficio”, interamente in maiuscolo (11 febbraio 1933). Convinto dell’esistenza di un legame a filo doppio fra lingua e nazione («È importantissimo, ai fini della nazione, salvare la lingua, non solo all’interno ma anche nei nuclei sparsi per il mondo, nei mari vicini e nei mari lontani»: Mussolini, 1969, p. 171), il DUCE si fa assertore, promotore, artefice di una lingua mistica e voluttosa, sloganistica e imperativa, ritmica e marziale; anticonvenzionale e immaginifica nei suoi tempi migliori (fino ai primissimi anni venti), diventerà via via «strumento deformato e statico di una realtà statica, incapace, o nolente, di rinnovare se stesso e anche solo di proporre, rinnovandosi {...}, nuove analisi e nuove modificazioni della realtà» (Leso, 1973, p. 158). (MAR)

1922. Marcia (s. f.) L’antico francese marchier “pestare con i piedi” (quindi “posare il piede”), da cui l’italiano marciare, rimanda al francone *markôn, termine venatorio che valeva “lasciare un segno”; camminare, perciò, «è in realtà un “lasciar traccia”» (Devoto, 1967, p. 258). Del resto, sebbene marcia presenti in italiano una spiccata polisemia, non è difficile rintracciare, nei settori in cui la parola si è diffusa, le tracce del significato primitivo («modo di camminare tenendo un passo costante o cadenzato, usato spec. da truppe in movimento, cortei e sim.»: ZING., 2010, s. v.; cfr. Florio, 1598, s. v. marcia; DELI, 1999, s. v. marcia1; Serianni, 1981, p. 185); nel linguaggio della musica, per esempio, o in quello dello sport, con riferimento all’omonima specialità dell’atletica leggera. Quest’ultimo significato può essere fra l’altro retrodatato di ben mezzo secolo rispetto al 1953 indicato da DELI (1999), l. cit.: sulla “Stampa Sportiva”, supplemento settimanale alla “Stampa” (inaugurato nel 1901), si parla di «corse a piedi, gare di marcia, gare di foot-ball, di salto e di slancio di pesi» già nel 18 gennaio 1903. Secondo l’Associazione Italiana 136

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della Marcia il primo titolo nazionale era stato assegnato nel 1907 al bolognese Angelo Balestrieri (www.marciaitaliana.com), ma l’Almanacco italiano rivela come già quattro anni prima, fra altri “campionati italiani”, se ne fosse svolto a Torino uno di «marcia su strada (km. 36)» (Bemporad, Firenze 1903, p. 511) vinto da Giovanni Spada; lo stesso Almanacco (pp. 451-2) reca le più antiche attestazioni di marciatore in senso sportivo (per il significato generico cfr. Cao, 1854, p. 418). La pratica della marcia, prima ancora di divenire una disciplina sportiva, si era diffusa come attività ginnica e pedagogica in tutte le scuole del Regno d’Italia (cfr. «Bollettino ufficiale del Ministero dell’educazione nazionale», V, 1879, pp. 44 e passim). La ferrea educazione impartita dai maestri richiamava apertamente le pratiche di addestramento militare, ritenuto da molti un ottimo coadiuvante per la crescita dei fanciulli: «Nell’altro stadio, che va dalla pubertà stabilita all’età dell’esercito, la ginnastica deve rivolgersi interamente nell{’}intento militare: marcia, marcia di resistenza, corsa, salto, lotta» («Giornale internazionale delle scienze mediche», XXII, 1900, p. 359; per marcia di resistenza: De Amicis, 1897, p. 158). Ancora negli anni venti i più avveduti osservatori, che premevano per una riforma complessiva della scuola italiana, non disdegnavano di suggerire la marcia come disciplina sportiva (e militare) da diffondere fra gli alunni (cfr. Marchesini, 1920, p. 187); con il 28 ottobre 1922, il giorno della marcia su Roma, la parola sarebbe stata però destinata a ben altri sviluppi. Per molto tempo si è discusso sul significato storico da attribuire all’avvenimento, collocato fra i due estremi della “rivoluzione” e del “colpo di Stato” (cfr. Ruggiero, Vivanti, 1988, p. 2119). In realtà non fu né l’una («poiché l’operazione poté riuscire soltanto grazie {...} al sostegno, passivo o aperto, di un apparato statale profondamente inquinato dopo un biennio di guerriglia squadrista»: Lupo, 2005, p. 92) né l’altro («perché l’intera vicenda si risolse in un passaggio formalmente corretto dal punto di vista costituzionale, col quale il monarca conferì a Mussolini l’incarico di formare un governo»: ibid.); benché celebrato dalla retorica fascista come un momento epocale, si iscrisse piuttosto in lunghe schermaglie psicologiche iniziate molti mesi prima, «con la sistematica occupazione militare dell’Italia attuata attraverso le grandi mobilitazioni e adunate fasciste della primavera-estate del 1922» (Ruggiero, Vivanti, 1988, p. 2120), e culminate nella tumultuosa manifestazione napoletana del 24 ottobre, dove erano accorse 40.000 camicie nere. Proprio a Napoli, nell’Hotel Vesuvio, la notte del 25 ottobre il gruppo dirigente del PNF pone concretamente le basi per la marcia sulla capitale. Due giorni dopo iniziano le operazioni, sotto il comando di un comitato insurrezionale insediato a Perugia e composto da quattro “quadrumviri” (Bianchi, Balbo, De Bono, De Vecchi); Mussolini è nel frattempo a Milano, «pronto forse a riparare in Svizzera nel caso in cui le cose si fossero messe male» (Lupo, 2005, p. 91). Le squadre fasciste occupano le prefetture e gli 137

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uffici pubblici e postali di molte città, impedendo così ogni contatto con Roma. Giunte qui, però, «le camicie nere si arresta{no} sulle proprie posizioni in attesa di un chiarimento politico» (ivi, p. 92); le strade della città sono presidiate da una guarnigione di 28.000 soldati, contro i quali nulla avrebbero potuto le squadre fasciste. Vittorio Emanuele III, a cui spetta l’ultima parola, rifiuta di firmare lo stato d’assedio propostogli dal Presidente del Consiglio, Luigi Facta. Il 30 ottobre, dopo due giorni di concitate trattative, il re convoca Mussolini per affidargli l’incarico di formare un nuovo governo; è solo a questo punto che il Duce decide di prendere la strada per la capitale (in vagone letto). Il 28 ottobre, nell’opera di fascistizzazione della storia promossa dal regime, sarà molto presto (dal 1923, «con quattro giorni di festeggiamenti») una delle più importanti date da ricordare (Falasca Zamponi, 2003, p. 11); «{c}hissà perché ci si attarda ancora a considerare la fine dell’anno al metro del 31 dicembre piuttosto che a quella del 28 ottobre» si chiederà Achille Starace, segretario del PNF (“Foglio di disposizioni”, n. 1183, 8 novembre 1938). A rinnovare la memoria dell’evento sarebbero stati istituiti un “brevetto” e una “medaglia commemorativa”, in oro per Mussolini e i quadrumviri, in argento per i comandanti delle colonne, in bronzo per tutti gli altri. Nel 1932, in occasione del decennale, sarà allestita a Roma un’imponente Mostra della Rivoluzione Fascista, per «impegno e dimensioni {...} uno degli avvenimenti culturali più importanti organizzati dal regime» (Santomassimo, 2000, p. 103). Nel 1927 il regime aveva intanto stabilito che «in tutti gli atti delle Amministrazioni dello Stato» dovesse essere aggiunta la data «dell’assunzione al Potere del Governo Fascista» (circolare n. 39890 del 27 ottobre 1927, a firma del sottosegretario Giacomo Suardo). Il 1922 diventerà così l’inizio dell’“Era Fascista”; anche Mussolini, come il protagonista di un racconto di Jorge Luis Borges (La muraglia e i libri), dispone che la storia abbia inizio con lui. Il cinema, già durante il Ventennio, si occupa in più occasioni dell’evento. Nel 1933 esce nelle sale Camicia nera di Giovacchino Forzano, un «balbettante film di propaganda {...} girato per il decennale della Marcia» (MOR, 2008, s. v. Camicia nera); nel 1936 è la volta di Vecchia guardia di Alessandro Blasetti. Ben diversa la Weltanschauung che ispirerà, molti anni dopo, La marcia su Roma (1962) di Dino Risi, una «commedia al vetriolo che canzona con spirito mordace e aguzzi risvolti satirici il fascismo squadrista delle origini» (ibid.). Nel secondo dopoguerra marcia si era intanto rivestita di nuovi significati politici. La lunga marcia (1957) riassume per antonomasia gli avvenimenti della guerra civile cinese del 1934, ma si dice di ogni impresa molto lunga e dalla conclusione incerta. Le marce degli anni sessanta, che tramanderanno alla memoria il movimento a cui aveva dato vita Martin Luther King, contribuiranno a un ulteriore frazionamento semantico, quello della “manifestazione organizzata di protesta”. (RLN) 138

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