Musica Corpo Estetica

July 13, 2017 | Autor: Roberto Agostini | Categoria: Music, Music Education, Aesthetics
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IV • Musica,

corpo, estetica

Roberto Agostini

4.1. L’altra

musica, l’altra estetica

Recentemente alcuni musicologi italiani, interrogandosi sulla relazione tra popular music ed estetica, hanno sostenuto che l’oggetto privilegiato di studio dell’estetica – intesa come disciplina nata all’interno della filosofia della modernità occidentale, verso la metà del Settecento, quando Alexander Baumgarten pubblica il celebre Aesthetica (cfr. Baumgarten 2000) – è la musica d’arte occidentale (Pozzi 2003; Cecchi 2003; Borio 2003). Distinguendo tra arte e consumo, essi convergono sull’idea che solo nella musica d’arte sia possibile riscontrare le caratteristiche fondamentali dell’esperienza estetica, quali la presenza di un autore consapevole e libero da condizionamenti, di un fruitore disinteressato, critico e distaccato, e di un’opera unica, irripetibile, autonoma, nuova, frutto di sperimentazione. Il processo di legittimazione avviato da questi autori, che estende il canone della musica d’arte al jazz e a “certo rock”, poco cambia dal punto di vista teorico: certe musiche rimangono escluse dall’ambito dell’estetica e delle arti (i due ambiti vengono perlopiù fatti coincidere) a meno che in esse non sia possibile rilevare i principi dell’estetica della modernità. È possibile qui riconoscere la tendenza, comune in estetica, a esaurire in sé il novero delle esperienze artistiche ed estetiche legittime sulla base di alcuni elementi riscontrabili nell’insieme di opere che durante la modernità hanno contribuito a delineare l’estetica in quanto disciplina, un insieme dai confini sfumati e oggetto di costante negoziazione che, nel tempo, si è esteso fino a comprendere opere create nelle epoche precedenti e seguenti la modernità. Questa impostazione, che negli studi musicali si consolida a partire da fine Ottocento nel pensiero di autori quali Hans Hanslik e Theodor Adorno, è oggi al centro di critiche. L’idea di fondare una riflessione sull’estetica e sull’arte unicamente sulla tradizione estetica consolidata sembra infatti riduttiva. Negli studi musicali, ad esempio,



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Paolo Gozza e Antonio Serravezza avvertono che «ove si concepisca la storia della riflessione sulla musica nella prospettiva egemonizzante dell’estetica, non solo si creano problemi nella ricostruzione delle sue fasi più lontane, ma si rischia di rendere marginali anche momenti della ricerca filosofica coevi alla stagione della “vera e propria” estetica» (Gozza – Serravezza 2004, p. 11). Più in generale, Władysław Tatarkiewicz fa notare che lo studio della storia delle riflessioni sull’arte, sull’estetica e sul bello mostra che le concezioni dell’estetica moderna hanno radici antiche e non sono, né sono mai state, un corpus omogeneo di idee e concetti. E precisa che «lo storico sa che le teorie generali dell’arte o del bello rivelatesi insoddisfacenti si sono tuttavia dimostrate corrette in un campo più ristretto, per alcuni ambiti artistici, per certe forme del bello. Nella loro formulazione generale, assoluta, sono errate: forniscono tuttavia una spiegazione di alcune forme del bello e dell’arte e in tal senso sono utili» (Tatarkiewicz 2006, p. 344). In questa prospettiva, Richard Shusterman (2000, pp. 46-9) propone l’idea che verso la metà del Settecento la riflessione filosofica si sia coagulata intorno a una certa esperienza, riconoscendovi un tipo peculiare di esperienza estetica in stretta relazione con il concetto di arte (ma non solo). Dunque nasceva una disciplina, l’estetica, che metteva in una nuova luce problemi discussi da secoli, contribuendo al riconoscimento e allo sviluppo di una certa esperienza estetica, e ponendo così le fondamenta di una tradizione artistica di cui non intendo certo mettere in discussione la grande rilevanza storico-culturale. Ciò che vorrei mettere invece in discussione è la tendenza egemonizzante di tale tradizione, che pretende di sancire i confini tra l’insieme delle esperienze estetiche e di quelle non estetiche, e tra l’insieme degli oggetti in grado di suscitare esperienze estetiche e quello degli oggetti non in grado di farlo, assolutizzando i propri principi. L’estetica odierna non ignora certo queste problematiche ed è anche ben consapevole che le trasformazioni del mondo contemporaneo – industrializzazione, emergere delle democrazie, sviluppo tecnico ecc. – hanno inciso nelle arti in modo così profondo da problematizzare concetti quali quelli di arte, bello, autore, opera e così via, giungendo perfino a mettere in crisi il paradigma dell’estetica della modernità1. A me sembra però che negli studi musicali la riflessione continui a eludere le questioni Cfr. per la musica Fubini 1995 e Garda 2007.

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più spinose, prima fra tutte quella delle musiche “altre”. Ora, come nota Michela Garda, se è vero che «l’estetica musicale, almeno fino a oggi, è indissolubilmente legata alla tradizione della musica d’arte» (Garda 2007, p. 11), è altrettanto vero che «l’apertura dell’orizzonte estetico alla molteplicità delle “culture” musicali sarà un compito ineludibile» (ibid.). In effetti, tale compito comincia già a contare parecchi contributi2. In questa sede, piuttosto che affrontare il dibattito in tutte le sue complesse sfaccettature, vorrei approfondire un aspetto specifico, quello della relazione tra musica, estetica e dimensione corporeo-affettiva. 4.2. Pratiche

popolari

Nella nostra società, le persone comuni frequentano poco teatri e musei (se non in occasione delle “grandi mostre” o delle “prime”), sono poco interessate ai monumenti storici e alle opere d’arte contemporanea, e sono anche scarsamente preoccupate sia della conservazione dei beni culturali sia delle condizioni dell’arte contemporanea. In breve: le persone comuni non sono molto interessate al mondo dell’arte propriamente detta e preferiscono cercare piacere e bellezza nelle pratiche popolari, ovvero in pratiche culturali tradizionali irreversibilmente trasformate e riformulate all’interno dell’odierno contesto socio-economico industrializzato e massmediatico. Si tratta di pratiche per le quali a volte si rivendica lo statuto di arte e dove la ricerca del bello – ormai in disuso nell’arte contemporanea – assume un ruolo cruciale. Spesso tali pratiche sono accusate di scarso valore, conformismo e standardizzazione a causa del loro seguire gli ideali di bellezza proposti dal mondo mediatico e del legame con un piacere che molti considerano effimero e superficiale. Per questo sono fortemente avversate da molti intellettuali e artisti, che tendono a distinguere tra esperienze artistico-estetiche centrate su opere autonome, frutto di sperimentazione, e pratiche sociali centrate su oggetti di consumo standardizzati, finalizzati a produrre profitto. La quantità di energie, tempo e denaro che le persone investono in queste pratiche deve però farci riflettere: interpretare la diffusione delle 2 Cfr. il dibattito sviluppatosi a partire dagli anni Novanta nel «Journal of Aesthetics and Art Criticism» e studi quali Gracyck 1996, 2007; Frith 1996; Davies 2001; Marconi 2005.



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pratiche popolari come semplice “consumismo”, o addirittura come frutto di bisogni indotti tramite pressioni massmediatiche a una massa alienata e passiva, mi sembra infatti riduttivo. Questo non soltanto perché l’industria non è quell’oliata macchina in grado di pianificare e controllare il mercato che si crede3, ma anche e soprattutto perché tale visione cerca di risolvere un problema reale – quello dell’autenticità e del valore delle attività culturali nel mondo industrializzato – sulla base di una gerarchia estetica emersa con l’industrializzazione stessa, nota come dualismo “alto/basso”, della quale vari studiosi hanno rilevato il portato ideologico (Frith 1996; Levine 1988). In effetti, «se si confondono i valori estetici con i processi sociopolitici, si perde il filo del discorso e le idee si confondono» (Baroni 2003, p. 329): se una pratica è inserita all’interno dell’economia di mercato, questo non significa che sia alienante in sé; allo stesso modo, se una pratica non risponde ai dettami dell’estetica della modernità, ciò non significa che non abbia alcun valore e che non risponda ad alcuna esigenza (né tantomeno che sia la causa della marginalità della musica d’arte). Se accettiamo questo, diventa prioritario verificare se e a quali esigenze rispondono le pratiche popolari e in che cosa consiste il loro valore. Ora, nella convinzione che una delle risposte a questa domanda possa essere ricavata considerando le potenzialità estetiche di tali pratiche, mi concentrerò sulla relazione tra queste e l’esperienza estetica. 4.3. Distacco

e immediatezza

Il mio approccio si basa sul concetto di esperienza estetica, «un termine tardo per fenomeni discussi da almeno duemila anni» (Tatarkiewicz 1996, p. 314) che comincia a circolare nel XVIII secolo. Porsi in questa prospettiva significa mettere al centro dell’attenzione l’esperienza piuttosto che l’opera, e considerare dunque l’estetica un processo relazionale che vede un soggetto entrare in relazione con un oggetto4. L’attenzione 3 Questo luogo comune è stato sfatato da varie ricerche che hanno sottolineato da un lato il ruolo dell’appropriazione popolare (cfr. Agostini 1994), dall’altro la scarsa razionalità delle strategie industriali (cfr. Negus 1999). 4 Per un primo approfondimento sul concetto di esperienza estetica, cfr. Agostini 1994. Oltre ai riferimenti lì menzionati, cfr. Shusterman 1997; Shusterman-Tomlin 2008; Tatarkiewicz 2006, cap. XI; Marconi 2005.

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degli autori che si sono occupati dell’esperienza estetica si è concentrata sull’idea che questa rappresenti un momento distinto dalle esperienze quotidiane, dal carattere molto più significativo del semplice piacere sensoriale passeggero o dell’apprezzamento superficiale della bellezza, come i suoi detrattori sostengono. Essi hanno messo in luce che si tratta piuttosto di un’esperienza composita e processuale che ha a che fare con un profondo coinvolgimento, con l’immaginazione, il giudizio, la relazione, con uno stimolo pregnante e con il vivere un processo di trasformazione interiore. I teorici hanno però opinioni diverse sulla relativa importanza che nell’esperienza estetica assumono i processi cognitivi, affettivi e cinetici, su quale ruolo abbia in essa la soggettività, su come incidano in essa la società, i valori, la morale, se e come sia possibile parlare di un giudizio sull’esperienza. La tradizione estetica consolidata considera l’esperienza estetica distaccata, autonoma, disinteressata, centrata sulla percezione della forma. In breve, l’esperienza estetica è interpretata in modo intellettuale. Tale idea è fondata sulla scissione tra mente e corpo che è alla base della tradizione filosofica occidentale. Questa prevede la separazione delle forme di conoscenza umana in due sfere separate – mente/corpo, spiritualità/carnalità, intelletto/emozione, intelliggibile/sensibile, ragione/sensorialità – e il primato della mente sul corpo. Ora, come abbiamo detto, l’estetica della modernità colloca il piacere estetico nella sfera intellettuale e, proprio per questo, lo considera separato e superiore al piacere sensoriale, che è fondato sulla dimensione sensibile: il piacere raffinato, disinteressato, distaccato, alla portata di pochi in grado di godere del valore intrinseco di un’opera è sentito come superiore al piacere rozzo, interessato e immediato suscitato da espressioni culturali basate sul piacere sensoriale e corporeo-affettivo. L’impegno e l’abnegazione richiesti dal piacere estetico si oppongono allo spirito edonistico e d’evasione del piacere sensoriale. Anzi, la dimensione corporeo-affettiva, annullando la distanza estetica, che è il prerequisito per una fruizione critica e attiva, spingerebbe il fruitore ad abbandonarsi alle piacevolezze di un’immediatezza acritica e passiva, diventando facile preda delle manipolazioni dell’industria culturale. Dunque, se il termine estetica è stato proposto da Baumgarten facendo riferimento al termine greco che indica il sensibile, Baumgarten stesso e molta estetica moderna si sono poi dimenticati che la percezione sensoriale dipende anzitutto dal corpo (Shusterman 1999). Questo è vero anche nell’estetica musicale e, nonostante la consapevolezza che le parole sensus e ratio costituiscano una «duplicità che percorre la cultura



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musicale occidentale fin dalle sue più remote origini» (Gozza 2003, p. 154), nell’estetica moderna la dimensione sensibile e corporeo-affettiva è rimasta assente, o perlomeno secondaria, non solo per motivi di scuole di pensiero, ma anche per motivi religiosi e morali. 4.4. Performatività

e media

Vari autori, da vari ambiti disciplinari, stanno proponendo teorie alternative a questa visione scissa. Ripercorrendo il filo di una tradizione filosofica parallela a quella consolidata – che parte dall’antica Grecia per giungere fino ai giorni nostri, passando da Dewey, Nietzsche, Focault e Merleau-Ponty – attingendo dalle scienze sociali e naturali, e approfondendo la tradizione filosofica asiatica, tali autori mettono in luce come il dualismo tra mente e corpo, così com’è stato tematizzato finora, vada superato riconsiderando il ruolo della dimensione corporeo-affettiva5. Shusterman (1999, 2000), ad esempio, propone l’idea di somaestetica: una branca dell’estetica volta a studiare e valorizzare il potenziale estetico del corpo concepito sia nelle sue qualità esteriori rappresentative, sia nella sue qualità esperienziali interiori e performative (Shusterman 1999, p. 2). Ricordandoci che tra esperienza estetica ed esperienza artistica non c’è corrispondenza, Shusterman nota che non si deve riconoscere l’esigenza di vivere esperienze estetiche somatiche solo nelle pratiche di fruizione delle opere d’arte propriamente dette. Anzi, al giorno d’oggi tale esigenza si esprime soprattutto nelle pratiche popolari il cui statuto artistico è una questione controversa. Shusterman, inoltre, nota che l’esperienza estetica somatica si realizza sia nella fruizione di artefatti culturali e fenomeni naturali, sia nelle attività che richiedono un coinvolgimento pratico, un “fare”. Quest’osservazione assume particolare importanza in musica, perché ci suggerisce che l’esperienza estetica può essere riconosciuta anche nel “fare musica”. Vorrei approfondire questo punto prendendo in considerazione le tesi del teorico del teatro Marco De Marinis (2001) e quelle del filosofo e sociologo Davide Sparti (2007), che sviluppano argomentazioni convincenti su come la teoria estetica della modernità sia in 5 Cfr. Tatarkiewicz 2006, Sparti 2007, Lisciani – Petrini 2007, Higgins 2008, De Marinis 2001, Molino 2003, Caporaletti 2005 e i vari scritti di Shusterman. Nelle mie argomentazioni attingerò molte idee da questi autori.

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stretta relazione con la mentalità scritta e videocentrica occidentale, che genera e favorisce il distacco dall’oggetto svalutando nello stesso tempo il ruolo del corpo e dell’affettività. Di fatto, questa mentalità è alla base di schemi culturali cruciali per l’estetica musicale, quali la tripartizione produzione/opera/fruizione e il dualismo composizione/interpretazione, e ha spinto alcuni studiosi a sostenere che la conoscenza sensoriale della musica è secondaria o addirittura superflua. Non a caso, dunque, l’estetica consolidata esclude esperienze quali ballare, partecipare con canti e balli a un concerto o anche improvvisare un assolo, attività immediate dove il coinvolgimento collettivo e l’estemporaneità rendono il concetto di opus non pertinente, annullano la distinzione tra compositore e interprete e a volte sciolgono nell’azione collettiva la distinzione tra esecutore e pubblico. Ora, autori come De Marinis e Shusterman, approfondendo lo studio della dimensione orale/aurale di attività performative quali la danza, il teatro e la musica, mostrano che, accanto all’esperienza estetica distaccata, esiste almeno anche un altro tipo di esperienza estetica, basata sull’immediatezza e sul fare, caratterizzata dall’attivazione della dimensione corporeo-affettiva. Vale la pena aggiungere che tali studi vanno integrati con considerazioni riguardo al modo in cui le pratiche orali sono mutate nell’attuale contesto mediatico6. Un’interessante lettura di queste problematiche in ambito musicologico è stata recentemente avanzata da Luca Marconi (2005). Egli riprende la distinzione nietzschiana tra apollineo e dionisiaco (Nietzsche 1994) e pone la prima come rappresentativa dell’estetica moderna distaccata e la seconda come rappresentativa di alcune esperienze musicali della popular music spesso definite immediate in quanto orientate verso la corporeità e l’affettività. Egli avanza poi un modello di esperienza estetica basato sull’intreccio tra processi cognitivi, affettivi e cinetici che mostra come le due esperienze delineate, quella distaccata e quella immediata, possono entrambe sfociare in esperienze estetiche, che saranno naturalmente diverse tra loro. Marconi conclude che «il ruolo cruciale giocato dalle inferenze […] suggerisce che l’immediatezza della popular music è un “effetto di senso” fondato su processi mediati culturalmente […] non meno che la non-immediatezza della musica colta» (Marconi 2005). In questo modo, Marconi raggiunge conclusioni 6 Ho discusso il carattere “mediatico” della musica d’oggi in Agostini 2004. I riferimenti bibliografici lì riportati possono essere integrati con Sparti 2007; Gracyck 1996, 2007; Fisher 1998 e vari saggi del «Journal of Aesthetics and Art Criticism» citati in nota 2.



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in linea con gli autori sopra citati, mostrando che l’esperienza estetica musicale non è mai autonoma, ma sempre culturalmente mediata, che possiamo ritrovare esperienze estetiche musicali in molti generi musicali, non solo nel canone della musica d’arte, che la popular music può far vivere vari tipi di esperienza estetica, anche quelli della tradizione artistica occidentale, e infine che buona parte della popular music possiede un grande potenziale estetico basato sull’attivazione del corpo e dell’affettività, un potenziale assai ricercato che, quando non negato, è stato considerato dalla musicologia esterno alla storia della musica. Non a caso, Marconi pesca i suoi esempi di esperienze musicali somatiche e affettive in pratiche di danza quali il rave e la polka, o nell’ascolto che immagina tali pratiche. La danza, infatti, basata sulla performance e sul coinvolgimento attivo dei partecipanti, mette in secondo piano la distinzione tra autore e fruitore e porta in primo piano la ricerca delle relazioni con il comportamento di altri soggetti percepiti e/o immaginati, dove «tutte le facoltà umane sono attivate: non solo quelle percettive e intellettuali, ma anche quelle relative al sistema motorio, all’apparato propriocettivo e alle facoltà affettive» (Marconi 2005). A conclusioni simili giungono anche Shusterman (2000, cap. 8; 2006 ) e Sparti (2007), che hanno svolto le loro ricerche musicali nell’ambito del jazz e dello hip-hop, musiche afroamericane che si realizzano propriamente nella performance e nell’oralità mediatica dove è facile cogliere il ruolo rilevante della dimensione corporeo-affettiva. 4.5. Fare

pratica

L’esperienza corporeo-affettiva fondata sull’oralità riformulata all’interno del mondo industrializzato e sui processi performativi – che la tradizione artistico-estetica definisce immediata, interessata o edonistica mettendone in dubbio l’esteticità e l’artisticità – è centrale nelle pratiche di espressione culturale della maggior parte delle persone nella nostra società e in varie riflessioni che ne hanno rilevato le potenzialità estetiche. Si tratta di attività significative volte a scandire la vita sociale, attività dove rigenerarsi e provare un senso di benessere, dove sentirsi bene nel e con il proprio corpo, dove provare un senso di bellezza propriocettiva nella propria esperienza somatica, dove vivere intense emozioni, dove trovare momenti ricchi di potenziale bellezza, di meraviglia, di piacere, di trasformazioni interiori.

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Lungi da me, però, concludere affrettatamente che le pratiche musicali popolari suscitino sempre e comunque esperienze estetiche, che siano tutte uguali e dello stesso valore, o che siano più importanti di altre. Lungi da me, anche, l’idea che la musica della tradizione artistica occidentale sia meno importante delle pratiche popolari o che non abbia valenze educative. Tutt’altro: la valorizzazione della tradizione artistica è sacrosanta ed è una battaglia culturale che dobbiamo compiere; una strategia basata sull’imposizione dei principi dell’estetica moderna laddove si cercano risposte a esigenze diverse, interpretando queste esigenze come alienanti, consumistiche e prive di valore, è però rischiosa e limitata, e credo sia destinata non solo a non ottenere gli effetti desiderati, ma a causare guai peggiori. Certo, è necessario tenere conto che l’attuale assetto politico-economico ha dirottato per i propri fini l’esigenza di vivere esperienze corporeoaffettive, che portino benessere e trasformazioni interiori, verso l’obbligo di essere sempre costantemente informati ed esteriormente adeguati, di rappresentare piuttosto che di vivere esperienze. Questo fa sì che la costante ricerca di intensi stimoli corporeo-affettivi che caratterizza la società contemporanea, evidente nella diffusione di pratiche come il body building, le arti marziali, il piercing, l’uso di droghe, la danza e altre attività potenzialmente somaestetiche, si tramuti spesso in una ricerca puramente esteriore e standardizzata di prestazioni aberranti ed “estreme”, che considerano il corpo solo nelle sue potenzialità rappresentative. Anzi, in un gioco al rialzo, la nostra società incita all’esposizione a livelli stimolatori sempre più esagerati e continui, intorpidendo così i sensi e la consapevolezza corporea e affettiva degli individui in un gioco perfettamente in linea con gli interessi di chi sfrutta politicamente ed economicamente i bisogni sociali (Shusterman 2008, p. 39). Quello che tali pratiche aberranti hanno dimenticato e non riescono a recuperare, a causa del dualismo mente/corpo in cui l’umanità è lacerata, sono le potenzialità estetiche esperienziali interiori del corpo e le sue potenzialità estetiche performative. A questo proposito, è interessante rilevare che molte delle pratiche portate come esempio dello scarso valore estetico della popular music, e addirittura della pericolosità, possono essere interpretate proprio come casi di incapacità di gestire l’esigenza di vivere esperienze estetiche basate sul corpo e sull’affettività. Mi riferisco qui, ad esempio, a quei ragazzi che passano ore e ore “sotto cassa” ai rave party, oppure ai ragazzi che stanno ore e ore a fare headbanging a un concerto metal. In queste pratiche il corpo



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è ridotto a un oggetto puramente esteriore, rappresentativo, staccato dagli elementi esperienziali. Che queste attività siano dannose e pericolose per il corpo è un fatto. Che rappresentino esperienze estetiche è davvero poco probabile. La mia lettura di queste attività è però diversa dalla condanna senza appelli: credo che siano sintomi di un’incapacità di sentire, usare e gestire le potenzialità estetiche del proprio corpo e della propria vita affettiva, incapacità che spinge i soggetti a cercare esperienze “estreme”. Anche nelle pratiche centrate sul fare musica è possibile riscontrare casi simili: basti pensare a quei musicisti metal o jazz che passano intere giornate ad allenarsi come se fossero in palestra, cercando la prestazione virtuosistica estrema, e tralasciando di concentrarsi su quello che rappresenta l’elemento cruciale del fare musica nei generi quali quelli da loro scelti: quello della ricerca della propria “voce” e dell’integrazione di essa all’interno di una pratica intrinsecamente performativa e collettiva dove la dimensione corporeo-affettiva assume cruciale importanza7. In conclusione, «la cecità dei critici della cultura ai tratti somatici dell’esperienza è comprensibile e assai diffusa. Questo perché la somaestetica della rappresentazione rimane assai importante e dominante nella nostra cultura, una cultura largamente fondata sulla divisione del corpo dallo spirito, ed economicamente guidata dal capitalismo dell’esibizionismo consumistico alimentato dal marketing delle immagini del corpo. Eppure è precisamente per questa ragione che il campo della somaestetica […] necessita un’attenzione più accurata e ricostruttiva […]» (Shusterman 2008, p. 28). È dunque urgente che le pratiche popolari musicali vengano studiate anche con gli strumenti della musicologia e della tradizione filosofica, non solo con quelli delle scienze sociali ed economiche. Ma non basta, in linea con il pensiero di molti degli autori qui citati, accanto alla ricerca scientifica credo sia importante dedicarsi anche alla pratica delle attività estetiche immediate al fine di sviluppare la capacità di parteciparvi in modo consapevole ed efficace. Insomma, allenarsi per controllare, migliorare e affinare la qualità delle proprie esperienze corporeo-affettive, non per raggiungere prestazoni “estreme” fini a loro stesse. Intendiamoci: non sostengo l’idea di salvaguardare né tantomeno di inserire nell’educazione musicale le pratiche musicali esistenti in quanto tali. Non si tratta di impostare un’educazione musicale che segua pedissequamente gli interessi dei discenti. In educazione è infatti necessario Sparti 2007, p. 80 e sgg.; sul concetto di “voce”, p. 103.

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stare attenti a non fare confusione tra interessi, bisogni (Delfrati 2008, p. 124) e diritti (Stefani 1989), un nodo problematico ancora irrisolto il cui approfondimento, dopo quanto argomentato in questo testo, risulta essere assai urgente. Proprio per questo, educare al corpo, all’affettività e alle relative potenzialità estetiche rappresenta un percorso tutto da costruire destinato ad avere conseguenze sia a livello teorico sia pratico: gli esiti della riappropriazione dell’esperienza estetica immediata coincideranno con una radicale trasformazione e riorganizzazione delle attività musicali odierne. Bibliografia Agostini Roberto, 2004, Il consumo di musica nell’epoca della globalizzazione, «Il Saggiatore Musicale», XI, 2, pp. 399-408. Baroni Mario, 2003, …ma a che serve la musicologia, «Il Saggiatore Musicale», X, 2, pp. 328-31. Baumgarten G. Alexander, 2000, L’Estetica, a cura di S. Tedesco, trad. it. F. Caparrotta, A. Li Vigni, S. Tedesco, Palermo, Aesthetica. Borio Gianmario, 2003, Una storia unitaria delle musiche del secolo XX, «Il Saggiatore Musicale», X, 2, pp. 333-49. Caporaletti Vincenzo, 2005, I processi improvvisativi nella musica, Lucca, lim. Cecchi Paolo, 2003, Su alcune questioni storiografiche circa la musica di consumo nel secondo dopoguerra, «Il Saggiatore Musicale», X, 2, pp. 323-7. Davies Stephen, 2001, Musical Works and Performances, Oxford, Clarendon Press. De Marinis Marco, 2003, Contro la distanza: verso nuovi paradigmi per l’esperienza teatrale, in Addessi Anna Rita – Agostini Roberto (a cura di), Il giudizio estetico nell’epoca dei mass media, Lucca, lim, pp. 69-92. Delfrati Carlo, 2008, Fondamenti di pedagogia musicale, Torino, edt. Fisher John A., 1998. Rock’n’recording. The ontological complexity of Rock Music, in Alperson Philip (a cura di), Musical Works. New Directions in the Philosophy of Music, University Park, Pennsylvania State University Press, pp. 109-23. Frith Simon, 1996, Performing Rites, Oxford, Oxford University Press. Fubini Enrico, 1995, Estetica della musica, Bologna, Il Mulino. Garda Michela, 2007, L’estetica musicale del Novecento, Roma, Carocci. Gozza Paolo, 2003, Risposta a Jean Molino, in Addessi Anna Rita – Agostini Roberto (a cura di), Il giudizio estetico nell’epoca dei mass media, Lucca, lim, pp. 153-6. Gozza Paolo – Serravezza Antonio, 2004, Estetica e musica, Bologna, Clueb. Gracyk Theodore, 1996, Rhythm and Noise. An Aesthetics of Rock, Durham, Duke University Press.



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