Minoranze e multiculturalismo nell\'Italia contemporanea

June 22, 2017 | Autor: Luca Bussotti | Categoria: Multiculturalism, Italian Studies, Human Rights, Multicultural Education, Citizenship, Italiano
Share Embed


Descrição do Produto

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 1

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 2

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 3

Cultura e Società

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 4

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 5

Luca Bussotti

Minoranze e multiculturalismo nell’Italia contemporanea Una prospettiva storico-sociologica

Ibis

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

In copertina:

© Ibis, Como – Pavia, 2013 www.ibisedizioni.it Prima edizione: settembre 2013 ISBN: 978-88-7164-451-6

17:14

Pagina 6

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 7

9

Minoranze e multiculturalismo nell’Italia contemporanea

11

Introduzione Le minoranze linguistiche nel contesto internazionale ed europeo La variabile imprevista. Genesi, caratteri e crisi del sistema scolastico italiano: dal monoculturalismo all’intercultura I diritti di cittadinanza dell donne nella storia italiana

15 101 137

7

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 8

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 9

Minoranze e multiculturalismo nell’Italia contemporanea. Una prospettiva storico-sociologica

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 10

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 11

Introduzione

La storia di questo libro è molto particolare, così come i temi (eterogenei fra loro, ma legati da un filo comune) di cui tratta. Tutti gli articoli qui presentati hanno una loro vicenda specifica, che cercherò brevemente di riassumere. Il primo, relativo alle minoranze linguistiche storiche in Italia, ma con una premessa di carattere internazionale ed europeo, è il risultato di un approfondimento di un piccolo lavoro che era apparso, nel 2000, nella rivista “Confronto”. L’interesse per questo tema mi fu suscitato in quegli anni, grazie al dibattito parlamentare ed all’approvazione della nuova legge del 1999, come segnale che l’Italia non fosse, in realtà, quell’universo monolitico che in molti volevano far credere. Certo, studi sulle “lingue tagliate” erano stati compiuti sin dall’immediato dopoguerra, o ancor prima, come dimostra l’opera di Graziadio Ascoli nel secolo XIX, a testimonianza della vivacità con cui le comunità coinvolte ed un manipolo di volenterosi ricercatori, costantemente esclusi dai circuiti nazionali della cultura, avevano cercato di richiamare l’attenzione su una questione tremendamente seria ma altrettanto chiaramente trascurata dai canali “ufficiali”. All’interno della costruzione dell’Italia multiculturale, l’occasione di riscoprire basi linguistico-culturali “differenti” mi sembrava ottima per dimostrare che, in fondo, anche il nostro paese non è quell’edificio unitario che le classi dirigenti hanno cerato di ergere, al fine di giustificare la nascita dello Stato nazionale. Tutto è stato letto per far convergere, anche dal punto di vista che qui più interessa, quello linguistico e culturale, tradizioni diverse in seno ad una visione unitaria e “nazionale”. Dante, Bocaccio, Petrarca, Manzoni e molti altri, furo11

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 12

no letti in modo da degradare a letteratura di seconda categoria tutta quella produzione dialettale o linguisticamente eterogenea rispetto a quest’asse principale che aveva rappresentato la base per l’espressione di identità locali spesso ricche anche se non vincenti dal punto di vista storico. Di per sé, l’Italia è stata quindi il risultato di un (difficile) processo, orientato in termini politici e dettato da evidenti necessità economiche, soprattutto al momento dell’unificazione, quando l’incipiente capitalismo settentrionale stava cominciando a sentire il bisogno di un mercato nazionale a disposizione per garantirsi un sicuro sbocco produttivo. Fu specialmente a partire da questo periodo – ossia, dal Risorgimento – che inizia a nascere l’idea di una “tradizione” nazionale, in realtà assai debole e piuttosto oscura sino a quel momento. Di tale costruzione il monolinguismo costituisce uno degli elementi fondanti: Risorgimento, Unità nazionale, Fascismo, Repubblicanesimo come “Secondo Risorgimento”, tutto ciò evoca la necessità di omogeneità, di valori comuni, di solidarietà nazionale. Ma non di tolleranza, riconoscimento e valorizzazione delle differenze storicamente presenti sul territorio nazionale. Per questo, il tema del plurilinguismo fu affrontato, in sede di Assemblea Costituente, secondo un’ottica puramente difensiva, accontentando le minoranze più riottose e più minacciose dal punto di vista dell’integrità nazionale, ossia quella tedesca dell’Alto Adige e quella francese della Valle d’Aosta. A seguire, furono inserite pure le altre – a iniziare dalla Sicilia, anch’essa “pericolosa” a causa del secessionismo capeggiato dal movimento di Finocchiaro Aprile –, che attualmente formano le regioni a statuto speciale. Non è un caso che si dovettero aspettare più di cinquant’anni per vedere approvata una legge sulle minoranze linguistiche nazionali, nonostante il dettato costituzionale ed i richiami dei vari organismi europei rispetto ad una situazione che si stava facendo sempre meno comprensibile in chiave continentale e di rispetto dei diritti di minoranze che avevano contribuito a fare la storia del Bel Paese. Nello studio qui presentato, l’obiettivo è inserire tale questione sia all’interno di una prospettiva storica nazionale che di una, più vasta, di carattere internazionale ed europeo, in cui l’Italia si colloca, specialmente nel secondo dopoguerra, in modo chiaro e deciso.

12

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 13

Nel corso del 2004 l’Università di Losanna mi rivolse un invito, teso a sviluppare, in una breve conferenza, alcuni dei concetti legati al multiculturalismo in Italia, in parte sconosciuti nel contesto internazionale. Ne venne fuori una relazione la cui elaborazione, con alcuni riadattamenti, presento in questo volume. Il tema principale del lavoro qui presentato tratta dell’impatto del multiculturalismo derivante dai processi migratori contemporanei in un paese a tradizione emigratoria come l’Italia. Tali movimenti demografici hanno avuto un impatto diretto nelle istituzioni scolastiche italiane, che hanno in questo modo scoperto, su scala nazionale, che l’“italianità”, per come era stata concepita e comunicata, non era più sufficiente per costruire un progetto formativo moderno, aperto ed attento rispetto alle differenze culturali. In realtà, tali differenze – anche se coniugate in modo diverso – sono sempre state presenti nella società e nella scuola italiane, ma sono state – in nome di quel progetto unitario ed uniformante appena ricordato – annullate e in certi periodi (fascismo) represse senza mezzi termini. Per questo, quando il fenomeno migratorio dai paesi del Terzo Mondo è esploso in tutta la sua potenza, il sistema scolastico si è trovato impreparato. Come rapportarsi con alunni le cui mentalità, lingue, culture, religioni, abitudini, sono diverse e spesso in contrasto con quelle occidentali, cattoliche, italiane? In quest’articolo sul passaggio della scuola dal monoculturalismo all’intercultura ho cercato proprio di affrontare questo nodo. Il quale, a ben guardare, ha reso maggiormente complesso un universo – quello scolastico, specchio di quello sociale –, al contempo obbligando il legislatore, gli operatori del settore, il personale docente, a rimodulare sostanzialmente forma e contenuti delle materie che si intendevano veicolare ai nuovi studenti del XXI secolo. Il tentativo, come si cercherà di mostrare, è solo in parte riuscito, e la transizione non è ancora stata completata. Infine, il terzo studio riguarda un’altra minoranza, le donne. Minoranza, questa, non di tipo numerico (a differenza delle due precedentemente ricordate), ma non per questo meno discriminata. Ancora una volta, l’interesse per il tema è costituito da un invito: nel 1998, il Comune di Calenzano (Prato), organizzò un convegno su “Lo Stato delle Donne in Italia”, a cui partecipai con una relazione sui 13

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 14

diritti di cittadinanza delle donne nel nostro paese, secondo una prospettiva storica. Gli atti furono pubblicati in un volume ad oggi praticamente irreperibile, edito da Arlem di Roma, nel 1999. Per questo, e per la coerenza col tema generale qui affrontato, ho ritenuto che fosse il caso di riproporre al pubblico tale breve studio, che dimostra delle enormi difficoltà che il genere femminile ha trovato per inserirsi a pieno titolo nella vita civile, sociale e politica italiana. In realtà, la prospettiva da cui si guarda alla questione deriva da un lavoro, assai più complesso, pubblicato per Franco Angeli nel 2002, sulla Cittadinanza degli Italiani. Il convegno di Calenzano mi dette l’opportunità di focalizzare più specificamente l’attenzione sui diritti delle donne, dal Codice Civile del 1865 sino ad oggi. Non so se il risultato di questo libro abbia raggiunto le aspettative mie ma soprattutto dei lettori. Lo sforzo fatto è stato notevole, così come il tentativo di ricercare una logica interna, pur trattando di temi eterogenei e spesso distanti l’uno dall’altro. Anche l’approccio è stato calibrato affinché il nuovo volume ne uscisse con una veste coerente: una prospettiva storica inserita nell’evoluzione dell’Italia dall’Unità ad oggi, una matrice interpretativa di natura sociologica, un sostrato giuridico senza il quale le analisi qui presentate sarebbero rimaste vaghe ed astratte. Tutto qui. Un ringraziamento va all’editore, che ha creduto in questa nuova avventura, e a tutti quanti, coi loro consigli ed osservazioni, hanno potuto rendere il testo intellegibile e pubblicabile a livello nazionale.

14

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 15

Le minoranze linguistiche nel contesto internazionale ed europeo

Introduzione Le minoranze linguistiche o “nazionali” non hanno mai costituito un problema particolarmente sentito nella storia europea moderna. Sono state piuttosto le minoranze religiose, tradizionalmente, a rappresentare l’oggetto principale dei molti accordi e trattati internazionali fra i vari stati europei, e soltanto verso gli anni Novanta del secolo scorso “the focus on National minorities has shifted from religious minorities to National minorities” (MALLOY, 2010: 4). Fino a dopo la seconda guerra mondiale, sono stati rarissimi i casi in cui uno stato nazionale, indipendentemente da accordi internazionali (bilaterali o multilaterali), o da rischi politici, interni ed esterni, abbia regolamentato spontaneamente la convivenza con le proprie minoranze linguistiche, con l’obiettivo di valorizzarle. Probabilmente l’unico esempio, per lo meno in Europa, è stato, storicamente, la Svizzera, che di tali appartenenze multiple ha fatto la sua ragion d’essere, oltre che la sua stessa ricchezza, fin dalla Costituzione del 1848. Le successive revisioni, avvenute nel 1996 e nel 1999, affidano ai cantoni la competenza nel designare le loro lingue ufficiali, cosicché, ad oggi, esse sono quattro: il tedesco, il francese e l’italiano, lasciando il romancio come lingua ufficiale nel Cantone dei Grigioni, per i madrelingua romanci (nelle sue cinque variabili) (PIERGIGLI, 2003: 4). Anche il Belgio, in parte, ha costruito la sua storia identitaria e culturale sul pluralismo linguistico, visto che già la Costituzione del 1830 lasciava ad ogni individuo la libertà di esprimersi nella propria lingua, cercando di risolvere da subito la potenziale conflittualità 15

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 16

fra Fiamminghi e Valloni, garantendo loro larga autonomia. Successive misure, intervenute nel 1963 e, più di recente, nel 1993, hanno poi individuato in via definitiva quattro regioni linguistiche – francese, olandese, bilinguismo di Bruxelles e tedesca –, sulla base del criterio della “territorialità linguistica” (IDEM: 5). Lo stesso senso comune conferma che questi due Stati – e soprattutto la Svizzera – hanno un’identità nazionale (o, meglio, nazionalista) assai debole. Ciò ha ovviamente favorito il multiculturalismo e la pacifica convivenza fra gruppi linguistici e religiosi diversi, facendo assurgere la nazione elvetica a modello, da questo punto di vista. Questi ed altri esempi – ovviamente a contrario – dimostrano facilmente che una spinta ideologia nazionalista è antitetica rispetto alla tutela delle minoranze linguistiche e dei loro diritti, oltre che fonte di ulteriori problemi e tensioni, anche di tipo socio-economico (DAVIDSON, 1992). Il fenomeno delle minoranze nazionali o linguistiche, tuttavia, pressoché ignorato per lungo tempo – salvo rare eccezioni di cui si dirà meglio più avanti – è esploso in tutta la sua potenza distruttiva col conflitto nella ex-Jugoslavia, nel cuore dell’Europa. Le avvisaglie che c’erano state in precedenza, concentrate essenzialmente nel continente africano – dove a tutt’oggi le violazioni contro le minoranze toccano l’apice a livello mondiale –, erano state naturalmente non soltanto sottovalutate e “tribalizzate” dall’Occidente, ma spesso usate per fini di dominio economico, in seguito alla decolonizzazione. Inutile ricordare, qui, le tragedie del Ruanda e Burundi, della Nigeria, della Somalia o del Sudan, nonché le annose questioni dei Tuareg, Berberi e Sahara Occidentale in Nord Africa, per non parlare delle tensioni, assai più latenti, del Senegal con la regione della Casamance, dell’Uganda coi Basongora, del Kenya coi Nubiani, del Botswana coi Wayeyi, soltanto per citare alcuni dei casi meno noti (WALKER, 2012). L’esplosione della nuova questione balcanica ha stimolato i vari organismi internazionali europei (le Nazioni Unite avevano già cominciato il percorso, anche se piuttosto timidamente e non sempre in modo lineare, con varie dichiarazioni e vere e proprie Carte) a prestare crescente attenzione alla tutela delle minoranze nazionali, anche se in modo non sempre coerente e completo. Come per contrappasso, o forse a scopo purificatorio, si è assistito ad un proliferare di carte, dichia16

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 17

razioni, risoluzioni, dentro e fuori le istituzioni europee, in certa misura anche ultroneo e non senza una buona dose di retorica, dall’OSCE al Consiglio d’Europa e, in parte, alla stessa Unione Europea. Il ritardo ha avuto costi estremamente elevati, le cui ripercussioni si stanno facendo sentire a tutt’oggi. La stessa forma di Stato – come sostiene un importante documento prodotto dal Consiglio d’Europa, di cui si riferirà più avanti (COUNCIL OF EUROPE, ADVISORY COMMITTEE, 2012) – non è ininfluente rispetto alla pacifica convivenza fra gruppi con lingua, cultura e religione differenti: modalità di stampo federalista o regionalista favoriscono un simile obiettivo, contrariamente a politiche accentratrici e mono-culturali. Anche l’approccio giuridico è stato conseguente rispetto alla situazione appena descritta. La tradizione occidentale, infatti, si incentra fondamentalmente su uno Stato centrale, i cui principi sono universalismo (tutti hanno eguali diritti) e individualismo giuridico (ad avere tali diritti sono gli individui, in quanto tali). Differenze specifiche di gruppi particolari (nella fattispecie alloglotti) non sono contemplate, poiché comprese all’interno di criteri più generali e, quindi, onnicomprensivi. Questo calcolo si è dimostrato sbagliato, poiché privo delle fondamenta filosofiche minime e, conseguentemente, slegato rispetto alla pratica concreta, per lo meno nell’ottica del perseguimento di un’eguaglianza sostanziale e non soltanto formale. Come ha sottolineato un economista di tendenze certo non rivoluzionarie, garantire un’eguaglianza effettiva significa non tanto non distinguere fra individui e gruppi differenti, quanto discernere se e quando questi si trovano in condizioni oggettivamente eterogenee rispetto ai più e, pertanto, applicare loro normative anche diverse rispetto alla maggioranza per raggiungere lo scopo dell’equità (GALBRAITH, 1972). Il che si è tradotto – come si dirà meglio in seguito – con una serie di Dichiarazioni internazionali e di conseguenti leggi nazionali tese a dare più chiara protezione a minoranze di vario genere: donne e bambini in primo luogo, ma anche portatori di handicap, consumatori, malati, ecc.. Questo quadro, che meriterebbe un approfondimento certamente più puntuale, riesce forse a spiegare il motivo di tante difficoltà, da parte dell’Europa e dei suoi Stati singolarmente considerati, nel tro17

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 18

vare soluzioni adeguate rispetto alla tutela delle minoranze nazionali, le quali sono sempre rimaste al di fuori dalle misure di protezione accordate ad altri gruppi, generalmente giustificando tale decisione attraverso impossibilità di tipo giuridico. Una simile opzione, evidentemente politica, deve quindi configurarsi come un’assenza, soprattutto nel diritto internazionale. Appare infatti piuttosto paradossale che minoranze linguistiche storiche, radicate nel territorio (per non parlare di quelle nomadi, fortemente presenti in tutto il mondo, ad esempio in Europa coi Rom, Sinti e Camminanti) e che, nella maggior parte dei casi, hanno preceduto la stessa formazione degli Stati nazionali, debbano essere “regolate” proprio da questi ultimi, il cui obiettivo fondamentale è da sempre l’omologazione della cultura, lingua e spesso religione, a scapito delle differenze di cui tali gruppi sono portatori. Da qui, una discrasia che dura in larga parte ancora oggi: quella fra un mondo (ed un’Europa) reale, in cui le diversità esistono, convivono e da qualche decennio vengono sbandierate come ricchezza comune, ed uno (quello delle istituzioni, basate sullo Stato nazionale ed i vari nazionalismi) che, nei fatti, non riconosce tali differenze, trincerandosi dietro il principio di non discriminazione. Tale situazione è tipica della modernità, ed affonda le sue radici nella necessità, da parte dello Stato nazionale, di disporre di un mercato di produzione e consumo adeguato, in cui coinvolgere la maggior parte dei cittadini di quel territorio. Il fattore linguistico e culturale ha giocato un ruolo decisivo: a partire dall’esempio della Francia, molti altri stati, fra cui l’Italia, hanno teso ad usare la lingua per uniformare, creando quindi, attraverso essa, un comune humus nazionale, inizialmente inesistente. Ed anche le nuove democrazie baltiche, emerse in seguito al disgregarsi dell’Impero sovietico, stanno assumendo gli stessi atteggiamenti, dai grandi stati (la Russia) a quelli più piccoli (Ucraina, Bielorussia, ecc.). La modernità “globalizzata”, insomma, mal tollera “eccezioni”, soprattutto se queste vanno ad impattare sul modello istituzionale, economico e culturale che costituisce la base per la loro stessa sopravvivenza. Alcuni esempi a contrario possono servire per dimostrare quanto appena detto. Nel mondo pre-moderno, la storia euro-asiatica 18

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 19

medievale dimostra che “la stessa idea di ‘minoranze’ appariva o del tutto estranea alla logica di fondo del sistema sociale (…) oppure del tutto superflua rispetto allo stabile inserimento degli individui in micrordinamenti a base civile e territoriale che già esprimevano il marcato pluralismo giuridico tipico di quell’epoca” (TONIATTI, 1996: 8). Nei grandi imperi, il problema delle minoranze era quasi inesistente, dal momento che si trattava di forme istituzionali tanto vaste territorialmente, quanto scarsamente efficaci, nella maggior parte dei casi, dal punto di vista della loro azione amministrativa locale. Le minoranze nazionali, perciò, non costituivano una questione rilevante, anche perché quasi mai esse reclamavano forme di autodeterminazione, pressoché sconosciute in questa fase. Si pensi, ad esempio, a tre grandi formazioni politiche “globalizzate” di tre epoche differenti: l’Impero romano – nonostante le molte sfumature – trattava gli abitanti dei territori annessi (in forma violenta oppure no) – con una buona dose di liberalità di tipo linguistico-culturale. Certo, il latino era la lingua ufficiale, ma tutte le regioni parte dell’Impero conservavano le loro abitudini, la loro lingua e, in certi casi, una discreta autonomia anche di natura politica. Come è stato scritto, “La Roma imperiale, senza andare al di là del mare, era un melting-pot razziale alquanto considerevole: osci, umbri, sanniti, bruzi, siculi e altri ancora” (BALLONE, 1988: 60). L’Impero Ottomano, in epoca moderna, riconosceva lo status di minoranze protette sia ai cristiani che agli ebrei, e lo stesso genocidio degli Armeni fu causato dall’“ideologia nazionalistica panturca/panturanica del movimento modernizzante e occidentalizzante del partito Unione e Progresso, la cui ideologia era ispirata e rozzamente copiata da modelli occidentali, soprattutto francesi” (ZEKIYAN, 2007). Infine, l’Impero Austro-Ungarico, multiculturale per eccellenza, era nato sul motto Tu, felix Austria, nube, ricordandone pertanto la genesi “matrimoniale” (assai più che militare), che aveva lasciato ai vari territori una discreta autonomia di tipo “nazionale”. I gruppi minoritari, per esempio, potevano esprimersi nella propria lingua, senza grossi rischi di persecuzioni motivate da fattori culturali. I moderni stati nazionali, come detto sopra, hanno conosciuto altre esigenze tendenti all’unificazione culturale, relegando le mino19

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 20

ranze a una non-esistenza, quindi “dimenticandosi” di esse, ghettizzandole, oppure annientandole. In certi casi (come, appunto, col pangermanesimo nazista o con le pretese mussoliniane sulle zone slave dove erano presenti minoranze italofone), ciò ha sconfinato in veri e propri conflitti territoriali fra i diversi stati limitrofi. La questione può tornare in ballo quando un potente stato più o meno vicino “ricorda” la presenza di cittadini parlanti la sua lingua nel territorio di un altro stato, esigendo la tutela di tali persone (come fu il caso della minoranza di lingua tedesca in Italia, che originò l’accordo HitlerMussolini del 1939 per il Sud Tirolo). Attualmente, nonostante i grandi passi in avanti compiuti a livello internazionale ed europeo, una buona parte delle minoranze linguistiche o storiche del Vecchio Continente continua ad essere minacciata, in vari modi. E la questione, di per sé rilevante dal punto di vista dell’equità fra gli uomini, è significativa anche da quello della manutenzione della pace e della sicurezza fra i popoli. Seppure riferiti a minoranze “etniche” (in cui, cioè, confluiscono fattori linguistici, religiosi, culturali, ecc.), i seguenti dati sono sintomatici della situazione attuale. Nel territorio europeo, vi sono 40 lingue autoctone parlate da circa 500 milioni di individui. Di queste, soltanto 23 godono dello status di lingue ufficiali. Le restanti lingue sono definite come “regionali” o “minoritarie” (CUCCIARELLI/MATTEIS, 2008: 17-18). Sono quindi circa 45/50 milioni gli individui appartenenti a tali minoranze linguistiche, diversamente distribuiti a seconda degli Stati. In Bosnia-Erzegovina, per esempio, la maggioranza non arriva al 45%, e questo è l’unico caso in cui il gruppo maggioritario non supera il 50% dell’intera popolazione nazionale. Se è vero che i gruppi minoritari sono più presenti nei paesi dell’Est, anche in quelli dell’Europa Centrale e Meridionale essi hanno un peso rilevante. In Belgio, per esempio, i gruppi di minoranza si attestano intorno al 32%, in Svizzera toccano quasi il 30%, in Spagna superano il 25%, mentre nel Regno Unito ed in Olanda sono vicini al 20%. L’Italia si attesta su circa il 5%, mentre i paesi ove non si registrano minoranze “etniche” sono Irlanda, Portogallo, Malta e Lussemburgo (WOLFF, 2008). Le recenti evoluzioni storiche hanno fatto sì che diversi dei paesi europei con un numero significativo di minoranze abbiano 20

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 21

ormai adottato una normativa garantista nei loro confronti; tuttavia, ve ne sono altri (quali, ad esempio, la Francia), il cui mono-culturalismo esasperato continua a prevalere, negando l’evidente presenza di tali gruppi e la conseguente necessità di rapportarvisi adeguatamente.

1. Breve (dis)inquadramento concettuale Per capire meglio di che cosa si parlerà nelle pagine che seguono, sembra opportuno cercare di dare una definizione che cosa si intenda per “minoranza linguistica”. Purtroppo, però, nel caso specifico, l’auspicato inquadramento concettuale si trasformerà in un disinquadramento, visto che, ad oggi, né sul piano normativo – e quindi giuridico –, né su quello sociologico è possibile fornire una definizione chiara ed uniforme di tale concetto. Perciò, il tentativo che si farà in questo paragrafo è di passare in rassegna velocemente le diverse accezioni del termine, sottolineandone l’indefinitezza teorica e concettuale, soffermandosi fondamentalmente su due questioni. Ossia: perché le minoranze linguistiche debbono essere oggetto di particolari protezioni? Quali i criteri per ammetterne alcune ed escluderne altre? E che tipo di tutela garantire loro? Nella enorme selva definitoria, il punto di discrimine probabilmente centrale riguarda il tipo di approccio che al concetto di minoranza in generale, e di minoranza linguistica in particolare, si intende dare. Cominciamo dagli aspetti più teorici: è possibile distinguere fra una concezione “oggettiva” ed una “soggettiva” di minoranza. A partire da tale differenziazione, seguono tutte le altre, maggiormente specifiche e dettagliate. Per comprendere che cosa debba intendersi con l’espressione “soggettivo”, è utile riferirsi alla riflessione di Max Weber: il quale, nella sua estrema semplicità, aveva probabilmente già individuato gli elementi essenziali di tale concetto, pur non approfondendolo in modo precipuo. Egli, affrontando le relazioni inerenti alle comunità etniche, dopo averne definito il profilo sociologico, passa a delinearne le caratteristiche “concrete”, praticamente tutte soggettive. La comunità etnica, infatti, altro non sarebbe se non “una ‘comunanza’ 21

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 22

(creduta), e non già un reale agire di comunità” (WEBER, 1980: 87). A parte considerazioni di tipo socio-antropologico sulla consistenza del concetto di etnia che, ovviamente, esulano da questo studio, è interessante notare come Weber parta proprio da questo aspetto puramente soggettivo, da questa “volontà di comunanza” (in termini moderni si direbbe minority by will) per spiegare la creazione di un “patrimonio culturale di massa”, il cui elemento essenziale è la “comunità di lingua”. Questa, insieme all’appartenenza religiosa, sarebbe quindi l’asse costitutivo della “comunità”. La realtà attuale è certo più complessa rispetto a quella descritta da Weber: nel senso che le “comunità” (e le appartenenze) sono ormai multiple e differenziate rispetto alla sola lingua e religione. Si pensi, ad esempio, a quelle di tipo sessuale (donne, omosessuali), o ad altre forme “alternative” di concepire la vita sociale e comunitaria, come quelle che, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, si sono sviluppate soprattutto nel mondo occidentale: hyppies, ambientalisti, o quelle caratterizzate dal punto di vista “etnico (afro-americani, ecc.). Ma tale proliferazione non ha spostato di una virgola l’elemento concettuale che Weber aveva posto: ossia, che, per costituire una “comunità”, è necessario un forte elemento soggettivo, una espressa e cosciente volontà. Un qualcosa di non molto distante è stato teorizzato nell’ormai classico The invention of tradition, di Hobsbawm e Ranger, in cui le “tradizioni”, anche quelle che si credevano secolari, alla fine risultano inventate di sana pianta (HOBSBAWM/RANGER, 1983). Tipico esempio è tutta la simbologia e l’ideologia leghista della Padania, certamente assai carente dal punto di vista storico, ma non per questo meno viva per coloro che ci credono. Il punto, infatti, è proprio questo: crederci. Lo spirito di una comunità, per dirla con Tönnies, è ciò che ciascun individuo che ad essa appartiene sente come più autentico, meno artificiale e segmentato, e maggiormente solidario (TÖNNIES, 2011). Su di essa egli costruisce il suo spazio sociale primario, il suo “nido” che gli permetterà poi di affrontare le sfide della società segmentata e inautentica. I gruppi “minoritari” altro non sono che comunità, innanzitutto (auto)percepite e (auto)determinate da parte di chi decide liberamente di aderirvi, e secondo l’intensità soggettiva di tale adesione. Non è possibile (e questo è uno dei pochi aspetti su cui praticamente tutti 22

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 23

concordano) pensare ad una minoranza al di fuori della dimensione collettiva, per piccola e limitata che questa possa essere. Se ne deduce perciò che il gruppo minoritario è tale perché ha creato, al suo interno (per i più svariati motivi, ed avendo come possibile base la lingua) una comunanza di valori, pratiche, comportamenti, culture, in grado di distinguersi da altri gruppi, o dalla stessa maggioranza. In estrema sintesi, questa è la concezione soggettiva dei gruppi minoritari. Viceversa, a partire dalla sociologia nordamericana degli anni Trenta, soprattutto con la Scuola di Chicago, l’elemento della soggettività e della volontà collettiva è stato accantonato. Louis Wirth, il sociologo che, in quella scuola, più di altri si è occupato di minoranze – spesso in diretto collegamento col tema della devianza –, così definisce il concetto di minority group: “a group of people who, because of their physical or cultural characteristics, are singled out from the others in the society in which they live for differential and unequal treatment and who therefore regard themselves as object of collective discrimination” (WIRTH, 1945). Wirth, evidentemente, aveva in mente i gruppi minoritari discriminati (e generalmente “devianti”) degli Stati Uniti, in primo luogo gli afro-americani. Tuttavia, in questa definizione, non c’è alcun cenno al fatto che tali gruppi vogliano caratterizzarsi come diversi – in un qualche, decisivo aspetto – rispetto alla maggioranza. Anzi, si fa riferimento addirittura a caratteristiche fisiche, del tutto inutilizzabili rispetto, ad esempio, alle minoranze linguistiche, religiose, politiche, ma soprattutto alla discriminazione di cui tali gruppi sono fatti oggetto. Si può però arguire che, una volta cessata tale discriminazione, essi potrebbero tranquillamente rinunciare alla loro presunta diversità, adattandosi in tutto e per tutto rispetto alla maggioranza. Insomma, essi sono così “perché sono così”, oggettivamente, e non perché vogliono essere distinti rispetto ad altri raggruppamenti. Gli afro-americani, per esempio, costituiscono un fenomeno oggettivamente riconoscibile a causa del colore della loro pelle nella società statunitense, tuttavia non è detto che essi – o, meglio, che ciascun afro-americano – intenda aggregarsi a tale gruppo, o voglia farlo allo stesso modo degli altri. La componente soggettiva, qui, lascia campo libero ad elementi “positivamente” determinabili ed oggettivamente osservabili. I gruppi minoritari, per23

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 24

ciò, lo sono esclusivamente in funzione di quello maggioritario. Come è stato sottolineato, una simile concezione chiama in causa direttamente, oltre al citato elemento relazionale, anche l’esistenza di un’entità statuale che sancisce chi è minoranza e chi è maggioranza, risentendo “in modo palese dei limiti della prospettiva normativa unitaria tipica dello Stato legislatore” (TONIATTI, 1996). Nell’accezione soggettiva del termine, “emerge piuttosto la vocazione di una minoranza (…) a costituire di per sé un’unità sociale o culturale, con propri connotati in positivo, anziché rassegnarsi a essere, in senso riduttivo, una parte minoritaria” (IDEM, 1996). In quest’ultimo caso, lo Stato si fa garante, oltre che degli individui, anche delle “comunità intermedie”, quali, appunto, le minoranze: in realtà, nell’impostazione liberale, ciò non è avvenuto, cosicché lo Stato ha deciso di tutelare esclusivamente gli individui, e non i gruppi a cui essi possono appartenere. Tale questione si riflette nella storia, nel concetto, nella giurisprudenza e nelle difficoltà politiche costanti con cui l’Occidente ha guardato al tema delle minoranze, soprattutto a partire dalla rivoluzione francese, allorquando i principi incentrati sui diritti umani individuali si sono affermati su scala via via sempre più vasta. A parziale conferma di quanto appena detto va ricordato un episodio sintomatico. Un importante parere della Corte permanente di Giustizia Internazionale (il nr. 17 del 3 luglio 1930) in merito alla convenzione greco-bulgara del 27 novembre 1919, sembra delineare un concetto di “gruppo minoritario” assai prossimo a quello soggettivo di matrice weberiana: esso sarebbe una “collettività di persone che vivono in un dato paese o località e sono unite da identità di razza, religione, lingua e tradizioni in un sentimento di solidarietà, allo scopo di preservare l’identità stessa”. A parte l’idea di “razza”, espressa come uno dei possibili elementi distintivi del gruppo minoritario, ciò che è notevole è, appunto, l’accentuazione della volontà della diversità e del sentimento di solidarietà infra-gruppo, che diventano pertanto gli aspetti imprescindibili per una corretta identificazione – non solo teorica – del concetto. La preservazione di tale identità, pertanto, non dipende né da fattori quantitativi (il numero), né da processi discriminatori in atto, poiché è valida in sé, slegata quindi dalle determinazioni della pubblica autorità. 24

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 25

Quella di Weber e della Corte permanente di Giustizia Internazionale resteranno, per lunghi anni, tendenze minoritarie. Ed in parte lo sono ancora oggi. Basti vedere la posizione – peraltro assai poco coerente ed in costante rimodellamento – delle Nazioni Unite. Niente si dice, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, in merito alle minoranze, ritenendo sufficienti i principi generali ivi contenuti. Soltanto il 18 gennaio del 1950, la sottocommissione dei diritti dell’uomo adotta una definizione che ingloba anche l’aspetto soggettivo (desiderio espresso di conservare tratti identitari significativamente diversi rispetto a quelli della maggioranza), accentuando tuttavia il fattore relazionale e quello numerico (devono esserci gruppi consistenti che reclamano la conservazione di un’identità “diversa”), nonché la necessità di essere comunque leali allo Stato di cui sono cittadini. In seguito, con la nota definizione di Capotorti, le Nazioni Unite cercheranno di mediare fra le tendenze variegate e contraddittorie presenti, giungendo alla seguente definizione di minoranza: “una frazione del popolo la quale costituisce un gruppo sociale, posto in condizioni di inferiorità nell’ambito della comunità statale, i cui membri, legati allo Stato dal rapporto di cittadinanza, ricevono dall’ordinamento giuridico di esso un trattamento particolare diretto ad eliminare la situazione minoritaria ovvero ad istituzionalizzarla e disciplinarla nell’ambito dello Stato stesso” (CAPOTORTI, 1979). L’approccio giuridico prevale nettamente su quello sociologico, nel senso che il punto di riferimento è costituito dalla presenza dello Stato, e dal fatto che quest’ultimo debba comunque riconoscere alcune prerogative specifiche al gruppo minoritario, al fine di parificarlo, in termini di diritto, con la maggioranza. Inoltre, si dà per scontato il vincolo di cittadinanza che un membro di un gruppo minoritario dovrebbe avere con lo Stato, mentre una tale situazione non si applica ai milioni di immigrati che vivono in un paese di accoglienza, ma non ne sono cittadini a pieno titolo, conservando la cittadinanza di quello di provenienza. Anche se lo Stato è posto in posizione di netta supremazia rispetto al gruppo sociale rappresentato dalla minoranza, la definizione di Capotorti segnala un passaggio fondamentale: non si tratta più di evitare la discriminazione contro la minoranza, ma di fare in modo che questa possa godere, positivamente e da par25

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 26

te dello Stato, di tutele speciali. Viceversa, ancora in sede di Nazioni Unite, la Convenzione sui Diritti Civili e Politici del 1966, al suo articolo 27, stabilisce che “the existence of minority is independent on the decision of the state, on the contrary it is a matter of fact based on the objective existence of a minority” (POSPÍ?IL, 2006), assolutizzando, in certo modo, le priorità delle minoranze, a scapito della funzione dello Stato. Soltanto in quest’ultimo caso l’approccio oggettivo e relazionale viene superato da quello soggettivo e “assoluto”, sancendo per la prima volta in documenti ufficiali un principio di enorme importanza. Il quale, tuttavia, troverà un’applicazione piuttosto modesta e sicuramente tardiva, anche nel mondo occidentale. Su queste basi, si sono sviluppate le successive concettualizzazioni rispetto alle minoranze, comprese quelle linguistiche, nonché – ciò che è ancora più rilevante – le fondamenta dei meccanismi di protezione. Il che significa, sul piano teorico così come su quello pratico e giuridico, il prevalere del criterio oggettivo e numerico rispetto a quello soggettivo, anche se la dottrina ha comunque cercato di edulcorare gli spigoli maggiormente acuti di una simile concezione. Pizzorusso, ad esempio, ritiene che la minoranza sia “un gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione di uno Stato, in posizione non dominante, i cui membri, essendo cittadini dello Stato, posseggono caratteristiche etniche, religiose o linguistiche che differiscono da quelle del resto della popolazione, e mostrano, quanto meno implicitamente, un senso di solidarietà inteso a preservare le loro culture, tradizioni, religioni, lingue” (PIZZORUSSO, 1987). Più o meno sulla stessa linea è Cianci, il quale accentua, semmai, ancor di più rispetto a Pizzorusso, l’elemento della “resistenza collettiva”, al fine di “conservare il proprio diritto all’identità” (CIANCI, 2010: 15), così come Geldenhuys-Rossow, che enfatizza il necessario senso di solidarietà infra-gruppo (GELDENHUYS-ROSSOW, 2001). Di fronte a tali basi, come si colloca la questione delle minoranze linguistiche? Per dirla ancora con Weber, la lingua rappresenta uno dei pochi modi distintivi per caratterizzare i gruppi umani, compresi perciò quelli minoritari. Ciò però non è sufficiente per giustificare la previsione di prerogative ad hoc per questi gruppi. Occorre che vi siano altre caratteristiche, che storicamente hanno tardato ad essere ricono26

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 27

sciute ed individuate, tanto da portare a situazioni di mancanza di rispetto di alcuni dei diritti fondamentali, quali, appunto, la possibilità di esprimersi nell’idioma materno. La domanda che, di solito, si pone, è se tutti coloro che usano una lingua diversa dalla maggioranza debbano essere oggetto di una particolare protezione da parte dello Stato. In linea generale, la questione dovrebbe essere posta in maniera opposta. Nel senso che i gruppi linguistici minoritari preesistevano, nella stragrande maggiorana dei casi, alla formazione dello Stato nazionale. Prendiamo qualche esempio dall’Italia: i parlanti friulano si insediarono stabilmente in Friuli almeno dal IV secolo d.C., quando si ha notizia che Fortunaziano, vescovo di Aquileia, fu costretto a tradurre i vangeli in “lingua rustica” per farli capire ai fedeli. Nel Salento, nella Calabria meridionale e nella Sicilia nord-orientale, l’idioma greco è presente probabilmente sin dai tempi della Magna Grecia (V secolo a.C.) o, al più tardi, dall’epoca bizantina. Gli sloveni oggi cittadini dello Stato italiano si stabilirono in quelle zone intorno alla metà del VI secolo d. C. (SALVI, 1975). Stessa vicenda hanno subito i Baschi in Spagna, i Bretoni in Francia e molti altri popoli sparsi per l’Europa e non solo. La sostanza, quindi, è assai facile da comprendere: in realtà, le minoranze linguistiche sono diventate tali a seguito del formarsi degli stati nazionali moderni, inglobate e colonizzate da questi ultimi. I quali, nella loro azione uniformante, le hanno a volte ignorate, altre volte disprezzate, spesso addirittura perseguitate. Quando, negli anni Novanta, soprattutto a causa della guerra nella ex-Jugoslavia, il tema torna tragicamente di moda, quegli stessi stati nazionali riconsiderano l’intera questione dal punto di vista pratico ed anche concettuale, chiedendosi come fare per evitare simili disastri nei propri territori. Non che non vi fossero state avvisaglie in tal senso, dal dopoguerra ad oggi: Baschi, Irlandesi, Alto Atesini ed altre minoranze ancora avevano esplicitato il loro dissenso rispetto alla politica di colonizzazione dei rispettivi stati nazionali anche in modo estremamente violento. Negli anni Novanta, allora, il processo di revisione delle politiche in favore delle cosiddette “minoranze” (in Italia ed altrove caratterizzate come “storiche”, nel senso di “indigene”) assume contorni differenti, e ci si comincia a 27

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 28

chiedere quali gruppi linguistici minoritari tutelare, come farlo e con quali criteri. Ad un’analisi profonda del fenomeno, i problemi si moltiplicano. Innanzitutto, non è chiaro, ad oggi, quale sia la differenza tra dialetto e lingua, che dovrebbe costituire la base scientifica minima per tutelare certi idiomi. Come è stato giustamente rilevato, “una lingua è un dialetto che ha fatto carriera”, per cui “la distinzione fra lingua e dialetto è squisitamente di natura politica: ogni dialetto può diventare una lingua” (VIGNUZZI, 2011). Dal punto di vista strutturale, grammaticale, fonetico, sintattico, non vi è quindi nessuna differenza tra i due. Ciò comprova, ancora una volta, come la lingua sia legata indissolubilmente alla storia moderna europea, in cui – per motivi che qui non importa precisare – a un certo punto si è deciso che que certo idioma dovesse essere valido sul piano nazionale. In Italia ciò è avvenuto per il toscano che, appunto, ha “fatto carriera” a scapito delle altre parlate locali, che sono state relegate al ruolo di dialetti. Su questa base, risulta quindi ancora più confuso immaginare – fatta salva la lingua ormai divenuta ufficiale – quali degli altri idiomi minoritari tutelare. Infatti, al momento in cui, nel Parlamento italiano, si è aperto il dibattito per l’approvazione della norma di tutela delle minoranze linguistiche, vari interventi (di cui si potrà leggere più avanti) hanno fatto esplicita richiesta di protezione, oltre che di quelle che, poi, saranno considerate, dalla legge 482 del 1999, le lingue da tutelare, anche di molte altre, come il veneto, il siciliano, ecc… L’altro problema, oltre alla scelta di quali parlate proteggere in termini giuridici, è come farlo, ossia quali garanzie dare loro. Tutto ruota intorno alla questione dell’uso pubblico dell’idioma da tutelare. Infatti, presupposto che, in privato, ciascuno parli la lingua che più gli aggrada, il problema è se, nelle varie istanze pubbliche, tale lingua possa essere accettata o meno. In linea di massima, uno Stato che intenda tutelare le proprie lingue minoritarie, può farlo mediante tre modalità: la coufficialità, ossia una parificazione pressoché totale delle lingue minoritarie rispetto a quella ufficiale. Ciò significa, in pratica, che i pubblici poteri dell’area interessata accettano di interloquire formalmente col cittadino nella sua lingua madre. E, in questo caso, si può optare per il bilinguismo (come nella Valle d’Aosta) o per il separatismo linguistico (come nel Sud Tirolo); la quasi-ufficialità, 28

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 29

ossia la lingua minoritaria ha uno status ufficiale inferiore rispetto a quella ufficiale, anche se sono permessi alcuni usi pubblici nell’idioma minoritario (ad esempio il ladino è permesso nella scuola e nella toponomastica, ma non nei rapporti diretti con la pubblica amministrazione). Infine, una tutela esclusivamente culturale ma non giuridica, come può essere il caso di alcuni dialetti (TRABUCCO, 2008: 20-26). Naturalmente, l’opzione di quale tutela assicurare ad un certo idioma dipende da molti fattori: in genere, le lingue espressione di minoranze nazionali vengono tutelate maggiormente, visto il peso politico dei paesi vicini, in cui quelle lingue sono ufficiali, com’è il caso del tedesco nel Sud Tirolo nei rapporti Italia-Austria o del francese nella Valle d’Aosta; peso politico abbastanza rilevante possono anche averlo le lingue regionali, come il sardo in Italia o il corso in Francia: ossia, lingue concentrate in intere regioni e parlate, grosso modo, da tutti gli abitanti di quelle aree; infine, le isole linguistiche, che politicamente hanno sempre avuto un peso inferiore, poiché scarse da un punto di vista numerico e spesso slegate da qualsiasi riferimento esterno di altri stati in cui quell’idioma è ufficiale. In Italia, è il caso della lingua occitanica. Ulteriore problema è rappresentato dalle lingue minoritarie ma non territorialmente stabili: per esempio, l’ebraico o il rom o sinti, di difficile protezione, vista l’assenza di uno degli elementi fondamentali per la protezione delle minoranze linguistiche: l’appartenenza territoriale. Infine, altre minoranze linguistiche sempre più presenti sono costituite dagli immigrati di recente provenienza, numericamente assai significative, ma prive del carattere della “storicità”, peculiare per quel che riguarda le lingue minoritarie oggetto di protezione. Nel corso del lavoro che qui si presenta, il (dis)inquadramento concettuale appena esposto apparirà, di solito, sotto traccia: nel senso che saranno essenzialmente i fatti, le decisioni, le difficoltà, i continui rinvii e le miopie dei vari organismi, internazionali e nazionali, a parlare la lingua dell’incertezza e dell’ambiguità, a causa della questione di fondo che si è cercato di chiarire: il fatto, cioè, che lo Stato nazionale, protagonista di una violenta opera di colonizzazione linguistica e culturale, ha in qualche modo “dovuto” – a causa di particolari cir29

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 30

costanze storiche – rivedere la sua strategia rispetto alle prerogative delle proprie minoranze linguistiche autoctone, riconoscendo loro una sorta di “diritto alla sopravvivenza”. Ciò è avvenuto in modo del tutto confuso e, talvolta, arbitrario, mancando criteri scientifici solidi per delimitare chi proteggere e come farlo. Ci ha pensato allora la politica, come il caso italiano mostra chiaramente ed inoppugnabilmente, a prendere le decisioni del caso.

2. La protezione delle minoranze in età moderna: cenni critici Non è obiettivo di questo breve lavoro ripercorrere la vicenda della tolleranza nell’Europa moderna, ma soltanto svolgere alcune riflessioni su tale tema generale, rapportandolo con quello centrale che qui si vuole affrontare, ossia la protezione delle minoranze linguistiche. Praticamente tutti i critici sono ormai d’accordo nel ritenere che la tolleranza per le minoranze, in Europa, nasca su un terreno religioso. Paradossalmente, il Concilio di Trento – che sancisce il fallimento di un possibile riavvicinamento fra Cattolici e Protestanti e la formulazione ed al contempo l’irrigidimento di una dottrina cattolica organica e completa – segna l’avvio della questione della tolleranza religiosa nell’Europa moderna. Ormai, il mondo cattolico non poteva più fare a meno di riconoscere la presenza di chiese protestanti e, quindi, dei loro fedeli e (ovviamente) viceversa. La posizione dei vari principi tedeschi, poi, si dimostrò sempre più significativa in questo senso, fino a che, contemporaneamente allo svolgersi del Concilio o immediatamente dopo, una serie di trattati ed accordi cominciano a proliferare un po’ dappertutto per l’Europa. I Trattati di Passau (1552) e di Ausburg (1555) assicurano libertà di culto sotto Carlo V, l’Editto di Nantes (1598), emanato da Enrico IV, chiarisce quali siano i diritti e i doveri dei protestanti in Francia, mentre fondamentale è, all’inizio del XVII secolo (ossia una cinquantina d’anni dopo la celebrazione del Concilio), il Trattato di Vienna: il voivoda di Transilvania, István Bocskai, che aveva guidato la rivolta magiara contro il dominio austriaco, accusa l’imperatore di una applicazione eccessivamente rigida dei dettami del Concilio tridentino. L’accordo raggiunto con l’Arciduca Mattia d’Asburgo va 30

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 31

proprio nel senso di un esplicito riconoscimento formale della libertà di culto: il 23 giugno del 1606 viene firmato il Trattato di Vienna, in cui si garantisce che, nella città di Sopron, vi sarà tolleranza per il culto luterano, e nel Regno di Ungheria, per quello calvinista. In questo caso, il multiculturalismo dell’Impero autro-ungarico trionfa sulle pretese egemoniche e monoculturali della Chiesa cattolica: tali pretese sono del tutto incongruenti rispetto alla natura stessa del composito impero che, pertanto, non ha difficoltà nel riconoscere la molteplicità di culti religiosi nelle diverse zone di sua competenza. Situazione, questa, che si ribalterà al momento in cui sorgeranno gli stati nazionali moderni, caratterizzati, dal XIX secolo, da una forte spinta nazionalista. Il Trattato di Westfalia rappresenta un passo indietro rispetto a quanto stava avvenendo nel panorama continentale: il principio cuius regio eius religio, infatti, obbliga tutti i sudditi di un certo territorio ad aderire alla confessione religiosa del sovrano o principe di quel territorio, per cui la libertà di culto è riconosciuta, nei fatti, al solo principe. L’idea, quindi, è che non vi siano minoranze (almeno religiose), rischiando così di riaprire aspre lotte confessionali di tipo intestino. In seguito, però, un’altra serie di accordi internazionali correggerà il tiro, soprattutto a tutela delle minoranze cattoliche in paesi protestanti, e in occasione di passaggi territoriali da stati cattolici a stati riformati. È questo il caso del Trattato di Oliva (1660), quando la Livonia viene ceduta dalla Polonia alla Svezia, del Trattato di Nimega (1678), quando Maastricht viene ceduta dalla Francia all’Olanda, o del Trattato di Utrecht (1713), con la cessione della Baia di Hudson e dell’Acadia dalla Francia all’Inghilterra. Più o meno dello stesso tenore sono i Trattati di Parigi (1763), di Dresda (1745) e di Varsavia (1772). Come si vede, si tratta sempre di tutela delle minoranze di tipo religioso. Di quelle linguistiche o nazionali neanche un cenno: ciò è comprensibile perché l’Europa era stata insanguinata per secoli da guerre religiose (o supposte tali), per cui evitare il ripetersi di tali circostanze rappresentava un imperativo categorico per la politica continentale. Da qui il nuovo clima di tolleranza e di rispetto reciproco dei culti cattolici e protestanti, salvo prevedibili eccezioni. Questi solidi motivi di tipo geo-politico non avevano interessato le minoranze nazionali: in qualche caso, è vero, quasi sovrapponibili 31

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 32

a quelle religiose, ma, in genere, da esse distinte, e che mai avevano creato problemi come era successo per quelle confessionali. Nel frattempo, intorno al secolo XIX, le ideologie nazionaliste entrano con forza nel dibattito e nell’arena politica continentale. La storia italiana, così come quella relativa alle istanze in questo senso provenienti dalle varie regioni dell’Impero Asburgico e dai territori tedeschi, testimoniano di come i tempi siano cambiati. La prospettiva dell’impero multiculturale austro-ungarico svanisce rapidamente, e tuttavia un ultimo, robusto tentativo di tenere insieme varie “nazioni” viene compiuto proprio in apertura di secolo: il Congresso di Vienna sancisce, sì, la restaurazione del vecchio ordine, ma può anche essere interpretato come l’estrema difesa contro le spinte nazionalistiche e modernizzanti. Per questo è proprio qui che si trova la prima, esplicita clausola europea di protezione delle minoranze nazionali. I Polacchi vengono divisi fra tre stati: Austria, Russia e Prussia. Tuttavia, a loro è riconosciuta la possibilità di un rappresentante e di istituzioni nazionali. Insomma, si riconosce la “nazione polacca” in seno ai tre suddetti paesi, proprio per scongiurare possibili sollevazioni di stampo indipendentista. Poi più niente. I successivi trattati ottocenteschi (di Parigi del 1856, di Berlino del 1878 e la Convenzione Internazionale di Costantinopoli, del 1881) continuano a garantire la protezione di minoranze religiose, ma non nazionali o linguistiche che, pertanto, tornano nell’oblio. Un oblio, questa volta, di natura differente: a fine Ottocento, infatti, il processo di formazione dei principali stati nazionali europei si è ormai concluso (Europa dell’Est a parte): l’ideologia che ne ha sotteso lo slancio anche bellico è diventata egemone in quasi tutto il continente. La parola d’ordine, adesso, è la nazionalizzazione delle masse, snazionalizzando le minoranze linguistiche che si oppongono (direttamente o, il più delle volte, indirettamente, per il solo fatto di esistere) a questo grande progetto unificatore. È a partire da questo momento che le minoranze linguistiche cominciano a “disturbare”, rappresentando un’eccezione intollerabile per la retorica nazionalista delle nuove potenze europee, spesso con proiezione coloniale e, quindi, di dominio sul piano internazionale. L’Italia non è esente da tale processo; anzi, la retorica nazionalista (di “sinistra” – Mazzini, Garibaldi, ecc. – o di “destra” – Cavour, Gio32

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 33

berti, ecc.) impregna la mentalità comune, che era ben lungi dall’idealizzare una patria e una lingua uniche, prospettiva che sembrava al di fuori degli interessi dei più. Come si vedrà meglio più avanti, la questione della tutela delle minoranze, anche in questo caso, è unilaterale: ossia, ci si interessa, per lo più, di quelle religiose (valdesi, ebrei, ecc.), mentre si ignorano quelle linguistiche, cercando, da parte della casa regnante, tanto per fare un esempio, di eliminare il bilinguismo in Val d’Aosta (tentativo su cui, poi, si tornerà rapidamente indietro, nel 1862, a causa dell’impopolarità dell’iniziativa) (BUSSOTTI, 2000: 25). L’altro punto strategicamente essenziale per quanto riguarda lo sviluppo della tutela delle minoranze linguistiche è costituito dalla prima guerra mondiale e dal definitivo sfaldamento dell’Impero Asburgico. Se la guerra era stata causata anche da motivi di spinto nazionalismo da parte dei vari partecipanti, gli accordi di pace separati firmati con le potenze vinte fanno affermare nuovi diritti delle minoranze nazionali, un po’ come era accaduto al Congresso di Vienna per la nazione polacca. Tuttavia, dei circa venti trattati separati firmati a seguito del primo conflitto mondiale, quelli in cui vi è un esplicito riferimento alla tutela delle minoranze nazionali sono largamente concentrati verso i paesi dell’Europa Orientale, “con l’esclusione, pertanto, dell’area occidentale in cui il consolidamento nazionale era ritenuto (e comunque si voleva ritenere) acquisito” (TONIATTI, 1996: 10). In questo senso, il tema delle minoranze nazionali è relegato a questione di secondo piano e quasi assimilato a una sfera concettuale che non è propria dei paesi “civilizzati” (quelli occidentali), bensì a quelli che ancora non lo sono ma che vorrebbero esserlo (quelli orientali). Insomma, strategicamente si ritiene che il pericolo venga dai Balcani (sulle tracce della prima guerra mondiale), mentre, purtroppo, esso verrà dal cuore dell’Europa “civile”, in cui il problema delle minoranze verrà risolto (almeno questo fu il tentativo) eliminandole fisicamente. In seguito alla fine della seconda guerra mondiale (giugno 1919) viene fondata la Società delle Nazioni, organismo dallo scarso potere, ma il primo ad avere cercato di regolamentare in maniera organica i diritti delle minoranze nazionali. Come è stato scritto, prima della 33

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 34

costituzione delle Società delle Nazioni, esistevano, sì, strumenti di tutela delle minoranze, ma “si trattava tuttavia di strumenti dalla portata assai limitata, sia quanto all’ambito territoriale di applicazione (…), sia quanto ai fenomeni minoritari presi in considerazione, nella maggior parte dei casi relativi solo al fattore religioso” (DICOSOLA, 2010: 89). L’impegno del Presidente americano Wilson, in questo senso, fu premiato addirittura col Nobel per la Pace (anche se, alla fine, gli Stati Uniti non aderirono alla Società delle Nazioni). L’interesse per le minoranze linguistiche va quindi identificato con motivi strettamente geo-politici: non vi è alcuna sensibilità di tipo “multiculturale” alla sua base, anzi, la tutela di questi gruppi “era in questo periodo storico concepita come mezzo di stabilizzazione della pace mondiale e indispensabile contrappeso rispetto alle modificazioni dei confini nazionali che il conflitto aveva determinato” (DICOSOLA, 2010: 90), con un chiaro orientamento verso gli instabili Balcani. Nella pratica, vengono riconosciuti eguali diritti a tutti, indipendentemente dall’etnia, la lingua, la religione, con l’impegno di istituire scuole speciali e fondi pubblici per i diritti delle minoranze; in contropartita, queste ultime avrebbero dovuto restare fedeli allo stato-nazione a cui erano state ascritte. Insomma, una ragionevole (almeno così si riteneva) mediazione. Tuttavia, vi era un aspetto non trascurabile, che costituisce ancora oggi l’elemento di maggiore incertezza e problematicità per la tutela delle minoranze linguistiche: oltre al fatto di non prevedere sanzioni per quegli stati che non avessero rispettato i diritti delle loro minoranze, sono i cittadini appartenenti a queste ultime (e non esse in quanto tali) a godere dei privilegi statuiti. Risulta quindi al di fuori di qualsiasi ipotesi l’idea di attribuire uno status di gruppo comunitario alle minoranze linguistiche. Oltre a ciò, le decisioni politiche e legislative del tempo rispecchiano, com’è ovvio, il sentire comune della società europea: una società che vede le minoranze come minaccia assai più che come possibile fonte di ricchezza e di positiva diversità. Da qui, la categorizzazione (anche nel discorso retorico degli accesi nazionalismi presenti in ogni Paese) delle minoranze come elemento problematico e, pertanto, da risolvere in termini di sicurezza: esse, insomma, “need to be controlled because they are troublemaker” (MALLOY, 2010: 5). 34

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 35

Come noto, le indicazioni della Società delle Nazioni a poco servirono per evitare ulteriori conflitti. La strada del nazionalismo radicale era, ormai, stata intrapresa. Se, quindi, uno dei punti cardine della crisi era stato identificato, certamente non lo era stato il rimedio. In un’epoca di grandi nazionalismi, le spinte al multilateralismo ed alla tolleranza “nazionale” erano destinate ad un misero fallimento. Cosa che, puntualmente, avvenne.

3. La protezione delle minoranze nazionali dopo la seconda guerra mondiale A differenza di ciò che si potrebbe immaginare, anche dopo la seconda guerra mondiale il sistema di protezione delle minoranze linguistiche costituisce, in larga misura, una assenza. Come si dirà in questo capitolo, gli assi centrali per la protezione degli uomini, che trovano la loro più efficace sintesi nell’elaborazione dei diritti umani e della loro “filosofia”, restano quelli tipici della tradizione liberale classica sopra ricordati: universalismo e individualismo, principi, questi, apparentemente onnicomprensivi e non necessitanti di specificazione per gruppi “ad hoc”. Restano perciò esclusi i diritti di tipo comunitario dei gruppi maggiormente sfavoriti. Per loro vi sarà una protezione “negativa”, lasciando quella positiva (come l’Affirmative Action) molto ai margini. Nel secondo dopoguerra, tuttavia, vi sono due episodi che lasceranno il segno nella storia europea: il primo, già più volte ricordato, è costituito dalla tragedia nella ex-Jugoslavia: ad esso l’Europa assisterà quasi passivamente, potendo intraprendere soltanto azioni di riconciliazione e ricostruzione a posteriori; il secondo riguarda il crollo dell’Unione Sovietica, da cui si formeranno numerose repubbliche indipendenti, collocando la questione dei diritti dei gruppi minoritari al centro dell’attenzione. Ma, ancora una volta, con un approccio (almeno inizialmente) incentrato sul timore e sul rischio che tali gruppi (e la loro convivenza con quelli maggioritari) potrebbero arrecare. Da qui l’urgenza – ad esempio, per quel che riguarda il Consiglio d’Europa e la formulazione della Framework Convention for the Protection of National Minorities, il più generale documento europeo 35

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 36

sulla tutela dei diritti delle minoranze – di evitare il ripetersi dell’esperienza balcanica, cercando così di prevenire il rischio di ulteriori disastri. Come è stato notato, tale atteggiamento ha fatto in modo che “the international community came to understand that unsettled majority-minority relations constituted a serious threat not only to the international peace and security of the states concerned, but also to peace and security in Europe as a whole” (HOFFMANN, 2005: 1-2). Ancora una volta, quindi, le minoranze sono identificate come questione di sicurezza e rischio, e soltanto successivamente (ossia, fra gli anni Novanta e Duemila) comincerà ad esserci una forte propensione al cambiamento di ottica, riscoprendo le loro radici storiche e considerandole quale ricchezza del patrimonio comune europeo. a. Le minoranze nazionali presso le Nazioni Unite Quasi tutti i critici sono d’accordo nel ritenere che le Nazioni Unite, nate sulle ceneri della Società delle Nazioni, abbiano avuto un’attenzione assai ridotta, per non dire nulla, almeno fino agli inizi degli anni Novanta, rispetto alla questione delle minoranze nazionali (TRABUCCO; PIZZORUSSO, 1976). Ciò che, invece, è un po’ più sorprendente è l’indignato stupore con cui alcuni hanno valutato un simile atteggiamento. Prima di commentare, veniamo ai fatti. Nella Carta dell’ONU e nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 non si trova alcunché sulla tutela delle minoranze linguistiche. Vi è soltanto una raccomandazione, sotto forma di risoluzione, che rivela tutte le difficoltà nel far votare una norma – seppure di diritto internazionale – da parte dei principali stati presenti, a causa della diversità di vedute su tale fenomeno. La stessa Dichiarazione è figlia del compromesso fra due tendenze maggioritarie: da una parte, quella democratico-liberale, rappresentata dai paesi occidentali, e in primo luogo dagli Stati Uniti, dall’altra quella di ispirazione socialista, con l’URSS e gli altri stati-satelliti. Posizioni intermedie sono incarnate dal cattolicesimo democratico, dal keynesismo, dalla socialdemocrazia, tutte orientate verso forme di tutela dei diritti individuali ma con correzioni per quanto riguarda la protezione delle fasce più svantaggiate della popolazione (Welfare State). Di con36

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 37

tro, la voce degli stati africani – al tempo ancora sotto il giogo coloniale: su 58 membri effettivi delle Nazioni Unite, al tempo, i rappresentanti africani erano soltanto 4 (Egitto, Etiopia, Liberia e la razzista Africa del Sud) – è completamente assente: proprio questi avrebbero potuto spingere verso il riconoscimento almeno parziale di diritti di tipo comunitario e, quindi, anche linguistici. Il fatto che ciò non sia stato possibile fa in modo di concentrare le prerogative giuridiche esclusivamente sugli individui. La stessa URSS era scarsamente interessata alla tutela delle proprie minoranze (anche se proverà a proporre un articolo, all’interno della Dichiarazione, a tutela delle minoranze nazionali), non soltanto quelle politiche, ma anche quelle nazionali o religiose: la persecuzione di ebrei, ceceni, lituani, ecc., la dice lunga sulla sensibilità dei sovietici in rapporto alla suddetta questione. Per questi motivi, logicamente, non c’è traccia, nella Dichiarazione del 1948, di diritti a garanzia della tutela delle minoranze. La Dichiarazione viene votata con l’astensione dei paesi socialisti, dell’Africa del Sud, dell’Arabia Saudita, dello Yemen e dell’Honduras (CASSESE, 1988: 39), a testimonianza che essa rappresentò la vittoria dell’Occidente, appena edulcorata dall’accoglimento di alcuni dei diritti economici e sociali che i paesi socialisti avevano voluto inserire. Conseguentemente, la risoluzione sulle minoranze che viene, per così dire, approvata (la Resolution 217 C (III), Fate of Minorities, del 10/12/1948) rispecchia in pieno il clima di scontro in merito a tale argomento. Essa è al contempo povera di contenuti ma ricca di significato. Dal punto di vista del contenuto, la Risoluzione 217 dell’Assemblea Generale dell’ONU ammette che “the United Nations cannot remain indifferent to the fate of minorities”, ma anche che “it is difficult to adopt a uniform solution of this complex and delicate question, which has special aspects in each State in which it arises”. Pertanto, considerando il carattere universale della Dichiarazione sui Diritti dell’Uomo, “Decides not to deal in a specific provision with the question of minorities in the text of this Declaration”. L’unica posizione unanime che può essere assunta riguarda quindi una certa sensibilità – peraltro assai laconica – dell’Assemblea rispetto al tema delle minoranze. Il tutto si chiude con l’accordo che la Commissione sui Diritti Umani e la Sottocommissione sulla Pre37

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 38

venzione contro la Discriminazione e per la Protezione delle Minoranze avrebbe dovuto condurre uno studio sul problema delle minoranze, “in order that the United Nations may be able to take effective measures for the protection of racial, National, religious or linguistic minorities”. Naturalmente tale studio non verrà fatto, cosicché la questione, in sede ONU, si chiude, nella sua fase iniziale, con un niente di fatto. Nel 1965 viene approvata l’International Convention on elimination of all kind of racial discrimination, accentuando il carattere della tutela dei diritti umani dal punto di vista dell’appartenenza “razziale”, mentre, nel 1966, le Nazioni Unite approvano il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici. Come è stato rilevato (PIERGIGLI, 2001), il contesto storico-politico è in parte mutato rispetto alla fine degli anni Quaranta. Si stava assistendo, in quel periodo, ad un “revival etnico”, il cui primo risultato è il recupero del Parere della Corte permanente di Giustizia Internazionale n. 17 del 3 luglio 1930, concernente la Convenzione greco-bulgara del 27 novembre 1919. In essa, un gruppo minoritario era definito come “collettività di persone che vivono in un dato paese o località e sono unite da identità di razza, religione, lingua e tradizioni in un sentimento di solidarietà, allo scopo di preservare l’identità stessa”. Adesso, nell’art. 27 del nuovo Patto, così si legge: “Negli Stati ove esistono minoranze etniche, religiose, o linguistiche, le persone appartenenti a tali minoranze non possono essere private del diritto di avere, in comune con gli altri membri del loro gruppo, la loro propria religione e di impiegare la loro propria lingua”. Ancora una volta, i contenuti parzialmente innovativi si mescolano con concezioni ben più tradizionali: da un lato, si dà un riconoscimento in qualche modo giuridico all’esistenza di minoranze (di varia natura), per la prima volta su uno scenario internazionale; dall’altro, però, le prerogative “speciali” sono riconosciute non tanto a gruppi specifici, quanto alle “persone appartenenti a tali minoranze”, lasciando inalterato il quadro di riferimento, secondo cui i diritti sono goduti da soggetti individuali e non da quelli collettivi, chiunque essi siano. Inoltre, vi è una notevole limitazione presente nell’articolo, ossia che la protezione è valida soltanto negli stati in cui le minoranze siano presenti: il che equivale a lasciare una enorme discrezionalità a ciascuno stato in materia di definizione delle proprie 38

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 39

minoranze. Se, quindi, lo Stato non le riconosce, queste non potranno essere protette. Organismi legati alle Nazioni Unite, tuttavia, cominciano in questi anni ad approvare importanti Carte a tutela di gruppi umani specifici, segnale che l’universalismo “assoluto” presente nella Dichiarazione del 1948 stava ormai cominciando ad essere superato dai fatti – e. di conseguenza, da diversi documenti internazionali. È il caso della Convention on the fight against discrimination in education, approvata dall’Unesco il 14/12/1969 o della Children Rights Convention, del 1989. Ma molte altre simili saranno votato in favore di “minoranze” per le quali appare chiara la necessità di una tutela speciale, al di là di quella generale relativa ai diritti umani. Sulle minoranze linguistiche, però, nessuna iniziativa viene presa. Soltanto nel febbraio del 1993 viene votata una risoluzione, da parte dell’Assemblea Generale, dal titolo Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti alle minoranze nazionali o etniche, religiose o linguistiche, che costituisce la prima il cui obiettivo esplicito è la tutela internazionale in favore delle minoranze, con specifico riguardo per quelle linguistiche e nazionali. Senza alcun dubbio, una simile Dichiarazione viene presa a causa del genocidio che si stava consumando nella ex-Jugoslavia, e grazie alla caduta del contrasto ideologico coi paesi dell’ex blocco socialista. Per la prima volta, infatti, l’ONU vota un documento in cui i diritti delle minoranze nazionali e linguistiche, oltre che religiose, costituiscono il contenuto fondamentale. Non a caso, nella lunga premessa, se è vero che si fa cenno alla protezione delle minoranze come modo per favorire la cooperazione e l’amicizia fra i popoli, maggiore enfasi è posta sulla funzione che queste possono avere per garantire la “stabilità politica e sociale degli Stati”, ritenuta essenziale visti i fatti nella ex-Jugoslavia. E, per la prima volta, le Nazioni Unite assumono direttamente una responsabilità esplicita sulla tutela delle minoranze. Il testo è composto da 9 articoli: il primo stabilisce che gli Stati dovranno proteggere e promuovere le identità delle loro minoranze interne; il secondo – indirizzato verso “le persone appartenenti alle minoranze nazionali o etniche, religiose o linguistiche” – garantisce che queste potranno usare il linguaggio che ritengono più consono alle loro necessità, sia in privato che in pubblico, “liberamente e senza interferenza”. Lo stesso articolo sottolinea 39

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 40

il diritto di partecipare alla presa di decisioni a livello nazionale e regionale, nonché di associazione, compresi i contatti con individui dello stesso gruppo che si trovino in stati vicini; il terzo articolo – uno dei più rilevanti dal punto di vista concettuale – sancisce che i diritti enunciati nella Dichiarazione possono essere goduti “sia individualmente sia in comunità con gli altri membri del proprio gruppo”, facendo quindi scorgere una notevole apertura verso il riconoscimento di diritti collettivi, ma anche una certa ambiguità, visto che l’art.2 continua a riferirsi alle “persone” che appartengono a tali gruppi, e perciò ad una prospettiva di carattere individuale; il quarto articolo, infine, indica la necessità di favorire, nel sistema scolastico, l’insegnamento della madrelingua ed il suo uso, identificando quindi il settore dell’istruzione come uno dei più strategici per il mantenimento e la diffusione delle lingue e culture minoritarie. Infine, nel 1995 viene istituito, presso le Nazioni Unite, il gruppo di lavoro sulle minoranze. Un breve commento sull’attività dell’ONU in merito ai diritti delle minoranze linguistiche non può prescindere dalla complessità politica che tale organismo ha attraversato sin dalla sua fondazione: se, a partire dalla Dichiarazione del 1948, un simile tema ha costituito un problema pressoché irrisolvibile alla luce della guerra fredda allora in atto, c’è voluto il cambiamento più radicale nella storia contemporanea (appunto, la fine dell’Unione Sovietica) per raggiungere un posizionamento comune fra i vari Stati. Ma il vero motivo che ha dato vita alla Dichiarazione del 1992 va ricercato nella guerra nella ex-Jugoslavia: soltanto a causa di quella tragedia, in sede di Nazioni Unite, si è finalmente compresa la stringente necessità di tutelare le minoranze nazionali, promuovendo una concezione di stato multiculturale e di pacifica convivenza, anche andando – seppure, come visto, piuttosto ambiguamente – oltre la lettera dottrinale del diritto di matrice liberal-democratica. Allo stesso modo, anche in sede europea il tema delle minoranze nazionali ha fatto registrare un notevole salto di qualità in seguito allo sfaldamento dell’URSS, al conflitto nella ex-Jugoslavia, all’entrata di molti paesi dell’Est nell’Unione Europea, tuttavia mantenendo – soprattutto da parte di quest’ultima istituzione – una notevole difficoltà nel deliberare e legiferare in merito a tale materia. 40

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 41

b. Le minoranze nazionali nel contesto europeo Le istituzioni che, in Europa, si sono occupate a vario titolo di minoranze linguistiche o nazionali sono tre: OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), il Consiglio d’Europa e l’Unione Europea, ai suoi vari livelli. Com’è ovvio, l’istituzione maggiormente significativa, anche giuridicamente, è l’Unione Europea, anche se, in termini territoriali, è la meno estesa. Nel complesso non sarà difficile notare una certa difficoltà nel rapportarsi alla materia della tutela delle minoranze linguistiche da parte di queste tre istituzioni, con gradazioni differenti di problematicità nell’approccio, a seconda dell’importanza e della cogenza dell’istituzione in questione. La natura delle tre istituzioni è, di per sé, differente: l’OSCE, nata nel 1975 come Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, col Final Act di Helsinki, aveva in origine lo scopo di lanciare un ponte fra i due principali blocchi internazionali, Est e Ovest, ed aveva, come dimensioni centrali, sicurezza, economia e diritti umani. Non esiste un Trattato istitutivo dell’OSCE, visto che si tratta di un’organizzazione che sopravvive grazie alla volontà dei partecipanti, che si esprime quindi continuamente mediante riunioni, conferenze e documenti. Nel corso degli anni Novanta (a partire dalla Dichiarazione di Parigi), subisce una trasformazione ideologica più che funzionale, nel 1995 il Trattato di Dayton le affida l’organizzazione del processo elettorale in Bosnia. Negli anni 2000, però, finita l’emergenza nella ex-Jugoslavia e con le crescenti crisi fra la Russia e le proprie regioni “minoritarie” (Cecenia o Ossezia, ad esempio) o fra la Russia e le repubbliche baltiche, l’OSCE perde gradualmente il proprio ruolo di garante della sicurezza in Europa, cadendo in un limbo in cui versa ancora oggi. Di recente si è tenuto un vertice ad Astana (Kazakhstan), dall’esito piuttosto deludente, e che ha lasciato aperto l’interrogativo fondamentale: ossia, se questa organizzazione ha ancora un senso e, se sì, a quali compiti dovrebbe essere destinata. Il Consiglio d’Europa è la più antica istituzione continentale costituita nel dopoguerra, essendo stato fondato a Londra nel 1949, ed avendo lo specifico scopo di promuovere la democrazia e i diritti umani. Ad oggi conta 47 Stati aderenti. Con la caduta del Muro di Berlino, il 41

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 42

suo interesse si è decisamente spostato verso Est, avendo come priorità la salvaguardia dei diritti umani e della democrazia soprattutto nella parte orientale del continente. L’Unione Europea, fondata come Comunità Economica Europea nel 1957 col Trattato di Roma, ha assunto la sua denominazione attuale col Trattato di Maastricht, entrato in vigore dal 1° novembre del 1993 ed ha storicamente avuto e, in larga misura, continua ad avere, obiettivi di integrazione economica. Gli stati membri sono 28 ed ha una serie di organismi che nessuna altra organizzazione sovranazionale al mondo ha, fra cui il Consiglio (con potere esecutivo) ed il Parlamento (con potere legislativo, eletto democraticamente dal 1979). Come si vedrà più avanti, il fatto che la sua vocazione sia essenzialmente di tipo economico ed il carattere obbligatorio di determinate disposizioni verso gli Stati membri ha fatto sì che la questione della tutela delle minoranze abbia rappresentato un costante problema, sia in termini di approccio da adottare, sia dal punto di vista delle differenti posizioni e competenze fra Consiglio, Parlamento e Corte di Giustizia, spesso provocando inevitabili cortocircuiti. Il dato comunque essenziale è che l’UE abbia sempre avuto la tendenza a sfuggire rispetto al tema della tutela delle minoranze nazionali, lasciando in larga misura ai singoli Stati la prerogativa di relazionarsi con tale questione. c. La tutela delle minoranze nazionali secondo l’OSCE La questione inerente alla tutela delle minoranze in Europa è stata affrontata, presso l’OSCE, sin dalla sua fondazione attraverso un’ottica assai chiara: la sicurezza. L’idea centrale è che le minoranze vadano difese e protette poiché, se ciò non avvenisse, i rischi per la stabilità continentale sarebbero altissimi. Un simile approccio ha deboli basi filosofiche ed etiche: la difesa e valorizzazione delle minoranze non si configura come un qualcosa di ontologicamente fondato, di “giusto in sé”; tutto deve essere letto in chiave-sicurezza, nell’ottica, pertanto, di carattere geo-politico, relativa alla ricerca della stabilità del continente. Non a caso, L’Atto Finale di Helsinki si riferisce esplicitamente all’“indivisibility of security in Europe” come momento fondativo supremo dell’OSCE (al tempo CSCE), individuando un legame strettissimo fra “peace and security in Europe and 42

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 43

in the world as a whole”. Sono poi enunciati principi tipici del comune diritto internazionale, come quello relativo all’integrità territoriale di ciascuno Stato, all’inviolabilità delle frontiere nazionali, alla non ingerenza negli affari interni, al rispetto dei diritti umani, comprese le libertà di espressione, pensiero, coscienza, religione o credo, senza nessuna distinzione, inclusa quella relativa alla lingua usata. La tematica dei diritti umani è quindi rivolta indirettamente al blocco dell’Est, chiamato a rispettarli anche in riferimento alle minoranze nazionali, visto che ciò potrebbe mettere a repentaglio la stabilità dell’intera area. La “tensione verso Est” dell’OSCE viene in parte meno – sul piano ideologico, non su quello geografico e pratico – con la caduta del Muro di Berlino. Da questo momento, l’OSCE comincia a produrre una serie di prese di posizioni e documenti finalizzati a riposizionare la propria strategia generale in rapporto alla nuova realtà geo-politica. Per quanto attiene alle minoranze, nel breve lasso di un paio di anni si producono le più significative dichiarazioni. Nel 1990 si tiene, a Parigi, un’importantissima riunione, che darà origine alla Charte de Paris pour une nouvelle Europe, in cui l’afflato “democratico” è oggetto di esaltazione, ed in cui i diritti delle minoranze sono collocati in un contesto mutato rispetto al 1975. “L’Europe –così si legge nella premessa – se libère du passé”. Richiamando l’eroismo di quei popoli che hanno voluto intraprendere, ad Est, un cammino di pace e democrazia, ed ispirandosi all’Atto Finale di Helsinki, il quale – si afferma – avrebbe contribuito ad aprire “une ère nouvelle de démocratie, de paix et d’unité en Europe”, l’OSCE accentua ancora di più il suo impegno sui diritti umani, universalizzandoli in una dimensione europea, fatto in precedenza impossibile, a causa delle resistenze del blocco sovietico. La democrazia è ritenuta il “seul système de gouvernment de nos nations”: in tale quadro, “l’identité ethnique, culturelle, linguistique et religieuse des minorités nationales sera protégé”, garantendo i relativi diritti e protezioni al fine di preservare e valorizzare le rispettive identità, senza alcun tipo di discriminazione. In questa Carta l’impetuoso ottimismo post-sovietico impregna l’intero testo. Si legge in modo evidente il segnale della vittoria storica ad opera di quelle che vengono ritenute le forze del progresso e 43

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 44

della democrazia, verso le quali, ormai, neanche il nemico più acerrimo niente più potrà fare. In tal modo, la tutela delle minoranze – comprese quelle nazionali – è perfettamente incastonata all’interno di un quadro certamente meno lugubre rispetto a quello delineato nell’Atto Finale del 1975, in cui la preoccupazione centrale era la sicurezza continentale. Adesso che questo pericolo sembra scongiurato, la cornice di fondo in cui collocare i diritti delle minoranze è quella più generale della tutela dei diritti umani e della edificazione dello stato democratico in ogni paese europeo. Previsione, come si sa, purtroppo smentita dalla terribile vicenda della ex-Jugoslavia. Immediatamente a seguire alla Carta di Parigi, l’OSCE si dota di un importante organo operativo, l’Alto Commissario per le Minoranze Nazionali (1992: il primo ad essere nominato, nel 1993, sarà Max van der Stoel), quale strumento principale di prevenzione dei conflitti che abbiano un’origine in questioni inerenti alle minoranze nazionali. Come chiaramente è spiegato nell’Introduzione scritta a cura della Foundation on Inter-Ethnic Relations a proposito delle Raccomandazioni di Oslo (di cui si dirà fra poco), “this mandate was created largely in reaction to the situation on the former Yugoslavia which some feared would be repeated elsewhere in Europe” (FOUNDATION on INTER-ETHNIC RELATIONS, 1998). Ancora una volta, la sorpresa da una parte, il timore dall’altra che la “metodologia jugoslava” di affrontare questioni relative alla convivenza tra popoli di lingua e religione differenti possa espandersi ed essere adottata in altre aree del continente, riducendo la civile Europa ad un immenso bagno di sangue, consiglia l’OSCE a creare la figura dell’Alto Commissario, in funzione preventiva. Questa volta, il tema della sicurezza non è più focalizzato sui rapporti con l’ex-URSS, evidentemente non più oggetto di preoccupazione, bensì su ciò che potrebbe avvenire un po’ dappertutto in Europa (ma soprattutto nei paesi dell’ex blocco sovietico, adesso lasciati a se stessi), visto lo sfaldamento del bipolarismo internazionale. Il tono del commento (così come delle raccomandazioni) ricorda, coi dovuti cambiamenti, quello dell’Atto Finale di Helsinki, assai più che la Carta di Parigi, impregnata di ottimismo e di speranza. Le Raccomandazioni di Oslo, del 1998, sono specificamente indirizzate verso le minoranze linguistiche ed i loro diritti. Senza dilun44

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 45

garsi in premesse di tipo giuridico, esse prendono in considerazione i seguenti campi: 1. Nomi: è riconosciuto il diritto ad usare i nomi personali, nella lingua madre, da parte degli individui appartenenti alle minoranze linguistiche nazionali; 2. Religione: anche qui, la professione del culto religioso può essere fatta nella lingua madre di ciascuno, a condizione che le cerimonie che abbiano valenza di atto civile (matrimoni, morti, ecc.) siano comunicate anche nella lingua ufficiale dello Stato; 3. Vita sociale e ONG: all’interno del principio generale che riconosce a ciascuno il diritto di stabilire e partecipare ad organizzazioni non governative, anche coloro che appartengono a minoranze linguistiche acquisiscono tale prerogativa; 4. Mass-media: si riconosce agli individui membri di minoranze linguistiche il diritto di fondare e gestire organi di informazione nella loro lingua madre, così come l’opportunità, da parte degli organi pubblici, di prevedere che appositi spazi della loro programmazione siano emessi nella (o nelle) lingua/e minoritaria/e, salvaguardandone l’indipendenza dei contenuti; 5. Vita economica: tutte le persone, comprese quelle appartenenti alle minoranze nazionali, hanno il diritto di creare imprese private, la cui lingua sia quella minoritaria; 6. Autorità amministrative e servizi pubblici: si tratta di uno dei punti cruciali delle Raccomandazioni di Oslo, visto che interferisce direttamente nella gestione della cosa pubblica dei paesi membri. Gli appartenenti alle minoranze nazionali hanno il diritto di ricevere documenti di stato civile e certificati sia nella lingua ufficiale che in quella di minoranza. Ciò implica un’appropriata conoscenza dell’ufficiale di stato civile di quest’ultima lingua e, quindi, un investimento anche cospicuo, in tal senso, da parte della pubblica amministrazione. Il principio si estende a tutti i momenti in cui membri delle minoranze linguistiche intendano comunicare con la pubblica amministrazione (potendo farlo nella loro lingua), così come quando quest’ultima (anche se con l’attenuazione del “wherever possible”) deve informare i propri cittadini appartenenti a minoranze linguistiche;

45

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 46

7. Sistema giudiziario: viene qui sancito il principio secondo il quale tutti i cittadini, compresi quelli appartenenti a minoranze linguistiche, debbano essere informati correttamente, ed in una lingua a loro comprensibile, delle ragioni del loro arresto o detenzione e della natura dell’accusa a loro rivolta, se necessario potendosi difendere nel loro idioma; 8. Privazione della libertà: si raccomanda che il direttore di istituti penitenziari e altro personale che lì lavori siano in grado di comunicare nella lingua minoritaria dei detenuti; caso ciò sia impossibile, dovrà farsi ricorso all’uso gratuito di un interprete. Come è ben spiegato nel citato commento alle raccomandazioni di Oslo (FOUNDATION on INTER-ETHNIC RELATIONS, 1998), l’approccio che queste intendono perseguire non è unilaterale, bensì cerca di soddisfare le esigenze delle minoranze, ma sempre all’interno di un quadro in cui esse devono comunque essere integrate nello Stato in cui vivono. In linea generale, è possibile concludere che le Raccomandazioni di Oslo costituiscono la prima, esplicita presa di posizione, da parte dell’OSCE, rispetto alla tutela delle minoranze linguistiche nazionali che, questa volta, non è “diluita” insieme a quella in favore delle altre, bensì costituisce il fulcro del documento. Significative appaiono soprattutto le parti inerenti al rapporto fra cittadini appartenenti a minoranze linguistiche e pubblica amministrazione, la quale dovrebbe piegarsi alle esigenze di questi, e non viceversa, così come quelle relative alla comunicazione sociale e alla giustizia. L’ultimo e più maturo documento, in ordine temporale, pubblicato dall’OSCE in merito alla tutela delle minoranze nazionale risale al 2012. Si tratta di The Ljubljana Guideliness Integration of Diverse Societies, in cui vengono enucleati quelli che dovrebbero essere i principi fondamentali per una politica efficace in relazione alle minoranze nazionali. Vi è da sottolineare, ancora una volta, la crescente attenzione, da parte dell’OSCE, verso questa tematica, inquadrata, adesso, in un contesto sicuramente più ricco ed articolato rispetto a quello usuale visto sino ad ora. Si parte dal presupposto che la moderna società europea sia ormai caratterizzata dalla compresenza di diversità, fra cui anche le minoranze rientrano. Stato nazionale come 46

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 47

imprescindibile forma istituzionale, diritti umani come dottrina di fondo, diversità, sono i concetti basilari che informano il documento. Il principio 4, più di tutti gli altri, costituisce probabilmente la summa più efficace della base teorica parzialmente nuova dell’OSCE: “Protecting and promoting human rights, including minority rights, help State to strenghten the cohesiveness of their societies while respecting diversity, and can thus be considered preconditions for lasting peace, security and stability” (OSCE, 2012: 12). Perché, quindi, favorire l’uso delle lingue minoritarie, sia in privato che in pubblico? La risposta, questa volta, va oltre i limiti dell’approccio che era stato tipico, in passato, dell’OSCE. Si afferma chiaramente che l’individuo, oggi, si caratterizza per possedere identità multiple e dinamiche, tra cui anche quelle di tipo linguistico, che egli sceglie liberamente ed incontestabilmente. Da qui, l’opportunità, da parte degli Stati e delle loro amministrazioni (in continuità con le Raccomandazioni di Oslo) di soddisfare le legittime aspirazioni ad una comunicazione accessibile da parte di chi appartiene a minoranze linguistiche ed intende esprimersi, anche nei rapporti coi pubblici poteri, in una lingua diversa da quella ufficiale. Per la prima volta, poi (principio 12), si comprende che l’educazione alla diversità, nella cui sfera anche la questione delle minoranze rientra, dovrebbe essere destinata anche alla maggioranza, al fine di contribuire a creare il giusto clima di integrazione e reciproco intendimento, senza il quale una pur corretta politica di tutela non farà scattare quei meccanismi tesi alla diffusione del multiculturalismo. Da qui (principio 42) l’“obligation to safeguard and promote linguistic diversity, including by protecting the linguistic rights of minorities” (IDEM: 52). L’OSCE costituisce una delle istituzioni di riferimento, in Europa, per la tutela delle minoranze linguistiche, sia a causa della sua vocazione, che per la presenza dell’Alto Commissario, essenziale per la comprensione ed il monitoraggio delle situazioni esistenti. Il suo approccio, come visto, per lungo tempo, si è concentrato sulla sicurezza continentale, coniugando il fenomeno delle minoranze con tale questione, per poi evoluire gradualmente verso una lettura più olistica della società europea, soprattutto con l’ultimo documento di Liubjana.

47

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 48

2.2.2 La tutela delle minoranze nazionali nella prospettiva del Consiglio d’Europa Esattamente com’è avvenuto per l’OSCE, anche il Consiglio d’Europa accentua notevolmente la sua attenzione in rapporto alle minoranze nazionali in seguito alla crisi nella ex-Jugoslavia. Le prese di posizione, l’organizzazione interna ed i documenti di maggiore rilievo del Consiglio d’Europa in merito a questa tematica sono tutti posteriori al 1990, e segnalano un’evoluzione per certi versi significativa e “dialettica” fra l’organismo assembleare, il Comitato dei Ministri ed il Comitato di esperti consultivo specificamente destinato al monitoraggio della tutela delle minoranze da parte dei firmatari le convenzioni per la protezione di tali gruppi minoritari. Come si cercherà di mostrare, il Consiglio d’Europa è l’istituzione continentale maggiormente e più concretamente impegnata nella tutela delle minoranze linguistiche, facendo così da punto di riferimento anche per la stessa Unione Europea, in positivo, ma talvolta in negativo, nel senso – ad esempio – che alcuni deputati di schieramenti di centrodestra riterranno eccessivamente spinte le posizioni del Consiglio rispetto alla tematica in oggetto e, quindi, da non adottare. In ogni caso, anche nel caso del Consiglio d’Europa tale tematica ha sollevato notevoli problemi, costringendo ad un grosso passo indietro rispetto all’iniziale intenzione, ossia elaborare un protocollo supplementare sulla protezione delle minoranze da allegare all’European Convention for the Protection of Human Ringhts and Fundamental Freedom, approvata nel 1950, ossia appena due anni dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo da parte dell’ONU. Vi sono due documenti fondamentali emanati dal Consiglio d’Europa in merito alla tutela delle minoranze, con specifico riguardo per quelle linguistiche. Il primo, di carattere più particolare, è la Carta Europea delle lingue regionali o minoritarie, approvata a Strasburgo il 5 novembre 1992. La sua origine, tuttavia, risale almeno alla metà degli anni Ottanta, quando, nel 1984, si tenne la Standing Conference of Local and Regional Authorities of Europe, alla presenza di 250 rappresentanti delle minoranze linguistiche continentali. Qui, venne approvato un documento che, successivamente migliorato da parte del Comitato di esperti, venne adottato il 5 giugno 1992, con l’asten48

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 49

sione di Cipro, Francia, Grecia, Inghilterra e Turchia (GRIN, F., Language, Policy Evaluation and the European Charter for Regional or Minority Language, Palgrave Macmillan, Hampshire, 2003: 57). I riferimenti ideali su cui tale documento si basa sono quelli relativi ad una società multiculturale e plurilingue, in un’Europa “fondata sui principi della democrazia e della diversità culturale, nell’ambito della sovranità nazionale e dell’integrità territoriale”. Per la prima volta in documenti internazionali di tipo istituzionale, questa Carta – all’art. 1 – dà una definizione del concetto di “lingue regionali o minoritarie” che porterà a diverse critiche da parte di chi intende “aprire” maggiormente i termini ed i soggetti destinati alle varie forme di tutela: esse sarebbero quelle lingue “usate tradizionalmente sul territorio di uno Stato dai cittadini di detto Stato che formano un gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione dello Stato”, e “diverse dalla(e) lingua(e) ufficiale(i) di detto Stato”. Ulteriori, importanti specificazioni vengono fatte nei capoversi seguenti dello stesso articolo. Il primo ha l’obiettivo di chiarire che cosa debba intendersi per “territorio in cui è usata una lingua regionale o minoritaria”: si dà una definizione quantitativa, indicando che si tratta di un’area geografica in cui “tale lingua è l’espressione di un numero di persone tale da giustificare l’adozione di differenti misure di protezione e di promozione previste dalla presente Carta”. Questo tentativo di concettualizzazione costituisce la base concettuale, oltre che terminologica, mediante cui il Consiglio d’Europa intende inquadrare il delicato tema delle minoranze, regolandolo in collaborazione coi firmatari. Anzitutto, è di per sé significativo che si tenti di dare una definizione al concetto di lingue “regionali”. L’osservazione che critica il fatto che, nella Convenzione Quadro del 1995 del Consiglio d’Europa non si dica che cosa sia una minoranza linguistica (come si vedrà fra poco), è soltanto in parte condivisibile (COFELICE, 2010). Si può cioè assumere che, per il Consiglio d’Europa, la definizione sia quella stabilita nella Carta, che deve quindi costituire il riferimento fondamentale per tale istituzione, al di là di ciò che è stato sancito da altri organismi internazionali, quali, in primo luogo, le Nazioni Unite. Quali sono gli elementi centrali di questa definizione? Anzitutto, il fatto che si tratti di idiomi “tradizionali”: il che implica che vi debba essere una storia piuttosto antica che 49

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 50

ne caratterizza l’uso in quel determinato territorio, tanto da farne, appunto, un qualcosa che fa parte della vita quotidiana e del patrimonio culturale di quell’area geografica. Conseguentemente, sono escluse le lingue “nuove”, ossia quelle degli immigrati più recenti provenienti soprattutto dai paesi afro-asiatici. Il secondo criterio, oltre alla caratteristica della tradizione, è quello dell’appartenenza nazionale: ovvero, i membri di tali minoranze devono possedere la cittadinanza dello Stato in cui risiedono. Ciò esclude, di fatto, diversi dei gruppi nomadi presenti un po’ in tutta Europa, come Rom, Sinti e Camminanti, che spesso non hanno la cittadinanza dei paesi in cui vivono e che, quindi, implicitamente risultano esclusi dalle disposizioni della Carta. Il terzo elemento è che devono formare un gruppo (quindi devono essere riconoscibili come una comunità), e che questo deve essere minoritario rispetto a quello maggioritario. Non viene specificata la percentuale secondo cui è giustificabile l’attivazione delle misure previste dalla Carta, lasciando a ciascuno Stato la discrezione per determinarla. Ciò rappresenta, da un lato, una misura in qualche modo inevitabile, dall’altro dà un’alea di incertezza quantitativa su cui gli Stati recalcitranti hanno potuto fare leva per non garantire alle rispettive minoranze le prerogative previste nella Carta. Lo stesso Parlamento del Consiglio d’Europa osserverà – come si vedrà più avanti – in questo senso. Altra condizione è, ovviamente, il fatto che tali comunità minoritarie e concentrate su un territorio dello Stato debbono parlare una lingua diversa rispetto a quella ufficiale. Esse sono esplicitamente distinte dalle lingue “non territoriali”, le quali, sebbene abbiano caratteristiche simili a quelle regionali, non rispondono al requisito della territorialità, ossia si trovano disperse e non concentrate in una specifica area geografica. Per queste lingue la Carta ammette che dovrebbero esserci forme simili di tutela rispetto a quelle previste per quelle regionali, ma con un importante distinguo di tipo pratico: all’art. 7.5, infatti, si sostiene che “la natura e la portata delle misure da adottare per rendere effettiva la presente Carta saranno determinate in modo flessibile”, lasciando perciò maggiore discrezione ai vari Stati firmatari: fatto che, ovviamente, rende assai arduo prevedere forme di tutela per questi gruppi linguistici più dispersi rispetto a quelli propriamente regionali. Infine, l’art. 1 sottolinea come neanche i dialetti della lingua maggioritaria e le lingue dei 50

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 51

nuovi immigrati debbano essere oggetto delle misure di protezione espresse nella Carta. Ristretto l’ambito definitorio e, quindi, di competenza che la Carta prevede, gli obiettivi principali sono (art. 7): 1. il riconoscimento di tali lingue quale “ricchezza culturale” dell’intera Europa; 2. il “rispetto dell’area geografica di ogni lingua regionale o minoritaria”, sostenendo che le frontiere nazionali non dovranno costituire ostacolo al pieno dispiegamento della promozione della lingua regionale; 3. intraprendere qualsiasi azione per diffondere e tutelare la lingua minoritaria, sia nell’uso scritto che orale, in privato ed in pubblico, compresi scambi transfrontalieri; 4. il diritto, da parte di parlanti la lingua minoritaria, di apprenderla ed usarla normalmente; 5. infine, promuovere la comprensione di tutti i gruppi linguistici del paese, al fine di sviluppare un clima di reciproco interesse e concordia. Nella pratica, le varie misure previste dalla Carta seguono le indicazioni definitorie e gli obiettivi appena esposti, e si collocano sulla falsariga delle indicazioni dell’OSCE, di cui si è detto sopra, sebbene con una più pronunciata tendenza verso una concezione pluralista in merito alla convivenza dei gruppi minoritari all’interno del panorama europeo. Gli ambiti più significativi a cui le tutele si applicheranno sono l’educazione, la giustizia, la pubblica amministrazione, i mass-media, le attività culturali, economiche e sociali, impegnandosi le Parti a consegnare periodicamente un rapporto sullo stato dell’arte al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, supportato dal neo costituito Comitato consultivo di esperti previsto dall’art. 17 della Carta. Resta il margine di discrezionalità che ogni Stato ha rispetto alla scelta dei propri gruppi linguistici nazionali, che ha fatto dire a qualche esperto, a proposito della Carta, che “l’impressione è quanto meno caotica” (TOSO, 2009: 117). La Convenzione Quadro per la Protezione delle Minoranze Nazionali, approvata il 1° febbraio 1995, ripercorre, a grandi linee, le indicazioni della Carta del 1992; tuttavia, essa rappresenta, a priori, un insuccesso. La sua origine, infatti, scaturisce da un grave scacco all’interno del Consiglio d’Europa, incapace – come era stato previsto – di approvare un’addenda sulle minoranze linguistiche alla Convenzione Europea sui Diritti Umani, che avrebbe avuto un valore anche giuridico estremamente forte. Al contrario, si deve ripiegare in una 51

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 52

molto meno impegnativa Convenzione Quadro, certamente importante nel panorama europeo ed internazionale, ma dal diverso peso rispetto a quanto auspicato. Il risultato, quindi, deve essere visto in chiaroscuro: da un lato, esiste comunque un documento, da parte del Consiglio d’Europa, di carattere generale e che tutela anche le minoranze linguistiche (HOFFMANN, 2005: 2); dall’altro, esso provoca una discrasia fra la serie di diritti umani regolamentati dalla Convenzione del 1950 e quelli tutelati con la Convenzione del 1995. La conseguenza è presto detta: “As a consequence of this legally weaker basis, the protection of minorities in the Council of Europe is fundamentally different from the provision in all other fields of human rights”, avvicinando quindi il valore della Convenzione ai documenti dell’OSCE (HEINTZE, 2000: 384). La base di fondo che ispira la Convenzione è la seguente: “la protezione delle minoranze nazionali è essenziale per la stabilità, la sicurezza democratica e la pace del continente”, oltre a costituire una parte essenziale del patrimonio comune europeo in termini culturali. Il binomio che abbiamo visto costituire la base del posizionamento dell’OSCE viene qui riproposto, con maggior enfasi e chiarezza rispetto alla Carta del 1992, che valorizzava essenzialmente la componente culturale. Adesso che la tragedia nella ex-Jugoslavia si è interamente consumata, è sempre più evidente che la questione della tutela delle minoranze nazionali deve essere inquadrata all’interno della prospettiva della sicurezza continentale e collocata nell’ottica generale della tutela dei diritti umani (art. 1). Per la prima volta in modo tanto esplicito, ci si riferisce (art. 4) al tema dell’uguaglianza non formale ma sostanziale, specificando che essa dovrà realizzarsi, considerando le “specifiche condizioni” delle minoranze. La protezione – che si estende all’uso della lingua, religione e tradizioni – dovrà trovare nel “dialogo interculturale” il suo asse strategico, sottolineando la particolare rilevanza della diffusione delle lingue minoritarie soprattutto nel sistema scolastico e nei mass-media. Di contro, i membri delle minoranze dovranno (art. 20) rispettare “la legislazione nazionale e i diritti altrui”, in modo da garantire la piena armonia ed integrazione. Rispetto alla Carta del 1992, la Convenzione Quadro esprime con maggiore convinzione – anche se con minore precisione – la preoc52

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 53

cupazione che vi sia una effettiva protezione delle minoranze nazionali, dando quindi principi di fondo ma senza specificare più di tanto le modalità di tali impegni. Modalità, del resto, già piuttosto chiare nella suddetta Carta del 1992. Il lavoro del Consiglio d’Europa, tuttavia, non si è limitato, negli ultimi anni, alla predisposizione e votazione di carte e documenti. L’attività del Comitato consultivo è stata intensa e significativa, avendo prodotto, sino ad oggi, tre relazioni sulla protezione delle minoranze nazionali, la prima sull’educazione, la seconda sulla partecipazione alla vita culturale, sociale ed economica, l’ultima di carattere più generale, alla luce della Convenzione Quadro. È di questa ultima che ci occuperemo brevemente, poiché essa permette, da un lato, di comprendere meglio la posizione di tale organismo in riferimento alla suddetta Convenzione (e, in parte, alla Carta del 1992), dall’altro l’effettiva situazione in cui le varie minoranze si trovano all’interno dei singoli Stati, di cui si daranno qui appena pochi esempi ritenuti significativi. D’altra parte, lo stesso Parlamento del Consiglio d’Europa ha avuto modo – grazie proprio alle relazioni sui vari Stati membri, oltre alle tre di carattere più generale appena ricordate, da parte del Comitato di esperti – di esprimersi più volte circa la situazione dei diritti delle minoranze su scala continentale. Nella Raccomandazione 1492 del 2001, intitolata Rights of National Minorities, si prendeva coscienza, in maniera preoccupata, che quattro paesi (Andorra, Belgio, Francia e Turchia) ancora non avessero ratificato la Convenzione Quadro, mentre diversi altri (fra cui Georgia, Grecia, Lussemburgo, Olanda e Portogallo) l’avevano firmata ma non ratificata. D’altra parte, un’altra serie di paesi (fra cui molti dell’Est, compresa la Russia, oltre a Belgio, Irlanda, Portogallo e Turchia) non aveva ancora ratificato la Carta del 1992. Tale situazione viene ritenuta grave, visto che difficilmente i diritti delle minoranze potranno essere tutelati se gli stessi strumenti fondamentali non vengono ratificati dai Paesi firmatari. Nel 2003 non si registrano grandi differenze. Il Documento 9862 dell’Assemblea Parlamentare del 9 luglio 2003, recante Rights of National Minorities, prende atto in modo rassegnato che, dei quattro paesi che ancora non avevano firmato la Convenzione Quadro nel 2001, soltanto il Belgio lo aveva nel frattempo fatto, anche se con diverse riserve che erano valse 53

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 54

un’ulteriore risoluzione da parte del Parlamento (la numero 1301/2002, su Protection Minorities in Belgium), mentre, fra gli stati firmatari, appena uno aveva ratificato tale strumento di protezione delle minoranze. Ma le osservazioni probabilmente più rilevanti che il Parlamento del Consiglio d’Europa muove rispetto alla questione della tutela delle minoranze è piuttosto di contenuto: visto che non ci sono, in effetti, standard di protezione definiti – ma soltanto principi generali difficilmente controllabili e quantificabili –, si invita l’esecutivo a procedere in tal senso. Lo strumento che il Parlamento suggerisce è l’approvazione di un Protocollo addizionale, di carattere operativo, “in order to ensure justiciability of minority rights, to make them a kind of rights which individuals may invoke before independent judiciary organs, notably the European Court of Human Rights”. Ciò è fatto non senza una certa vis polemica, visto che “the Committee of Ministers has so far been reluctant to resume its work aimed at elaborating such a protocol”, elaborazione che tale organismo ritiene “premature”. Infine, sul piano dei mass-media, il Parlamento segnala che, grazie al lavoro del Comitato di esperti, si registrano situazioni poco garantiste rispetto ai diritti delle minoranze linguistiche, soprattutto nei paesi dell’Est Europa, quali Ucraina, Moldova, Azerbaijan, Lettonia. Uno dei punti cruciali su cui il Parlamento si sofferma riguarda tuttavia la lettera di una parte centrale della Carta, con le sue prevedibili conseguenze. L’indefinitezza con cui si è lasciato che ciascuno Stato definisse a suo piacimento quali dovessero essere le minoranze da tutelare, senza dare criteri comuni, ha fatto sì che emergessero situazioni abnormi. Un esempio è dato dalla Danimarca: qui, il Governo danese ha deciso di far rientrare la minoranza tedesca dello Jutland all’interno del quadro di tutela previsto dalla Carta, escludendo le minoranze delle Isole Faroer e della Groenlandia. In tal modo, il risultato ottenuto è la protezione della minoranza “forte”, a scapito di quelle politicamente più deboli. In Estonia, minoranze arrivate prima del 1991 ma che ancora non posseggono la cittadinanza estone, sono state escluse dai benefici della Carta, visto che uno dei requisiti per godere di essi è il possesso della cittadinanza dello stato in cui si risiede. Situazione non dissimile si è verificata anche in Germania. Il Parlamento, nella sua raccomandazione, e facendo leva sul fatto 54

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 55

che la Convenzione Quadro non citi il requisito della cittadinanza per proteggere minoranze nazionali – coerentemente con le indicazioni dell’ONU ma differentemente dalla Carta –, invita pertanto a scartare tale criterio dalle politiche di tutela dei gruppi minoritari, spingendo verso soluzioni decisamente più liberali e meno formalistiche. Infine, si solleva la questione delle questioni, che si è visto essere stata costantemente all’attenzione anche di altri organismi internazionali, fra cui le Nazioni Unite, ma sempre senza successo: “It is not at all evident that attempts to introduce group rights into international law will be productive for the better protection of minorities”. Proposta che, naturalmente, cadrà nel vuoto, anche se sarà destinata ad avere una certa eco in documenti posteriori. Il terzo commento del Comitato di esperti sull’attuazione della Convenzione Quadro, pubblicato nel 2012, riprende infatti l’annosa questione, insieme a molte altre, di estremo rilievo sia giuridico che filosofico e politico (COUNCIL OF EUROPE/ADVISORY COMMETTEE, 2012). In sintesi, si tratta delle osservazioni critiche che il Comitato di esperti del Consiglio d’Europa ha predisposto rispetto all’interpretazione ed all’applicazione della Convenzione Quadro, che cercheremo qui di riassumere per brevi punti: 1. Concetto di “equal opportunities” rispetto alla situazione delle minoranze nazionali (IDEM: 3). Al fine di realizzare tale meta, si ritiene che, nonostante si ammetta che la Convenzione protegga i diritti degli individui appartenenti alle minoranze, secondo una consolidata tradizione del diritto occidentale, sarebbe opportuno considerare il godimento di tali prerogative da un punto di vista collettivo, poiché queste possono essere godute esclusivamente in comune con altre persone; 2. Concetto di eccessiva discrezionalità nel determinare l’ambito di applicazione della tutela da parte degli Stati, i quali, in molti casi, tendono a restringere la protezione, a seconda delle convenienze politiche. Per questo il Comitato invita a adottare “clear criteria” per definire il numero minimo di residenti a partire da cui far scattare le misure di tutela per i gruppi linguistici minoritari (IDEM: 18). Per esempio, la Bosnia-Erzegovina dovrà cancellare la regola secondo cui è necessario almeno la metà della popola55

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 56

zione di un distretto per l’applicazione delle normative di protezione; 3. Concetto di estensione della tutela a non-cittadini: prendendo spunto da quanto indicato dalla Commissione di Venezia nel 2007 (NOTA), il Comitato suggerisce di estendere la tutela anche a non cittadini residenti, andando così contro la lettera della Carta; 4. Principio della “self-identification” rispetto a gruppi minoritari: tale principio è presente nella Convenzione (art. 3), tuttavia viene qui ribadito a causa della diffusione di pratiche che, in diversi Paesi firmatari, hanno portato al reclutamento “forzato” in gruppi minoritari di individui che non s’identificavano con tali gruppi, senza quindi rispettare il loro diritto di scelta in tal senso; 5. Concetto della “pubblicità dei diritti linguistici”: la lingua è uno strumento di comunicazione che deve trovare adeguato spazio all’interno della sfera pubblica, oltre che di quella privata. La Convenzione è chiara da questo punto di vista, tuttavia il Comitato segnala che “some states have established and implement punitive measures such as the imposition of fines or withdrawal of professional licences in order to impose the use of the official language” (COUNCIL OF EUROPE, ADVISORY COMMETTEE, 2012: 17). I due esempi citati si riferiscono alla Slovacchia e all’Estonia; 6. Concetto di “Affirmative Action”: anche se l’espressione non è usata esplicitamente, è piuttosto chiaro che il Comitato intende riferirsi ad essa quando segnala la necessità di superare “A purely passive approach on the part of the authorities” (IDEM: 23). Ciò deve trovare applicazione soprattutto e a partire dall’ambito scolastico, adattando il relativo materiale di studio (ad esempio nelle discipline storiche), ed enfatizzando che è opportuno lavorare più a fondo per l’integrazione dei Rom; 7. Infine, viene segnalato come “a federal structure, decentralisation and various system of autonomy can be beneficial to persons belonging to minorities” (IDEM: 28), riaprendo la questione rispetto all’assetto istituzionale di molti dei paesi europei, di antica e di recente formazione, arroccati in un ottuso centralismo. Tutte queste proposte, tuttavia, difficilmente potranno trovare accoglienza positiva se il Consiglio non riuscirà ad imporre con mag56

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 57

giore efficacia un vincolo giuridico più stringente agli Stati membri in materia di tutela delle minoranze linguistiche. “This provision – è stato rilevato – (…) says nothing about how it is to be implemented. Thus it is not absolutely necessary to pass national laws on minorities” (HEINTZE, 2000: 384). Ciò significa che, senza ridurre gli ampi margini di discrezionalità da parte degli Stati nazionali, difficilmente si potranno creare standard comuni europei in relazione a tale delicate questione. 2.2.3. La tutela delle minoranze nazionali nell’ottica dell’Unione Europea Se di “assenza”, a proposito di minoranze nazionali, è possibile parlare, l’Unione europea ne è la rappresentazione più eclatante. Ancor più di quanto accade per il Consiglio d’Europa, infatti, quella che viene considerata come la più compiuta istituzione sovranazionale del mondo è assai reticente rispetto al tema qui trattato. Nel corso di questo paragrafo si cercherà di segnalare i provvedimenti che sono stati presi nel corso degli anni, ma soprattutto la costante dialettica politica (e, in parte, giuridica) fra i suoi differenti orgsni interni, specialmente Parlamento e Commissione, con un ruolo significativo anche della Corte Europea di giustizia. Nel primo caso, vari deputati – soprattutto a partire dal momento in cui questa carica, dal 1979, è diventata elettiva – hanno proposto risoluzioni, raccomandazioni, interrogazioni alla Commissione, al fine di sollecitare quest’ultima a legiferare in modo specifico sulle minoranze linguistiche o regionali o minoritarie, assumendo una posizione che andasse al di là del semplice principio di “non discriminazione”. Di contro, la Commissione – anche attraverso interventi espliciti di suoi rappresentanti al Parlamento europeo – ha ribadito (e continua a farlo sino ad oggi) la sua impossibilità de iure nello spingersi troppo a fondo rispetto alle richieste sempre più pressanti dei vari parlamentari, avvalendosi di una sentenza della Corte Europea di Giustizia (di cui si dirà meglio più avanti) per corroborare una simile posizione chiaramente connotata da un punto di vista politico. Alla fine, è del tutto condivisibile il seguente giudizio: “Parallelamente all’obiettivo fallimento delle politiche linguistiche si registra una situazione non certo facile per le lingue minoritarie e la grande 57

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 58

forze culturale che conservano” (CUCCIARELLI/DE MATTEIS, 2008: 7). Il nodo è proprio quello: tali lingue (e culture), evidentemente contro-egemoniche e periferiche al contempo, rappresentano, agli occhi delle istituzioni comunitarie, più una ricchezza o un pericolo? Le posizioni, ovviamente, non sono univoche, ma il risultato fa propendere assai più per rispondere positivamente alla prima ipotesi piuttosto che alla seconda, visti i magri risultati e, soprattutto, la filosofia di fondo che continua a dominare la scena in merito alle politiche linguistiche dell’Unione Europea, di cui il dibattito parlamentare rappresenta uno specchio fedele. In seno a tale dibattito le dinamiche sono molteplici, più sottili ma non per questo meno significative: in primo luogo, si nota una certa differenziazione tra gruppi parlamentari di diversa ispirazione; così, se i partiti di sinistra (dai verdi al gruppo del PSE) sono molto spinti nel pressare la Commissione ad assumere un atteggiamento meno neutro, altri (Liberal-Democratici, PPE ed altri dell’area moderata) lo sono assai meno, confermando l’opzione della Commissione. Tuttavia, in seno a tali dinamiche, si inserisce un’ulteriore suddivisione, quella cioè di tipo “etnico”, ossia relativa alle appatenenze non tanto nazionali, quanto regionali. Nel senso che, se si tratta di deputati eletti in zone culturalmente e linguisticamente “minoritarie”, l’appartenzenza territoriale di solito prevale su quella politica, dando così luogo a incontri piuttosto improbabili tra esponenti di forze politiche di solito in contrasto, ma solidali, in questo caso, nella difesa dei diritti delle minoranze linguistiche europee. Il risultato finale è un dibattito per certi versi assai interessante e ben documentato, che va anche al di là degli schieramenti tradizionali, ma che, fino ad oggi, poco ha inciso rispetto alla concreta attività legiferativa della Commissione (e dello stesso Parlamento), la quale si è spesso limitata a pronunciamenti di principio o all’organizzazione di eventi anche importanti e dalla grande visibilità (come l’Anno europeo delle lingue, nel 2001), ma che in niente hanno intaccato la codificazione positiva dell’istituzione. Non esiste, pertanto, a livello della più significativa istituzione continentale, nessuno strumento giuridico per favorire la tutela e la promozione delle lingue e culture minoritarie, mentre anche le dotazioni di bilancio che, fino al 1998, avevano comunque alimentato interessanti attività di incentivo dell’uso delle lingue nazionali, con la 58

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 59

sentenza della Corte Europea di Giustizia del 12/05/1998 sono sparite e mai più reintegrate. Segnali evidenti che, ad oggi, la costruzione statalista dell’Unione europea è nettamente egemone, lasciando agli spazi regionali e locali uno spazio del tutto residuale, almeno per quel che riguarda la questione dei diritti delle minoranze linguistiche nazionali che, come si è ricordato nell’introduzione, riguardano direttamente circa 40 milioni di cittadini europei. Una breve rassegna dell’evoluzione storica rispetto al posizionamento dell’Unione europea (prima Comunità Economica Europea) verso la questione delle minoranze non può prescindere da una doppia osservazione: la prima è che l’attenzione e le pressioni, da parte del Parlamento, verso un maggiore impegno della Commissione in riferimento a tale tema ha subito una prima svolta all’inizio degli anni Ottanta, ossia immediatamente dopo la prima elezione democratica dell’organismo assembleare europeo, nel 1979. Grazie anche all’intraprendenza di deputati particolarmente attenti alla tutela delle minoranze nazionali (come il socialista italiano Arfè), tale questione ha cominciato a fare la sua comparsa in seno al dibattito di questo importante consesso, obbligando, in certo modo, anche tutti gli altri organismi comunitari a fare altrettanto. Si è trattato, in questa fase, di una enorme innovazione, culturale molto prima che giuridica o politica. Il secondo momento – comune con quanto detto sopra rispetto all’OSCE ed al Consiglio d’Europa – è stato il dramma nella ex-Jugoslavia, che ha fatto prendere coscienza anche ai paludati burocrati e politici europei che il problema esiste e che è urgente affrontarlo. Infine, le tappe del progressivo allargamento dellÚnione europea sono state anche’esse significative per riproporre tutte le preoccupazioni e l’attualità per tale tema, come dimostrano le svariate situazioni degli stati dell’Est che erano appartenuti al blocco sovietico, e che ospitano spesso da centinaia di anni minoranze linguistiche ormai patrimonio di quegli stati, ma talvolta ancora minacciate. Le repubbliche baltiche, ma anche la stessa Romania, l’Ungheria, la Slovacchia, la Bosnia-Erzegovina ed altri ancora, costituiscono esempi di un’Europa storicamente multiculturale, ma in cui le tendenze alla penalizzazione delle minoranze linguistiche in certi casi permangono ed, anzi, hanno fatto registrare nuove intolleranze negli ultimi anni. 59

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 60

Il Trattato istitutivo la CEE, ossia il Trattato di Roma del 1957, rappresenta la prima “carta” europea in cui i paesi del Benelux, più Francia, Germania e Italia danno origine alla prima organizzazione comunitaria di un certo peso (altri tentativi, come la CED – Comunità Europea di Difesa – c’erano già stati, all’inizio degli anni Cinquanta, ma senza questo respiro e, soprattutto, questo successo). Come è stato rilevato, si tratta di un accordo di carattere economico, teso all’integrazione dei mercati nazionali dei paesi firmatari, secondo una logica liberista, contraria a qualsiasi forma di protezionismo o di barriere di tipo doganale. La dimensione culturale e sociale, pertanto, è del tutto secondaria, ed il tema delle minoranze linguistiche si trova al di fuori della prospettiva dei costituenti europei. Soltanto un articolo, il 13, segnala l’impegno “a prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”. Niente di più che la ripetizione di principi universali, già al tempo riconosciuti – anche grazie alla Dichiarazione del 1948 votata dalle Nazioni Unite – sul panorama internazionale. È stato giustamente commentato che, a guardar bene, “la tutela delle minoranze si potrebbe prospettare anche come un ostacolo o un freno per gli scambi economici o per il mercato del lavoro” (QUERCIA, s.d.: 10), visto che l’assunzione di disposizioni ad hoc per le minoranze potrebbe, appunto, configurarsi come un’infrazione delle regole di mercato, ivi compreso del mercato del lavoro. Dal 1957 al 1981 è possibile affermare che non succeda niente, a livello della CEE, rispetto alla tutela delle minoranze. Occorrerà, infatti, aspettare i nuovi deputati europei, eletti democraticamente dai rispettivi popoli, affinché tale questione faccia la sua comparsa nel più importante organismo istituzionale continentale. L’iniziaziativa è di Gaetano Arfè, eletto tra le file dei socialisti italiani, che presenta due risoluzioni ormai “storiche”, una nel 1981 e l’altra nel 1983. I presupposti da cui queste iniziative prendono spunto introducono una visione innovativa all’interno del Parlamento europeo, visto che si ravvisa nella “rinascita delle lingue e culture regionali un segno di vitalità della civiltà e uno stimolo al suo arricchimento” (PE, RISOLUZIONE 16/10/1981). Lingue e culture regionali sono quindi 60

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 61

ascritte a patrimonio europeo comune, rispetto a cui le istituzioni comunitarie hanno il dovere di intervenire attivamente, pena la progressiva perdita di tale ricchezza. La Risoluzione prevede allora tre specifici ambiti di intervento: l’istruzione, mediante la promozione dell’“insegnamento delle lingue e culture regionali dei programmi ufficiali, dalla scuola materna fino all’Università”, con particolare attenzione alla scuola materna; i mezzi d’informazione, permettendo l’accesso alle televisioni locali; la vita pubblica ed i rapporti sociali, assegnando ai poteri locali responsabilità dirette da questo punto di vista e comunque assicurando ai membri delle minoranze linguistiche di potersi esprimere nella loro lingua madre nei rapporti con la pubblica amministrazione. Infine, si raccomanda che il Fondo regionale s’impegni a sostenere le culture regionali con specifiche dotazioni di bilancio. La “scossa” data da Arfé con la sua iniziativa comincia a sortire effetti immediati. L’anno seguente, il 1982, vede infatti il Parlamento europeo approvare una Risoluzione “of the multilingualism of the European Community”. Si tratta di una risoluzione in un certo senso ambigua, ma che dà l’idea delle resistenze presenti all’interno delle istituzioni comunitarie (anche quelle più democratiche, come il parlamento) in riferimento all’uso di lingue diverse rispetto a quelle ufficiali della CEE. Gli obiettivi della risoluzione sono due: da un lato, si fa professione di liberalità, ribadendo la parità assoluta delle lingue ufficiali all’interno del Parlamento europeo, sottolineando come tutti i parlamentari siano legittimati ad usare la propria lingua madre, senza discriminazione alcuna per nessuno di loro. Tale affermazione si basa sul principio secondo cui qualsiasi limitazione all’uso della lingua può costituire un’interferenza della vita democratica del Parlamento e, quindi, va rifiutata. D’altra parte – al fine di evitare imprevedibili “fughe” – si ribadisce con chiarezza che “the official languages and the working languages of the Community institutions are Danish, Dutch, English, French, German, Greek and Italian”, ossia le lingue degli stati che allora avevano aderito alla CEE. Nessuna apertura per altre lingue, tanto meno per quelle minoritarie che sio trovino all’interno degli stessi stati membri. Il concetto di eguaglianza linguistica assoluta, perciò, è valido all’interno della Comunità, ma esclusivamente per quel che concerne le lingue ufficiali di ogni Stato membro. 61

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 62

La spinta data da Arfè, tuttavia, si era già messa in moto. Una spinta “oggettiva”, frutto di sensisibilità concrete e di esigenze indemandabili, verso le quali l’assenza delle istituzioni comunitarie si faceva sentire sempre di più. Così, nel 1987, il deputato Willy Kuijpers presenta una nuova Risoluzione sulle lingue e le culture delle minoranze etniche e regionali, in cui emerge chiaramente, per la prima volta in documenti ufficiali, la divergenza tra Parlamento e Commissione in merito al tema in oggetto, facendo leva sulla precedente Risoluzione-Arfè, di fatto rimasta lettera morta (PE, RISOLUZIONE 30/10/1987). Nella premessa, al punto c, così si legge: “deplorando il fatto che la Commissione non ha finora presentato alcuna proposta volta all’esecuzione delle suddette risoluzioni in cui il problema delle minoranze etniche, linguistiche e culturali nella Comunità viene preso in esame in maniera globale”, e constatando che (punto d) “l’atteggiamento nei confronti di tali minoranze (…) è tuttora contrassegnato da ignoranza e incomprensione, nonché, in taluni caso, da discriminazione”, si chiede alla Commissione stessa di applicare immediatamente le due Risoluzioni-Arfè, di riconoscere, da parte di tutti gli Stati membri, le rispettive minoranze linguistiche nei loro ordinamenti giuridici, nonché di appoggiare il Consiglio d’Europa nella stesura della Carta Europea sulle Lingue regionali o mionoritarie, al tempo in via di elaborazione, mentre si propone che venga creato un apposito ufficio europeo per le lingue minoritarie, a cui dare uno statuto consultivo ufficiale, attribuendo 1 milione di ECU per tale questione nel bilancio del 1988, con specifici studi sulle varie lingue minoritarie. Nel frattempo, si apre la tragedia della ex-Jugoslavia, che trova impreparata l’istituziione comunitaria, così come le altre continentali di cui si è visto sopra. La CEE si trasforma, diventa, col Trattato di Maastricht, Unione Europea (per il momento a 12) ma, nonostante il rafforzamento della sua componente sociale generale, non vengono prodotti significativi sforzi (per lo meno palpabili da un punto di vista giuridico) in merito alla tutela delle minoranze, come dimostra la presentazione di un’ulteriore risoluzione, grosso modo dello stesso tenore di quelle citate in precedenza (PE, RISOLUZIONE 9/2/1994). Questa volta, il relatore, Mark Killila, irlandese del partito Fianna Fáil, ribadisce i principi delle precedenti risoluzioni, con 62

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 63

una serie di richiami alla Commissione, non ultimo quello relativo all’importanza della protezione delle lingue minoritarie in rapporto al processo generale di “pacificazione” continentale, invitando la Commissione a fare in modo che i suoi Stati membri legiferino in tal senso, aderiscano e sottoscrivano la Carta Europea per le lingue regionali o minoritarie, enfatizzando soprattutto l’importanza dell’uso di tali idiomi nei mezzi d’informazione e nelle nuove tecnologie. L’appello è esteso anche alle lingue non territoriali, quali rom, sinti e yiddish; per tutte la Commissione dovrebbe garantire appropriati stanziamenti di bilancio. Il tema della protezione delle lingue minoritarie si è ormai affermato, verso la metà degli anni Novanta, in tutti gli organismi comunitari. Come al solito, però, le risposte sono ambigue: grande apertura in termini generali, si potrebbe dire culturali, così come di tipo finanziario, ma nessun risultato quanto a concreti impegni legislativi. La stessa previsione dei criteri di Copenhagen (1993), importantissima dal punto di vista politico, che obbliga i paesi dell’Est in procinto di entrare nell’UE a rispettare tutti i diritti fondamentali dell’uomo, inclusi quelli delle loro minoranze nazionali, non ha effetti giuridici. Certo, l’orientamento politico si fa sempre più chiaro, ma il legislatore europeo non avanza nessuna nuova proposta concreta. Per questo, nel 1995, sempre dal Parlamento europeo, arriva una nuova Risoluzione, che in parte conferma ed in parte supera quella del 1982, sopra citata, circa il funzionamento delle lingue all’interno degli organi istituzionali comunitari (RESOLUTION 1995). Si sottolinea, infatti, che tutte le lingue ufficiali comunitarie hanno pari dignità nel consesso di tale istituzione (come era stato indicato già nel 1982), tuttavia si dà una nuova apertura verso i cittadini europei, i quali sono autorizzati a presentare le loro petizioni nella loro lingua madre, senza quindi specificare che si debba trattare di uno degli idiomi ufficiali degli Stati membri. Il triennio 1996-1998 sarà decisivo per quel che riguarda la definizione della politica comunitaria in relazione alla questione delle minoranze linguistiche. Vi sono tre eventi che segnano una svolta in tal senso: in primo luogo, la pubblicazione del Rapporto Euromosaic (ve ne saranno poi altri due, sui nuovi paesi aderenti), che fornisce, per la prima volta in modo chiaro e coerente, un quadro su tale fenomeno; il 63

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 64

Trattato di Amsteram nel 1997; le Sentenze c-106/96 del 12/05/1998 e del 24/11/1998 da parte della Corte Europea di giustizia. Il Rapporto Euromosaic (EUROPEAN COMMISSION, 1996) contiene una forte componente analitica e fin’anco ideologica rispetto al concetto, al trattamento ed ai problemi aperti delle minoranze nell’economia globale ed in quella europea in particolare. Per la prima volta, infatti, a livello di istituzioni europee centrali, si riconosce il ruolo “mutilante” degli Stati naziionali in riferimento alle loro minoranze, le quali, quindi, hanno assunto una posizione marginale e marginalizzata nei processi economici continentali, di cui l’uso linguistico è soltanto il più evidente dei simboli. Per esprimere tale concetto si usa l’espressione “intra-state homogeneity” (IDEM: II), facendo risalire tale processo addirittura all’Illuminismo francese. In quest’epoca si realizza il legame fra “the languages of reasons” da parter degli idiomi “moderni” e, quindi, dominanti, e gli altri, che “lay outside of reason” (IDEM: 3). Un simile discorso, che ha portato alla divisione fra lingue “moderne” e “tradizionali” “has had a devasting effect upon many language groups, and continues to be effective” (IDEM: 4). La produzione e riproduzione delle lingue, perciò, è fortemente orientata dall’ordine economico, e la politica comunitaria, sino a questo momento, non ha fatto altro che riprodurre il discorso dominante. Il monito che emerge dallo studio è dunque chiaro: valorizzare le lingue regionali significa dare un contributo significativo per rivalorizzare le economie locali, spezzando la catena di globalizzazione/sottomissione di tali aree in atto anche in Europa. Tali indicazioni, però, restano quasi lettera morta. Nel 1997, infatti, viene firmato il Trattato di Amsterdam (entrato in vigore nel 1999), con un’Unione Europea ormai a 15 Stati membri. Nel nuovo Trattato vengono ribaditi ed ampliati i principi di non discriminazione e di eguaglianza, della tutela dei diritti umani e sociali, così come sanciti dalla Carta sociale europea del 1961 e dalla Carta comunitaria dei diritti fondamentali dei lavoratori del 1989. La Corte Europea di giustizia adesso è pienamente competente rispetto a gravi violazioni di diritti umani all’interno degli Stati membri, e tuttavia delle minoranze linguistiche non si fa alcun cenno, se non, appunto (art. 12 e 13) in “negativo”, ossia vietando ogni forma di discriminazione anche in base alla nazionalità. 64

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 65

Il principio di non discriminazione cela quindi un’assenza, chiarita dallo studio Euromosaic, e che la politica comunitaria aveva cercato di mascherare, nel corso degli ultimi vent’anni, assicurando finanziamenti anche significativi alle proprie minoranze nazionali, seppure in assenza di un loro riconoscimento formale e, quindi, di una solida base legale. Tale ambiguità termina nel 1998, quando la Corte Europea di giustizia è chiamata a pronunciarsi su un ricorso sollevato dalla Gran Bretagna (coadiuvata da diversi altri paesi, fra cui la Germania) contro la Commissione, in merito al finanziamento dei fondi a valere sulla voce di bilancio B3-4103, recante stanziamenti per la lotta contro la povertà e l’esclusione sociale, a cui i vari Stati membri avevano abbondantemente attinto per incentivare iniziative in questo ambito in favore di persone appartenenti alle minoranze linguistiche. La Corte non ha esitazioni nel cancellare tale voce di bilancio, evidenziando una questione dirimente: ossia, che la Commissione non aveva competenze per erogare tali somme, appellandosi proprio al nuovo Trattato. In esso si chiarisce che tutte le azioni comunitarie significative (fra cui quelle del ricorso in oggetto) devono presupporre l’iscrizione a bilancio, ma anche la previa adozione di un atto di base che autorizzi la spesa, di competenza dell’autorità legislativa e distinto da quello di bilancio. Visto che la Commissione non è stata in grado di dimostrare che, nella fattispecie, non si trattava di un’azione non significativa, dovevano essere seguiti tutti i requisiti necessari che, nel caso di specie, mancavano. Conclusione: la voce di bilancio B3-4103 viene cancellata, salvando l’anno in corso poiché gran parte dei fondi era già stata erogata al momento del pronunziamento della sentenza da parte della Corte. L’altra sentenza – apparentemente in contraddizione con quella appena citata, in reltà assai coerente con essa – riguarda due cittadini non italiani di lingua tedesca che vengono fermati dalla polizia in Trentino-Alto Adige, il primo (Bickel) per guida del proprio camion in stato di ubriachezza, il secondo (Franz) per possesso illecito di un pugnale. I due, che non comprendono la lingua italiana, vogliono che i loro processi si svolgano in tedesco, appellandosi al fatto che, in Alto Adige, dove i fatti sono avvenuti, vige il bilinguismo. La Corte Europea, chiamata a pronunciarsi sul caso da parte del Pretore di Bolzano, 65

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 66

sostiene la correttezza della richiesta, estendendo quindi la protezione spettante alle minoranza germanofona altoatesina verso altri cittadini dell’UE, secondo il principio di parità di trattamento (art. 12 del Trattato CE) e di libera circolazione all’interno del territorio comunitario (TRABUCCO, 2008). In questo modo, la Corte si sostituisce, in parte, all’assente legislatore, dal momento che lascia intendere che non vi possano essere tratamenti specifici e privilegiati, in sede comunitaria, sulla base dell’appartenenza a minoranze nazionali, non essendovi base legale per questo, ma riconosce che i singoli Stati e gli stessi principi generali comunitari (come quelli di Copenhagen) incentivano la protezione di tali minoranze e, pertanto, l’estensione delle migliori condizioni per il loro trattamento anche ad altri cittadini europei è da ritenersi legittima. Al di là delle polemiche che tale sentenza susciterà (insieme ad un’altra simile, del 2000), la Corte apre un quadro nuovo: toglie qualsiasi genere di ambiguità alle politiche comunitarie in questo ambito, segnalando l’assenza di una base giuridica, ma permettendo agli Stati membri di legiferare, ove lo ritengano opportuno, in favore delle minoranze, in base al principio di non discriminazione delle stesse e, quindi, alla necessità di un trattamento eguale rispetto alla maggioranza. In risposta (come vedremo fra poco), la Commissione decide di trincerarsi dietro un comodo agnosticismo politico, giustificandolo con motivi di ordine giuridico, ed ignorando il fatto che, comunque, sarebbe sempre possibile profilare una nuova base legale per modificare un quadro in apparenza cristallizzato. Ma niente di tutto questo avviene. Certo, i pronunciamenti continuano a fioccare: per esempio, nella Carta di Nizza del 2000 (anche se non vincolante), è ribadito un concetto chiaro di minoranza, nell’art. 2 del Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre del 2007 – che riprende tale concetto – si fa riferimento generico al rispetto dei diritti umani anche “delle persone appartenenti ad una minoranza”, ma senza specificazioni ulteriori rispetto a quelle linguistiche (TONIATTI, 2002), si organizza un evento di portata continentale, destinando il 2001 alle lingue (anche minoritarie). Tuttavia, l’orientamento politico comunitario non cambia di molto. Anzi, si irrigidisce ulteriormente, lasciando ormai scarse speranze per quanti riten66

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 67

gano che debba invece esserci una normativa ad hoc, oltre il principio di non discriminazione di carattere essenzialmente individuale, per proteggere e tutelare i gruppi linguistici minoritari. Gli anni Duemila si aprono, ancora una volta, sotto tale matrice culturale. Il 7 novembre viene approvata la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea che, all’art. 21, reca le norme di non discriminazione di carattere generale. Fra queste, è citata anche l’appartenenza etnica, quella su base nazionale relativa alle minoranze e quella linguistica. Il pluralismo (art. 22) è accettato come principio basilare dell’UE. Nonostante le citate sentenze della Corte Europea di giustizia, tuttavia, questo continuo spingersi verso un’Europa “plurale” – di per sé positivo – da parte del legislatore comunitario, entra in conflitto col principio di non discriminazione, che resta l’asse centrale delle politiche di integrazione dell’istituzione. Insomma, le minoranze regionali o linguistiche mai assumeranno un profilo specifico, dal punto di vista legislativo, ma saranno ancora inglobate all’interno di principi generali e diretti alla tutela individuale. Questo è il motivo che indurrà diversi deputati a cercare nuovamente di smuovere le acque nel senso contrario, anche se senza successo. Nel 2001 i deputati socialisti Barbara O’Toole e Eluned Morgan presentano una Proposta di risoluzione sulle lingue minoritarie (PE, 11/12/2001). La premessa da cui parte tale iniziativa è eloquente: i proponenti si dichiarano “delusi per la mancanza di interesse da parte del Consiglio per i 40 miliioni di cittadini – che rappresentano circa 60 gruppi linguistici nell’Unione europea – che parlano lingue regionali o minoritarie”, sollevando una questione ormai dirimente, quella relativa al blocco degli stanziamenti per le minoranze regionali, conseguenza della sentenza C-106/96 della Corte Europea di giustizia. Così dichiarano, al punto G della premessa: “deplora” che la sentenza menzionata abbia bloccato i finanziamenti di bilancio relativi alle lingue minoritarie, che esisteva da circa 20 anni, chiedendo “che venga creata una base giuridica diretta per l’uso delle lingue regionali o minoritarie”, al fine di dare stabilità sia legale che finanziaria alla valorizzazione delle lingue e culture minoritarie. Due anni dopo, il deputato popolare Michl Ebner, nella sua qualità di relatore nominato dalla Commissione per la cultura, la gio67

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 68

ventù, l’istruzione, i mezzi d’informazione e lo sport, presenta una “Relazione contenente raccomandazioni alla Commissione sulle lingue europee regionali e meno diffuse – le lingue delle minoranze nell’UE – in considerazione dell’allargamento e della pluralità culturale (PE, 2003/2057). Il punto di partenza è ancora lo stesso: “considerando che attualmente a livello dell’UE non esistono disposizioni giuridiche sulle lingue europee meno diffuse e regionali”, invita la Commissione a presentare al Parlamento una proposta di legge in tal senso, considerando il principio di sussidiarietà e, quindi, attribuendo maggiori poteri, in materia, alle istituzioni locali e regionali. Infine, si richiede che venga varata un’Agenzia europea sulla diversità linguistica e l’apprendimento delle lingue. Ma è soprattutto all’inizio del 2009 che la discussione in merito alla politica europea sulle minoranze linguistiche assume contorni di accesa polemica politica. Sia in termini di schieramenti differenti che di dialettica Parlamento-Commissione che, infine, per quanto riguarda alcune dei gruppi minoritari che dovrebbero essere oggetto della specifica tutela legislativa. In realtà, si tratta di un nuovo insuccesso, ossia di una semplice discussione in merito alla protezione delle minoranze in Europa, che avrebbe dovuto sfociare in una risoluzione comune dei vari gruppi, ma che resterà lettera morta, lasciando agli atti esclusivamente un significativo dibattito di tipo politico (PE, 03/02/2009). L’interrogazione che fa scaturire la discussione è presentata dal socialista ungherese Csaba Sándor Tabajdi, il quale lancia un preoccupato grido di allarme: “le lingue e i gruppi minoritari rischiano l’estinzione e l’assimilazione”. Tabajdi, pertanto, chiede un intervento più deciso ed incisivo da parte della Commissione, promuovendo forme di autogoverno basati su sani rapporti fra maggiornanza e minoranze, aiutando i membri di queste ultime ad integrarsi all’interno dello Stato di residenza. Gli interventi che si succedono mostrano sconforto, rabbia, così come estrema tranquillità. Tutti coloro che intervengono e che appartengono a formazioni di sinistra, dai socialisti ai verdi ad altri gruppi minori, segnalano la necessità di uscire dal “legalismo” della Commissione, per affrontare seriamente la questione delle minoranze linguistiche regionali, fornendo una base solida da un punto di vista giuridico. Ad esempio, lo spagnolo 68

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 69

(di origine basca) Mikel Irujo Amezaga, dei Verts-ALE, classifica il tema delle minoranze come “sfida”, disapprovando lídea della Commissione – rappresentata per l’occasione dal Vice-Presidente francese, Jacques Barrot –, che si trinccera dietro il formalismo dell’assenza di copertura giuridica per la tutela delle minoranze. Sempre per lo stesso gruppo, l’ungherese Lázlo Tökés ritiene inaccettabile che l’UE lasci campo libero agli Stati sulla materia delle minoranze nazionali. Sullo stesso tenore sono gli interventi del gruppo socialista, mentre è interessante notare la posizione dei partiti moderati. Il francese Patrick Louis, del gruppo IND/DEM, ritiene “giusto e opportuno difendere i diritti di un singolo membro di una minoranza, ma sarebbe pericoloso – conclude eloquentemente – legiferare a proposito dei diritti delle minoranze naziionali come se fossero comunità a tutti gli effetti”. Egli pensa infatti che tale approccio “deve essere respinto, perché distruggerà inevitabilmente la coesione di molte nazioni europee”. Lo stato di diritto, pertanto, può essere applicato esclusivamente agli Stati nazionali, concludendo, a proposito di quelle minoranze che no si trovano perfettamente a loro agio nel paese di residenza: “O si ama il paese che ci accoglie oppure lo si lascia”. Una simile posizione è sintomatica delle differenti ideologie che animano il dibattito all’interno del Parlamento europeo e, in generale, dell’UE. E certo sarà difficile, se non impossibile, che esse trovino un accordo su una questione tanto sensibile come quella qui trattata. Il gruppo del PPE ha una posizione intermedia fra quella delle sinistre e quella che abbiamo appena citato, con significative difformità al suo interno. Probabilmente, la linea maggioritaria è dettata dalle parole del romeno Marian-Jean Marinescu, secondo il quale “la tutela delle minoranze non deve portare a eccessi come l’introduzione di diritti collettivi e la promozione di autonomia e autodeterminazione anche territoriali”. Ancora una volta, lo “spettro” che si paventa è la frantumazione dello Stato nazionale, unito al principio di eguaglianza per tutti gli individui (“Tutti i cittadini devono essere trattati allo stesso modo”); né è necessario – conclude Marinescu – che l’UE si spinga ad adottare tutti i provvedimenti del Consiglio d’Europa, ritenuti, evidentemente, eccessivamente favorevoli alla minoranza, la quale “non merita una considerazione a parte”. Posizioni simili sono espresse da altri due romeni del Gruppo Popolare, 69

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 70

Rare?-Lucian Niculescu e Nicodim Bulzesc. Il primo afferma che “Non credo che l’Unione europea abbia bisogno di una politica comune per le minoranze”; il secondo va anche oltre, sostenendo che “le minoranze stanno facendo molto rumore perché non dispongono di argomentazioni a sostegno di tutti quei diritti che rivendicano”. E conclude: “Le normative dell’Unione europea non possono tutelare solo le minoranze a discapito delle comunità nazionali in virtù di una discriminazione positiva”. Questo allineamento totale rispetto al principio di non discriminazione, a cui va aggiunta una evidente insensibilità rispetto allo specifico tema della protezion e delle minoranze, non trova concordi altri due esponenti del PPE, l’ungherese Edit Bauer e l’italiano (di origini alto-atesine) Ebner. I due ritengono che, al contrario di quanto sostenuto dai loro colleghi, debba esserci una tutela specifica per le minoranze, magari mediante il principio di sussidiarietà. Per questo Bauer interpella la Commissione se non sia possibile trovare proprio nell’applicazione della sussidiarietà quella soluzione giuridica ancora assente nella legislazione comunitaria. D’altra parte, Ebner conclude che il semplice criterio della non discriminazione “è troppo poco, perché noi dobbiamo arrivare a una parità di diritto”. Si assiste, poi, anche a rivendicazioni specifiche e attacchi personali, come è il caso diel deputato slovacco Sergei Kozlín, del Gruppo NI, che accusa il relatore del fatto che le minoranze slovacche in Ungheria siano state “quasi completamente eliminate negli ultimi decenni”, ed allargando la protesta al fatto che il Parlamento Europeo non presti nessuna attenzione alle minoranze slovacca, tedesca e serba in Ungheria, mostrando un chiaro intento polemico di stampo nazionalista contro Budapest. In ogni caso, e al di là di posizioni “etniche”, pure sintomatiche di un clima ancora incandescente in certe parti d’Europa, è la confusione nelle posizioni del gruppo parlamentare maggiormente rappresentativo, il PPE, a far sì che la questione di una apposita tutela per le minoranze cada nel vuoto ancora una volta, dando la possibilità al Vice-Commissario Barrot di ribadire quanto già noto, anche se usando un linguaggio certamente meno violento rispetto a quello di alcuni parlamentari appena citati: se è vero, egli afferma, che il principio della tutela delle minoranze costituisce una delle condizioni per 70

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 71

l’entrata nell’UE dei nuovi paesi candidati, è anche vero che “l’Unione europea non dispone di poteri generali nell’ambito ddella tutela dei diritti delle minoranze. Spetta alle autorità nazionali garantire la loro tutela”. E ricorda, concludendo, che “l’Unione europea è oggi una federazione di Stati nazionali, il che significa che per noi è difficile andare oltre”. E, di fatto, l’Unione Europea non è “andata oltre”: quel che è certo è che l’appiglio legale fondato sulla sentenza della Corte Europea non costituisce il principale ostacolo, come Barrot vorrebbe far credere. Perfino il Report, commissionato dalla Commissione Europea, e pubblicato nel 2002, conferma che “there is no fundamental legal problem or quandary about the establishment of a legal base that would include supporto of RMLs among its objectives”, cosicché la decisione in merito sarebbe “of a political rather than legal character” (EBLUL/ECMI, 2002: 41-42). Ciò che impedisce che l’UE legiferi su tale materia è il chiaro rifiuto in questo senso da parte delle forze moderate, assai più preoccupate di proteggere le entità statuali in quanto tali (ed i loro cittadini, singolarmente intesi e tutti alla stessa maniera) che non le minoranze, ancora oggi – almeno in certi territori – scarsamente protette, come ricorda l’ennesima interrogazione (con richiesta di risposta scritta) rivolta alla Commissione da parte di Monika Fla?iková Be?ová (Gruppo S & D), in cui si segnala come “i casi di discriminazione sono in continuo aumento. Gli attacchi discriminatori sono rivolti contro i singoli, i gruppi e perfino intere identità culturali” (PE, 03/01/2012), e si chiede alla Commissione che cosa intenda fare per limitare tali fenomeni. La quale, poco più di un mese dopo (PE, 16/02/2012), per bocca di Mrs. Reding, ribadisce che l’art. 2 del Trattato proibisce qualsiasi forma di discriminazione e xenofobia (compresa quella contro i Rom) e niente più. La questione delle minoranze, all’interno delle istituzioni comunitarie, è quindi ancora oggi oggetto di profonde riflessioni e discussioni, e rivela come l’impianto centrale dell’Unione Europea continui ad essere lo Stato nazionale, il quale vede i gruppi linguistici regionali come una minaccia. Il principio della non discriminazione, di carattere generale, può perciò bastare, rappresentando esso un apparente punto di equilibrio fra istanze “protezioniste” e regionaliste provenienti soprattutto dalla sinistra europea, e timori di stampo 71

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 72

nazionalista, di matrice centrista e dei gruppi politici più chiaramente orientati a destra. Quel che è certo è che ci troviamo davanti, ancora una volta e, nel caso dell’UE in modo plateale, ad una grave e colpevole assenza, che rischia di far riprodurre pericolosi meccanismi purtroppo già noti nel panorama continentale. Come qualcuno ha scritto, “the existence of minority is independent on the decision of the state, on the contrary it is a matter of fact based on the objective existence of a minority (POSPÍ?IL, 2006: 3). Volere vedere o meno tale realtà è una scelta politica, assai prima che giuridica.

4. La vicenda delle minoranze linguistiche in Italia La storia delle minoranze linguistiche italiane è piuttosto curiosa: da un lato, l’Italia è sempre stata – almeno dal Medioevo al XIX secolo – un’entità del tutto astratta, composita e senza alcun fondamento politico, nonché culturalmente frammentata ed eterogenea. A parte qualche isolato anche se prestigioso caso letterario (Dante, Boccaccio, Petrarca, fra gli altri), l’italiano – come idioma popolare ed universalmente compreso nelle varie regioni della penisola – non trova espressione se non nel secolo scorso, con la nazionalizzazione delle masse, operata prima dal fascismo e, poi, dalla scuola pubblica e dalla televisione pubblica. D’altra parte, però, sin dal Risorgimento, è venuta creandosi una sorta di “mito” dell’unità culturale, politica ed anche linguistica degli “italiani” – peraltro sancita, ad esempio, dal principio ius sanguinis della legge sulla cittadinanza (BUSSOTTI, 2002) e smentita da approfonditi studi già nel XIX secolo (ASCOLI, 2008) –, che ha pervaso la pubblicistica così come il mondo politico, facendo dimenticare quasi del tutto la questione delle “minoranze” storicamente presenti sul territorio nazionale e che, anzi, sono divenute tali a causa del processo di unificazione e, successivamente, in ragione delle varie annessioni territoriali di cui, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, l’Italia ha potuto beneficiare in quanto potenza vincitrice. Come noto, la prima (ed unica) legge organica in materia di tutela delle minoranze linguistiche è stata approvata nel 1999, nonostante l’art. 3 e, soprattutto, l’art. 6 della Costituzione prevedessero espli72

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 73

citamente una protezione in tal senso. Per più di cinquant’anni, quindi, gli stessi principi costituzionali sono rimasti lettera morta, fra un’indifferenza abbastanza generalizzata e pochissime voci di dissenso, esigendo l’applicazione di alcuni dei principi fondamentali della Magna Carta italiana. Obiettivo di questa parte, pertanto, non è affrontare il tema dei diritti delle minoranze in Italia dal punto di vista giuridico, su cui ormai molto è stato scritto (PIZZORUSSO, ; BARTOLE, ), bensì cercare di capire quali siano stati i meccanismi che hanno consentito di “dimenticare” un tema tanto rilevante per così lunghi anni, sino a farlo diventare non soltanto marginale, ma addirittura “pericoloso” rispetto al dibattito politico e culturale in atto. E, al contempo, comprendere perché, all’interno delle “minoranze”, ve ne sono state alcune comunque tutelate (germanofoni del Sud Tirolo, Sloveni della Venezia-Giulia, francofoni della Val d’Aosta), ed altre completamente abbandonate a se stesse, fino all’approvazione della legge 482/1999. La tesi di fondo che si cercherà di dimostrare è la seguente: tale fenomeno si deve a due circostanze storiche. Da un lato, a un motivo che potrebbe essere genericamente definito “etnocentrico-nazionalista”: nel periodo risorgimentale, liberale e fascista, a causa dell’enfasi posta sulla necessità di unificazione nazionale, qualsiasi forma di “eccezione” in tal senso risultava invisa, soprattutto se di tipo linguistico-culturale; dall’altro, a una ragione “politica”, specifica del contesto italiano: ancora durante il fascismo e per reazione ad esso, le minoranze linguistiche, specialmente quelle slovene del Friuli Venezia-Giulia, si sono legate al Partito Comunista, fatto che ha ovviamente reso più difficile la loro accettazione da parte delle autorità al potere, ma che le ha al contrario favorite nel dopoguerra, visto l’appoggio della seconda forza politica italiana. Una simile “simpatia” è durata molto a lungo, anche dopo la caduta del fascismo, e soltanto verso la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta tale “monopolio” si è rotto, anche se restando ancorato a sinistra, grazie all’azione di alcuni autorevoli membri del Partito Socialista, quali Loris Fortuna e Gaetano Arfè, che si sono impegnati in prima persona per la tutela dei diritti delle minoranze, sia sul piano nazionale che, come si è visto sopra, su quello europeo. Questa opzione politi73

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 74

ca ha comunque permesso a tali minoranze di avere una legge ad hoc (nel 1961 e, poi, nel 2001), lasciando le altre in posizione ancora marginale. Al fine di dare un quadro soddisfacente da questo punto di vista, si esamineranno essenzialmente le questioni legate al dibattito pubblico, politico e giornalistico dall’età post-risorgimentale ad oggi, con particolare attenzione all’epoca fascista ed a quella immediatamente successiva all’instaurazione del regime democratico repubblicano, visto che questi sono i momenti decisivi per l’affermazione di un concetto “escludente” di “italianità”, in detrimento delle minoranze linguistiche nazionali. a. “Una nazione”, nessuna minoranza: l’inizio dell’oblio L’inizio dell’“oblio” è, in realtà, un qualcosa di più violento ed aggressivo: si tratta della formazione di un’idea “etnica” di nazione, che ha i suoi addentellati sia nel pensiero democratico che in quello moderato risorgimentale, e che entra a pieno titolo in azione al momento dell’unità nazionale. Sono due gli elementi che contribuiscono a rendere assai complesso il riconoscimento e la valorizzazione delle minoranze linguistiche nella nuova Italia: innanzitutto, il tentativo di unificare ciò che, per secoli, è rimasto reciprocamente estraneo, da ogni punto di vista, ossia genti di regioni distanti e che niente avevano in comune; in secondo luogo, l’eredità dello Stato francese e napoleonico, che tanta influenza aveva avuto, soprattutto nelle regioni del Nord, protagoniste del moto di unificazione nazionale. All’inizio del secolo XIX gli italofoni sono una esigua minoranza degli abitanti della penisola: dal 2,5 al 9,5%. Le basi per un discorso unitario, quindi, appaiono “incredibilmente fragili” (BANTI, 2011: 7). Tuttavia, in circa cinquant’anni, l’ideale si diffonde e si afferma, popolarizzandosi al di là di ogni più rosea aspettativa, principalmente nelle città. La nazione diventa una “comunità di discendenza”, di sangue, insomma, si trasforma in un’entità “biopolitica”, con contributi estremamente vari da parte di politici ed intellettuali: Mazzini rappresenta sicuramente una pietra miliare in questo senso, la cui influenza durerà ben oltre il periodo risorgimentale. Arcangelo Ghi74

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 75

sleri, ancora nel 1923, a proposito della partecipazione italiana alla Società delle Nazioni, fa un panegirico del pensiero mazziniano, ricordando che la nazione “è un’anima, un principio spirituale (…), un fatto di solidarietà” (GHISLERI, 1923: 10). La nazione – proseguendo sulla falsariga mazziniana, che egli contrappone al pensiero di Renan – ha come base una profonda coscienza, ed essa è un “tutto organico” (IDEM: 11). Ma non vi è soltanto Mazzini: il Manzoni di Marzo 1821 interpreta l’Italia come unità di lingua religione e sangue, mentre diverse figure del Risorgimento – a partire da Garibaldi – sono raffigurate come “santi”, pervadendo il concetto di nazione di una sacralità di tipo religioso, anche grazie all’opera di Pio IX (BANTI, 2011: 15). Nel 1835 viene elaborato, da parte di Luigi Musso, un “Progetto di costituzione per l’Italia fatta libera e indipendente”, al cui articolo 1 si legge: “Tutti i Popoli d’Italia (…) parlanti la stessa lingua formano a perpetuità una NAZIONE SOLA, e si costituiscono in Repubblica democratica una e indivisibile” (SALVI, 1975: 66-67). Il nesso lingua-territorio è così forte che si rinuncia senza troppi problemi alla Savoia, in quanto a prevalenza francese. Tale nesso viene ribadito in ambito moderato, sia da posizioni neo-guelfe (Gioberti) che laiche. Cavour, al momento dell’insediamento del governo italiano indipendente (11/03/1861), descrive la nazione italiana come “nobile”, dalla comune discendenza, naturalmente unita e unica. Nello stesso anno esce un opuscolo (che troverà diretta anche se breve applicazione), il cui autore ritiene necessario abrogare il francese come lingua ufficiale in alcune valli in provincia di Torino (VEGETTI RUSCALLA, 1861). Questi ideali sono ripresi e fomentati dalla pubblicistica e dalla letteratura dell’epoca e da quella appena successiva: il De Amicis di Cuore insiste sul fatto che “gli stranieri sono presenze ostili” (BANTI, 2011: 76); due fra i più illustri linguisti della metà dell’Ottocento, Carlo Salvioni e Carlo Battisti, sono acerrimi difensori di una posizione “paleo-nazionalista”, proponendo l’idea di una lingua italiana primitiva. Insomma, con lo Stato liberale, l’inizio del processo di “italianizzazione” prende avvio con decisione. Nessuna minoranza è tutelata, salvo quella francese valdostana, e tuttavia la colonizzazione linguistica stenta a decollare per assenza di quadri italofoni adeguatamente formati. Nel 1864 sol75

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 76

tanto il 30% dei maschi e il 18% delle femmine frequentano la scuola elementare, l’8,9% quella post-elementare e, nel 1871, gli analfabeti sono ancora il 73% (SALVI, 1975: 64-65). Il servizio militare obbligatorio rappresenta, invece, un’arma preziosa per una simile politica di assimilazione. È quindi con un tale apparato che il paese giunge alla prima guerra mondiale. La Grande Guerra non è importante per quel che riguarda la vicenda delle minoranze in sé, quanto per il fatto che si rafforza ulteriormente lo spirito nazionalista italiano, e soprattutto perché varie terre di confine vengono annesse all’Italia, potenza vincitrice, fra cui l’Alto Adige (o Sud Tirolo), l’Istria, con croati e romeni, nonché il Goriziano ed il Triestino, con la minoranza slovena. La durezza dell’esperienza bellica fa diffondere un “furente sentimento di sdegno e odio per lo straniero”, con le Alpi come confine invalicabile (BANTI, 2011: 104) e con la ferma idea di evitare qualsiasi “mescolanza” anche in termini di matrimoni. Soprattutto Mussolini spinge, sul “Popolo d’Italia”, verso la demonizzazione anche “sessuale” dello straniero, qualificato come “barbaro” e tipicamente aggressore delle donne italiane. La delusione dei reduci, come si sa, porterà il fascismo a diventare fenomeno di massa, diffondendo, anche grazie all’impresa dannunziana e a tutta la retorica che ruota intorno ad essa, gli ideali di un nazionalismo aggressivo e xenofobo, che non lascia scampo alcuno alle minoranze alloglotte. Ancora Benito Mussolini, nel 1920, chiarisce alla perfezione il concetto di “nazione”: “La comunità nazionale è una comunità di discendenza in possesso di un proprio territorio e perfettamente distinta da altri gruppi etnici” (MUSSOLINI, 1920). Se questo può essere ascritto a principio generale, più nel particolare l’Italia ha caratteristiche assolutamente specifiche, ossia di compattezza che raramente si trovano nel novero delle nazioni moderne: “Fra tutte le nazioni del mondo l’Italia è quella che è più ‘nettamente’ individuata, da tutti i punti di vista (…). All’interno, i gruppi ‘allogeni’ sono piccolissimi e sono stati assimilati. Anche annettendo tutta la Dalmazia (…), la massa di allogeni che sarà inclusa è infinitamente minore – in assoluto e in relativo – alle masse di ‘allogeni’ inglobate in tutti gli altri Stati europei” (IDEM). 76

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 77

Si fa strada, poco prima dell’avvento del fascismo al potere, l’idea che l’Italia sia una nazione, oltre che “una” per motivi di sangue, anche compatta dal punto di vista “etnico”. Ancora Ghisleri, nel 1923, ribadisce infatti che “Se v’e Nazione, i cui caratteri etnici di lingua, di cultura, di storia, di tradizione presentino la maggiore e la più indiscussa omogeneità, questa è l’Italia” (GHISLERI, 1923: 28). Negli stessi anni ha inizio, grazie al primo fascismo, “un processo di italianizzazione selvaggia della provincia di Bolzano”, che certamente rappresentava il maggiore problema in riferimento alla questione delle minoranze (BALLONE, 1988: 111). In parallelo, viene compiuta una “assurda operazione linguistica”, il cui protagonista è il senatore Tolomei (1926): tutti i nomi tedeschi vengono italianizzati, compresi quelli ladini, che la burocrazia italiana non riusciva a distinguere da quelli di origine germanica (IDEM: 111). Lo stesso accade in Valle d’Aosta, dove tutta la toponomastica viene italianizzata. Il fascismo, a differenza di quanto era avvenuto nel periodo liberale, ha però i mezzi e l’organizzazione per procedere ad una rapida snazionalizzazione delle masse: l’idea centrale è che tutti parlino l’italiano. Nel 1922 viene approvata la Legge nr. 1601, sotto il Ministro Gentile ma ideata da Lombardo Radice. Essa conteneva alcuni elementi fortemente innovativi, in termini di pedagogia linguistica: il motto era “dal dialetto alla lingua”, permettendo così a tutti di “entrare” nell’italiano (ché quello era comunque l’obiettivo), ma dal canale del dialetto. Se è vero, infatti, che il fine era “la distruzione dei dialetti” (SALVI, 1975: 71), è però necessario sottolineare che il dialetto, comunque, entrava per la prima volta nella scuola, sia pure in funzione subordinata e, se si vuole, strumentale. Tuttavia, questo “errore” viene presto rimediato dal fascismo che, nel 1925, promulga il DL nr. 2191, in cui si ordina la soppressione dell’insegnamento di tutte le lingue minoritarie nel territorio nazionale. Non a caso, “l’ottusità e la crudeltà fasciste si accaniscono soprattutto sui valdostani, i sud-tirolesi, gli sloveni e i croati, che hanno una coscienza etnica assai sviluppata” (IDEM: 72). L’operazione viene compiuta sia con la repressione che con l’immissione in massa di funzionari italofoni in quei territori, in modo da aumentare le possibilità di successo. Movimenti culturali collaterali al fascismo non mancano di dare il loro contributo. Il teorico probabilmente più conseguente del nazio77

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 78

nalismo italiano, Enrico Corradini, fonda con Prezzolini, Papini e Pareto la rivista “Il Regno”, concependo la nazione italiana come entità sia razziale che storica (CORRADINI, 1922), mentre Luca dei Sabelli, come ricordato di recente (SLUGA, 2003), ritiene che non vi sia alcuna questione relativa alle minoranze nazionali in Italia, poiché tali problemi esisterebbero soltanto se il processo di assimilazione non dovesse avere successo (SABELLI, 1929). Anche la pubblicistica partecipa a questo coro di smodato nazionalismo e di ostilità verso le minoranze nazionali. A Trieste, per esempio, la stampa locale “presentava bellicosamente gli slavi come un pericolo biologico per lo Stato italiano”, giungendo a definirli come “piaga purulenta”, da “bonificare” al più presto mediante un rapido processo di italianizzazione (SLUGA, 2003: 190). Su “La Stampa”, in piena epoca fascista, si può leggere: “Pochi stati ci offrono un aspetto veramente unitario: l’Italia (…) è uno di questi pochissimi casi. Essa ha una popolazione compatta, animata da un solo pensiero nazionale, senza tendenze separatiste e neppure autonomistiche e le minoranze nazionali rappresentano nel suo seno una frazione estremamente esigua, che non giunge, fra tutte, neppure alla centesima parte dei suoi abitanti” (LA STAMPA, 30/09/1930). All’inizio degli anni Trenta, l’operazione di annullamento e di “oblio” delle minoranze alloglotte può dirsi compiuta. E le minoranze, quando e come possono, iniziano a posizionarsi politicamente in modo decisamente contrario rispetto alla dittatura fascista, cercando spazi di manovra e di autonomia nell’opposizione al regime mussoliniano. È questa la specifica ragione “politica” che caratterizza il percorso di alcune delle principali minoranze nazionali presenti in Italia. b. Minoranze “nazionali” e “isole linguistiche”: la tutela diseguale delle popolazioni alloglotte Non che, nell’Italia pre-fascista e fascista, non vi siano state voci di dissenso in merito alle politiche di snazionalizzazione delle minoranze alloglotte. Esse, tuttavia, mai assunsero un carattere popolare, non avendo, alle spalle, movimenti o organizzazioni dalle solide radici. Il “punto più alto della politica italiana di appoggio alle nazionalità dell’Impero Asburgico” si registra nel 1918, quando viene orga78

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 79

nizzato, a Roma, da parte di Gallengo, Torre e Borgese, il Congresso delle Nazionalità oppresse (SANTORO, 2005: 35). Nel 1924, su iniziativa di Emilio Lussu, viene organizzato, in Sardegna, un Consiglio federale dei movimenti federalisti e regionalisti che, però, non avrà grande rilievo, anche perché, due anni dopo, il suo ideatore verrà arrestato (nello stesso anno di Gramsci) da parte dei fascisti (MAGNABOSCO, 2000). Lussu è comunque un punto di riferimento essenziale del pensiero autonomistico e federalista italiano, e non soltanto sardo, così come Salvemini, particolarmente impegnato nella lotta in favore delle minoranze nazionali (SALVEMINI, 1933). Una testimonianza estremamente efficace dell’opera di snazionalizzazione dei popoli alloglotti è fornita da un altro personaggio di rilievo, Émile Chenoux, notaio aostano morto per impiccagione nel 1944. Così egli scrive, a proposito della massiccia opera di snazionalizzazione operata dal fascismo: “Piccoli popoli abituati a governarsi da sé (…), popoli disciplinati nel loro spirito di libertà”, che sono stati fatti oggetto di una dura politica di vera e propria colonizzazione da parte del regime mussoliniano, i cui funzionari hanno “imposto la loro legge”, accentuando “tutti i mali dell’accentramento” fino “alle estreme conseguenze”. E così conclude: “La oppressione statale diventò capillare, con la soppressione delle ultime parvenze di libertà comunali” (CHENOUX, 1960: 1-2). Dall’altra parte d’Italia, un intellettuale come Zanotti-Bianco si distingue per la sua sensibilità rispetto alla questione albanese, ceca, polacca, ai problemi dell’Armenia e a quelli della Georgia zarista, dando vita, nel 1914, alla “Giovine Europa”, di chiara ispirazione mazziniana, il cui organo è la rivista “La Voce dei Popoli” (1918, che egli dirige con lo pseudonimo di Giorgio d’Acandia). Quasi negli stessi anni, Ettore Lo Gatto fonda, nel 1920, la rivista “Russia”, la prima di studi orientalisti in Italia, ravvivando così l’interesse anche per i problemi legati alle minoranze slave e russe. I fermenti in favore delle minoranze nazionali in epoca pre-fascista e fascista non si concludono certo qui. E tuttavia essi assumono una dimensione maggiormente connotata dal punto di vista politico quando i comunisti italiani, sin dagli anni Venti, cercano di sussumerla in seno alla più generale prospettiva della lotta proletaria con79

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 80

tro il capitalismo internazionale, nonostante una tradizione marxista piuttosto contraddittoria a tale proposito. L’atteggiamento dei padri del pensiero comunista internazionale rispetto alla questione delle minoranze nazionali, infatti, non può certo dirsi lineare. Fu soprattutto Engels ad affrontarla a varie riprese, non senza una buona dose di etnocentrismo e, in certo senso, determinismo positivista. Sua, infatti, è l’espressione “nazioni senza storia” – peraltro di ispirazione hegeliana –, nonché la valutazione positiva, nel 1848, dell’invasione francese dell’Algeria, “avvenimento felice per il progresso della civilizzazione” (ENGELS, 1848), anche se, una decina di anni dopo, nel 1857, lo stesso Engels denuncerà “gli orrori e la brutalità” di tale esperienza contro i Kabila (ENGELS, 1857). Se è comunque vero che Marx ed Engels hanno formulato “un’idea piuttosto che una teoria della questione nazionale” (LÖWY, 1997), essa è parsa talvolta piuttosto contraddittoria, anche se alcune analisi da loro fatte sono servite da base per la rivendicazione, da parte di minoranze nazionali oppresse, rispetto alla loro volontà di autodeterminazione. A parte, infatti, lo “scivolone” etnocentrico di Engels, la questione nazionale è affrontata soprattutto da due prospettive: in primo luogo, secondo l’ottica internazionalista, a partire dalla quale il proletariato, con la sua vittoria, determinerà la sparizione degli arbitrari confini nazionali imposti dal capitalismo, con l’unica funzione di avere un mercato nazionale protetto sempre disponibile. In secondo luogo, appoggiando alcuni dei movimenti indipendentisti di nazioni “deboli” (o “oppresse”), contro la volontà egemonica di quelle “forti” (o “dominanti”). Così, viene appoggiata la lotta dell’Irlanda e della Polonia, ma non quella della Serbia e della Boemia, che Marx ritiene strumentali rispetto al ritorno dello zar e, quindi, reazionarie. Ma, all’interno del movimento comunista, è soprattutto Lenin a formulare le idee essenziali rispetto alla posizione da tenere in relazione alle minoranze nazionali. La titanica impresa della costruzione di una Unione autentica e paritaria fra tutti i popoli che la compongono (oltre che fra tutti gli individui) è infatti tema che non era sfuggito a Lenin, il quale, a più riprese, critica la fretta accentratrice e “russocentrica” di Stalin e di altri burocrati del partito nei confronti 80

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 81

delle minoranze in Georgia, Caucaso, Volga, ecc.. Nel 1922 scrive: “Io penso che qui hanno avuto una funzione nefasta la frettolosità di Stalin e la sua tendenza a usare i metodi amministrativi, nonché il suo odio contro il famigerato ‘socialnazionalismo’” (LENIN, 1922). Raccomanda (e riprende criticamente) Dzerginski, inviato in Caucaso per esaminare i presunti crimini dei socialnazionalisti, per l’eccesso di “russocentrismo”, corredato con l’uso di metodi violenti. E giunge ad una conclusione significativa, in cui riprende il pensiero di Marx, ma applicandolo alla realtà sovietica concreta e, in certo modo, sviluppandolo: “È necessario distinguere il nazionalismo della nazione dominante dal nazionalismo della nazione oppressa, il nazionalismo della grande nazione da quello della piccola” (LENIN, 1922). Accusa i russi di aver perpetrato numerose e gravi “offese” alle minoranze nazionali, citando gli allogeni del Volga, il dispregiativo “polaccuzzo” per designare il polacco, la presa in giro del tartaro, dell’ucraino e del georgiano. Ma Lenin va oltre: cerca di coniugare l’altro asse centrale della riflessione di Marx, l’internazionalismo, con la tutela “positiva” delle minoranze nazionali, partendo dal presupposto che debba esservi un’eguaglianza sostanziale e non soltanto formale fra gli abitanti della nuova Unione. Deve, insomma, esserci una affirmative action, diremmo in termini moderni, cercando di compensare gli svantaggi oggettivi in cui si sono trovate le minoranze linguistiche all’interno dell’URSS, portandole allo stesso livello dei russi. “Chi non l’ha capito, non capito l’atteggiamento realmente proletario verso la questione nazionale” (IDEM). Avere la fiducia degli allogeni nella lotta internazionale di liberazione proletaria è un elemento fondamentale, essendo preferibile “esagerare dal lato della cedevolezza e della comprensione verso le minoranze nazionali che non il contrario” (IDEM). Fra i diritti da garantire, Lenin cita espressamente quello all’uso delle lingue nazionali, senza quindi voler imporre il russo ad ogni costo ed in ogni espressione dell’attività umana. Addirittura, arriva ad ipotizzare che, in termini politici, l’URSS possa restare soltanto per le questioni inerenti alla diplomazia e alla difesa, “e in tutti gli altri settori si ristabilisce la piena autonomia dei singoli commissariati del popolo” (IDEM). Lenin non fu l’unico comunista di peso che, sullo scenario mondiale, dette un contributo teorico significativo alle lotte delle mino81

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 82

ranze nazionali: più o meno nello stesso periodo, Kautsky denuncia l’errore di Engels, sostenendo la nascita dei movimenti socialisti nei Balcani; nel 1939 Trotsky fa lo stesso con le lotte degli afro-americani negli Stati Uniti. Risultato: “Dalla fine del XIX secolo, le idee marxiste si diffusero largamente tra le minoranze etniche extraterritoriali e le sedicenti ‘nazioni non storiche’ dell’Europa centrale e orientale” (LÖWY, 1997). Per questo ed in tal modo, a cavallo fra fine Ottocento ed inizio Novecento, le minoranze nazionali trovano un sicuro appoggio nel marxismo internazionale, deciso ad inglobarle nella propria lotta di classe, garantendo loro quei margini di autonomia che era impossibile ottenere dagli stati tradizionali. È qui che va inserita l’alleanza fra movimenti nazionali soprattutto giuliani di matrice slovena e Partito Comunista. Quest’ultimo aveva assai più presente il pensiero di Lenin a tale proposito rispetto alle prepotenze che saranno invece consumate da Stalin e dalla nomenclatura sovietica. Sul quotidiano comunista viene ricordato quanto stabilito dall’VIII Congresso del PCUS, in cui si era ribadito il concetto della difesa dei diritti delle minoranze nazionali (L’UNITÀ, 05/01/1926). Il III Congresso del Partito Comunista d’Italia, svoltosi a Lione nel 1926, sancisce il diritto delle minoranze oppresse all’autodecisione. Da qui matura una linea politica chiara, che appoggia le lotte anticoloniali, così come quelle delle minoranze interne, siano esse di lingua tedesca, slovena o croata, “contro l’imperialismo italiano e il fascismo” (L’UNITÀ, 1933), fino a prevedere l’uscita di esse dallo Stato italiano. Allo stesso modo, nel Congresso di Colonia del 1931, Luigi Longo arriva a proporre una Repubblica federativa soviettista italiana, a cui alcuni dei padri dell’autonomismo e del federalismo nazionale, come Emilio Lussu, si oppongono a causa della sua sostanziale improvvisazione e impossibilità concreta di applicazione (CONTU, 1994). In ogni caso, è significativo lo sforzo dei comunisti italiani nel cercare di dare risposte coerenti ed innovative alle questioni delle minoranze nazionali. L’origine sarda di Gramsci, in tal senso, sicuramente agevolò tale tendenza, visto che questi conosceva perfettamente Lussu ed altri autonomisti della sua regione, con cui intratteneva una corrispondenza piuttosto fitta. Certo è che il tema delle minoranze nazionali, così come quello del Mezzogiorno, andavano inseriti, come aveva insegnato Lenin, all’interno di un qua82

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 83

dro più vasto, quello della lotta di classe condotta dal proletariato internazionale: è in questa prospettiva che i comunisti italiani lasciano piena libertà a croati e sloveni di usare la loro lingua madre, criticando l’Arcivescovo di Gorizia, Carlo Margotti, il quale aveva disposto che tutte le associazioni ed organizzazioni cattoliche del territorio dovessero esprimersi in italiano, redigendo i verbali dei loro incontri nella lingua ufficiale dello stato (L’UNITÀ, 1936). D’altra parte, nel 1933, il fascismo aveva imposto che in chiesa si dovesse proibire l’uso dello sloveno. L’impegno dei comunisti, come detto, è particolarmente significativo sul fronte delle minoranze slave. Ecco tre titoli del quotidiano comunista, il primo del 15/9/1930, gli ultimi due nel numero di luglio del 1933, che riassumono efficacemente il senso di una tale linea politica: “Viva il diritto all’indipendenza delle minoranze slovena, croata e tedesche fino alla separazione dallo Stato italiano”; “La Venezia Giulia sotto il tallone di ferro del fascismo”; “Per il diritto dell’autodecisione delle minoranze nazionali. Per la liberazione e l’unione del popolo slavo”. Il PCd’I si rende protagonista, tra gli anni Trenta e Quaranta, di un’importante iniziativa, tesa a riunire comunisti giuliani, sloveni, austriaci e croati, al fine di delineare orientamenti ed azioni contro il nazionalismo italiano e tedesco, cercando così di unificare le lotte di queste minoranze, sotto le bandiere del partito della classe operaia. Nel dicembre del 1943, presso la casa del geometra Pons, viene approvata la Dichiarazione di Chivasso, o Dichiarazione dei Rappresentanti delle Popolazioni Alpine, a cui era presente anche Chenoux, mentre Federico Chabod aveva inviato un suo contributo: vi si profila l’idea di una soluzione federale, repubblicana e cantonale per risolvere il problema delle nazionalità e dei vari irredentismi ancora presenti nella penisola italiana, una volta caduto il regime fascista. I presenti (sei più il Pons, peraltro all’oscuro del tema che doveva essere lì trattato per motivi di sicurezza) enfatizzano in particolare la questione linguistica e l’importanza del suo riconoscimento nelle vallate francofone fra Valle d’Aosta e Piemonte, soprattutto nel Pinerolese, con forte presenza valdese. Oltre ad essa, veniva sottolineata l’opzione autonomistica, seppure all’interno del nuovo Stato italiano. Tutti i partecipanti appartenevano alla Resistenza ed al Partito d’Azione, che si ispirava agli ideali di “Giustizia e 83

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 84

Libertà” (BURATTI, 1997). La Dichiarazione sarà proposta al CLN e, il 5 ottobre del 1944, al CLNAI, che risponde accettando le richieste relative all’autonomia linguistica, culturale ed amministrativa. Tuttavia, a causa dell’opposizione del PSI e del PCI, l’idea di uno “statuto cantonale” non passa, dovendo quindi optare per una proposta più edulcorata. Che cosa succede, immediatamente dopo la caduta del regime fascista, alle minoranze nazionali? La cultura politica italiana, come si è cercato di dimostrare, non era preparata ad accogliere le istanze di tali gruppi: non aveva la coscienza storica, né la sensibilità sufficiente per comprenderne le ragioni. Il partito che starà saldamente al potere fino all’inizio degli anni Novanta, la DC, ha sistematicamente bloccato o insabbiato le iniziative rivolte a valorizzare le minoranze nazionali, sia per avere ereditato – nel suo corpus elettorale – gran parte dei burocrati che avevano servito il fascismo e che non avevano nessuna intenzione di mutare mentalità e modo di lavoro ormai consolidati, sia perché essa si è posta come “controparte delle rivendicazioni nazionalitarie anche quando le nazionalità non negano i valori cristiani che le ispirano” (MAGNABOSCO, 2000). Come ottimamente spiega il Salvi, tutte le tutele ottenute (naturalmente prima della legge del 1999) sono pre-costituzionali o imposte da trattati internazionali. Ecco un breve quadro di come esse sono state ottenute: – I francofoni della Val d’Aosta sono tutelati grazie ad un decreto luogotenenziale del 1945 (il nr. 545), “emanato in fretta e furia per sventare la minaccia del ‘separatismo’ valdostano e dell’annessionismo francese” (SALVI, 1975: 12), anche se saranno escluse da tale provvedimento le valli valdesi. – In Provincia di Bolzano, la tutela delle minoranze tedesche deriva dall’Accordo di Parigi del 5 settembre 1946, “stipulato per impedire l’eventuale ritorno della provincia all’Austria e per placare il sentimento etnico delle popolazioni” (IDEM: 12). In seguito a manifestazioni violente, il Sud Tirolo è oggetto di un “pacchetto”, che pone fine a una intensa stagione di attentati e detenzioni, approvato ed entrato in vigore nel 1974. – La tutela della minoranza slovena in Provincia di Trieste deriva anch’essa da un trattato internazionale, stipulato a Londra il 5 84

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 85

ottobre 1954, come Allegato II al Memorandum che affida all’Italia l’amministrazione della zona A. Infine, le scuole statali slovene in Provincia di Gorizia, chiuse dal governo fascista, vengono poi riaperte dai partigiani nel corso della Resistenza e mantenute aperte dal nuovo governo italiano, con la definitiva regolamentazione per opera del Trattato di pace del 10 febbraio 1947. Altre forme di tutela, aventi valenza costituzionale, verranno approvate con gli Statuti delle regioni a ordinamento speciale, e non, quindi, su iniziativa parlamentare, nonostante il dettato dell’articolo 3 e dell’articolo 6 della Costituzione. – Tutela della minoranza slovena in Friuli Venezia-Giulia. Ci sono due passaggi rilevanti a questo proposito: il primo, con l’approvazione della legge del 1961, il secondo con la norma del 2001, di carattere maggiormente organico e successiva alla legge generale di tutela delle minoranze nazionali del 1999. Come si vedrà, il PCI (ed i suoi eredi politici), nonostante alcune incertezze, darà un contributo fondamentale alla risoluzione di tale questione, la quale assumerà, pertanto, centralità in seno alla generale problematica della tutela delle minoranze, grazie appunto a questo forte impegno politico della maggiore forza di opposizione del paese. Nel 1961, la sua Direzione Nazionale propone una risoluzione ad hoc, in cui si ricorda il quarantennale impegno del partito in favore di “una coerente politica per l’unità delle masse popolari e per l’unità tra italiani e slavi della Regione Giulia”, superando “l’infame opera di snazionalizzazione” esercitata dal fascismo. La proposta, quindi, si concentra nell’applicazione del dettato costituzionale, equiparando i diritti e i doveri degli sloveni con quelli degli italiani, così come delle due lingue nelle località ove vige il bilinguismo, terminando con la sistemazione e regolarizzazione giuridica delle scuole slovene (L’UNITÀ, 25/05/1961). Anche a seguito di tale iniziativa, le Camere approveranno la prima legge specifica per tutelare la minoranza slovena nelle province di Gorizia e Trieste (ma non di Udine). Il provvedimento, però, è parziale, concentrandosi essenzialmente nell’ambito scolastico: dalle elementari alle superiori, l’insegnamento viene impartito nella lingua materna degli alunni, mantenendo l’obbligatorietà dello studio dell’italiano nelle scuole di lingua slovena. Il PCI, tuttavia, una volta ottenuto questo par85

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 86

ziale risultato, persiste con la sua politica filo-slovena: nel 1970 viene presentato un apposito progetto di legge, poi assorbito dalla proposta dell’allora Presidente del Consiglio, Andreotti, nel 1977, tesa a nominare una commissione per l’esame della materia, in modo che il Governo potesse farsi un’idea più compiuta della stessa. Nel 1980, visti i magri risultati ottenuti, i comunisti tornano a proporre un disegno di legge, a firma Cuffaro, Natta, Di Giulio, Giovanni Berlinguer ed altri, di tipo organico, ma è soltanto dopo l’approvazione della legge 482/1999 che, nel 2001, viene approvata una normativa organica (la nr. 38) che tutela le minoranze linguistiche presenti in Friuli (in primis quella slovena, ma anche quella tedesca). Come rileva Salvi, se è vero che l’allora PCI fu l’unica forza politica a dimostrare una certa sensibilità in relazione alla questione delle minoranze nazionali, ad esempio rispondendo positivamente all’invito dell’AIDLCM (Associazione Italiana per la Difesa delle Lingue e delle Culture Minacciate, costituita nel 1967), tale sensibilità si è concentrata, appunto, sulla questione slovena (SALVI, 1975: 23), anche grazie all’attivismo di singoli parlamentari, quali Mario Lizzero. Negli anni Settanta, tuttavia, con un’opera pubblicistica piuttosto intensa del quotidiano “l’Unità”, e con continui interventi ed interviste a Tullio De Mauro, il PCI cerca di diffondere, nel paese, l’idea dell’Italia come una nazione “multilinguistica”, che ha quindi il dovere di tutelare e valorizzare il patrimonio linguistico e culturale interno. Nel 1979 viene organizzato un convegno, alla presenza di Giovanni Berlinguer, il quale ribadisce le tesi del XV Congresso, in cui si dava spazio alla questione della difesa delle minoranze linguistiche, ancora una volta inserendole all’interno della più ampia lotta anticapitalista (L’UNITÀ, 22/01/1979). Pochi anni dopo, nel 1985, un altro incontro viene organizzato, questa volta a Trieste e di natura internazionale, da parte dell’Istituto Gramsci, in cui si ribadisce che le minoranze devono essere fattore di “congiunzione” e di “reciprocità”. Spicca l’intervento di Pasquino, che ribadisce il percorso di “assimilazione passiva” delle minoranze adottato dal fascismo, proponendo una prospettiva del tutto differente (L’UNITÀ, 18/06/1985). – In sede costituente, il dibattito che poi sfocerà nell’articolo 6 darà anch’esso un contributo decisivo per delineare i livelli di tutela del86

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 87

le minoranze linguistiche presenti in Italia. La Commissione Forti o Commissione parlamentare per le riforme istituzionali, presieduta appunto dal Prof. Ugo Forti e composta da 90 membri, definisce con chiarezza quei gruppi linguistici oggetto di specifica tutela e gli altri che, al contrario, non avrebbero goduto di alcuna protezione particolare. La distinzione è presto fatta, e ripercorre quella (vista poco sopra) relativa alle lingue dei gruppi “nazionali” posti ai confini settentrionali del paese: da una parte, le isole linguistiche, dall’altra le minoranze etniche e linguistiche. “Alla percezione delle prime come atto folclorico faceva riscontro l’attribuzione alle seconde di un preciso rilievo sul piano giuridico e politico” (PIERGIGLI, s.d.). Tale giudizio influenzò notevolmente il dibattito in Assemblea Costituente, ed anche tentativi di definire un quadro più chiaro di tutele – quali, per esempio, quello del socialista Luzzatto – furono bocciati, alla luce di quanto emerso dalla Commissione Forti. Luzzatto riprende tale divisioni, citando espressamente i “150.000 abitanti” delle “isole linguistiche albanesi, catalane e greche dell’Italia meridionale e insulare”, la cui condizione è del tutto paragonabile a quella degli slavi in provincia di Campobasso, ma nettamente distinta rispetto a quella dei francesi, tedeschi e slavi, “localizzati nell’arco alpino e in territori prossimi ai confini con Stati nei quali dette lingue sono lingue nazionali” (MINISTERO PER LA COSTITUENTE, 1946: 173-190). Luzzatto, pur conservando la citata suddivisione, propone però che, nel testo della Costituzione, vengano espressamente citate quelle minoranze che devono godere di una esplicita tutela, che sarebbero: Valle d’Aosta italo-francese, Alto-Adige italo-tedesco, zona mistilingue della Venezia Giulia italo-slava. Dopo un acceso dibattito, il Presidente della Commissione per la Costituzione, Ruini, risolve la questione, affermando che “una speciale disposizione per le minoranze etnico-linguistiche (…) non sembra indispensabile, potendo rientrare nel concetto generale” (ASSEMBLEA COSTITUENTE, 1946). La Costituzione, quindi, non citerà nessun elenco – certamente anche parziale, ma che comunque poteva costituire un primo passo per la tutela delle minoranze linguistiche –, sancendo soltanto un generico principio, la cui applicazione rimarrà inevasa sino al 1999. In Italia, quindi, vi sarà una tutela diseguale fra lingue 87

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 88

“nazionali” tutelate ed “isole linguistiche” non tutelate, ma semplicemente inglobate all’interno del principio generale di assenza di discriminazione. 3.3. Il cammino verso la legge 482/1999 Il potente apparato ideologico appena descritto, la forma accentrata di Stato uscita dalla Costituente, le resistenze della burocrazia romana, infine la costante volontà dilatoria da parte del partito di maggioranza, la scarsa pressione mediatica che le varie associazioni sono riuscite ad imporre agli organi d’informazione – eccetto nei momenti di alta tensione, come ad esempio è accaduto in Sud Tirolo, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, a cui si è posto rimedio con l’approvazione, nel 1974, di un “pacchetto” specifico (SALVI, 1975: 244-245) –, tutto ciò ha fatto in modo che l’Italia, sino al momento dell’approvazione della legge 482, fosse l’unico paese che, nell’Unione Europea (e anche fuori) non disponesse di una normativa organica per tutelare le proprie minoranze. Solo per dare un’ulteriore prova della miopia e confusione concettuale con cui i partiti, ancora a cavallo fra la “Prima” e la “Seconda” Repubblica guardavano al problema, è sufficiente citare un esempio, relativo al dibattito che ha avuto luogo, nel 1993, sull’art. 1 del testo unificato in merito alla tutela delle minoranze linguistiche. La materia viene esaminata dalla I Commissione Permanente della Camera (Affari Costituzionali, della Presidenza del Consiglio e interni), martedì 20 luglio 1993, sotto la presidenza del Presidente Adriano Ciaffi (CAMERA DEI DEPUTATI, I COMMISSIONE PERMANENTE: SEDUTA 20/07/1993). La prima parte del dibattito viene giocata tutta su una diatriba formale fra Tassi (capogruppo del MSI-destra nazionale) e Brunetti (Rifondazione comunista: presentatore di una delle proposte di legge), in merito a quale dei due disegni debba essere discusso prima, se quello, appunto, sulla tutela delle minoranze, oppure quello (come sostiene l’esponente missino) inerente al diritto di voto per gli italiani all’estero. Dopo lunga discussione, il Presidente decide di avanzare con la proposta del testo unificato in merito alla tutela delle minoranze linguistiche. L’art. 1 segnala una proposta assai aperta, tutelando, oltre ad una lista di 12 lingue “storiche” (compreso il veneto), anche tutte 88

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 89

le altre che ne facciano richiesta e quelle degli armeni, ebrei e zingari. Vengono poi presentati emendamenti tesi ad ampliare ancora la gamma della tutela, estendendola quindi al friulano e a tutti i dialetti meridionali. Si apre, qui, il dibattito, che Luciano Caveri (Gruppo misto, in realtà rappresentante dell’Union Valdôtaine), definisce come esempio di inutili discussioni accademiche, sottolineando che la confusione concettuale che emerge dal dibattito segnala la scarsa conoscenza della Carta delle minoranze linguistiche, approvata poco tempo prima dal Consiglio d’Europa. La posizione di una forza al tempo giovane e decisamente federalista, come la Lega Nord, è piuttosto ambigua: Meo Zilio, docente di storia delle lingue presso l’Università di Venezia, suggerisce di escludere il friulano ed il sardo dalle lingue da tutelare, visto che esse fanno comunque parte degli idiomi italici; al contrario, Tassi si chiede perché non tutelare, a questo punto, tutte le lingue italiche, senza quindi distinguere al loro interno fra dialetti e lingue vere e proprie. Infine, Enzo Balocchi (DC), fa una dichiarazione di voto di astensione, in dissenso dal suo gruppo, così motivata: “Dubita che gli italiani attendano con ansia l’approvazione di una normativa che tuteli le varie minoranze linguistiche”, ribadendo che di minoranze linguistiche “autentiche” sia possibile parlare esclusivamente per il tedesco, il francese e lo sloveno, peraltro già sufficientemente protette. L’art. 1 è approvato (come noto, non lo sarà l’intero testo), ma la discussione appena accennata rappresenta significativamente il quadro di confusione concettuale ancora presente in Italia nel 1993, quando in Europa il tema della tutela delle minoranze era – come visto sopra – fortemente all’ordine del giorno, anche a causa dello scoppio della nuova questione balcanica. “L’Unità”, a commento della proposta di legge in questione (la nr. 162/1993) commenta sottolineando i forti dissensi che essa aveva suscitato in Commissione, visto che diversi dei suoi elementi venivano considerati “eversivi e contrari all’unità dello Stato”, posizione condivisa anche da alcuni intellettuali, come Tranfaglia e Vertone (che arriva a parlare di “follie teoriche”, entrando in contrasto con De Mauro), e da alcuni personaggi di primo piano dell’epoca, come il repubblicano Spadolini (L’UNITÀ, 25/01/1993). Se questo è il quadro politico che, all’inizio degli anni Novanta, caratterizza la sensibilità in merito alla tematica della difesa delle lin89

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 90

gue minoritarie in Italia, altri fattori intervengono per garantire il mutamento e, perciò, l’approvazione della normativa. L’Europa preme affinché l’Italia legiferi in tal senso, i partiti tradizionali vengono spazzati via da Tangentopoli, si forma un quadro politico in parte nuovo, certamente più sensibile rispetto ai temi delle minoranze e del federalismo, pur con tutti i noti limiti con cui ciò è avvenuto. All’interno di un simile scenario, anche la Corte costituzionale recita un ruolo di primo piano. Non tanto “spingendo” direttamente il legislatore all’approvazione di una legge ad hoc per la tutela delle minoranze linguistiche, quanto ribadendo i limiti dell’art. 6 della Costituzione, e mantenendo “un atteggiamento agnostico nei confronti dei gruppi alloglotti” (TRABUCCO, 2008: 63). Un simile approccio trova espressione, per esempio, nella sentenza 62/1992, relativo all’uso della lingua slovena presso l’autorità giudiziaria di Trieste. A questo punto, con le minoranze ridotte, nella loro grandissima maggioranza, “ad uno stadio pregiuridico” (IDEM: 64), l’Italia non può più sottrarsi a quella che, sul piano internazionale – oltre che su quello costituzionale interno – si configura come una grave e non più demandabile “assenza”. La legge 482/1999 – sul cui contenuto si rimanda alla vasta letteratura ormai presente – garantisce la tutela esplicita per 12 minoranze linguistiche storiche, senza più la distinzione proposta dalla Commissione Forti e perdurata per lunghi anni, lasciando agli enti locali il compito, attraverso un meccanismo piuttosto complesso, di identificare e delimitare le aree interessate al provvedimento di tutela. Vengono esclusi i Rom e Sinti, inizialmente contemplati nel testo di legge, a causa dell’ostruzione di Alleanza Nazionale, che avrebbe sicuramente provocato un ulteriore slittamento forse sine die dell’approvazione della legge stessa. Il cammino di approvazione della legge può essere fatto risalire al 1982, allorquando, nel corso dell’VIII legislatura, a fronte di una serie di disegni di legge presentati, si decide di esaminare in maniera separata quelli relativi alla minoranza slovena, a quella ladina in provincia di Trento, infine quelli di carattere più generale. L’esame congiunto dei vari testi culmina con la nomina di due comitati ristretti, per l’esame rispettivamente delle proposte di legge di tipo ordinario 90

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 91

e costituzionale. La fine della legislatura impedisce tuttavia che la procedura di approvazione vada avanti e si concluda con successo. Il 23 novembre 1983, all’inizio della IX legislatura, l’esame riprende. Si decide di trattare in maniera separata le questioni relative alla tutela del gruppo ladino in provincia di Trento (proposte Riz ed altri, n. 465, e Virgili ed altri, n. 841) e quella del gruppo linguistico Walser della Valle d’Aosta (proposta Dujany, n. 15). La materia, nel suo complesso, viene divisa in quattro gruppi: proposte di legge generali, e poi quelle specificamente dedicate al gruppo sloveno, sardo e friulano. Ancora una volta, ci si affida ad un comitato ristretto, istituito il 7 dicembre 1984, col compito di esaminare i vari testi. Il comitato licenzia un testo unificato, in data 26 giugno 1984. La Commissione Affari Costituzionali approva alla fine un testo unico, a maggioranza, composto da 19 articoli, che costituirà la base di tutti i disegni di legge presentati in seguito sulla materia. Il relatore Labriola ben sintetizza lo spirito del nuovo testo: tutela e valorizzazione delle lingue e culture minoritarie rappresentano “un diritto inalienabile del cittadino di ogni Stato”. Nelle legislature successive, i tentativi che si faranno per approvare la legge in materia di tutela delle minoranze linguistiche si scontreranno costantemente con ostacoli insormontabili. Soltanto nel 1999, quindi, essa verrà approvata, pur se con aspetti che meritano di essere rapidamente ricordati. Il primo e più eclatante riguarda l’art. 1 della normativa, del tutto diverso da quello presentato dall’on. Maselli. Per volere di Alleanza Nazionale, infatti, viene introdotta una norma riguardante l’italiano come lingua ufficiale della nazione, nonostante che il Sottosegretario alla Giustizia, Corleone, avesse ammonito a non cedere rispetto a una richiesta che lui stesso aveva definito come “del tutto inutile, cautelativo, proclamatorio, un chiaro regalo ad An, che ora dovrà placare i suoi appetiti” (CORLEONE, ANSA, 22/05/1998). Il secondo – anch’esso grave, e ripreso costantemente nei rapporti del Consiglio d’Europa rispetto all’Italia – ha a che fare con la tutela della lingua dei Rom e dei Sinti. Nella versione portata in commissione poteva leggersi la seguente formula: “La Repubblica adotta, altresì, a favore delle comunità Rom e Sinti presenti sul territorio italiano, misure di particolare tutela adeguate alle loro peculiari caratteristiche storico-culturali”. Tale clausola è poi scomparsa nel testo definitivo, per l’ostinata opposizione di 91

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 92

AN. Al di là quindi del fatto positivo che l’Italia si sia dotata di uno strumento legislativo che da decenni era atteso, la legge 482 contiene un primo articolo del tutto pleonastico e senza senso, ma soprattutto l’esclusione di Rom e Sinti da qualsiasi forma di tutela della loro lingua e cultura. Non a caso, nelle legislature successive, vi sono stati tentativi di rimediare a tale vulnus. Nella XV legislatura, l’on. Frias (Rifondazione Comunista) è la prima firmataria di una proposta di legge (nr. 2858, del 3 luglio 2007) tesa a modificare la 482, “per l’estensione delle disposizioni di tutela delle minoranze linguistiche storiche alle minoranze dei rom e dei sinti”, cercando di far passare il principio di una tutela statuita positivamente anche di lingue diffuse e non territoriali; nella XVI legislatura, è l’on. De Torre (PD) a presentare un’analoga proposta (nr. 4446 del 22 giugno 2011), sottolineando la caratteristica ormai quasi completamente stanziale di questi popoli in Italia, unita alla necessità di superare il crescente antiziganismo, ormai non più tollerabile. Ad oggi, queste minoranze linguistiche storicamente presenti nella penisola non godono di alcuna tutela specifica, lasciando pertanto un vuoto legislativo piuttosto grave all’interno dell’ordinamento italiano, come ha sottolineato più volte il Consiglio d’Europa, anche di recente. In un comunicato-stampa del 2011, che sintetizza il pensiero del Commissario per i diritti umani di quella istituzione, Thomas Hammarberg, si legge: “La situazione dei rom e dei sinti in Italia resta fonte di grande preoccupazione (…). Le recenti espulsioni di rom e sinti, spesso svoltesi in violazione delle norme relative ai diritti umani, hanno avuto un impatto negativo (…). Gli atti di violenza contro i rom, alcuni per mano delle forze dell’ordine, indicano la necessità per le autorità italiane di migliorare la risposta agli episodi di violenza scatenati da motivazioni razziali”. Se questa può essere considerata come la frontiera più avanzata nella lotta per i diritti linguistici (e non solo) in epoca contemporanea, sul piano culturale neanche i principi sanciti dalla legge 482 possono dirsi definitivamente acquisiti, nonostante gli indubbi progressi fatti nel corso degli ultimi quindici anni. Al momento dell’uscita della legge, infatti, la copertura della stampa nazionale è stata a dir poco modesta. “La Repubblica” pubblica, nell’edizione del 26 novembre del 1999, un trafiletto quasi invi92

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 93

sibile, in cui annuncia che è “Approvata la legge sulle minoranze linguistiche”; “L’Unità”, che tanto impegno aveva profuso, negli anni Settanta e Ottanta, sul tema, dà uno spazio un po’ maggiore alla notizia rispetto al quotidiano di Scalfari (ancora nell’edizione del 26 novembre del 1999), riportando l’appello diretto al Presidente della Repubblica, Ciampi, da parte di un gruppi di intellettuali e politici, soprattutto centristi (Rinnovamento Italiano e Partito Popolare), teso ad indurre il Capo dello Stato a non promulgare la suddetta normativa. Fra i firmatari, Giulio Andreotti, secondo il quale la norma avrebbe creato disparità fra i dialetti; Giovanni Nencioni, Presidente dell’Accademia Nazionale della Crusca, il quale dichiara che “sarebbe meglio tutelare la lingua piuttosto che metterla in crisi”; Claudio Marazzini, ordinario di lingua italiana presso l’Università di Trieste, che dichiara a “Famiglia Cristiana” che “è una legge grottesca, con effetti complicati e ridicoli sulla vita sociale”, mentre anche l’ASLI (Associazione dei Linguisti Italiani) esprime forti perplessità e preoccupazioni, più o meno per gli stessi motivi. “Il Corriere della Sera”, in un breve articolo firmato da Cristina Taglietti il 26/11/1999, intitolato Minoranze linguistiche, il giorno del riscatto, pur prendendo posizione a favore del provvedimento, dedica all’evento uno spazio assai ridotto, alla stessa stregua de “La Stampa” che, sempre nello stesso giorno, fa uscire un articolo, dal titolo Approvata la legge che tutela dodici lingue minoritarie, riportando l’opinione di due valdostani presenti in Parlamento, Luciano Caveri e Guido Donedeynaz, che si dicono favorevoli al provvedimento, nonostante il “ritardo gravissimo” con cui è arrivato. Fra gli altri, Giovanardi (CCD) sottolinea come si tratti di “una legge vergognosa”, mentre anche a livello scientifico e pubblicistico non mancano articoli e libri specialistici, finalizzati ad evidenziare tutto il nocumento derivante dall’approvazione della legge 482. Uno dei più significativi ed evocativi anche a partire dal titolo è quello scritto da Lucio D’Arcangelo, Difesa dell’italiano, che esprime – così come avevano fatto illustri esponenti della Crusca e linguisti italiani, oltre a buona parte del ceto politico legato alla tradizione democristiana – una concezione decisamente tradizionalista della lingua, francamente poco attuale in una società dinamica come quella attuale. Lo stesso Fiorenzo Toso, a più riprese, ha espresso tutti i suoi dubbi sulla consistenza della legge, certo di altra natura rispetto a quelli 93

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 94

appena ricordati, insistendo soprattutto sulla confusione fra diritti delle minoranze nazionali e quelli di alcune minoranze linguistiche, peraltro “selezionate in base a criteri impressionistici” (TOSO, 2005: 118), finendo per svuotare, nella pratica, gli ideale a cui la legge 482 si era ispirata. Diverse testate con orientamento di destra, poi, hanno espresso le loro perplessità. “Il Giornale”, ancora nel 2009 (edizione del 10 dicembre), in un articolo intitolato L’italiano zoppica, per rimetterlo in piedi ci vuole una legge, continua a sostenere che “L’italiano ha rappresentato, e seguita a rappresentare, il cemento unitario del Paese”, ma che la sua evidente crisi deriva da vari fattori, il primo dei quali è stato l’approvazione della legge 482, definita come “una forzatura legislativa evidente a chiunque”. È possibile in conclusione affermare che, oggi, a fronte di una base legislativa certamente non perfetta ma per lo meno esistente, la questione dei diritti linguistici rappresenti ancora un terreno di scontro e di confronto: sia sul piano istituzionale (ad esempio fra Regioni e Stato centrale, come ha dimostrato la diatriba fra il Friuli-Venezia Giulia ed il Governo, finita presso la Corte costituzionale, in merito alla Legge regionale 29/2007) (LEWIS GETI, 2010: 2) che, soprattutto, su quello più strettamente culturale. L’italiano ha infatti ormai “colonizzato” gran parte degli alloglotti nel corso di più di 150 anni di unità nazionale, ma ciò non ha contribuito ad arricchire la lingua, ma semmai l’ha indebolita. Incolpare di questa situazione l’approvazione della legge 482, come ha fatto “Il Giornale”, è a dir poco puerile. Piuttosto, la qualità e la diffusione dell’italiano andrebbero analizzate alla luce, da un lato, dell’invadente anglicismo che pervade ormai tutti i pori della lingua nazionale, ma soprattutto del prestigio internazionale di cui il paese ha goduto negli ultimi anni, nonché della sua capacità di porsi come riferimento, anzitutto sul piano culturale e dell’innovazione, verso gli altri popoli. Valorizzare le lingue locali costituisce non soltanto un arricchimento complessivo di tutti gli italiani, ma anche un modo per ritrovare quelle radici che molte popolazioni avevano perso, inglobate dalla pervasiva e sempre più potente onda di globalizzazione anche di tipo linguistico.

94

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 95

Bibliografia

ASCOLI, G.I. (2008), Scritti sulla questione della lingua, Einaudi, Torino BURATTI, G. (1997), La “Dichiarazione di Chivasso” del 1943: premesse e attualità, “L’impegno”, a. XVII, n. 1, Aprile 1997 BUSSOTTI, L. (2000), Le minoranze linguistiche in Italia, “Confronto”, VI/2000/12, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma, pp. 17-41 BUSSOTTI, L. (2002), La cittadinanza degli italiani, Angeli, Milano CAPOTORTI, F. (1979), Study on the Rights of Persons Belonging to Ethnic, Religious and Linguistic Minorities, United Nations, New York CASSESE, S. (1988), I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, RomaBari CHENOUX, É. (1960), Federalismo e Autonomia, Typographie Valdôtaine, Aosta CIANCI, F. (2010), Sulla problematica assenza di una definizione giuridica vincolante e universalmente riconosciuta di minoranza e sulle sue annesse implicazioni in diritto internazionale, “Ricerche Sociali”, n. 17, 2010, pp. 7-37 CONTU, G. (1994), Il federalismo nella storia del sardismo, Edizioni Fondazione Sardinia, Sassari CORRADINI, E. (1922), L’unità e la potenza delle nazioni, Vallecchi, Firenze CUCCIARELLI/DE MATTEIS (a cura di), (2008), Le lingue d’Europa. Intercultura, lingue e CLIL, Il Filo d’Europa, Vol. I, Bologna D’ARCANGELO, L. (2003), Difesa dell’italiano, Ideazione, Roma DAVIDSON, B. (1992), The Black’s Man Burden, James Currey, Oxford DICOSOLA, M. (2010), Stati, nazioni e minoranze, Giuffrè Editore, Milano GALBRAITH, J. (1972), La società opulenta, Bollati Boringhieri, Torino (Tit. orig.: The Affluent Society, Boston, 1958) GELDENHUYS-ROSSOUW (2001), The International Protection on Minority Rights, F.W. De Klerk Foundation, Cape Town, www.fwdeklerk.org GRIN, F. (2003), Language, Policy Evaluation and the European Charter for Regional or Minority Language, Palgrave Macmillan, Hampshire HEINTZE (2000), Minority Issues in Western Europe and the OSCE High Commissioner on National Minorities, “International Journal on Minority and Group Rights”, 7, pp. 381-392

95

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 96

HOBSBAWM/RANGER (Editors), The invention of tradition, Cambridge University Press, Cambridge HOFFMANN, R. (2005), The Framework Convention for the Protection of National Minorities: an Introduction, in Marc Weller (Org.), The Rights of Minorities in Europe, Oxford University Press, Oxford, 2005 LEWIS GETI, P. (2010), Federalismo linguistico, tutela delle minoranze ed unità nazionale: Un nemis a l’è tròp e sent amis a basto nen, “Rivista dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti”, N. 00 del 02.07.2010, pp. 1-7 MAGNABOSCO, C. (2000), Identità nazionale e minoranze nello Stato italiano, Associazione per i popoli minacciati, www.gfbr.it LÖWY, M. (1997), Patries ou Planête ?, Editions Page Deux, Lausanne MALLOY, T.H. (2010), National Minorities in the 21st Century Europe: new discourses, new narratives?, ECMI-Issue Brief # 24, December 2010 PIERGIGLI, V. (2001), Lingue minoritarie e identità culturali, Giuffrè, Milano ____________ (2003), Decentramento territoriale e minoranze linguistiche: un’analisi comparata, www.federalismi.it. Rivista telematica. Osservatorio sul Federalismo e i processi di governo, 10 luglio 2003 ____________ (s.d), La tutela delle minoranze linguistiche storiche nell’ordinamento italiano tra principi consolidati e nuove (restrittive) tendenze della giurisprudenza costituzionale, www.astrid-online.it PIZZORUSSO, A. (1975), Il pluralismo linguistico tra Stato nazionale e autonomie regionali, Pacini, Pisa _______________ (1976), Le minoranze nel diritto pubblico interno, Giuffrè, Milano _______________ (1987), Libertà di lingue e diritti linguistici, “Le Regioni”, 6/1987 POSPÍ?IL, I. (2006), The Protection of National Minorities and the Concept of Minority in the EU Law, Paper presented at the ECPR 3rd Pan-European Conference, Bilgi University, Istanbul, 21-21 September 2006 SANTORO, S. (2005), L’Italia e l’Europa Orientale, Angeli, Milano SABELLI, L. DEI (1929), Nazioni e minoranze etniche, Zanichelli, Milano SALVEMINI, G. (1933), Il fascismo e il martirio delle minoranze, Edizioni di “Giustizia e Libertà”, Parigi SLUGA, G. (2003), Identità nazionale e fascismo, in M. Cattaruzza (a cura di), Nazionalismi di frontiera, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003 TONIATTI, R. (1996), Minoranze, diritti delle, “Enciclopedia delle Scienze Sociali”, www.Treccani.it TONIATTI, R. (a cura di) (2002), Diritto, diritti, giurisdizione. La Carta dei 96

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 97

diritti fondamentali dell’Unione Europea, CEDAM, Padova TÖNNIES, F. (2011), Comunità e società, Laterza, Bari-Roma TOSO, F. (2009), Patrimoni linguistici e lingue minoritarie: la prospettiva europea e quella italiana, “AnnalSS 5”, 2005 (2009), pp. 115-124 TRABUCCO, D. (2008), Il diritto comunitario ed i tentativi di una azione “correttiva” della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nella tutela delle minoranze, “Filo diretto”, www.filodiretto.com, 25/07/2008 VEGETTI RUSCALLA, G. (2011), Diritto e necessità di abrogare il francese come lingua ufficiale in alcune valli della Provincia di Torino, Torino VIGNUZZI, U. (2011), Una lingua è un dialetto che ha fatto carriera l’unificazione è stata una scelta politica, Intervista a cura di Chiara Aranci, in www.reporternovo.it WALKER, B. (Ed.), State of the World’s Minorities and Indigenous People 2012, Minority Rights Group International, UK WEBER, M. (1980), Economia e società. Vol. I, Comunità, Milano WIRTH, L. (1945), The Problem of Minority Groups, in Linton, R. (Editor), The Science of Man in the World Crisis, Columbia University Press, New York WOLFF, S. (2008), Ethnic Minorities in Europe: The Basic Facts, www.stefanwolff.com ZEKIYAN. B.-L. (2007), Potere e minoranze, il sistema dei millet , «Oasis» [on-line], 5 Marzo 2007, on line il 05 Giugno 2009, URL http://www.oasiscenter.eu/node/2817

Documenti istituzionali ASSEMBLEA COSTITUENTE, COMMISSIONE PER LA COSTITUENTE. SECONDA SOTTOCOMMISSIONE (1946), Discussione – 14 novembre 1946 COMUNITÀ EUROPEE (1997), Trattato di Amsterdam che modifica il Trattato sull’Unione Europea, i Trattati che istituiscono le Comunità Europee e alcuni atti connessi, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, Lussemburgo COMUNITÀ EUROPEE (2000), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, “Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee”, C 364/1, 18/12/2000 CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA (2008), Versione consolidata del trattato sull’Unione europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, Bruxelles, 15/04/2008 97

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 98

CONSIGLIO D’EUROPA (1992), Carta Europea delle Lingue Regionali o Minoritarie, Strasburgo, 05/11/1992 ____________________(1995), Convenzione Quadro per la protezione delle Minoranze Nazionali, Strasburgo, 01/02/1995 ___________________ ADVISORY COMMITTEE ON THE FRAMEWORK CONVENTION FOR THE PROTECTION OF NATIONAL MINORITIES (2012), Thematic commentary No. 3. The language rights of persons belonging to national minorities under the Framework Convention, 24/05/2012, Strasbourg COSRTE COSTITUZIONALE, Sentenza 62/1992, “Gazzetta Ufficiale”, 04/03/1992 CORTE EUROPEA DI GIUSTIZIA, Sentenza c 106/96, 12/05/1998 Sentenza Bickel/Franz, 24/11/1998 ____________________________, Sentenza Cassa di Risparmio di Bolzano/Angonese, 06/06/2000 EUROPEAN BUREAU FOR LESSER USED LANGUAGES/EUROPEAN CENTRE FOR MINORITY ISSUE (2002), Support for Minority Languages in Europe, European Commission, Luxemburg EUROPEAN COMMISSION (1996), Euromosaic. The production and reproduction of the minority language groups in the European Union, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg _______________________ (2006), Decisione 2006/33/CE, 20/01/2006 FOUNDATION ON INTER-ETHNIC RELATIONS (1998), Introduction to The Oslo Recommendations regarding the Linguistic Rights of National Minorities, The Netherlands MINISTERO PER LA COSTITUENTE. COMMISSIONE PER STUDI ATTINENTI ALLA RIORGANIZZAZIONE DELLO STATO (1946), Relazione all’Assemblea Costituente. Vol. I: Problemi Costituzionali. Organizzazione dello Stato, pp. 173-190 OSCE (1975), Helsinki Final Act, 01/08/1975 ______ (1990), Documento sulla Riunione di Copenhagen della Conferenza sulla Dimensione Umana della CSCE, Copenhagen, 29 giungo 1990 ______(1990), Charte de Paris pour une nouvelle Europe, Paris ______ (2012), The Ljubljana Guideliness on Integration of Diverse Societies, OSCE, The Netherlands ______(1998), The Oslo Recommendations Regarding the Linguistic Rights of National Minorities, High Commissioner on National Minorities, 01/02/1998, disponibile in http://www.unhcr.org/refworld/docid/ 3dde546e4.html 98

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 99

PARLAMENTO EUROPEO, Risoluzione su una carta comunitaria delle lingue e delle culture regionali e una Carta dei diritti delle minoranze etniche (Relatore Gaetano Arfè), 16/10/1981 _______________________, Resolution on the multilingualism of the European Community, 1982 _______________________, Risoluzione sulle misure a favore delle lingue e delle culture di minoranza (Relatore: Gaetano Arfè), 11/02/1983 _______________________, Risoluzione sulle lingue delle minoranze etniche e regionali nella Comunità europea (Relatore Willy Kuijsper), 30/10/1987 _______________________, Risoluzione sulle minoranze linguistiche e culturali nella Comunità europea (Relatore Mark Killilea), 09/02/1994 _______________________, Resolution on the right to use one’s own language, 1995 _______________________, Proposta di risoluzione presentata da Barbara O’Toole e Eluned Morgan a nome del gruppo PSE sulle lingue minoritarie, 11/12/2001 _______________________, Discussioni, Martedì 3 febbraio 2009 _______________________, Interrogazione con richiesta scritta alla Commissione – Monika Fla_iková Be_ova (S&D) – Oggetto: Trattamento discriminatorio delle minoranze, 03/01/2012 _______________________, Answering Mrs Reding on behalf of the Commission, 16/02/2012

99

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 100

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 101

La variabile imprevista. Genesi, caratteri e crisi del sistema scolastico italiano: dal monoculturalismo all’intercultura

Inquadramento del problema All’interno del quadro dello Stato unitario, la scuola ha tradizionalmente giocato un ruolo fondamentale: essa costituisce una delle istituzioni che, meglio e più delle altre, cerca di affermare gli ideali di unità nazionale tanto cari alla classe dirigente risorgimentale divenuta classe dirigente nazionale. Una scuola che attraversa, è vero, diverse fasi, ma la cui missione di fondo resta sempre la stessa: procedere all’unificazione di una comune coscienza tra gli italiani, secondo un percorso invariato – mutando ovviamente i contenuti – dal 1861 sino almeno alla metà degli anni Ottanta del secolo XX, quando nuovi elementi intaccano e finiscono per mettere in crisi l’architettura che era stata progettata ed attuata a partire dai primi anni unitari. Il nuovo Stato borghese assume quindi la guida dei processi scolastico-formativi, facendo di questi ultimi uno degli strumenti più potenti per realizzare gli scopi genericamente riferibili all’unità nazionale. Ciò che si vuole affrontare in questa breve riflessione consiste nel cercare di dare risposta a due interrogativi: anzitutto, come si è formato il sistema culturale unitario e, a partire da questo, quale sia stato il ruolo esercitato dalla scuola in tal senso; in secondo luogo, in che modo il sistema è entrato in crisi, considerando che il multiculturalismo, ad esempio mediante la presenza di comunità non cattoliche o alloglotte ha da sempre costituito una costante nella penisola.

101

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 102

1. La fondazione del sistema: le basi ideologico-politiche Al fine di agevolare il quadro interpretativo di fondo, si ritiene utile proporre un semplice grafico, in cui sono rappresentati funzionalmente ruoli e compiti assolti dal sistema scolastico nazionale italiano all’indomani della raggiunta unità.

Grafico 1. Le funzioni del sotto-sistema scolastico entro il sistema politico-istituzionale dell’Italia unita

102

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 103

Cominciamo a considerare gli input provenienti dal sistema generale verso quello scolastico: 1. La formazione di una coscienza nazionale. Il disegno delle classi dirigenti post-risorgimentali è assai chiaro, e può esplicarsi in due elementi, uno relativo alla sfera politico-ideale, l’altro a quella più segnatamente economica, e che assumerà pieno sviluppo grazie alla prima fase dell’industrializzazione italiana di fine Ottocento. Il primo consiste nel voler perseguire tenacemente un progetto a forte valenza unificatrice ed omogeneizzante, assumendo provvedimenti molto chiari: innanzitutto, sul piano della cittadinanza, la trasmissione è iure sanguinis, ossia l’italiano è colui che ha genitori italiani (BUSSOTTI, 2002). Un veloce sguardo al dibattito del tempo (oltre che alla statuizione positiva della legge e del Codice civile, che regolamenta lo specifico istituto) rivela senza infingimenti tale posizione. Il Sechi ritiene che l’appartenenza nazionale sia “questione di razza” e che “le diverse razze si trasmettano col sangue e non dipendono dal caso della nascita” (ovvero dal luogo di nascita) (SECHI, 1902: 221). Nello stesso dibattito parlamentare, il Pisanelli ritiene che “la razza è il principio elementare della nazionalità”, accentuando così quegli elementi “etnici” che potevano essere trasmessi esclusivamente iure sanguinis (GIANZANA, 1888: 169). Un moderato quale il Gioberti sottolinea che il popolo italiano è “un desiderio e non un fatto”, e soprattutto mette in luce l’esistenza di “un’Italia e una stirpe italiana congiunte di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre”, sebbene (al momento in cui scrive) divisa per governo ed istituzioni (GIOBERTI, 1946: 117-118). Se queste erano le idee dei moderati, anche nel fronte democratico, pur se con accenti talvolta leggermente diversi, la tendenza non era troppo differente. La patria continuava a rappresentare l’elemento basilare per la costruzione di forti identità collettive (“Senza patria (…) siete i bastardi dell’Umanità”, ricordava Mazzini) (MAZZINI, 1972: 51), utili per aprire un paritetico e pacifico confronto tra Stati (la patria, secondo Mazzini, costituiva l’unità elementare del diritto internazionale). D’altronde, Pasquale Stanislao Mancini accentuava l’importanza che si potesse formare una “nazione” più che uno 103

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 104

“Stato”, attento com’egli era agli aspetti culturali, più che propriamente istituzionali (MANCINI, 1944). Queste brevi note indicano con chiarezza che la strada da percorrere poteva essere soltanto una: quella dell’accentramento degli assetti istituzionali. Per dirla alla Ricasoli, “unificare” e “uniformare senza eccezioni” (ROMANELLI, 1979: 36): da qui, la bocciatura del progetto di legge Minghetti-Farini per il trasferimento ai Comuni di alcuni poteri. Quali dovessero essere i simboli dell’unità è presto detto: la lingua e l’alfabetizzazione in italiano, bandendo qualsiasi particolarismo regionale e di stampo localistico; l’esercito, non di mercenari o professionisti, ma popolare, come se si fosse trattato di una “nazione in armi che il ceto borghese (…) guida ed inquadra secondo modalità rigidamente fissate” (IDEM: 51); la religione cattolica, a cui presto si accoppia un primo abbozzo di etica civica; infine la Corona, simbolo stesso dell’unità nazionale, “per il volgo come per il filosofo”, secondo un’espressione popolare del tempo. Infine – per quel che più ci interessa – la scuola, col suo approccio uniformizzante ed unificante. 2. Conservazione della “società dei due popoli”. In termini sociali, il nuovo Stato borghese, costituito – inizialmente – per lo più dai rappresentanti della grande proprietà terriera, punta decisamente alla conservazione di un dualismo che vede una piccolissima élite di privilegiati al potere e la larga massa di contadini e lavoratori con funzione eminentemente produttiva. Sino alla fine del secolo è quindi prevalente l’obiettivo di uniformare politicamente il paese, mentre soltanto con la prima rivoluzione industriale il legame tra disegno politico e formazione di un mercato nazionale rappresenterà lo scenario da perseguire. Ciò significa, anzitutto, una chiara e per certi versi “estrema” tutela della proprietà privata, peraltro requisito fondamentale per partecipare alla vita politica; la restrizione del diritto di voto in base all’età (25 anni), al sesso (maschi), soprattutto al censo (40 lire d’imposta all’anno). Ciò riduce ad appena il 2% la popolazione avente diritto di voto. In buona sostanza, una “dittatura liberale”, rafforzata dal fatto che il Prefetto costituisse il soggetto a capo della provincia, secondo

104

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 105

un’ispirazione profondamente accentratrice e negatrice di qualsiasi autonomia ed identità locali (IDEM: 43). 3. “Formare le teste” e preparare i cittadini-consumatori. Se è vero che soltanto con la rivoluzione industriale si afferma l’istruzione di massa, è interessante notare come la “società dei due popoli” costituisse, almeno per i primi trent’anni della storia nazionale italiana, non un obiettivo da perseguire per le classi conservatrici (specie meridionali), bensì una situazione di fatto da perpetrare. Le masse contadine del Mezzogiorno erano e dovevano restare nell’ignoranza. Ancora nel 1894 un congresso di latifondisti meridionali invocò l’abolizione della scuola primaria, evidentemente ritenuta inutile o addirittura dannosa (COLAJANNI, 1894: 490491). Simili posizioni, insieme alla fisiologica difficoltà di conciliare ritmi e tempi del mondo rurale con l’istruzione, avevano determinato una situazione di pressoché totale analfabetismo al Sud, per un complessivo 70% a livello nazionale subito dopo l’unità. Socialmente, erano i pastori ad essere i meno alfabetizzati (70,62% di individui incapaci di leggere e scrivere), seguiti dagli uomini di fatica, gli agricoltori, i bovari e cavallari, i barcaioli e pescatori, tutti abbondantemente al di sopra del 50% di analfabetismo. Di contro, tra i commercianti, i proprietari e gli artefici in metalli preziosi la percentuale di analfabetismo è sotto il 15% (VIGO, 1982: 34). Il primo decennio unitario fa segnare risultati abbastanza modesti rispetto alla lotta contro l’analfabetismo. Il Censimento del 1871 mostra che gli analfabeti continuano a prevalere nella popolazione italiana, essendo il 62% al Nord e l’84% al Sud (SEMERARO, 1996: 29). Se, quindi, l’interesse dei grandi latifondisti meridionali è mantenere i propri contadini e braccianti al di fuori dell’istruzione formale, con l’industrializzazione il discorso si fa più complesso. In termini meramente economici anch’essa non avrebbe – come in molti hanno rilevato, a partire dal sociologo tedesco Offe (OFFE, 1977) - un reale motivo di massiccia diffusione, giacché la formazione necessaria per operai il cui solo compito è far girare una parte della catena di montaggio non contempla studi di grande livello. Tuttavia, insieme all’aspetto economico, la scolarizzazione in epoca industriale è inserita in

105

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 106

seno ad un generale processo di edificazione dello Stato sociale, utile per contenere il crescente malcontento delle classi lavoratrici. Con l’espansione industriale, cresce quindi la scolarizzazione. Non a caso, nel Mezzogiorno – in cui l’agricoltura continuerà a rappresentare il fulcro dell’economia – i livelli di analfabetismo si manterranno assai elevati sino a dopo la seconda guerra mondiale, ed ancora oggi vi sono isole particolarmente resistenti alla scolarizzazione. Insomma, la scuola elementare è finalizzata alla “formazione e lo sviluppo di una massa lavoratrice ‘qualificata’ per la crescita economica della società; le istanze politiche per un ottimale esercizio dei diritti democratici in vista dell’imminente riforma elettorale; il bisogno di creare una ‘scuola nazionale’ in grado di trasmettere un più moderno sistema ideo-culturale di valori ‘industriali’ e anti-collettivistici, per canalizzare la incipiente emancipazione popolare nella più matura progettualità capitalistica” (BONETTA, 1982). Se quelli appena ricordati costituiscono gli input che il sistema politico e sociale italiano fornisce, in diversi momenti, al sottosistema scolastico, vanno adesso visti gli output di quest’ultimo, al fine di rispondere efficacemente alle indicazioni ricevute. Ciò che qui interessa è comprendere come un simile sotto-sistema riproduca e, per certi versi, accentui quei meccanismi politico-amministrativi il cui scopo era la convergenza verso l’omogeneità e la marginalizzazione delle differenze. Ancora prima di analizzare nel dettaglio programmi scolastici, libri di testo, ecc., è infatti di decisiva importanza mettere in luce in che senso nella scuola post-unitaria confluiscano quelle necessità uniformizzanti che faranno di essa un sistema alieno dal riconoscimento di qualsiasi forma di distinzione e differenza. 1. L’assetto istituzionale. L’accentramento, come ricordato, costituisce l’opzione base per l’intero apparato amministrativo italiano. Il sistema scolastico non si discosta da tale scelta, anzi vi rientra in pieno, pur con qualche eccezione. La legge che verrà applicata a tutto il Regno, la legge-Casati, approvata nel 1859 in Piemonte, aveva solide radici. Essa, infatti, affondava le proprie fondamenta 106

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 107

in due normative antecedenti, che avevano già spianato la strada al sistema accentrato quale scelta di fondo per l’organizzazione della scuola: la legge-Boncompagni del 1848 ed il suo Riordinamento, avvenuto nel 1854 ad opera del Ministro Cribaro e trasformato definitivamente in legge nel 1857 dal suo successore, Lanza. La legge Casati prevedeva che l’amministrazione centrale rimanesse nelle mani del ministro, del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione e di tre ispettori generali, delegati al controllo dell’università, dell’istruzione secondaria e di quella primaria. L’unica, parziale novità, in termini di concessione di potere ad organi decentrati, è rappresentata dal Consiglio scolastico provinciale, composto da 21 membri, tutti di nomina regia, e dalle competenze pressoché illimitate ma dai poteri esclusivamente consultivi. D’altra parte, la spesa per l’istruzione, ritenuta da molti esponenti della borghesia conservatrice eccessiva e non sostenibile da parte dello Stato, viene in parte decentralizzata, senza – come si è visto sopra – risolvere il problema principale che si poneva al tempo, la lotta all’analfabetismo. L’istruzione elementare viene delegata ai Comuni, i quali – specie al Sud – non hanno le minime condizioni per garantirla, tanto più che essa viene immediatamente dichiarata obbligatoria. A detta di Dina Bertoni Jovine “questo è l’aspetto più assurdo della legge Casati”, poiché rende inattuabile il suo stesso obiettivo primario (BERTONI JOVINE, 1959: 97). 2. Tuttavia, ancor più dell’assetto istituzionale della scuola, pare importante rilevare un altro aspetto che configura il mondo della formazione come uno dei più accentratori ed uniformanti del nuovo Stato nazionale. In almeno tre sensi ciò è vero: da un punto di vista sociale, religioso e linguistico. L’analisi dei programmi scolastici – specie del livello elementare – rappresenta la cartina di tornasole più efficace per addivenire ad una dimostrazione accettabile di tale assunto. Tuttavia, è utile riferirsi inizialmente ad aspetti più generali, relativi soprattutto al modo in cui le cosiddette “minoranze” si pongono di fronte alla nascita dello Stato unitario. Partiamo dal livello sociale. In questo caso, non si tratta di parlare di una minoranza in senso numerico, bensì politico. Se

107

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 108

è vero che le leve delle istituzioni nazionali erano saldamente nelle mani della borghesia settentrionale, appoggiata – non senza contrasti – dai latifondisti meridionali, è altrettanto vero che la grande massa popolare era esclusa – di diritto e di fatto – dalla possibilità di gestire la cosa pubblica. Nell’Italia post-unitaria le correnti che avevano come base sociale di riferimento le classi meno abbienti erano, fondamentalmente, democratici (soprattutto mazziniani, garibaldini e qualche altro movimento sparso per la penisola) e, in seguito, socialisti (anch’essi molto divisi al loro interno). Le ispirazioni erano quindi di diversa natura, ma tutte confluivano verso una convinzione di fondo: che la scuola e l’istruzione fossero gli unici mezzi affinché quelle classi così diseredate potessero aspirare ad una qualche forma di mobilità sociale. Con parole di Offe, si potrebbe affermare che sia la visione liberale che quella più propriamente marxista sposano tale punto di vista, investendo nell’istruzione formale borghese. Anzi, in ambedue i casi vi è la piena accettazione che “lo sviluppo dei macchinari nel corso del progresso tecnico, in particolare la crescente automatizzazione del processo produttivo, … [richiede] un aumento di forza-lavoro dotata di qualificazione specifica” (OFFE, 1977: 174). Ora, l’Italia dell’Ottocento non si trova certo al livello di sviluppo dell’industria tedesca di fine Novecento; tuttavia, la similitudine introdotta da Offe circa l’industrializzazione automatizzata e le idee di Von Thünen, un liberale dalle idee avanzate della prima metà del secolo XIX, fa rientrare anche il caso italiano in tale schema. Nel senso che anche qui si introduce, da parte delle classi lavoratrici e delle loro rappresentanze, la convinzione di un rapporto diretto, nelle società moderne, tra esigenze del mercato del lavoro e nuovi livelli formativi, affinché si realizzi una piena compatibilità tra questo e quelli. Com’è ovvio, ciò significa – sin dall’inizio – l’adesione (anzi, l’individuazione come diritto fondamentale ed universale) del modello educativo di massa e nazionale. Tale scuola, in quanto formatrice delle coscienze dei nuovi italiani, deve tendere ad uniformare, ad eguagliare e ad omogeneizzare, sul piano culturale, ciò che la società aveva diviso, in termini di appartenenza a questa o quella classe. Per questo essa deve essere interclassista, sebbene il legislatore man108

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 109

tenga, nelle sue linee generali, una distinzione tra coloro che, attraverso gli istituti tecnici, andranno a costituire il mondo produttivo – nelle sue varie sfaccettature – e coloro che, per mezzo dell’università, continueranno a rappresentare la classe dirigente del paese. In tal senso, viene mantenuta la “società dei due popoli”, ma con un grado di accettabilità sempre maggiore, anche da parte delle classi medio-basse, proprio grazie alla funzione universalizzante della scuola. Se, quindi, le classes dangerouses spingono per massificare sempre di più il sistema dell’istruzione, anche dal lato di quasi tutti gli altri attori sociali non vengono indicazioni contrarie, eccezion fatta per i latifondisti meridionali. Di fronte a tale quadro, come viene affrontata la questione delle “diversità” culturali presenti nel paese? Cominciamo con l’esempio delle confessioni religiose diverse rispetto a quella cattolica. Si tratta, essenzialmente, degli ebrei e dei cristiani di fede protestante. Numericamente i due gruppi sono piuttosto esigui, contando, nel 1861, rispettivamente 22.458 e 32.648 membri, contro i 21.720.363 di cattolici. In entrambi i casi, la declinazione fortemente laicista del nuovo Stato costituisce un elemento di adesione al progetto di unità nazionale. Ciò vale soprattutto per le confessioni protestanti, tradizionalmente legate alla Corona che, il 17 febbraio del 1848, aveva riconosciuto il diritto ai Valdesi di professare liberamente il proprio culto, aprendo così una stagione di nuove e più solide relazioni con lo Stato, basate sul laicismo. Sulla spinta di una simile condivisione, le Chiese evangeliche decidono di partecipare al progetto delineato dalla nuova classe dirigente italiana contro “l’obbrobrio dell’analfabetismo”. La legge-Casati consentiva una buona libertà d’azione in questo senso. Oltre all’obbligo ed alla gratuità per la scuola di base, però, essa non rendeva coercitiva l’istituzione di istituti di grado superiore per i Comuni oltre i 4000 abitanti: ciò significava che 7.807 Municipi su 8.789 erano esentati da tale disposizione, cosicché soltanto nei grandi centri sarebbe stato possibile garantire un percorso formativo completo (MANNUCCI, 1989: 10-11). Grazie all’art. 355, la legge-Casati permetteva – disciplinandola con apposito Regolamento emanato il 15 settembre 1860 – l’apertura di scuole elementari private. 109

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 110

Così, le Chiese evangeliche costruiscono una scuola elementare accanto ad ogni edificio di culto. “Nelle nostre scuole evangeliche – viene ricordato da un giornale del tempo (L’ECO DELLA VERITÀ, 1867: 11-12) - non si fa propaganda propriamente detta, non si costringono i ragazzi ad abbandonare il Cattolicesimo; anzi in esse (forse in tutte) non si trattano neppure questioni di controversia religiosa; in esse non si iscrivono i ragazzi al Protestantesimo; essendo nostro principio di non ricevere mai ragazzi, ma solo coloro che giunti all’età del perfetto discernimento (…) dimostrano il bisogno religioso di unirsi a Cristo. In esse s’insegna tutto quanto è prescritto dai programmi governativi”. Insomma, una funzione di supporto alla scuola pubblica, laddove questa non poteva arrivare, assai più che la volontà di costruirne una a forte impronta protestante. Coerentemente con tale impostazione laicista delle scuole private, le Chiese protestanti sono contrarie all’insegnamento confessionale in quella pubblica, aderendo in pieno alle idee liberali, in opposizione alle pretese egemoniche della Chiesa cattolica. Quanto detto rende chiaro che non vi è, da parte delle confessioni cristiane non cattoliche, alcuna seria ragione per richiedere allo Stato forme di distinzione “ufficiale” e tanto meno di riconoscimento di diritti collettivi a protezione di un culto minoritario in un’Italia quasi totalmente cattolica. L’ideale sodalizio si incrina nel corso dell’epoca giolittiana: nel 1911 la legge Daneo-Credaro colloca le scuole elementari sotto lo Stato, togliendone la competenza ai Comuni e, due anni dopo, col Patto Gentiloni, il riavvicinamento tra liberali e cattolici è cosa fatta. Le Chiese protestanti sono giocoforza emarginate. Non a caso, in questi anni – anche per le crescenti difficoltà finanziarie – le scuole evangeliche si indeboliscono e, gradatamente, cominciano a scomparire. La scelta, allora, è indirizzare i docenti verso le scuole pubbliche, esprimendo lì la testimonianza della loro fede religiosa, ancora all’interno di una visione eminentemente laica. Sul piano dell’espressione linguistica il discorso è parzialmente diverso. In questo caso, vi furono voci di dissenso al progetto accentratore del nuovo Stato, sia da parte di coloro che erano interessati alla valorizzazione delle lingue regionali (i dialetti), sparsi un po’ per tutta l’Italia, che dal lato di chi apparteneva alle minoranze linguisti110

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 111

che storiche, ossia a quelle isole alloglotte, anch’esse presenti sia a Sud che a Nord della penisola (SALVI, 1975). Tuttavia, tanto per dare un’idea dell’entità numerica del fenomeno, ad inizio secolo (1901) i nuclei familiari la cui lingua d’origine era diversa dall’italiano erano quasi 60.000, mentre, nel 1921, gli individui con tali caratteristiche erano quasi 870.000, escludendo la minoranza sarda che, nei censimenti del tempo, non veniva conteggiata come tale. Non si tratta di numeri poco significativi: quasi un milione di alloglotti, spesso vessati dalle disposizioni dell’esecutivo italiano, tendenti ad assimilare – eliminandole – le difformità linguistiche. Ma tali minoranze non ebbero mai la forza di affermarsi, facendo valere le loro ragioni: peggio ancora andò, come non è difficile immaginare, col fascismo: sia per quel che riguarda l’aspetto relativo alle confessioni religiose non cattoliche, coi Patti lateranensi (1929) a segnare l’ufficializzazione del Cattolicesimo quale religione di Stato, che per quel che concerne le lingue alloglotte, ovviamente bandite con durezza non soltanto dall’universo scolastico, ma anche dall’uso più generale. Una volta chiarito che i tre elementi potenzialmente contrari al processo di unificazione nazionale in quanto differentemente ma comunemente “minoritari” non hanno la possibilità o l’interesse ad ostacolare tale disegno, è forse più comprensibile il motivo per il quale la scuola, espressione diretta del progetto di unificazione nazionale, punti decisamente sull’uniformizzazione delle masse, tacendo – nel migliore dei casi – sui gruppi che non rientrano in un simile schema.

Dentro la scuola: gli strumenti per l’affermazione del modello È a questo punto possibile delineare un rapido quadro di come l’input principale della nazionalizzazione delle masse sia stato recepito all’interno dell’istituzione scolastica. A cominciare, naturalmente, dai programmi di studio. La legge Casati prevedeva che, nel grado inferiore, le discipline insegnate dovessero essere insegnamento religioso, lettura, scrittura, aritmetica elementare, lingua italiana, nozioni elementari del sistema metrico (art. 315). In quello superio111

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 112

re dovevano aggiungervisi la disciplina relativa alle regole della composizione, calligrafia, tenuta dei libri, geografia elementare, esposizione dei fatti più notevoli della storia nazionale, cognizioni di scienze fisiche e naturali applicati agli usi ordinari della vita quotidiana. Già queste prime indicazioni ci confermano quali fossero gli scopi principali della nascente scuola nazionale: insegnare a tutti le fondamenta della lingua italiana, il far di conto ed i principi etici di ispirazione cristiana. Ancor più significative sono le indicazioni che vengono date nel Regolamento del 15 settembre 1860 sui Programmi per la scuola elementare. Per il primo anno, la Religione deve fornire nozioni di “catechismo intorno ai principali misteri della Fede date oralmente dal maestro”. La Lingua italiana deve concentrarsi su esercizi di sillabazione, con il risultato finale della “scrittura di parole dettate per via di sillabe semplici”. Infine, l’Aritmetica su “numerazione, addizione, sottrazione delle cifre arabiche” (BETTINI, 1850: 24). Nel secondo anno del corso inferiore veniva introdotto il libro di lettura e l’aritmetica scritta. Un aspetto appare particolarmente significativo per la tematica qui trattata: l’estensione dell’insegnamento della grammatica, non prevista – per lo meno in quella forma – dalla stessa legge. Il fatto che il Regolamento la preveda e la amplifichi rivela uno degli obiettivi principali del legislatore: la “necessità di insegnare in modo intensivo la lingua nazionale ai molti popoli che confluirono nell’unità dello Stato costituitosi quasi all’improvviso” (IDEM: 30). Oltre all’identità linguistica, come si è detto, la scuola elementare fornisce anche altri contenuti per costruire il giovane italiano. In primo luogo la religione ed il catechismo cattolici, presenti, a vari gradi di complessità, sin dal primo anno. In secondo luogo, attraverso la lettura non vincolata esclusivamente al “leggere bene”, ma attenta anche ai contenuti, si suggerisce l’importanza di una chiara esposizione dei doveri di un uomo sempre più immerso nella nuova società nazionale. La prima revisione dei programmi scolastici è attuata nel 1867, grazie ad un’iniziativa del Ministro Coppino. L’ambito, però, è limitato alla Lingua italiana ed all’Aritmetica. E ciò non è casuale, anzi, è strettamente legato alla situazione del paese: tragica, per il tasso di analfabetismo ancora molto elevato, e per una base formativa degli insegnanti assai insoddisfacente. Coppino, allora, accentua, con tale 112

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 113

Revisione, i due elementi minimi che venivano ritenuti essenziali per uno studente uscito dalle scuole elementari: l’apprendimento della lingua italiana ed il saper fare di conto. In particolare, per la prima si sottolineava come il maestro dovesse correggere “con amorevole pazienza le imperfezioni provenienti dal dialetto della provincia”, esplicitando ulteriormente la volontà di annullare qualsiasi differenza linguistica. Chiara anche l’idea che il dialetto costituisca un qualcosa da correggere e da sconfiggere rapidamente mediante l’apprendimento della lingua ufficiale. La prospettiva, quindi, resta identica a quella già profilata dalla legge-Casati, di cui non si disconosce, anzi, si conferma l’impianto: si deve fare “in modo che all’istruzione vada sempre congiunta l’educazione”, cosicché “i giovinetti che escono dalla quarta elementare devono essere istruiti e savi e piegati al bene” (IDEM: 38). Proseguendo velocemente in questa disamina, non è difficile notare come l’inasprimento dei programmi per la scuola di base vada di pari passo con la nazionalizzazione dei giovani, grazie soprattutto al corretto apprendimento (anche di tipo mnemonico) della lingua italiana. Dopo la revisione dei programmi del 1894, quella del 1905 sottolinea l’importanza degli “esercizi di pronuncia con speciale riguardo alla correzione della fonetica dialettale, dettatura e copiatura di brevi periodi” (IDEM: 78), con un’ulteriore accentuazione relativa alla necessità di bandire qualsiasi inflessione degli idiomi locali dall’espressione (orale e scritta) dello studente. Inoltre, ciò che colpisce – nei programmi del 1888 – è l’accento posto “alla formazione dell’animo”, che significa “l’adempimento esatto dei doveri relativi alla sua età e alla sua condizione”, mediante soprattutto una ferrea “disciplina scolastica”. Ora, una simile tendenza – più forte ed esplicita rispetto a quanto previsto dai programmi del 1859 e del 1867 – va spiegata col momento storico in cui si trova l’Italia. A fine Ottocento, infatti, la prima ondata di industrializzazione si era ormai diffusa in gran parte del CentroNord, cosicché una delle più gravi minacce derivava dalle nuove pretese della classe operaia. La scuola di base, allora, cambia, in parte, visione, dovendo impartire non tanto insegnamenti concreti sulle modalità di comportamento, quanto la generale accettazione del sistema vigente, soprattutto da parte dei giovani delle fasce più disagiate. Essa deve “formar della gente retta, tranquilla, solida, e seria”, 113

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 114

ossia perfettamente adattata al nuovo assetto sociale in formazione (IDEM: 87). Il maestro, infatti, si trasforma nel trasmettitore della concordia e di un ordine sociale che le classi dirigenti temono in pericolo. Costui dovrà cercare di “infondere ne’ suoi alunni i sentimenti che più conferiscono al benessere civile, l’amore dell’ordine, della concordia, della tranquillità laboriosa e della socialità umana”, inculcando “la compiacenza di appartenere ad una grande nazione valida e stimata” (IDEM: 87-88). Insomma, il profilo del nuovo giovane italiano si delinea in modo piuttosto chiaro: deve essere un individuo che riesce a parlare correttamente la lingua nazionale, rispettare l’assetto sociale ed istituzionale vigente ed amare il lavoro, infine essere orgoglioso di appartenere ad una grande nazione, ricca di storia e di memoria. Un ritratto certamente diverso rispetto a quello dello studente della fase immediatamente successiva all’unificazione, in cui l’elemento nuovo è rappresentato dalla capitalistica e moderna propensione verso il lavoro, utile in sé, ma anche per evitare scompigli di tipo sociale, sempre più temuti. E, coerentemente al clima di fine secolo, nella revisione programmatica del 1894, gli obiettivi di uniformità acquisiscono accenti ulteriori, principalmente in due sensi: da un lato, la lingua italiana, ancora dichiarata come prevalente “su tutte le altre per importanza”, e “simbolo di concordia e di amor patrio a tutte le genti italiane”, dall’altro la storia nazionale, il cui obiettivo ultimo è “far conoscere ed amare la patria” (IDEM: 101-105). La successiva revisione, datata 1905 (e preceduta di un anno dall’approvazione delle legge-Orlando, che portava da 9 a 12 anni l’obbligo scolastico), non cambia granché, se non nei termini di una particolare sottolineatura di aspetti legati alla visione positivista, specie per quel che concerne lo svilupparsi del senso di osservazione e del metodo sperimentale (già presenti nella revisione del 1888), e sempre nel solco di una ormai consolidata tradizione, in cui cercare di creare la “maggiore uniformità possibile”, edulcorata soltanto da un non meglio definito “differenziamento” di carattere municipale (IDEM: 123). Un secondo aspetto, di particolare significato per comprendere l’affermazione e la diffusione del processo di massificazione nazionale riguarda i libri di testo. Con la raggiunta unità nazionale, tale 114

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 115

questione comincia ad assumere rilievo sia dal punto di vista dei contenuti che da quello del potenziale mercato che si presentava agli editori di manuali scolastici. E, parallelamente, sia la legge Casati che la legge Coppino attribuivano rilievo all’uso di questo fondamentale strumento, tanto più in un’Italia largamente illetterata e, quindi, priva di riferimenti bibliografici, specie per le classi popolari (PORCIANI, 1982: 237-271). Il manuale dell’Italia post-unitaria aveva due caratteristiche fondamentali: anzitutto, il suo compito era contribuire attivamente alla formazione del nuovo cittadino. Questo era possibile grazie alla sua prossimità con le letture edificanti di orientamento cristiano, il cui incipit era basato sull’invocazione alla divinità e la cui conclusione richiamava la benedizione divina, soprattutto sugli umili, congiuntamente alla professione di fede civile, identificantesi nel rispetto e l’amore verso la Corona. A tale paradigma si ispira uno dei manuali per la scuola elementare di maggior successo, il Giannetto di Parravicini, evidentemente destinato ad un pubblico anche più vasto che non il relativamente ristretto numero di studenti elementari per cui era stato in origine pensato. La seconda caratteristica, conseguente alla prima, è il duraturo successo di alcuni di questi testi, in voga per decenni nelle scuole, in particolare di base (IDEM: 244-245). Con la diffusione dell’alfabetismo, e col progetto della scuola di massa perseguito dalle classi dirigenti a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, il manuale scolastico assume un ruolo del tutto in linea con la visione centralizzatrice ed uniformante di cui abbiamo ampiamente parlato. Uno dei problemi per l’affermazione di tale obiettivo, infatti, era la figura dell’insegnante che, oltre ad essere generalmente poco preparata, non avendo grossi punti di riferimento scritti, poteva godere di una quasi assoluta libertà didattica, con controlli per lo più indiretti e non strettamente attinenti al merito della disciplina (ad esempio relativi alla sfera etica, al buon comportamento, ecc.). Il manuale scolastico sopperisce a tale carenza, e diventa un fondamentale punto di riferimento per rendere più omogeneo l’insegnamento, secondo un’ottica nazionale, in modo da garantire uniformità e “controllo sui programmi effettivamente svolti” (IDEM: 247). Due elementi contribuiscono affinché il percorso relativo alla formazione di un omogeneo corpus docente possa affer115

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 116

marsi, ma soltanto in misura parziale: in primo luogo, la convinzione, difesa da molti uomini politici, appartenenti all’area liberale più progressista, tesa al riconoscimento dell’autonomia dell’insegnante. Cominciarono alcuni industriali del Nord – tra cui il Macchi – a sottolineare la necessità di dare maggiore spazio all’insegnamento privato ed a quello libero; proseguirono due ministri della Pubblica Istruzione, prima De Sanctis, poi Berti, il quale ultimo tentò di ritagliare un ruolo di un certo significato, nell’istruzione di base, a favore di Comuni, Province e personale scolastico; tuttavia la reazione della Destra storica e degli elementi più conservatori di quello schieramento bloccarono sul nascere ogni iniziativa e, con la legge Coppino – di cui si è già detto – riuscirono “ad annullare ogni provvedimento” in tal senso (SEMERARO, 1996: 26). La questione dell’autonomia dell’insegnante, comunque, permane per molto tempo quale tema di discussione sullo sfondo del dibattito politicopedagogico nazionale. L’altro fattore è rappresentato dall’esplosione della concorrenza tra editori per la conquista di un mercato – quello dei manuali scolastici – di assoluto interesse per l’Italia del tempo. Nel 1881 i manuali che circolavano erano ben 3922, dei quali 1033 per le scuole elementari, ed una così rilevante diffusione era stata permessa grazie alle nuove discipline, specie di tipo tecnico, inserite, per le scuole superiori, dalla legge Coppino del 1867. La ricetta per evitare il proliferare di testi dalla dubbia qualità, difficilmente controllabili e non rispondenti agli ideali che lo Stato intendeva inculcare negli studenti italiani fu assai semplice e, per certi versi, scontata, agevolata da una reale speculazione editoriale, contro la quale non era difficile scagliarsi: il controllo diretto, da parte del Ministero, di tali testi, sulla tradizione dell’antico Regno di Sardegna, ed in opposizione a quanto da sempre era avvenuto in Toscana, dove, tradizionalmente, si era garantito un ampio pluralismo. L’obiettivo è quindi chiaro: “garantire omogeneità tra le varie scuole del regno e una più stretta consonanza tra l’insegnamento ivi impartito e le direttive del ministero” (PORCIANI, 1982: 261). Come sosteneva Ercole Ricotti nel 1849, occorreva che “un solo spirito e metodo reggesse e l’istruzione universitaria (…) e quella secondaria”, perseguendo con decisione una tranquillizzante (per dirla con Luigi Schiapperelli) “mediocre uniformità” (IDEM: 261). Fallito il tentati116

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 117

vo di imporre il testo unico (problema che, non molti anni più tardi, il fascismo risolverà una volta per tutte), si cercò di far passare l’uso del manuale in tutte le scuole, selezionando quelli ritenuti più appropriati. Il livello di controllo era duplice: localmente, attraverso l’azione dei Consigli provinciali scolastici; centralmente, per mezzo del Consiglio superiore. Il tutto all’interno di un processo in cui vengono continuamente emanate circolari ministeriali orientative, che finiscono per costituire un guazzabuglio quasi inestricabile, ma il cui fine è il massimo grado di uniformità possibile. Uno scopo, tuttavia, era stato ottenuto: a fronte di un mercato tendenzialmente libero del manuale scolastico, frutto della legittima e sin’anche ovvia battaglia tra imprenditori del settore, lo Stato era riuscito ad imporre l’uso del manuale agli insegnanti, superando la fase “spontaneistica” ed “individualistica” determinata dal solo dettare appunti ai discenti. Insomma, non si riuscì ad ottenere il testo unico, soprattutto per le pressioni delle case editrici, ma a indirizzare fortemente la scelta dei manuali scolastici e, conseguentemente, a limitare la libertà d’insegnamento dei docenti. Se questi sono i due aspetti essenziali che rivelano, nel concreto mondo della scuola, il dispiegarsi dell’azione unificatrice ed uniformizzante che le classi dirigenti liberali vollero dare ad un’identità nazionale in costruzione, altri elementi potrebbero essere ricordati. Lo faremo, in questa circostanza, soltanto elencandoli, senza la necessità – visti gli obiettivi di questo studio – di approfondirli analiticamente. In primo luogo, la questione del rapporto con le scuole private: lo Stato laico punta decisamente sulla scuola pubblica. Ciò non significa non riconoscere scuole confessionali, ma tollerarle come male necessario, salvo includere l’insegnamento della religione cattolica – come si è visto sopra – dentro il percorso di formazione laica. Uno studioso dell’inizio del Novecento scrive, riferendosi alla vicenda italiana post-unitaria: “l’insegnamento privato, tenuto principalmente da associazioni religiose o da adepti di esse, talora si informa a principii diversi da quelli che si professano nelle scuole pubbliche, innestando negli animi teneri (…) un indirizzo di pensieri e di sentimenti che politicamente lo Stato deve combattere” (MASI, 1911: 7). La scuola pubblica, sul modello francese, è comunque il punto di riferimento predominante. In secondo luogo, la for117

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 118

mazione degli insegnanti. Qui, vi sono varie fasi, tutte tendenti, anch’esse, alla ricerca di un minimo comun denominatore nella preparazione dei futuri docenti. I maestri, in base alla legge Casati, dovevano passare dalla Scuola normale triennale, i professori, naturalmente, da una formazione universitaria. Tale scenario, tuttavia, stenta ad attuarsi in pieno, almeno sino alla fine dell’Ottocento, per entrambe le categorie di insegnanti. Proprio in questo periodo, grazie alla riforma del Ministro De Sanctis, la Scuola normale diventa più selettiva, aumentando la preparazione dei futuri maestri. E tuttavia in modo ancora insufficiente. Parallelamente, cominciarono ad organizzarsi i primi corsi di aggiornamento (le conferenze) per coloro che già insegnavano, in modo che anche il maestro del più sperduto villaggio rurale meridionale potesse partecipare, entrando in un circuito in cui condividere le idee, le difficoltà, le riflessioni con gli altri colleghi (DE FORT, 1974: 425-460). Il sostanziale fallimento di tali tentativi portò – in parallelo a quanto visto per i manuali scolastici – alla definizione sempre più puntuale e precisa dei programmi ed alla riduzione dei principi del positivismo “in formule semplificate e stereotipate”, il cui livello di standardizzazione era funzionale agli obiettivi statali di infondere nei discenti gli ideali di “Dio, Patria e Famiglia” (IDEM: 450).

Le politiche di uniformazione in epoca fascista e nell’Italia repubblicana Il fascismo, sin dai suoi primissimi anni, si occupò in modo approfondito della scuola, quale formidabile mezzo per la nazionalizzazione delle masse. La riforma Gentile è del 1923, appena un anno dopo l’avvento di Mussolini al potere. Un efficace giudizio su questa importantissima legge, che influenzerà notevolmente l’organizzazione scolastica ben oltre i limiti temporali del fascismo, è offerto dal Semeraro, il quale sottolinea, oltre alla completa assenza di una discussione ed un dibattito parlamentare (formalmente la normativa consistette in una serie di decreti approvati direttamente dall’esecutivo), che “l’ispirazione più profonda dei decreti restava la restaurazione in senso più marcatamente centralistico della vecchia legge Casati, insieme all’accoglimento di alcune idee-guida che si 118

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 119

erano fatte strada nel quindicennio giolittiano” (SEMERARO, 1996: 60). Il che significa: 1. massima centralizzazione della struttura amministrativa, con solo tre ispettori generali, per ognuno dei rami principali degli studi (elementare, tecnico, classico) e sostituzione di provveditori regionali a quelli provinciali. All’interno della scuola, la figura del Preside assume le funzioni di un vero e proprio delegato del governo centrale in loco; 2. l’insegnante viene anch’esso ingabbiato in modo ferreo in seno ai nuovi obiettivi formativi del regime, specificamente disciplina, rispetto supremo per l’autorità e per la gerarchia, amor patrio venato da fortissime tendenze nazionalistiche, introducendo il giuramento di fedeltà allo Stato, esteso, nel 1931, anche ai docenti universitari; 3. parallelamente, i programmi vengono “fascistizzati”, insieme alla struttura scolastica. Quest’ultima viene ripartita in grado preparatorio (scuola materna non obbligatoria), grado inferiore (dalla prima alla terza classe), grado superiore (quarta e quinta), corso integrativo post-elementare (dalla sesta all’ottava), con l’estensione dell’obbligo a 14 anni. Nella scuola secondaria viene introdotto l’esame di Stato, il primato del liceo classico e della cultura umanistica, la forte svalutazione delle scuole tecniche. La filosofia (idealistica) diventa il fulcro non esclusivamente del liceo classico, ma anche della scuola normale riformata, in cui al futuro maestro non si richiedono tanto specifiche preparazioni disciplinari, bensì doti spirituali incentrate sulla concezione della pedagogia come atto unico ed irripetibile e, perciò, metodologicamente ininsegnabile. Il connubio tra libertà idealista di stampo gentiliano ed organizzazione dittatoriale del fascismo durò poco, tanto che la riforma fu ben presto stravolta, alla luce dell’obiettivo della costruzione di una scuola nazionale. Coi Patti lateranensi, in luogo della filosofia idealista, la dottrina cristiana, nella versione cattolica, diventa il punto di riferimento filosofico-spirituale per tutti i giovani italiani. Nel biennio 1935-36 si dà la spinta definitiva per la “bonifica fascista della scuola”, centralizzandone al massimo la struttura organizzativa. Gli stessi programmi sono ormai completamente sotto il controllo del Ministro, col rafforzamento della cultura militare nelle scuole, il rigetto degli autori stranieri, l’esaltazione della storia romana quale vicenda della nobile e valorosa stirpe precorritrice dello splendore italico incarnato da Mussolini. Il docente che 119

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 120

non avesse chiare simpatie fasciste veniva espulso dalla scuola: “i fascisti – è stato scritto (OSTENC, 1981: 144) - concepivano dunque il professore come un missionario della loro fede”. Coerentemente, già a partire dal biennio 1925-26, un certo numero di insegnanti manifestamente antifascisti viene allontanato dal servizio, introducendo così il diritto al licenziamento per i dissenzienti.; 4. infine, viene raggiunto uno degli obiettivi che i liberali più conservatori non avevano saputo ottenere: il libro di testo unico e di Stato per la scuola elementare (1929), a completamento di una totale irreggimentazione dell’intero sistema scolastico entro coordinate tipicamente fasciste. L’apice di questo processo viene raggiunto nel 1939, con l’approvazione, da parte del Gran Consiglio del fascismo, della Carta della Scuola, proposta dal Ministro Bottai. Un tale programma tende ad eliminare, dopo i Patti Lateranensi, specie per le minoranze religiose, qualsiasi tipo di dissidenza, nonostante la legge sui culti ammessi (n. 1159 del 1929), che prevede la libertà di culto per le confessioni cristiane “acattoliche”. L’alleanza clerico-fascista, che pure ha sfaccettature assai complesse, limita comunque in misura notevole l’effettiva libertà religiosa delle Chiese evangeliche, visto che, ormai, all’interno della nuova italianità, era entrata in pieno anche la cattolicità. In alcuni casi, relativi in particolare a Testimoni di Jehova e Pentecostali, si procede a veri e propri stermini, visto il rifiuto di questi di occuparsi, a qualsiasi titolo, di questioni pubbliche e, tanto meno, politiche. La nuova situazione non può che provocare una conseguenza: essa costituisce il colpo finale alla già grama esistenza delle scuole protestanti che, rapidamente, scompaiono. Questa sintetica disamina della scuola fascista mette in evidenza un ulteriore spostamento della questione che qui più interessa: oltre alla totale mancanza di riconoscimento ed accettazione di qualsiasi tipo di minoranza, sia essa linguistica, religiosa, sociale o culturale, anche il dissenso politico-ideologico acquista grande valore, entrando a far parte dei soggetti discriminati dallo Stato italiano. In epoca repubblicana lo scenario naturalmente cambia, e tuttavia l’obiettivo di fondo non si discosta di molto rispetto alle due epoche precedenti, quella post-risorgimentale e liberale e quella fascista. Ancora una volta, il nuovo legislatore deve confrontarsi con un pro120

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 121

blema di fondo, irrisolto nonostante i quasi cento anni di unità nazionale: formare una coscienza ed una identità nazionale, sulla base di un ritrovato anelito verso la libertà ed il pluralismo. Prospettive, come si può intendere, per certi versi contraddittorie: com’era possibile fondare una nuova comunità nazionale, unita ed omogenea, a partire dal rispetto e dal riconoscimento delle diversità, anche minoritarie, e sulla base di una filosofia tipicamente liberale, incentrata sull’individuo quale soggetto unico di diritto? Infatti, tale contraddizione non riesce a trovare una quadratura, sia in termini generali che a livello di sistema scolastico. Le contraddizioni antecedenti all’avvento del fascismo si riprodussero quasi alla stessa stregua di come si erano manifestate nell’Italia liberale. Certamente le minoranze politiche riescono a riacquistare una loro dignità, tuttavia non si deflette dall’obiettivo di fondo: creare un’identità nazionale che passi innanzitutto dall’apprendimento della lingua italiana (ed i cui mezzi privilegiati sono la scuola e, dagli anni Cinquanta, la televisione), dalla comunanza religiosa (la confessione cattolica continua ad essere religione di Stato), dalla condivisione dei principi di una moderna democrazia liberal-democratica. Non a caso – tanto per parlare soltanto di una di queste problematiche – alla prospettiva di una possibile forma di tutela “positiva” delle minoranze storiche linguistiche ne viene preferita – a partire dall’Assemblea costituente - una più generalista ed universalista, di tipo “negativo”. Di fronte al dilemma se attribuire ad esse “norme speciali”, la risposta è chiara: “Il primo problema che si presenta a questo punto – si legge negli atti dell’Assemblea costituente (MINISTERO PER LA COSTITUENTE, 1946: 11) - è quello se le minoranze stesse debbano essere considerate come soggetti di diritto, e se debba essere loro riconosciuta personalità giuridica. Sembra che questo problema debba essere risolto negativamente. Soggetti di diritto sono i cittadini che costituiscono le minoranze stesse”, ragione per cui non dovrà essere loro “garantita una rappresentanza propria nella Assemblea politica dello Stato”. Da qui l’apparentemente atipica scelta di riconoscere soltanto a poche regioni forme di autonomia istituzionale, vista l’impossibilità di ampliare a gruppi minoritari la soggettività giuridica, ancorata ai soli individui. La formula delle regioni a statuto speciale (peraltro le uniche ad essere costituite 121

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 122

prima del 1970) sembra “tenere” tutto: da un lato, le pretese delle minoranze “forti” che creavano maggiori problemi politici. In Trentino Alto-Adige, la minoranza tedesca premeva per l’Anschluss verso l’Austria e, in Sicilia, le forti tendenze scissionistiche erano rappresentate politicamente dal movimento di Finocchiaro-Aprile; dall’altro, le preoccupazioni unitarie dei padri costituenti. Il vulnus – di cui si tratterà più avanti in questo volume – è rappresentato dal fatto che l’art. 6 della Costituzione esplicitamente riconosce che “La repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”, ma la legge applicativa non sarà approvata prima del 1999. La vicenda scolastica deve collocarsi in un simile ambito. Da una parte, estrema valorizzazione dei nuovi principi democratici e costituzionali; dall’altra, una scarsissima attenzione al tema delle minoranze in uno Stato che non desiderava esaltare le differenze. Non a caso, si opta ancora per l’accentramento amministrativo, compreso quello relativo alla scuola; gli stessi programmi, gran parte dei libri di testo e della formazione dei docenti mostrano una tale impronta, nonostante l’ampio pluralismo delle idee comunque garantito. Un ideale punto di partenza può essere costituito dai programmi scolastici elaborati dalla Repubblica dell’Ossola, uno dei territori liberati prima del 1945 nel Nord del paese. Qui, se l’ispirazione è rappresentata dalla “formazione dell’uomo”, elogiando la scuola unica di matrice ottocentesca, si afferma “la convinzione che la riforma Gentile fosse valida e che fossero stati gli interventi dei ministri successivi succedutisi alla Pubblica istruzione dal 1925 in poi a guastarla” (AMBROSOLI, 1982: 16). Insomma, si cerca di innestare, sin dai tempi della Resistenza, un ideale filo di continuità tra Risorgimento (non a caso la guerra di liberazione verrà da molti letta come “secondo Risorgimento”), idealismo corrotto dalle impurità del fascismo e nuova nazione italiana. Sul solco di questa tradizione non è difficile comprendere come, anche nella scuola, a prevalere fosse una linea moderata, incapace di proporre una riforma radicale, anche per le incertezze dei partiti progressisti e di sinistra. Piuttosto, il dibattito si sposta – sebbene se con risultati incerti, ribadendo la prevalenza dell’idea di uno Stato laico – sull’opzione tra scuola confessionale o aconfessionale, acquisendo tale tematica una centralità precedentemente sconosciuta e francamente eccessiva rispetto alle necessità for122

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 123

mative dell’epoca. Cosicché, pur non ammettendo – a partire dalla Costituzione – il “riconoscimento della funzione pubblica per la scuola dei privati, come pure era stato esplicitamente richiesto” (SEMERARO, 1996: 107), viene mantenuto l’insegnamento della religione cattolica nella scuola, conquista ottenuta coi Patti lateranensi ed a cui la Dc non era disposta a cedere, ed il finanziamento pubblico agli istituti privati. Le forze di sinistra premono quindi per una scuola popolare e di massa sin dai primi anni della Liberazione, cercando di eliminare una delle più pesanti discriminazioni di epoca liberale e fascista, quella di tipo sociale, scorgendo nel percorso scolastico-formativo il mezzo principale per emancipare i figli delle classi lavoratrici e dare loro chances di vita teoricamente comparabili con quelle dei ceti più elevati. Tutto va verso una necessaria massificazione, sotto la bandiera della democrazia e della partecipazione popolare alla vita civile. Nel corso degli anni Cinquanta tali propensioni ideali vengono ulteriormente approfondite. Nel 1957, grazie ad un ordine del giorno presentato da Donini al Senato e votato all’unanimità, viene introdotto l’insegnamento della Costituzione nelle scuole, tuttavia in modo piuttosto insoddisfacente e non rispondente alle aspettative dei laici che avevano promosso l’iniziativa. La legge-Moro che ne traduce l’ispirazione, infatti (la n. 585 del 1958), non coglie gli elementi di potenziale innovazione scaturenti dal dibattito senatoriale, cosicché l’opzione fu “una cauta apertura della scuola alla vita sociale, grondante di preoccupazioni, di reticenze, specchio fedele insomma di una politica della tutela dell’apprendimento dalle possibili turbative della vita associata, come venne denunciato dall’opposizione” (IDEM: 133). La strada verso la popolarizzazione era comunque aperta: nel 1969 viene liberalizzato l’accesso all’università per tutti gli studenti che avessero frequentato un qualsiasi corso superiore di durata quinquennale, negli anni Settanta si celebra la stagione dei decreti delegati (1974), con una riforma in teoria profonda e spinta, in senso favorevole alla partecipazione, e col varo di organi di governo scolastico di tipo collegiale, ma in assenza di una corrispondente e parallela revisione del centralismo burocratico-amministrativo di matrice ministeriale, di fatto invariato. Soltanto sul finire del secolo, con l’autonomia scolastica (1999), sia organizzativa che didattica, 123

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 124

tale impalcatura viene intaccata, a beneficio, da un lato degli attori sociali operanti sul territorio, dall’altro della libertà d’insegnamento dei docenti, nonostante vengano mantenuti importanti vincoli finalizzati al rispetto di programmi comunque decisi da Roma. A questo proposito, in molti sono convinti che “il sistema scolastico italiano resta quindi di tipo centralizzato”, a causa della questione finanziaria e di quella curricolare, stabilite entrambe in sede ministeriale (DEI, 2007: 21-22). All’interno di un simile processo evolutivo, come si è accennato estremamente faticoso e lento, a partire dagli anni Ottanta penetra, nel sistema scolastico così come nella società italiana, una variabile imprevista: una presenza sempre più massiccia di studenti di origine non italiana nelle classi di ogni ordine e grado, a partire da quelle inferiori. A questo punto non salta esclusivamente l’impianto centralizzato, piuttosto tradizionalista e decisamente etnocentrico della scuola nazionale: vengono messe in crisi le coordinate stesse delle discussioni politico-culturali intorno al pianeta scuola, sviluppatesi dalla Ricostruzione in poi. Un nuovo paradigma comincia a proporsi con forza e ad affermarsi: come affrontare, pedagogicamente, la presenza di molti soggetti alloglotti, differenti anche per cultura e religione, oltre che per lingua, rispetto alla maggioranza italiana, e, filosoficamente, la sempre più consapevole richiesta di riconoscimento collettivo di identità particolari. Il sistema viene messo in crisi, e l’Italia, nel suo complesso, fornisce risposte stentate e balbettanti, nel passaggio dal monoculturalismo all’intercultura.

Un sistema in crisi: identità nazionale e pluriculturalismo nella scuola italiana contemporanea Sino ad ora si è cercato di rispondere alla prima delle due questioni poste all’inizio di questo lavoro: mediante quali meccanismi la scuola italiana ha reagito agli input provenienti dal sistema sociopolitico nazionale in formazione. Adesso occorre comprendere perché, col cosiddetto “multiculturalismo”, la crisi si è verificata, mettendo in ginocchio le antiche strutture costruite nei decenni precedenti. Una rappresentazione grafica ci aiuterà a questo scopo. 124

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 125

Grafico 2. La crisi del sotto-sistema scolastico italiano di fronte al pluriculturalismo

In un sistema con forti continuità con quello gentiliano, ancora accentrato in termini organizzativo-burocratici, ancorato ad una visione molto italocentrica e col fine esplicito di nazionalizzare le masse, la variabile-società pluriculturale giunge come un inaspettato lampo che sconvolge le fondamenta del peraltro obsoleto edificio formativo nazionale. I temi non affrontati nell’immediato dopoguerra si ripresentano decuplicati all’ennesima potenza. Solo che, questa volta, c’è un elemento qualitativo in più: mentre – come si è tentato di mostrare – le minoranze “tradizionali” non erano riuscite a rappresentare – per scelta o per scarsa forza – un elemento dissonante all’interno della costruzione dell’identità nazionale, i nuovi arrivati provocano una rottura degli schemi tradizionali. Essi vogliono una qualche forma di riconoscimento. In primo luogo nella società, 125

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 126

nonostante il miope ritardo sul fenomeno dimostrato dalla classe dirigente italiana: basti pensare che, dal 1974, la penisola ha un saldo migratorio positivo, ma soltanto nel 1990 uscirà la prima legge organica sul tema dell’immigrazione (la cosiddetta legge-Martelli). Ed il dato non è esclusivamente di carattere nazionale: lo stesso è successo in Germania, dove non ci si è assuefatti a dichiararsi paese d’immigrazione, continuando a negare il fenomeno per moltissimo tempo (COHN-BENDIT/SCHMID, 1994) Com’era accaduto nel Nord America (Stati Uniti in primo luogo, ma, in forma un po’ diversa, anche Canada) (TAYLOR, 1993) già negli anni Settanta, tali gruppi avevano constatato che i principi universalistici basati sulla non discriminazione – dunque su una forma “negativa” di tutela dei diritti – non avevano funzionato. Nel senso che la teoria delle “pari opportunità di partenza”, più volte conclamata da tutti i governi occidentali, aveva finito per riprodurre le diseguaglianze sociali originarie, fatto confermato da una scarsissima mobilità sociale in tutti i paesi sviluppati. Ciò ha significato che il problema dell’equanime accesso al mercato del lavoro ed a tutti i principali servizi socio-educativi, determinanti per delineare il successo professionale, non era stato risolto a monte. Così, si giunge ad ipotizzare, quale misura temporanea, la “discriminazione a rovescio”, che consiste nell’assegnare “ai membri di minoranze precedentemente sfavorite certi vantaggi nella competizione per i posti di lavoro” (IDEM: 61). Una simile prospettiva non avrà seguito, poiché presupporrebbe il superamento della concezione liberale, incentrata sull’individuo e non su gruppi umani quali soggetti di diritto. In Italia, mai c’era stata una relazione così stretta ed evidente tra appartenenza a gruppi minoritari ed occupazione dei posti più bassi della scala sociale. E le rivendicazioni erano state assai blande. Ad oggi, non c’è una risposta soddisfacente alla soluzione di una simile, complicata questione: ci si è limitati, nella maggior parte dei casi (in America come in Italia), ad accordare ai gruppi minoritari (per lo più caratterizzati in senso “etnico”) non un pieno riconoscimento giuridico, bensì una qualche forma di “protezione” (più che di valorizzazione) con apposite normative, depotenziandoli attraverso il loro inserimento nel sistema scolastico nazionale. Tuttavia, simili percorsi non hanno risolto i due nodi fondamentali emersi: il 126

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 127

primo, quello probabilmente più significativo, relativo alla cosiddetta “segregazione nel lavoro”; il secondo, di matrice più marcatamente identitaria, inerente alla richiesta di riconoscimento di specifici tratti culturali, che sconfinano in abitudini quotidiane che possono sconvolgere l’organizzazione dei tempi e ritmi di vita della società di accoglienza. Circa il primo, se le evidenze mostrano un leggero miglioramento della situazione nel corso del tempo, anche se dopo lotte durissime durate decenni nel paese a più antica immigrazione, gli Stati Uniti, esse tuttavia rendono palese che, ancora a fine anni Ottanta, la componente di neri ed ispanici impiegata in lavori attrattivi (manager, impiegati, ecc.) si mantiene assai bassa, mentre tali gruppi partecipano in modo massiccio ad attività di livello inferiore, quali servizi non professionali (terziario dequalificato), lavori esecutivi, operai, ecc. (ESPING-ANDERSEN, 1988: 31-68). Sul secondo aspetto appare perfino superfluo ricordare come la moderna società occidentale sia stata costruita su una scansione temporale basata su due caratteri fondamentali: lo Stato laico (con le relative abitudini e festività nazionali) e la cristianità, la quale gestisce, essenzialmente, il tempo di non lavoro. I periodi da questo punto di vista più significativi, a parte il diritto alle ferie estive, sono dettati dalla religione cristiana: il riposo domenicale, le interruzioni natalizie e pasquali, insieme ad altre festività, sono contrassegnate dal presupposto che quei giorni, consacrati al “tempo liberato dal lavoro”, rappresentino un momento di ritrovo collettivo e dedicato, innanzitutto, alla comune riflessione religiosa. Va da sé che abitudini molto diverse, che non si limitano al sabato ed alle altre festività ebraiche, perfettamente compatibili coi ritmi della società moderna, ma che includono, a titolo di esempio, la richiesta di portare il velo islamico anche in luoghi pubblici tipicamente secolarizzati, un differente calendario di festività religiose, a partire dal periodo dedicato al ramadan, per non parlare di concezioni del tutto contrarie a quello che è ormai ritenuto uno stato di diritto acquisito, in primo luogo tutto ciò che si riferisce ai rapporti uomo-donna. Si è calcolato, per esempio, che, ad oggi, esistano in Italia circa 15.000 famiglie poligamiche, in prevalenza di religione musulmana ma non solo, di fronte alle quali la morale, la politica e la giurisprudenza italiane stanno balbettando. Al di là della enorme complessità 127

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 128

della questione, resta il fatto che il fenomeno esiste, e che esso rappresenta uno degli aspetti maggiormente eclatanti della trasformazione dell’istituto familiare tradizionale, da sempre uno degli assi centrali dell’identità occidentale e soprattutto italiana (ALLAM, 2007; GUOLO, 2009). In alcuni paesi europei, come in Gran Bretagna, lo Stato ha scelto, di fatto, di riconoscere tali matrimoni, mentre posizioni di riflessione vengono poste anche da parte di esperti italiani, come Roberta Aluffi, dell’Università di Torino, la quale segnala come tale questione non sia stata affrontata adeguatamente e, tanto meno, risolta, da parte del diritto europeo, lasciando molte donne, legalmente sposate nei paesi di origine, senza alcun diritto all’interno della famiglia (CAFERI, 2008). Discorso simile, pur nell’ovvia diversità, va fatto per le unioni omosessuali, anch’esse ormai riconosciute formalmente in molti paesi europei, ma non in Italia, nonostante, in questo caso, non vi sia alcuna componente religiosa o presunta tale, visto che il fenomeno è notoriamente diffuso a livello mondiale. Insomma, sembra che tutto ciò che non fa parte della tradizione e dei principi apparentemente consolidati, debba costituire per forza una minaccia, a cui l’Italia stenta a rispondere a tutti i livelli, da quello culturale a quello etico, da quello politico a quello giuridico. A partire da queste considerazioni di carattere generale, è forse più semplice, adesso, comprendere quante difficoltà la suola italiana – specchio di quanto si muove nella società – abbia affrontato per inserire, al proprio interno, elementi che valorizzino, invece che punire, la diversità e la reciprocità. La presenza straniera nelle scuole è uno degli aspetti più tangibili di questa trasformazione in atto, con cui è impossibile non misurarsi. Dati recenti del MIUR attestano una presenza in costante crescita di tali studenti: nel 2011 essi erano più di 700.000, quasi l’8% della popolazione studentesca nazionale, di cui più di 1/3 concentrato nella scuola elementare. Nelle regioni del Nord, il fenomeno è ancora più visibile: in Lombardia, essi rappresentano il 24,3% del totale degli studenti, seguita da Veneto ed Emilia-Romagna (entrambe a poco più dell’11%) (CORRIERE DELLA SERA, 2011). Quali politiche sono state scelte dall’Italia per far fronte a tale, nuovo fenomeno? 128

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 129

Innanzitutto, l’Italia è giunta in grave ritardo ad affrontare tali tematiche. Negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, per ovvi motivi esse erano già presenti negli anni Settanta; in Europa, esse sono entrate nel dibattito già alla fine degli anni Settanta, quando il Consiglio d’Europa adotta le prime risoluzioni in merito, fino al 1983 quando, nella Conferenza di Dublino, i Ministri dell’Educazione approvano unanimemente una risoluzione sulla scolarizzazione dei bambini migranti, enfatizzando la dimensione interculturale. Da questo momento, i vari organismi europei hanno prodotto un immenso materiale in merito alle politiche anti-razziste e antixenofobe, all’accoglienza, alle pratiche pedagogiche interculturali, alla reciprocità. Tuttavia, anche a livello continentale, sono state le basi stesse della scuola europea ad essere state scosse alla radice, tanto che “educational strategies, curricula and teaching methods are hastly recise”. I risultati sono stati tutto sommato contraddittori e non coerenti: “solutions are often technical, devoid of clear aims and stable moral principles: instead of being solved, problems escalate” (PORTERA, 2008: 481-491). Anche l’Italia rientra quindi nel quadro europeo succintamente descritto, con l’aggravante di un modello di stato debole e costruito faticosamente in uno spazio temporale tutto sommato breve, e con una classe dirigente particolarmente inadeguata ad affrontare le sfide del vecchio e del nuovo multiculturalismo. Si è perciò optato per non adottare una normativa ad hoc sulla presenza straniera, secondo una tradizione “universalista” ed “inclusivista” del paese, che potrebbe costituire anche un interessante punto di partenza. Quasi contestualmente alla prima legge sull’immigrazione, anche la scuola è stata oggetto di attenzione per quel che riguarda il tema dell’educazione interculturale. Ciò, tuttavia, è stato fatto essenzialmente mediante circolari ministeriali o pronunciamenti del Consiglio Nazionale della Pubblica istruzione. Sono queste che hanno fornito il materiale di riferimento, spesso disorganico, spontaneistico e non cogente (ad esempio con pronunciamenti o raccomandazioni). Non sono mancati, a questo proposito, accenni, sparsi nelle varie revisioni curricolari, all’educazione interculturale quale metodo per affrontare le nuove sfide della società pluriculturale. Ad esempio, nel 1979, nei nuovi programmi per la scuola media, si fa un cenno alla necessità di 129

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 130

mettere “gli alunni a contatto con i problemi e le culture di società diverse da quella italiana”, concetti in seguito introdotti nei programmi didattici per la scuola primaria (1985), in cui si riconosce la necessità della “reciproca comprensione e di rispetto anche in materia di credo religioso”, ribaditi poi nel 1991, in cui, per la prima volta, si parla esplicitamente di “educazione alla multiculturalità” come “riconoscimento e valorizzazione della diversità”. Specifiche circolari ministeriali hanno cercato, in effetti, di introdurre la prospettiva dell’educazione interculturale nella scuola italiana, a partire dalla prima, la nr. 301 dell’8 settembre 1989, specificamente destinata all’Inserimento degli alunni stranieri nella scuola dell’obbligo. Ma è con la CM nr. 205 del 22/07/1990 che il concetto di “educazione interculturale” è formulato in modo organico, coinvolgendo nelle sue azioni anche gli alunni italiani, al fine di evitare il sorgere di stereotipi negativi verso le culture straniere. Ha quindi ragione Vinicio Ongini quando afferma che, pur all’interno di un percorso tutto sommato lineare, “l’utilizzo di materiali diversi, quasi in forma di bricolage” abbia costituito un elemento di debolezza del percorso di aggiornamento della scuola italiana verso il superamento del modello unitario appena analizzato (ONGINI, 2009). E questo, nonostante pronunciamenti anche coraggiosi, quali quelli contenuti nel documento ministeriale n. 73/1994, Dialogo interculturale e convivenza democratica, in cui si chiarisce la natura “filosofica” dell’educazione interculturale, ed il fatto che essa non possa configurarsi come “materia aggiuntiva”, affiancando le discipline tradizionali (FAVARO, s.d.: 410; TASSINARI/BECCATELLI-GUERRIERI/GIUSTI, 1992). Non a caso, i due assi fondamentali su cui si basa ancor oggi la scuola italiana – libri di testo e programmi, oltre agli insegnanti – hanno avuto pochissime correzioni di fondo dal dopoguerra ad oggi. Anche l’ultimo documento di un certo rilievo prodotto dal Ministero della Pubblica Istruzione, La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri (2007), continua ad enunciare principi del tutto condivisibili (con le relative azioni), ma senza intaccare l’approccio scolastico generale. Se è vero, infatti, che la prospettiva interculturale è immersa all’interno di una dimensione universalista, che cerca convergenze valoriali in seno ad un relativismo non radicale, le azioni conseguenti – incentrate sia su aspetti cogni130

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 131

tivi che affettivo-relazionali – raramente incidono sui programmi ed il contenuto dei manuali. L’impianto complessivo si mantiene fortemente eurocentrico, con alcune correzioni finalizzate all’apertura verso l’educazione alla differenza; gli stessi esami relativi agli anni finali di ciascun ciclo della scuola italiana presentano temi assai simili rispetto a quanto avveniva 20 o 30 anni fa, a testimonianza che i mutamenti intervenuti non sono stati troppo profondi. Le numerose enunciazioni di principio, pertanto, oscillano tra generico solidarismo e reale presa d’atto della necessità d’introdurre nuove aperture contenutistiche e metodologiche, di pari passo col formarsi della società multiculturale. Pur nella pressoché totale assenza di un’esplicita opposizione all’approccio interculturale (BARONI, 2013), tuttavia, esse non dicono come procedere verso tale meta e, soprattutto, non mettono a disposizione mezzi e strutture formative innovativi ed adeguati allo scopo, salvo rare eccezioni (come quella rappresentata dalla CM 155/2001, che destina fondi aggiuntivi per l’attività di insegnamento per quelle scuole la cui presenza di alunni stranieri superi il 10% della popolazione scolastica complessiva). In tale contesto riprende vigore anche l’irrisolta questione delle minoranze storiche linguistiche, alle quali – non a caso – nel 1993 il CNPI dedica un’apposita pronuncia, invocando l’attuazione dell’art. 6 della Costituzione. Indubbiamente la consapevolezza del problema è gradatamente cresciuta col passare degli anni, e tuttavia può dirsi che il sotto-sistema scolastico italiano si trovi, ancora oggi, in una crisi irrisolta, a causa di motivi profondamente strutturali. Infatti, se è vero che l’educazione interculturale può essere l’unica risposta efficace affinché la scuola giochi un ruolo da protagonista nella costruzione della nuova realtà, è altrettanto vero che essa possiede caratteri per certi versi contraddittori con gli elementi fondativi della tradizione italiana, per prendere in considerazione i quali occorrerebbe una revisione a trecentosessanta gradi della filosofia scolastica italiana. Da questo punto di vista, è del tutto condivisibile quanto scritto da Damiani, ossia che un approccio globalmente interculturale alla scuola italiana deve incidere sui suoi quattro assi costitutivi, ossia obiettivi, conoscenza, organizzazione scolastica e valutazione (DAMIANI, 1988). Per quel che riguarda i contenuti, essi devono 131

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 132

essere radicalmente modificati alla luce dell’approccio interculturale, il cui scopo è fare in modo che gli alunni abbiano “una parte attiva nel processo di apprendimento”, il cui aspetto centrale non sarà più la memorizzazione, “ma il percorso che ogni studente fa e durante il quale impara una quantità limitata di nozioni ma sperimenta delle metodologie” innovative e funzionali alla nuova realtà (ZIGLIO, s.d.: 80-81). Il problema è sistemico, e la risposta che va data deve essere collocata a quel livello, coinvolgendo tutte le forze che interagiscono dentro la scuola e con la scuola. Ciò significa, anzitutto, l’investimento di ingenti risorse per formare gli insegnanti, riscrivere i programmi ed i libri di testo, dando spazio ad un autentico dialogo interculturale fra la cultura occidentale e le altre. E poi mantenere una coerenza non esclusivamente all’interno del panorama scolastico, bensì anche tra questo e la cultura giuridica generale. È piuttosto difficile immaginare che una legge come la Bossi-Fini sull’immigrazione, i “respingimenti” contro i barconi di disperati al largo delle coste di Pantelleria, una cittadinanza ancora saldamente legata allo ius sanguinis possano favorire l’affermazione di una mentalità favorevole all’educazione interculturale. La quale potrà quindi costituire un sicuro punto di riferimento soltanto in una società disposta a ripensarsi in termini di identità e di valori, trasmettendo input diversi e più positivi al panorama scolastico nazionale. Fuori da tale prospettiva, l’educazione interculturale rischia di rimanere una serie astratta di enunciazione di principi, interessante esclusivamente come oggetto di studio per i dibattiti accademici.

132

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 133

Bibliografia

ALLAM, M. (2007), Se la poligamia viene rivendicata come un diritto, “Il Corriere della Sera”, 23/01/2007 AMBROSOLI, L. (1982), La scuola in Italia dal dopoguerra ad oggi, Il Mulino, Bologna BARONI, W. (2013), Contro l’intercultura. Soggetti e istituzioni nella metamorfosi del contemporaneo, Ombre Corte, Verona BERTONI JOVINE, D. (1959), La legge Casati nella critica contemporanea, “I problemi della pedagogia”, V, 1959, 1 BETTINI, F. (1850), I programmi di studio per le scuole elementari dal 1860 al 1945, La Scuola, Brescia BONETTA, G., L’avocazione della scuola elementare allo Stato, in AA.VV, Storia della scuola e storia d’Italia dall’Unità ad oggi, De Donato, Bari, 1982 BUSSOTTI, L.. (2002), La cittadinanza degli italiani, Angeli, Milano CAFIERI, F. (2008), La poligamia nascosta tra gli islamici d’Italia, “La Repubblica”, 02/04/2008 COHN-BENDIT/SCHIMD (1993), Heimat Babylonia, Hoffman und Campe Verlag (trad. it.: Patria Babilonia, Theoria, Roma-Napoli, 1994) COLAJANNI, N. (1894), I fatti di Sicilia e le loro cause, Palermo DAMIANO, E. (a cura di) (1988), Epistemologia e didattica. Analisi dei curriculi per la scuola elementare, La Scuola, Brescia DE FORT, E. (1974), L’insegnante elementare nella società italiana della seconda metà dell’Ottocento, “Critica storica”, 3/1974, pp. 425-460 DEI, M. (2007), La scuola in Italia, Il Mulino, Bologna ESPING-ANDERSEN, G. (1988) Traiettorie dell’occupazione postindustriale, “Stato e Mercato”, n. 24, dicembre 1988 FAVARO, G. (s.d.), Pedagogia interculturale: le idee e le indicazioni didattiche, in Per “fare” educazione interculturale, COME, Milano GIANZANA, S. (1888), Codice civile, vol. II, Discussioni, n. 185, p. 169, Unione Tipografica-Editrice, Torino GIOBERTI, V. (1946), Del primato morale e civile degli italiani, Capolago, vol. I GUOLO, R. (2009), I quindicimila poligami d’Italia, « La Repubblica », 27/09/2009 Immigrati, 711 mila alunni stranieri (8%), “Il Corriere della Sera”, 24/10/2011 Le Scuole Evangeliche in Italia, “L’Eco della Verità”, 26/1/1867

133

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 134

MANCINI, P.S. (1944), Saggi sulla nazionalità, a cura di F. Lopez de Onante, Sestante, Roma MANNUCCI, A. (1989), Educazione e scuola protestante, Manzuoli Editore, Firenze MASI, V. (1911), Istruzione pubblica e privata, in Storia d’Italia, vol. II, Ulrico Hoepli, Milano MAZZINI, G. (1972), Dei doveri dell’uomo. Fede e avvenire, a cura di P. Rossi, Mursia, Milano OFFE, C., (1977), Lo Stato nel capitalismo maturo, De Donato, Bari, 1977 ONGINI, V. (2009), 20 anni di intercultura nelle scuole italiane. Intervista a Vinicio Ongini, a cura di S.Baldi/S.Felici, www.treccani.it, 12/02/2009 OSTENC, M. (1981), La scuola italiana durante il fascismo, Laterza, RomaBari PORCIANI, I., Il libro di testo come oggetto di ricerca: i manuali scolastici nell’Italia postunitaria, in AA.VV., Storia della scuola e storia d’Italia dall’Unità ad oggi, De Donato, Bari, 1982, pp. 237-271 PORTERA, A. (2008), Intercultural education in Europe: epistemological and semantic aspects, “Intercultural Education”, Vol. 19, No. 6, December 2008, pp. 481-491 ROMANELLI, R. (1979), L’Italia liberale (1861-1900), Il Mulino, Bologna SALVI, S. (1975), Le lingue tagliate, Rizzoli, Milano SECHI, O. (1897-1902), Cittadinanza, Il Digesto italiano. Enciclopedia metodica e alfabetica di Legislazione, Dottrina e Giurisprudenza, vol. II, Parte seconda, p. 221, diretta da L. Lucchini, Unione Tipografica-Editrice, Torino SEMERARO, A. (1996), Il sistema scolastico italiano, Nuova Italia Scientifica, Roma TASSINARI/BECCATELLI GUERRIERI/GIUSTI (a cura di) (1992), Scuola e società multiculturali, La Nuova Italia, Firenze TAYLOR, C. (1993), La politica del riconoscimento, Anabasi, Milano, 1993 VIGO, G. (1982), Scuola ed economia, in AA.VV., Storia della scuola e storia d’Italia dall’Unità ad oggi, De Donato, Bari ZIGLIO, L. (s.d.), La revisione dei curricoli alla luce dell’educazione interculturale, in Per “fare” educazione interculturale, COME, Milano

Documenti istituzionali CONSIGLIO NAZIONALE DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE (1993), Pronunciamento sulle minoranze linguistiche oggi in Italia, 15/06/1993 134

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 135

MINISTERO PER LA COSTITUENTE. COMMISSIONE PER STUDI ATTINENTI ALLA RIORGANIZZAZIONE DELLO STATO (1946), Relazione all’Assemblea costituente, vol. I, Problemi costituzionali organizzazione dello Stato, VI, Della tutela delle minoranze MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE (1979), I programmi della scuola media, DM 09/08/1979 MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE (1989), Inserimento degli alunni stranieri nella scuola dell’obbligo, CM No. 301, 08/09/1989 MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE (1990), La scuola dell’obbligo e gli alunni stranieri. L’educazione interculturale, CM No. 205, 22/07/1990 MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE (1994), Dialogo interculturale e convivenza democratica. No. 73, 02/03/1994 MINISTERO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE (2007), La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri, Roma

135

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 136

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 137

I diritti di cittadinanza delle donne nella storia italiana

Introduzione Questo testo intende offrire una riflessione storica in merito ai diritti di cittadinanza delle donne italiane, dal Codice Civile del 1865 ad oggi. Come si vedrà nel corso del lavoro, le donne hanno sempre rappresentato l’“anello debole” dei diritti di cittadinanza nel diritto italiano, e lunga è stata la strada affinché si giungesse ad una qualche forma di riconoscimento di tali prerogative ed alla parificazione con quanto previsto per gli uomini. L’interesse centrale è qui focalizzato sui diritti di cittadinanza intesi in senso stretto, ossia sulla questione relativa all’acquisizione, perdita e trasmissione della nazionalità italiana da parte della donna, nelle varie situazioni in cui questa possa venire a trovarsi: matrimonio con uno straniero, cambiamento di cittadinanza da parte del coniuge straniero, trasmissione ai figli della cittadinanza della madre, anche nei casi di riconoscimento posteriore del minore da parte del padre. La donna italiana, sin dalle origini dello Stato nazionale, ha costituito un’“appendice” delle scelte del suo partner maschile, seguendone pedissequamente la nazionalità. Ciò rappresenta il segno più evidente di come la sua personalità giuridica si configurasse come subordinata a quella dell’uomo, nonostante lo stesso Codice Civile del 1865 prevedesse aperture certamente all’avanguardia, per i tempi, rispetto ad altre materie, anch’esse piuttosto sensibili e riguardanti delle minoranze, come quella degli stranieri. Il punto di vista da cui si è cercato di guardare a questa complessa vicenda si basa sull’analisi delle principali normative succedutesi nel 137

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 138

corso del tempo, accompagnate da un esame sociologico e politologico in riferimento alle stesse, in maniera da inserire il dibattito normativo all’interno del vivo della comunità nazionale in formazione. Il lavoro si compone di tre parti: nella prima, si affrontano i temi relativi ai diritti di cittadinanza della donna italiana nel periodo dell’Unificazione; nel secondo ci si concentra sul dibattito inerente alla prima legge organica sulla cittadinanza, approvata nel 1912; infine, nell’ultima, si dà un quadro delle tendenze più recenti della normativa italiana in tal senso, prendendo come riferimento la Costituzione del 1948 e fermando l’analisi al 1992.

1. La donna italiana nel Codice Civile del 1865 I diritti di cittadinanza vengono per la prima volta statuiti, nella storia dell’Italia unitaria, dal Codice Civile del 1865. Lo Statuto albertino, infatti, non tratta di questa materia, non definendo né i caratteri del cittadino, né le qualità attraverso le quali è possibile acquistare tale status. Col Codice Civile si sopperisce a tale mancanza: tale testo fornirà le basi essenziali del diritto di cittadinanza italiano sino ai nostri giorni. Il clima politico-culturale in cui il Codice Civile entra in vigore è imbevuto di quello spirito patriottico, tipico del processo di unificazione politica, che significherà anche unificazione delle moltissime normative, disposizioni, decreti al tempo vigenti in ogni singolo Stato pre-unitario. Il Codice ha un’ispirazione bivalente: da una parte, ci si preoccupa – sulla scia di analoghi testi inglesi ma soprattutto del Codice napoleonico francese – di garantire il massimo di libertà personale, dall’altro ci si ancora alla necessità di operare scelte giuridiche che rinsaldino il legame del nucleo familiare, considerato come base della società. Punto di riferimento della famiglia è il padre, che esercita la patria potestas sui figli, e le cui scelte devono essere seguite dalla moglie. Una simile antitesi – che costituisce l’ottica interpretativa più adeguata per comprendere uno degli aspetti maggiormente significativi in termini culturali e filosofici della legislazione civilistica italiana – difficilmente riesce a trovare un momento di sintesi: l’individuo, infat138

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 139

ti, sarà sempre sottoposto al principio primario secondo cui società e nazione sono costituite dal nucleo familiare complessivamente inteso, cosicché la libertà soggettiva del singolo è destinata ad essere subordinata rispetto all’obiettivo dell’omogeneità della famiglia. La statuizione giuridica rispecchia le convinzioni sociali, con le relative contraddizioni. La cittadinanza è il primo argomento affrontato dal Codice Civile, in particolare del Libro Primo, Delle Persone. L’art. 3 propone una innovazione notevole: la condizione dello straniero è equiparata a quella del cittadino, quanto al godimento dei diritti civili. Tuttavia, tale liberalità comincia a manifestare significativi annacquamenti quando si cerca di definire il profilo identitario del cittadino. L’art. 4 così recita: “È cittadino il figlio di padre cittadino”. Questo motivo, che lega trasmissione della cittadinanza iure sanguinis attraverso la discendenza paterna, affonda le proprie radici nel diritto romano, ma soprattutto nelle allora recenti vicende storiche nazionali. Nel primo caso, come segnala uno dei più illustri giuristi del tempo, il principio cui il Codice si ispira è: Patris originem unusquisque sequitur (ESPERSON, 1890: 14). Nel secondo, occorre ricordare che l’idea latina di sangue e razza era stata funzionalmente passata nelle correnti anche più democratiche del Risorgimento italiano, al fine di restituire dignità nazionale ad un popolo per secoli diviso non soltanto dal punto di vista formale, ma anche culturale. Il dominio del mazzinianesimo nel moto risorgimentale, almeno dal punto di vista dell’afflato spirituale, aveva aiutato ad accentuare i caratteri di una cittadinanza basata sul sangue (BUSSOTTI, 2002). Essa sarebbe dunque “questione di razza” e, dato che “le diverse razze si trasmettono col sangue e non dipendono dal caso della nascita”, sono i genitori – e segnatamente il padre – a determinare quasi geneticamente la nazionalità del figlio (SECHI, 1897-1902: 221). Non è soltanto il dibattito dottrinale o, per altro verso, quello più segnatamente etico-culturale, a riflettere sull’essenza e la definizione di nazionalità. Anche durante la discussione per la stesura del Codice Civile, le diversità emergono con chiarezza. Il ministro guardasigilli, Pisanelli, si schiera con decisione in favore dello ius sanguinis, poiché lo ius soli ha carattere “prettamente feudale”, in base al principio “che considerava l’uomo come un accessorio del suolo in cui si trovava” (GIANZANA, 1888: 169). Pertanto, la regola centrale del diritto ita139

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 140

liano in materia dovrà essere la seguente: “che il figlio del nazionale sia nazionale (…) poiché la razza è il precipuo elemento della nazionalità” (IDEM: 169). L’unico oppositore a questa impostazione è Francesco Crispi, fautore dello ius soli: “La cittadinanza la dà la terra in cui si nasce; ogni individuo nato nel Regno d’Italia è cittadino italiano” (IDEM: 160). Tale posizione resterà totalmente isolata nel panorama nazionale. Alla regola aurea dello ius sanguinis se ne accompagnano altre subordinate, in linea con l’asse discendenza per sangue-legame familiare-preminenza del padre, ma anche con qualche, significativa eccezione. Queste si configurano, da un lato, immettendo nel testo tratti dello ius soli, in deroga al principio basilare del sangue, dall’altro prevedendo la possibilità di padre ignoto. Nel primo caso, “Se il padre ha perduto la cittadinanza prima del nascimento del figlio, questi è riputato cittadino, ove sia nato nel regno e vi abbia la sua residenza” (art. 5); nel secondo, prevedendo che il figlio nato da padre ignoto e da cittadina italiana, acquisisca la cittadinanza italiana, in virtù dell’origine della madre. Nel caso in cui anche questa sia ignota, si applica lo ius soli. La gerarchia dei valori statuita dal Codice Civile è quindi la seguente: all’apice sta lo ius sanguinis, attraverso la discendenza paterna; in secondo piano, ancora il principio del sangue, ma con trasmissione derivante dalla madre; infine, lo ius soli. L’elemento più interessante riguarda il rapporto adozione dello ius sanguinis-centralità della famiglia all’interno della vita sociale e giuridica italiana. Si è appena rilevato come la discendenza attraverso il sangue ponga l’individuo in strettissima relazione coi genitori, dai quali dipende direttamente la sua cittadinanza. Ma vi è un passaggio ulteriore, che accomuna concezioni di uomini “democratici” con quelle di altri decisamente più conservatori. È il caso di Pasquale Stanislao Mancini, da una parte, e di Arturo Ricci, dall’altra. Per entrambi – sia pur con sfumature diverse – è centrale l’idea che l’uomo nasca dalla famiglia, “e la nazione essendo un aggregato di famiglie, egli è cittadino di quella nazione a cui appartiene il padre suo, la famiglia sua” (IDEM: 178-179). La conclusione comune a ui giungono è che “la patria del capo (…) determina di regola quella della persona” (RICCI, 1891). 140

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 141

Chiariti gli assi centrali del diritto di cittadinanza italiano, è adesso più agevole comprendere il posizionamento del Codice Civile in merito al rapporto fra cittadinanza e condizione della donna. La trasmissione della cittadinanza, si è appena visto, è basata sul sangue paterno, e soltanto in mancanza dell’identità del padre, subentra la madre, sino al caso di genitori ignoti, in cui l’unico principio possibile potrà essere quello del suolo. Ciò significa che la donna (oltre, naturalmente, ai figli) debba seguire la cittadinanza del marito, non soltanto al momento del matrimonio, ma anche ogni volta che l’uomo decida di cambiarla. Su queste due questioni il dibattito, già all’epoca, si accende, specie per quel che concerne la complessa relazione fra uno dei principi sbandierati come moderni da parte del legislatore italiano – la libertà di scegliere per la nazionalità sentita come quella più vicina per l’optante – e la condizione effettiva della donna (e, in misura inferiore, del minore). Due voci, fra le tante, appaiono significative nel dibattito che si apre immediatamente dopo l’approvazione del Codice Civile. Pasquale Fiore, uno dei più insigni giuristi di diritto internazionale che verrà poi nominato senatore del Regno, condurrà una dura battaglia rispetto alla contraddizione fra i principi di libertà sanciti dal Codice e la condizione della donna nell’ordinamento relativo alla cittadinanza. Egli, infatti, non concorda con l’obbligo – da parte della moglie – di dover seguire la nazionalità del marito (in base all’art. 131 del Codice Civile), poiché ciò costituisce un’evidente imposizione “contro la volontà manifesta di lei”, arrivando a “soffocare in essa i sentimenti verso la patria originaria”. Conclusione: dato che “l’acquisto della cittadinanza dev’essere sempre l’effetto di un fatto volontario da parte di coloro, che ne hanno capacità”, risulta chiaro che, “per quanto si voglia considerare estesa l’autorità del marito, non si può concedere ch’esso possa supplire con la volontà sua a quella della moglie”. Quanto stabilito dal Codice Civile è, pertanto, a detta del Fiore, “in opposizione con ogni ragionevole principio”, anche perché – in caso di mutamento della cittadinanza da parte del marito – si pone come condizione, affinché la moglie ne segua il percorso, che questa elegga residenza comune col coniuge: fatto, questo, contraddittorio, visto che essa non può compiere questo atto liberamente ed autonomamente, dipendendo anche in ciò dal marito. Così il Fiore conclude: “troviamo nel141

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 142

la disposizione dell’art. 11 non solo una lesione dei diritti della donna maritata, ma una violenza ai sentimenti naturali di lei, che la legano alla famiglia” (FIORE, 1893: 99-101). In alcune circostanze si entra in conflitto anche con un altro dei principi informatori il diritto di cittadinanza italiano, ossia l’unicità della cittadinanza stessa: può darsi il caso, infatti, che la donna che sposa un italiano non perda automaticamente la propria nazionalità di origine, fatto che dà luogo, automaticamente, ad un regime di doppia cittadinanza, non previsto dalla legislazione del tempo. La già grave situazione soggettiva della donna, che vede lesi (anzi, ignorati) i più elementari diritti di scelta rispetto alla propria nazionalità, obbligandola a mettersi in conflitto con la propria famiglia maritale o con quella di origine, è forse ancor più pesante se si pensa alla condizione dei minori: anch’essi devono seguire pedissequamente l’eventuale mutamento di nazionalità da parte del capofamiglia, contraddicendo l’affermazione secondo cui la cittadinanza si trasmette iure sanguinis. Dato che il minore – in quanto tale – non ha alcun potere decisionale in materia, logica vorrebbe che questi conservasse la cittadinanza originaria trasmessagli dal padre attraverso il sangue; viceversa, è costretto a seguire anche in questo caso la volontà paterna, cambiando nazionalità. Da qui, l’interrogativo retorico posto dal Fiore: “Come ammettere che il padre il quale non può validamente alienare a suo arbitrio il patrimonio materiale del figlio, debba poter disporre a volontà della cittadinanza di lui, che forma parte del patrimonio morale di esso, e che determina la condizione giuridica?” (IDEM: 99-101). In effetti, lo stesso studioso risponde alla questione, evidenziando come, sulla base del diritto di famiglia ottocentesco, soluzioni diverse sarebbero difficilmente immaginabili, se non a patto di rivedere radicalmente il rapporto fra libertà individuale e unità familiare, beneficiando la prima rispetto alla seconda. “L’importanza che si è voluta dare – egli conclude (IDEM: 99-101) alla necessità di mantenere l’omogeneità dei doveri politici nella famiglia, ha messo fuori strada il nostro legislatore” tanto che “la massima sancita dal nostro legislatore non può ritenersi conforme ai principi razionali e liberali”, ma esclusivamente legata ad una esagerata preoccupazione di mantenere unita la famiglia da un punto di vista formale, senza considerare che ciò niente implica sul piano della sostanza. 142

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 143

Quali erano state le motivazioni che avevano spinto il legislatore a formulare normative così restrittive per donne e minori, stante il fatto di un diritto di famiglia incentrato sull’assoluta preminenza del padre? Nel corso del dibattito preparatorio alle disposizioni del Codice Civile in relazione al diritto di cittadinanza rispetto a quello di famiglia, qualche osservazione al proposito era stata posta; le risposte, però, evidenziano scarsa cultura e sensibilità non soltanto giuridica, ma generale in riferimento al tema qui trattato. L’opinione del Pisanelli, per esempio, è emblematica per quel che riguarda i difensori dell’art. 9 del Codice Civile; uno di questi dirà a chiosa di tale articolo: “Il matrimonio è l’unione dell’uomo e della donna allo scopo di perpetuare la specie, e di aiutarsi pel consorzio della vita. È il fondamento della famiglia e della società (…). Perciò i rapporti che nascono da codesto istituto vogliono esser retti da un’unica legge e precisamente da quella della nazione del marito che è il capo della società coniugale”. Ecco, allora, che, al momento in cui viene contratto matrimonio, la legge, “poggiando le sue statuizioni sulla presunta volontà della donna, presume che ov’ella appartenga ad una patria diversa da quella del marito, voglia senza alcun dubbio divenir cittadina della patria di lui nell’atto stesso che determina di seguirne la condizione e dividerne le sorti al momento del matrimonio” (OLIVI, 1877: 92-93). Una pura presunzione, dunque: la legge si arroga il diritto di decidere ciò che vuole la donna, sulla base non della sua libera volontà soggettiva, bensì delle convinzioni di principio che informano dottrina e normativa. Atteggiamento peraltro in linea con la concezione di una donna non in grado di uscire dal presunto stato di minorità ce natura ed esigenze dell’organizzazione sociale le avrebbero assegnato. A questa prevalente posizione, fanno da contraltare alcune riserve che vengono più o meno timidamente espresse. Il Sechi, per esempio, pur ritenendo “logica ed evidente” la disposizione di cui all’art. 9, segnala che essa possa costituire “una imposizione dolorosa e noiosa, non solo, ma inutile”. Questi non propone misure alternative, ma si limita ad osservare che sarebbe stato meglio, nelle circostanze date, cercare di studiare i reali motivi di attrito tra l’attaccamento da parte della donna alla propria cittadinanza di origine e la trasmissione della nazionalità del marito alla stessa, al fine di uscire da una situazione 143

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 144

che, pur se giuridicamente risolta, non vi è dubbio che possa essere conflittuale (SECHI, 1897-1902: 260-261). La riserva espressa dal Sechi evidenzia come, partendo dai presupposti di base del Codice Civile, sia di fatto impossibile attenuarne gli effetti, anche con la buona volontà di insigni studiosi quali il Sechi, che si sforzano di rendere meno doloroso un atto che dovrebbe al contrario avviare verso un’armoniosa comunanza di vita, come il matrimonio. Lo stesso principio dell’art. 9 si riflette nel caso opposto, l’art. 14 del Codice civile, in cui è la donna italiana che sposa uno straniero: anch’essa deve seguire la cittadinanza del marito, a patto che (aggiunta proposta dal Mancini in sede di Commissione consultiva) “col fatto del matrimonio acquisti la cittadinanza del marito”. Nessuna deroga, quindi, è ammessa, anche se si lascia aperto uno spiraglio (ed un’ambiguità), nel caso in cui l’acquisto della cittadinanza del marito da parte della sposa italiana non sia automatica: in tale circostanza, visto che la donna non può restare apolide, si ammette la possibilità che essa conservi la nazionalità di origine, quella italiana. Un ultimo aspetto riguarda il riconoscimento dei figli. Può darsi il caso che il figlio possa venire riconosciuto posteriormente alla nascita. Se ciò avviene contemporaneamente da parte di entrambi i genitori aventi nazionalità differenti, il figlio acquista la cittadinanza – così come il cognome – paterna, ed anche la tutela spetta al padre (artt. 184, 185 del Codice Civile). Il problema si pone quando il riconoscimento della madre sia anteriore a quello del padre – magari anche di molto tempo. La legislazione francese, in base alla normativa del 1889, opta per un criterio temporale, privilegiando in ogni caso la nazionalità del genitore che per primo riconosce il figlio. Ciò trova le sue giustificazioni con la necessità di garantire una stabilità definitiva al minore quanto ad affetti e a status giuridico. Quella italiana, al contrario, non adotta tale, logico criterio: essa continua a privilegiare, anche in casi come questo, il principio dell’autorità paterna, nonostante il riconoscimento avvenga anche molto tempo dopo quello materno. Esperson segnala che “Il riconoscimento pertanto del padre è dichiarativo e non attributivo della nazionalità, avendo esso per effetto, se fatto da uno straniero, di rendere straniero anche il figlio iure sanguinis” (ESPER144

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 145

SON, 1890: 109). La normativa italiana prevede infatti che la trasmissione della cittadinanza per mezzo della madre debba valere esclusivamente nel caso di padre ignoto: al momento in cui questi riconosce il proprio figlio, tale circostanza decade, e quindi “poco deve importare che il padre abbia lasciato di essere ignoto prima, contemporaneamente, o dopo il riconoscimento della madre” (IDEM: 110). Al di là dell’ideologia che sta dietro la normativa italiana, vale la pena sottolineare una contraddizione piuttosto evidente, ma che non era stata sollevata nel corso del dibattito dell’epoca. La ratio della trasmissione della cittadinanza per via paterna a moglie e figli era stata motivata col fatto che la famiglia doveva restare unita. Ora, se un uomo arriva a non riconoscere il proprio figlio, significa che la famiglia è già disunita, o che il neonato è stato frutto di una relazione extra-coniugale, che ne ha impedito il riconoscimento immediato. In questo caso, quindi, il sacro principio dell’unità familiare viene meno de facto e ab initio, per cui non vi è ragione di privilegiare, ancora una volta, la trasmissione paterna anche nel caso in cui questa avvenga posteriormente a quella materna. Per lo meno, tale opzione non può essere motivata richiamando il principio dell’unità familiare. I criteri appena esposti sono figli di una stagione storica – il Risorgimento –, il cui obiettivo era di tenere uniti gli italiani con qualsiasi mezzo possibile, anche a patto di evidenti storture giuridiche, come quelle brevemente segnalate. Tuttavia, pochissimi decenni dopo l’unificazione nazionale, almeno un nuovo fenomeno scuote la giovane comunità italiana: l’emigrazione di milioni di connazionali verso mete transoceaniche. Tale circostanza obbligherà il legislatore a ripensare almeno in parte quanto stipulato nel 1865. Adesso l’obiettivo sarà quello di perdere il minor numero possibile di italiani che espatriano a causa delle pessime condizioni economiche in cui il paese si trova.

2. Dopo il Codice Civile: l’Italia fra emigrazione e nuove leggi sulla cittadinanza Due fatti inducono il legislatore a modificare quanto stabilito dal Codice Civile in materia di cittadinanza: in primo luogo, il potente 145

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 146

fenomeno dell’emigrazione che, dagli anni Ottanta del secolo scorso, si sprigiona dall’Italia verso le Americhe. Esso rimette in discussione gran parte degli aspetti legislativi inerenti al diritto di cittadinanza, anche grazie alla pressione delle organizzazioni degli italiani all’estero, le quali invocano una normativa maggiormente aderente alle nuove esigenze dell’emigrazione. Nel corso dei due Congressi degli Italiani all’Estero, organizzati dall’Istituto Coloniale Italiano (il primo nel 1908, il secondo nel 1911, entrambi svoltisi a Roma), e di quello della società “Dante Alighieri”, più attento alle esigenze culturali e linguistiche degli emigrati, vengono poste alcune questioni tese al mantenimento dei legami con la madrepatria. Questi movimenti di opinione fanno coppia con un’altra esigenza, la riunificazione della disciplina sulla cittadinanza, all’inizio del secolo frammentata fra varie normative e disposizioni, che vanno dal testo del 1865 alla legge sull’emigrazione del 1901, a quella sulla cittadinanza (assai parziale e limitata) del 1906. Da qui, la necessità di mettere mano all’intera normativa, predisponendo un testo organico in materia. La legge 555/1912 si prefigge questi obiettivi. In effetti, essa, nei suoi principi ispiratori, ricalca quanto previsto dal Codice Civile, anche se vengono introdotte alcune innovazioni in merito al rapporto fra cittadinanza e diritti della donna che vale la pena segnalare. Il criterio fondamentale continua ad essere la trasmissione della nazionalità iure sanguinis (art. 1 della nuova legge), con ricorso alla discendenza materna qualora il padre sia ignoto o apolide, o il figlio non ne segua la cittadinanza al momento della nascita. L’art. 2 conferma la prevalenza della trasmissione della cittadinanza del padre verso il figlio minore, anche nel caso in cui questa sia posteriore a quella materna: “Il riconoscimento o la dichiarazione giudiziale della filiazione durante la minore età del figlio che non sia emancipato, ne determina la cittadinanza secondo le norme della presente legge. È a tale effetto prevalente la cittadinanza del padre, anche se la paternità sia riconosciuta o dichiarata posteriormente alla maternità”. Questa disposizione deve essere messa in relazione con quella presente agli artt. 10 e 11, che sancisce che la donna straniera la quale sposi un cittadino italiano acquisisce la cittadinanza del marito, conservandola anche da vedova, a meno che non trasferisca all’estero la sua residen146

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 147

za; e che la donna italiana che sposi uno straniero ne assume anche la nazionalità. Nel caso in cui il marito cittadino divenga straniero, “la moglie che mantenga comunque con lui la residenza, perde la cittadinanza italiana, sempreché acquisti quella del marito”; lo stesso avviene se il marito da straniero diviene cittadino. Anche per i figli minori vale analogo discorso, dovendo essi continuare a seguire i mutamenti di cittadinanza del padre. Com’è chiaro, ben poco è mutato in relazione alla posizione della donna e dei minori: l’impianto giuridico e culturale che regge il diritto di famiglia italiano è sostanzialmente il medesimo rispetto a quasi cinquant’anni prima. Il dibattito parlamentare non si sofferma granché sul tema dei diritti della donna in relazione alla cittadinanza. Eccezione è costituita dal senatore Fiore, il quale sottolinea che quanto proposto dal disegno di legge lede i diritti soggettivi della donna: “volendo rispettare l’individualità della donna maritata – afferma il Fiore (ATTI PARLAMENTARI, 1911: 5758) – non sarebbe miglior partito far dipendere dalla sua dichiarazione esplicita, se essa vuole o no seguire il marito nella patria di elezione?”. Nel caso specifico, il senatore conclude: “dite francamente che la moglie deve subire il mutamento di cittadinanza pel fatto del marito, così come deve subirlo pel fatto del matrimonio. Osservo però che in tal modo la personalità della moglie rimarrebbe assorbita in quella del marito, il quale contro la volontà della medesima può disporre della cittadinanza di lei violando la libertà di essa”. La risposta – peraltro assai laconica – all’esortazione del Fiore viene in primo luogo dal proponente il disegno di legge, l’ex-ministro Scialoja, il quale non fa altro che ribadire il contenuto del testo ministeriale e quello dell’ufficio centrale, che “si sono attenuti ai principi vigenti nella nostra legislazione, ed io non vedo alcuna ragione per abbandonarli”. In effetti, i principi sono rispettati, ma la questione se esse rispondano alla situazione sociale dell’epoca è del tutto ignorata, invocando un principio di autorità e di tradizione mai messo in discussione. Stesso approccio è tenuto dall’on. Polacco, relatore del disegno legislativo, al momento della replica. Sostanzialmente concordando con quanto ribadito dallo Scialoja, anche il Polacco ritiene che “non possiamo dar torto al progetto se per un sacro rispetto al nesso fami147

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 148

liare, che nella persona del capo della casa si accentra, non ha creduto di mutare sostanzialmente il sistema del Codice civile” (ATTI PARLAMENTARI, 1911: 5785). Tradizione giuridica ed unità familiare restano i capisaldi del diritto di famiglia italiano, a scapito delle innovazioni che, comunque, cinquant’anni di vita nazionale e di trasformazioni socio-economiche su scala mondiale avevano portato. Lo spostamento del dibattito verso la questione centrale, quella dell’emigrazione, offusca l’aspetto che qui più interessa, quello dei diritti della donna. Risulta comunque sintomatico, riflettendo lo spirito del tempo, di come un giurista dalle idee avanzate, come il De Dominicis, si limiti a rilevare: “Questo principio non presenta ormai nessuna controversia, tanto nelle legislazioni, come nella pratica” (DE DOMINICIS, 1916: 223). Nella legge 555/1912 il legislatore ha statuito la suddetta disposizione “per un legame ininterrotto di tradizione etica e storica”, fondata “tanto nel riconoscimento dell’unità del diritto di famiglia, quanto nell’esclusivismo dell’autorictas maritalis, che mal sopporta sulla donna una manus straniera”. Da qui, l’adesione al “principio etico, per il quale si vuole che una sola sia la legge di ogni gruppo familiare e che essa abbia ad esercitare i suoi effetti in tutti i rapporti giuridici ai quali la famiglia può essere interessata” (IDEM: 223). Un altro studioso, il Degni, convinto assertore della normativa del 1912, cerca di distinguere tra il momento in cui si celebra il matrimonio e l’eventuale cambiamento di cittadinanza del marito nel corso di questo. Dopo aver ricordato le parole del Pisanelli in occasione della discussione relativa all’approvazione del Codice Civile, il Degni sottolinea che l’acquisto della cittadinanza del marito da parte della moglie al momento del matrimonio è una “logica applicazione del principio più generale che la moglie segue la condizione del marito, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno fissare la sua residenza”. Ciò, se si configura come “conseguenza legale del matrimonio”, è d’altra parte – prosegue il Degni -, anche indirettamente, risultato della “volontà della donna la quale, contraendo matrimonio on un italiano, implicitamente manifesta di volere acquistare la cittadinanza del marito” (DEGNI, : 160-162). Ciò non deve valere, però, quando il marito cambia cittadinanza nel corso del matrimonio. Lo spirito della legge lascia, in effetti, scar148

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 149

sissime possibilità di intervento ed aggiustamento, tuttavia perfino un moderato come il Degni non può fare a meno di rilevare come la normativa non possa “completamente giustificarsi”. Essa conterrebbe, infatti, un’esagerazione, che condurrebbe ad una menomazione della personalità della moglie, imponendole di mutare la cittadinanza, anche “in costanza di matrimonio”, senza, peraltro, raggiungere l’obiettivo sostanziale dell’unità familiare. In questo senso, si può ben dire che il Fiore abbia fatto scuola, avendo perlomeno ottenuto il risultato di porre in discussione quelli che sembravano essere assiomi ormai consolidati ed immutabili. Il Degni, tra l’altro, avanza anche una proposta alternativa, certamente non rivoluzionaria, ma che tenta di conciliare l’impianto della normativa con un maggior rispetto della volontà della moglie: si potrebbe, egli sostiene, pensare di presumere che i mutamenti del marito si estendano alla moglie, salvo la possibilità di consentire a questa di conservare la propria nazionalità, pur mantenendo la residenza comune col marito. La proposta non è presa in nessuna considerazione, poiché – nonostante venga da un fronte conservatore – rischia di incrinare il sacro principio dell’unità familiare, aprendo alla possibilità che i due coniugi finiscano per avere due nazionalità differenti. Prospettiva al tempo evidentemente inaccettabile. Le proposte maggiormente avanzate in materia di trasformazione del diritto di cittadinanza in beneficio della donna sono quelle appena ricordate: per il resto, è più che chiaro che la donna non gode di una personalità giuridica autonoma rispetto al marito, e soltanto un evento che stravolgerà il mondo, Italia compresa, potrà modificare le granitiche certezze di tali principi giuridici: la seconda guerra mondiale e l’esperienza della Resistenza, che apriranno gli scenari di un paese più aperto alle istanze delle moderne democrazie liberale, superando la stagione del fascismo: a partire dalle prime elezioni a suffragio universale nell’Italia post-unitaria, nel 1946.

3. Il dopoguerra ed il nuovo spazio giuridico della donna nei diritti di cittadinanza La Costituzione del 1948 rappresenta la prima, grande conquista giuridicamente organica, statuita anche per quanto riguarda i diritti 149

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 150

della donna. Essa garantisce tutte le libertà valide per l’uomo, comprese quelle politiche, di elettorato attivo e passivo. All’art. 3 la Costituzione garantisce pari dignità sociale ed eguaglianza innanzi alla legge per tutti i cittadini, “senza distinzione di sesso”, razza, lingua, opinioni politiche e religiose. Se ciò costituisce l’asse portante in base alla quale la donna e le “minoranze” assumono una nuova dignità giuridica, l’altro momento centrale è costituito dal Titolo II, Rapporti etico-sociali. Se la famiglia è riconosciuta come “società naturale fondata sul matrimonio”, quest’ultimo “è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, con tutele garantite anche per i figli nati al di fuori di esso. A questo proposito, vale la pena qui ricordare che soltanto recentemente, col Governo-Letta questa spinosa questione è stata risolta una volta per tutte, equiparando figli “legittimi” a figli “naturali”, semplicemente togliendo tali aggettivazioni dal Codice Civile. Il diritto di famiglia dell’Italia repubblicana prenderà le mosse da queste indicazioni oggettivamente avanzate, sia rispetto ai tempi, che in relazione a quanto disposto dalle precedenti normative italiane: un’ulteriore svolta si avrà infatti soltanto nel 1975, col nuovo diritto di famiglia. Così come la Costituzione stabilisce parità fra uomo e donna all’interno del nucleo familiare, altrettanto fa per quel che riguarda i diritti dei lavoratori, prevedendo la parità di trattamento indipendentemente dal sesso in termini di retribuzione per la stessa mansione, tutelando la funzione materna al fine di garantire “adeguata protezione” per il bambino ed estendendo questi principi di eguaglianza anche all’ambito politico (Titolo IV). Se è vero che molte di queste enunciazioni di principio non sono state realizzate nel corso della storia repubblicana, è anche vero che il salto di qualità tra esse ed il periodo precedente è indubbio e rilevante, a beneficio della parità di diritti e dignità fra uomo e donna. D’altra parte, una simile tendenza è di ordine mondiale, poiché sia i paesi socialisti che quelli che andranno a formare il Patto Atlantico – pur nella profonda differenza della filosofia ispiratrice – hanno, quale punto centrale, la pari dignità delle persone anche rispetto al sesso. La stessa Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo approvata nel 1948 dall’Assemblea dell’ONU riconosce ad ogni uomo e ad ogni donna il diritto di sposarsi e fondare una famiglia, accordando “pari diritti 150

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 151

riguardo al matrimonio, durante il matrimonio e al momento del suo scioglimento” a ciascuno dei coniugi. Come nella Costituzione italiana, la famiglia rappresenta “l’elemento naturale e fondamentale della società”, e per contrarre matrimonio è necessario il libero assenso dei futuri sposi (art. 16). Passa, quindi, l’idea che i rapporti intrafamiliari debbano essere retti da una regola non più ascrittiva, bensì elettiva, fondata sulla libera scelta personale dell’individuo. Sulla medesima traccia si colloca anche la Dichiarazione europea dei diritti dell’uomo, approvata dal Consiglio d’Europa (4 novembre 1950, ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848). Il 1975 rappresenta, in Italia, una tappa fondamentale all’interno del vasto scenario relativo al riconoscimento dei diritti della donna. La riforma del diritto di famiglia, infatti, va ad incidere direttamente sulla condizione di questa in seno non esclusivamente al nucleo familiare, bensì a tutta la società italiana. Si tratta di un mutamento culturale – prima che giuridico – assai avanzato, in linea con quanto stabilito dal referendum sul divorzio del 1974 e, successivamente, da quello sull’aborto del 1981. I tre provvedimenti si ispirano ad uno stesso principio: quello di autodeterminazione e libera scelta da parte della donna, col relativo, definitivo sganciamento dall’auctoritas maritalis. La Riforma del diritto di famiglia (L. 19/05/1975, n. 151) si presenta come una correzione del Codice Civile del 1942: in realtà, ne costituisce una radicale revisione. Per la materia trattata, l’elemento maggiormente significativo si trova all’art. 24: “con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”. Si tratta di un’effettiva parificazione giuridica fra i coniugi, in cui “la potestà è esercitata di comune accordo da entrambi i genitori” (art. 138). Da ciò derivano conseguenze dirette per quel che riguarda il tema della cittadinanza. L’art. 25 (“Cittadinanza della moglie”) dispone infatti che “La moglie conserva la cittadinanza italiana, salvo sua espressa rinunzia, anche se per effetto del matrimonio o del mutamento di cittadinanza del marito assume una cittadinanza straniera”. Due elementi sono qui da rilevare: anzitutto, non vi è più – da parte del legislatore – l’idea di presumere la volontà della donna, in funzione del mantenimento 151

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 152

dell’unità familiare. Piuttosto, si stabilisce che la moglie – equiparando l’eventuale cambiamento di cittadinanza dovuto al matrimonio o a scelte posteriori a questo – debba mantenere la propria nazionalità, a meno di una sua espressa rinunzia. Inoltre, non si sollevano problemi di sorta rispetto a casi di doppia cittadinanza, del tutto probabili nei matrimoni i cui coniugi abbiano nazionalità differenti. Simili disposizioni sono coerenti col dettato costituzionale, superando in via definitiva resistenze di vario tipo, legate al rispetto della tradizione, ma lesive della dignità e della libertà soggettiva della donna. La medesima filosofia ispira il tema del riconoscimento dei figli “naturali”. In primo luogo, si pone un limite: se esso avviene posteriormente al compimento del sedicesimo anno di età del minore, sarà quest’ultimo a determinare se tale atto debba avere valenza giuridica: il suo assenso è vincolante. Parimenti, in caso di riconoscimento non contestuale, è necessario il consenso del genitore che per primo aveva riconosciuto, al fine di dare validità al posteriore riconoscimento dell’altro genitore. Differentemente dal passato, il criterio temporale assume validità, superando quello di matrice sessuale. Su un simile scenario va collocata la specifica questione della cittadinanza nel diritto italiano in età repubblicana. La prima normativa organica in materia risale al 1983, l’altra, attualmente in vigore nonostante le crescenti pressioni in favore dell’adozione dello ius soli per casi specifici, relativi essenzialmente a figli di stranieri residenti in Italia nati in territorio nazionale, è del 1992. Già la L. 21/04/1983 aveva introdotto alcune modifiche circa l’acquisto della cittadinanza per matrimonio e per filiazione, in ossequio al principio costituzionale dell’eguaglianza dei sessi; tuttavia, appena nove anni dopo, essa viene modificata, in quanto approvata in tutta fretta, poco prima dello scioglimento anticipato delle Camere e, quindi, lacunosa in molte delle sue parti. Al di là della sua incompletezza, la normativa del 1983 ha il merito di non demonizzare i casi di doppia cittadinanza, con impatto diretto rispetto ai diritti della donna rispetto a tale materia. Il testo indubbiamente più significativo è quello del 1992. Anzitutto, vi era ancora, prima dell’approvazione della legge del 1983, una serie di contraddizioni realmente gravi fra la legge al tempo 152

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 153

vigente (la 555/1912) ed il dettato costituzionale, soprattutto rispetto all’asimmetria giuridica fra i coniugi. Se, infatti, lo straniero sposato ad una cittadina poteva chiedere la naturalizzazione dopo due anni di residenza (art. 4), la moglie straniera di cittadino italiano acquistava automaticamente la cittadinanza per effetto del matrimonio. Molte delle questioni di legittimità sono state poste, nel corso della storia italiana repubblicana, alla Corte Costituzionale, a causa della discriminazione di due categorie di cittadine italiane, e di quelle tra marito straniero di una cittadina e moglie straniera di un cittadino (BARIETTI, 1996). La L. 91/1992 ha aspetti comuni così come difformità rispetto alla normativa del 1912. Può dirsi che l’impianto di fondo sia rimasto lo stesso, poiché la trasmissione della cittadinanza continua ad avvenire iure sanguinis, tuttavia senza alcune delle rigidità del passato. Oggi, in Italia, è cittadino per nascita non soltanto il figlio di padre, ma (art. 1) di madre cittadina. Tale principio sancisce la parità giuridica rispetto alla trasmissione della cittadinanza ai figli, coerentemente coi principi costituzionali. L’altra innovazione riguarda il minore straniero adottato da cittadino italiano, il quale acquista la cittadinanza: una disposizione recisamente negata da studiosi e politici ottocenteschi e primo novecenteschi, che – anch’essa coerentemente con l’obiettivo di tutelare i minori – trova accoglienza naturale nella normativa attuale. L’altro articolo relativo ai diritti della donna in relazione a quelli di cittadinanza è il nr. 6, che stabilisce che “Il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano acquista la cittadinanza italiana quando risiede legalmente da almeno sei mesi nel territorio della Repubblica, ovvero dopo tre anni dalla data del matrimonio, se non vi è stato scioglimento, annullamento o cessazione degli effetti civili o se non sussiste separazione legale”. L’orizzonte degli interessi del legislatore si è evidentemente spostato, ed appare sintomatica la restrizione statuita nell’accordare la cittadinanza italiana al coniuge straniero che sposi un cittadino, disposizione anch’essa legata ai tempi ed al nuovo fenomeno dell’immigrazione. Tale questione è quella che oggi ha maggiori implicazioni nel dibattito in merito al diritto di cittadinanza. Affrontarlo qui sarebbe del tutto fuori luogo, vista la complessità anche politica ed ideologica del tema. 153

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 154

Bibliografia

BARIETTI, S. (1996), La disciplina giuridica della cittadinanza italiana, Giuffré, Milano BUSSOTTI, L. (2002), La cittadinanza degli italiani, Angeli, Milano DEGNI, F. (), Della cittadinanza, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino DE DOMENICIS, F. (1916), Commento alla legge sulla cittadinanza italiana del 13 giugno 1912, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino ESPERSON, P. (1890), Condizione giuridica dello straniero secondo le legislazioni italiana ed estere, Fratelli Bocca, Torino FIORE, P. (1893), Dello stato e della condizione giuridica delle persone secondo la legge civile, Marghieri, Napoli GIANZANA, S. (1888), Codice civile, Vol. II, Discussioni, Unione Tipografico-Editrice, Torino OLIVI, L. (1877), Della cittadinanza, “Archivio Giuridico”, XVI, Bologna RICCI, A. (1891), Il principio dell’unità di famiglia nell’acquisto e nella perdita della cittadinanza, “Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche”, vol. XII, fascicolo I, Loescher, Roma SECHI, O. (1897-1902), Cittadinanza, voce del Digesto Italiano. Enciclopedia metodica e alfabetica di Legislazione, Dottrina e Giurisprudenza, Vol. VII, Parte Seconda, diretta da L. Lucchini, Unione Tipografico-Editore, Torino SENATO DEL REGNO – ATTI PARLAMENTARI, Legislatura XXIII, Prima Sessione 1909-1911, Discussioni – Tornata del 19 e del 20 giugno 1911

154

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 155

4516BussottiMinoranze_001-156

26-08-2013

17:14

Pagina 156

Questo libro è stato stampato nel mese di settembre 2013 da Joelle srl per conto di Ibis su carta certificata FSC®.

Lihat lebih banyak...

Comentários

Copyright © 2017 DADOSPDF Inc.