NARRATIVA ESPERANTO.doc

June 2, 2017 | Autor: Carlo Minnaja | Categoria: Esperanto Literature
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LA NARRATIVA ESPERANTO
(conferenza tenuta presso l'ARCI Esperanto, Milano, 14.1.2007)

In un tempo così breve non si può dare che qualche idea sull'argomento
proposto nel titolo, per cui questa conversazione esclude qualsiasi
ambizione di completezza o anche di panorama generale. Mi limiterò a
fornire alcuni esempi di filoni diversi, tempi diversi e nazioni diverse.
Ci sono varie domande a cui gli storici della letteratura esperanto
dovranno rispondere: ad esempio se essa è soltanto di evasione, o se i
libri si leggono solo per perfezionare la lingua, o se la letteratura
esperanto rispecchia una comunanza di idee della comunità che usa la
lingua. E ci sono delle tendenze o dei tratti guida?

Se la letteratura esiste, evidentemente è necessaria, e c'è un gruppo
sociale che la produce e simmetricamente ne fruisce. Alla fine del 18°
secolo e agli inizi del 19° le letterature dell'Europa centrale hanno avuto
un ruolo fondamentale non soltanto per sviluppare e salvare le lingue
nazionali, ma anche per formare le nazioni e i popoli: questi si
distinguevano, e quindi costruivano la loro identità nei confronti degli
altri, tramite due elementi fondamentali: la religione e la lingua. Del
pari la letteratura esperanto rispecchia in gran parte le idee fondamentali
del movimento esperantista, che si possono così sintetizzare: convivenza
pacifica e collaborazione tra persone di popoli diversi indipendentemente
dalla loro appartenenza a questa o quella razza, difesa della libertà e
dell'uguaglianza di tutti i popoli, unione spontanea delle nazioni,
battaglia contro lo sciovinismo e il razzismo, battaglia per la pace, la
democrazia e la solidarietà internazionale. L'uomo appartiene ad un'unica
famiglia, e la lingua internazionale è lo strumento con cui tutti i
fratelli si possono intendere. Tale idea fondamentale è espressa non in
termini religiosi, bensì spesso in termini etici e di ispirazione sociale,
e si può trovare in tutti i generi letterari, dall'epica di Auld, de Kock,
Montagut alla narrativa di Baghy, Varankin, Schwartz, al teatro di Boulton,
Gubbins, Silfer. Notiamo qui di passaggio che questa interna ideo (idea
interiore) dell'esperantismo non è sempre comune a tutti gli altri progetti
di lingua internazionale: tanto per fare un esempio, il Latino sine
flexione di Peano proposto nel 1903 è inteso per una comunità di scienziati
del mondo occidentale, l'Occidental di Edgar De Wahl, proposto nel 1922, è
destinato a chi conosce le lingue neo-latine, come pure l'Interlingua di
Alexander Gode lanciata nel 1951 dalla International Auxiliary Language
Association (IALA); sono tutte lingue funzionali a persone colte e,
soprattutto, inserite nella cultura del mondo occidentale. Esse quindi non
necessariamente condividono lo spirito universalistico dell'esperanto.

La letteratura esperanto, come per tutte le lingue, esisterà finché
esisterà la lingua: il fenomeno letterario è sempre stato fin dagli inizi
connesso alla lingua: l'Unua libro (Primo libro, 1887) di Lazzaro Ludovico
Zamenhof (1859-1917) conteneva la traduzione del Padre nostro e dei primi
dieci versetti della Genesi, due poesie originali e una poesia tradotta. Lo
Zamenhof è notissimo per alcune poesie che sono diventate un simbolo
esperantista, La Espero (La speranza), scelto spontaneamente come inno, o
La vojo (La via), che si trova in tutti i manuali di apprendimento, anche i
più sintetici. Ma Zamenhof ha scritto soltanto 9 poesie e invece varie
centinaia di pagine di prosa, sotto la forma di prefazioni di libri,
articoli di riviste, trattati, lettere, discorsi a congressi e convegni.

Ma con le sue opere non si può ancora parlare di narrativa. Secondo
Esperanto en Perspektivo:

La concisione dell'esperanto, dovuta alle sue forme "riassuntive",
spesso intraducibili nelle lingue nazionali, facilitano la nascita della
poesia lirica: all'opposto, il fatto che l'esperanto fu agli inizi una
lingua quasi esclusivamente scritta rese difficile la nascita del dramma
o del romanzo. Il graduale trasformarsi dell'esperanto in lingua parlata
crea le basi linguistiche e psicologiche necessarie su cui crescono
entrambi questi rami della letteratura, che finora non sono di grande
riuscita. [1]

A queste considerazioni si potrebbe forse aggiungere che mentre la lirica e
la novellistica sono un genere di non enorme impegno temporale sia nella
produzione che nella fruizione, la stesura (e la lettura) di un romanzo
richiedono un impegno assai maggiore. Il popolo esperantofono è un popolo
bilingue e in genere ha l'esperanto come seconda lingua, a cui dedica i
momenti liberi, e quindi più facilmente si indirizza sulle composizioni
brevi. D'altro canto, rispetto al numero di parlanti e al breve tempo di
vita, l'esperanto è tra le lingue con più alta percentuale di opere
letterarie. Per fare un paragone, sia pure molto grossolano, con la
situazione italiana, una statistica dell'Associazione Italiana Editori dava
un numero di 55.000 titoli pubblicati in Italia nel 2002; l'editoria
esperanto pubblica un centesimo di quel numero, pur avendo un pubblico di
potenziali lettori valutabile a un cinquecentesimo dei cittadini italiani.
Inoltre è diverso l'impatto economico, perché le tirature in esperanto non
sono remunerative: mediamente si aggirano sulle 700 copie, mentre quelle
italiane hanno una media di 5000, e un autore non riesce a vivere della sua
produzione in esperanto, per cui anche il numero di opere prodotte da un
autore non può paragonarsi a quello che scrivono gli autori in lingue
nazionali, sostenuti da un mercato orientato e spesso costruito dalle
grosse case editrici. Spesso, ma non spessissimo, l'autore in esperanto, il
buon autore, è anche un autore nella sua lingua nazionale: tuttavia il
successo di pubblico e di critica è assai maggiore in esperanto perché
sorretto da quell'idealismo "deformante" dovuto alla tendenza
all'espansione, per cui, almeno nei primi decenni di vita della lingua
internazionale, il solo fatto che uscisse un libro era considerato di per
sé stesso un grande avvenimento. L'autore esperanto si sente quindi
gratificato non economicamente, ma psicologicamente, e questo porta ad una
maggiore voglia di produrre, eventualmente finanziando in proprio l'uscita
dell'opera. La critica letteraria è, proprio per questo "peccato
originale", il filone meno attendibile della pubblicistica esperanto:
spesso vengono magnificate opere che in una lingua nazionale non
supererebbero il rumore di fondo. È una realtà con cui il senso autocritico
del popolo esperantofono deve onestamente fare i conti, anche se questa
situazione è andata migliorando negli ultimi anni..

Come primissimi elementi di prosa letteraria dobbiamo citare la prima prosa
tradotta ed apparsa nel Dua libro (Secondo libro, 1888): La ombro (L'ombra)
di Andersen, peraltro tradotta a sua volta da una traduzione tedesca.
Seguirà immediatamente La neĝa blovado (La bufera di neve) di Puskin
tradotta da Antoni Grabowski (1857-1921), che compare come n. 14 delle
pubblicazioni in esperanto, la prima successiva ai due libri di
apprendimento e ai primi vocabolari. È la prima opera in prosa non di
Zamenhof pubblicata in esperanto; la prima opera di poesia era invece già
apparsa nel Dua libro, ed è una traduzione da Heine fatta dal poeta,
giornalista e pubblicista polacco Leo Belmont, ps. di Leopold Blumental
(1865-1941).

Con la rivista La Esperantisto (L'esperantista), il cui primo numero è del
1 settembre 1889, cominciano ad apparire prose di narrativa originale. La
prima è "Nur unu vorton!" ("Soltanto una parola!") del tedesco Ludwig Emil
Meier (?-1919), un racconto che compare nel numero di giugno 1891.
Seguiranno una breve novelletta indiana raccontata da F. V. L. (Francisko
Valdemaro Lorenz, 1872-1957, ceco emigrato in Brasile) e quindi nel numero
di ottobre un'altra novella, Okazo (Evento), di Enbe (Nikolaj Borovko, 1863-
1913, russo). In quegli anni i nomi che appaiono sulla rivista come
prosatori originali sono ancora il Borovko e soprattutto il giornalista
polacco Józef Waśniewski (1859-1897), la cui vena narrativa si volge a
tematiche sociali. Ma l'autore letterariamente più solido è il russo
Vasilij Devjatnin (1862-1938) che pubblica a puntate nel 1893 un lungo
racconto, Arturo. Il protagonista dichiara un amore eterno ad una signora
benestante, dalla quale spilla denaro illudendola che la sposerà; è invece
un impostore, che alla fine viene arrestato. La trama è simile a quella di
Senso di Camillo Boito, per quanto sia da escludersi che tale romanzo
italiano fosse conosciuto in Russia.

Ben presto nasce l'idea di bandire concorsi letterari: dopo la rivista La
Esperantisto, che cessa le pubblicazioni nel 1895 perché la censura zarista
ne impedisce l'ingresso in Russia, dove c'è il maggior numero di abbonati,
quasi a staffetta nello stesso anno nasce in Svezia il mensile Lingvo
Internacia (Lingua internazionale), che durerà fino alla guerra, uscendo
con oltre 6500 pagine. Lingvo Internacia bandisce concorsi letterari:
Waśniewski vince il primo di questi nel 1896 con il racconto En la brikejo
(Nella fabbrica di mattoni).

La prima antologia poetica è del 1893: La Liro de la Esperantistoj (La lira
degli esperantisti), compilata da Antoni Grabowski, raccoglie 110 opere di
poesia di 24 autori; ci sono 27 poesie originali, di dodici poeti di paesi
e lingue diverse. Invece per un'antologia di prose dobbiamo aspettare il
1902, quando esce in Francia Esperantaj Prozaĵoj (Prose esperanto), una
raccolta a cura di Louis de Beaufront (ps. di Émil Chevreux, 1855-1835).
Questa antologia raccoglie prose apparse su L'Espérantiste, una rivista
francese di propaganda di esperanto, e poi, dopo il 1908, dell'Ido; questa
rivista, fondata nel 1898, ha un grande impatto informativo sul pubblico
francese ed ha testi in esperanto di un certo valore: vi scrivono (schizzi
piuttosto che vere novelle) Kofman, Bernot, Bicknell, Beaufront, Lemaire e
altri; ci sono tre novelle del finlandese Karl Magnus Nordensvan (1850-
1903), che usa uno stile realistico, anche se un po' romantico, pur senza
mai cadere nel sentimentale. Tuttavia oggi questa raccolta è quasi
dimenticata.

Nel 1903 esce un'antologia di assai maggior fama e spessore, che
raggiungerà diciotto edizioni: Fundamenta Krestomatio (Crestomazia
fondamentale) è una raccolta curata da Zamenhof di poesia e prosa. La prosa
occupa quasi 300 pagine, ma la parte narrativa è ancora molto limitata, e
si tratta di brani già pubblicati nella rivista La Esperantisto; gli altri
pezzi sono di divulgazione scientifica, o curiosità, o articoli
sull'esperanto o più genericamente sulla lingua internazionale.

Per giungere finalmente alla narrativa propriamente detta dobbiamo
attendere i primi anni del Novecento e il diffondersi dell'esperanto in
Francia. Lo stile si evolve da quello dei primi tempi, slavo, tedesco e
nordico: attorno a Lingvo Internacia si raccolgono i conservatori,
capeggiati da Théophile Cart, autorevole membro e poi presidente del
Comitato Linguistico. Questi vedono nei neologismi e in un'evoluzione
troppo rapida della lingua, elementi richiesti dallo sviluppo della
letteratura, un pericolo per la sua stabilità. Invece il matematico Carlo
Bourlet propone nella rivista La Revuo (La rivista) un esperanto più
aperto, che utilizza maggiormente le immense potenzialità della lingua, più
adatto alla letteratura. Su questa rivista compaiono numerose traduzioni
assai impegnative dello Zamenhof, ma anche varie novelle originali.

In Francia prima del conflitto scrivono novelle alcune figure minori: la
commerciante Jeanne Flourens (1871-1928, ps. Roksano), più nota per le sue
commedie in cui agita il problema della parità tra i sessi, il fisico Henri
Sentis (1850-1933), che pubblica vari racconti tra cui Blua kardo (Il cardo
blu, 1923), un racconto d'amore nelle Alpi francesi; il medico militare
René Artigues (1860-1950). Si fa notare il sacerdote russo Ivan Ŝirjaev
(1877-1933), che scrive sotto lo pseudonimo "Malfeliĉulo" Sep rakontoj
(Sette racconti, 1906); altre sue novelle appaiono negli anni successivi. È
un novelliere di talento, con uno spiccato senso della realtà e del
paesaggio russo, di cui dà alcune descrizioni memorabili. A Ŝirjaev si deve
anche un ampio schedario di voci riguardanti l'esperanto e i suoi autori,
primo abbozzo di quella che sarà la Enciklopedio de Esperanto. Ŝirjaev è
tuttavia un enigma biografico. Il suo primo romanzo, Sen titolo (Senza
titolo), pubblicato soltanto nel 1995[2], è stato trovato manoscritto molti
anni dopo la sua morte, e, almeno la parte finale, fu scritta dopo il 1913;
ma i riferimenti alla vita di quindici anni prima danno l'idea che il corpo
del romanzo fosse stato scritto prima della fine del secolo, e quindi
potrebbe trattarsi del primo romanzo di una certa consistenza in esperanto.


Sen titolo descrive un anno della vita di un ragazzo povero che studia in
un paesino della Russia del nord per diventare sacerdote. Quindi legge
della lingua di Zamenhof e ne diventa cultore e propagandista; incontra una
ragazza e se ne innamora. Il sospetto che quasi tutte le pagine siano
fortemente autobiografiche è quasi certezza. La lingua è molto vicina a
quella originaria di Zamenhof, Ŝirjaev in gran parte visse isolato senza
partecipare alla vita dei congressi e dell'Europa occidentale, per cui la
sua lingua appare quasi fermatasi al primo decennio di vita. Un altro suo
romanzo, La nova vivo (La nuova vita), vinse invece un concorso letterario
nel 1927[3]. Lo stile è leggermente più evoluto del romanzo precedente, ma
la società descritta è quella della Russia pre-rivoluzionaria: Ippazio,
casellante delle ferrovie, trova la sua ragione di vita nell'educazione e
l'assistenza ad un ragazzo straniero.

I primi romanzi secondo la data di pubblicazione sono del medico francese
Henri Vallienne (1854-1908), attivissimo anche come traduttore dal francese
e dal latino: ottima è la sua traduzione dell'Eneide in esametri. I suoi
romanzi Kastelo de Prelongo (Il castello di Prelongo, 1907) e Ĉu li? (È
lui?, 1908) non hanno resistito all'usura del tempo e vanno citati solo per
motivi storici; hanno gli ingredienti tipici dei romanzi d'appendice
dell'epoca: amore, passione, avventure, crimini, scambi di identità, trame
complicate e poco verosimili.

Numerosi altri autori hanno pubblicato novelle o brevi romanzi, dallo
spagnolo Julio Mangada Rosenörn (che poi sarà un protagonista nella guerra
civile spagnola) all'inglese Edward Styler.

Un cenno a parte merita il ginevrino Edmond Privat (1889-1962). Privat è
famoso come enfant prodige, viene da Ginevra al primo congresso di Boulogne-
sur-Mer sulla Manica a piedi, parla perfettamente l'esperanto a 16 anni,
sarà un efficace propagandista, viaggiatore, organizzatore. Professore
universitario di diritto, pacifista, fondatore della Radio Svizzera,
pubblicista, poeta, nel 1910 fa una conferenza sulla letteratura esperanto,
il primo studio sull'argomento:

Ancora assai poco vasta, naturalmente, è la nostra giovane letteratura
originale. Ieri avevamo soltanto alcune decine di autori, ma nuovi
talenti sono apparsi sempre più spesso. Un grande compito, un altissimo
ruolo avrà in futuro la nostra letteratura, quando diventerà sempre più
la letteratura dell'umanità[4].

È qui accennato dunque un motivo fondamentale: la letteratura esperanto
viene vista in prospettiva come la letteratura dell'intera umanità. Nel
1910, quando non è ancora ventunenne, Privat pubblica un "facile libro di
lettura", Karlo; si tratta di un lungo racconto che narra della formazione
di un giovane, è scritto in una lingua semplice ma efficace, e resterà un
testo di lettura classico in tutti i corsi elementari di esperanto.

Talvolta la prosa di Privat sembra poesia: frasi brevissime, come versi in
sé compiuti:

Di là dal monte, a sud, il sole manda ancora i suoi raggi su un golfo
con luce chiara. Un paesaggio in cornice. Una miniatura colorata. Barche
a vela che si affrettano. I pescatori vengono a casa. Da lontano il
piroscafo, piccolo, più grande, già visibile, si dirige dritto al porto.
Il versante del monte è rosso, nudo, roccioso; sul declivio: arbusti
spinosi qua e là, non più alti di un'erbaccia. Si erge un rudere. Un
tondo muto. Un quarto di una torre con una larga ferita da parte a
parte. Il sentiero si arresta.

Privat sarà poi uno storico del movimento esperantista, con le sue opere
Vivo de Zamenhof (Vita di Zamenhof) e Historio de la lingvo Esperanto
(Storia della lingua esperanto), quindi uno scrittore di sociologia e di
politica con Interpopola konduto (Comportamento nelle relazioni tra i
popoli), Federala sperto (Esperienza federale), uno stilista con Esprimo de
sentoj en Esperanto (Espressione dei sentimenti in esperanto). Fu anche
poeta, con liriche giovanili e un dramma lirico, Ginevra, che verrà
rappresentato in congressi[5]. Troveremo poi in Aventuroj de pioniro
(Avventure di un pioniere, 1963) tanti episodi della sua vita, problemi
affrontati, personaggi incontrati, dal presidente americano Wilson a
Gandhi. Il libro è la raccolta di 55 trasmissioni tenute a Radio Berna dal
1952 al 1954: ognuna durava cinque minuti, ma in quel poco tempo Privat
riusciva a condensare aneddoti ed esperienze, tanto che questa sua opera si
può davvero considerare un testo di narrativa.

Veniamo ora al primo dopoguerra, quando si ha una fioritura di letterati
attorno alla rivista «Literatura Mondo», edita a Budapest. Ne è fondatore
ed editore Teodoro Schwartz; i protagonisti della redazione sono Kálmán
Kalocsay e Julio Baghy. I meriti di Kalocsay sono principalmente in campo
poetico, linguistico, editoriale; traduttore, critico, revisore, abbraccia
un numero enorme di lingue e una gamma poetica estremamente ampia. Non è
tuttavia un narratore. In questa caratteristica spicca invece Julio Baghy
(1891-1967), attore, commediografo, novelliere, romanziere, insegnante di
esperanto. Figlio di un attore drammatico e di una suggeritrice, fu per
oltre cinque anni prigioniero in Siberia; al suo ritorno in Ungheria
esplose la sua produttività, dapprima con una raccolta di poesie, Preter la
vivo (Oltre la vita, 1921) e quindi con un romanzo, Viktimoj (Vittime,
1925), incentrato sulla violenza della guerra e delle sue conseguenze,
sulla misera vita dei campi di prigionia. Ad esso seguirà Sur sanga tero
(Sulla terra insanguinata, 1933), che descrive ancora la vita nei campi in
Siberia negli anni 1918-1920 (è da notare che in quel periodo la guerra era
già finita, ma la Russia era sconvolta dalla rivoluzione e i prigionieri
appartenuti all'esercito austro-ungarico furono rimpatriati soltanto anni
dopo). Lo stile è semplice, ma appassionato: Baghy scrive di getto, senza
una successiva rielaborazione, il che può rivelarsi un difetto.

Di Baghy dice un critico e prosatore ungherese, Szilágyi, che egli aveva i
seguenti principi: "L'amore crea la pace, la pace conserva il senso di
umanità, il senso di umanità è l'idealismo più alto." Novelle e romanzi si
alternano a raccolte poetiche. Le sue espressioni migliori sono nei versi,
ma anche la sua produzione in prosa è di notevole livello. Non tutti gli
episodi sono verosimili, ma Baghy ha l'arte di far partecipare il lettore e
di renderli quindi credibili. Il protagonista di Sur sanga tero, Bardy, è
quasi divinizzato, mentre Katja, la donna, ha quasi le sembianze di un
diavolo. Romantica è la figura di Fiza, che nasconde un amore non
corrisposto per il suo eroe.

Il romanzo più maturo di Baghy è Hura! (1930), che in parte è una brillante
satira della società e in parte esprime speranze utopistiche. Dice il
critico L. Totsche:

Con questo libro estremamente interessante Bahgy si è caricato di un
duplice compito: con una specchio impietoso, con un sogghigno crudele,
con un sarcasmo acuto ha voluto rappresentare i lati oscuri dell'attuale
società e con un simbolo suggestivo ha voluto accennare a un mondo
futuro migliore. Le strade di questi due compiti sono molto divergenti e
quindi l'elaborazione dei due temi avrebbe bisogno di due registri
diversi di scrittura. E qui invece si nasconde l'errore fondamentale del
libro. Di fatto si tratta di due libri, che si intralciano
reciprocamente. Questa costruzione simultanea ostacola l'elaborazione
piena di entrambi i temi.
[…]
Il sogghigno è davvero grandioso. Un misantropo domatore lascia per
testamento in eredità alla capitale di uno stato immaginario 230 milioni
di dollari. Ma le condizioni rendono amaro il generoso regalo. Esse
umiliano i governanti della città, perché li obbligano a rinunciare alla
loro dignità umana e a riconoscere la loro parentela con le scimmie
[…][6]


Se il legato testamentario non viene accettato, il testatore ha destinato
il patrimonio alla prostitute della capitale. Si ha quindi una rincorsa al
denaro, e un incrocio di interessi di tutti i tipi e di tutte le categorie.
L'unico regista di tutto l'evento è il Denaro. La satira ha del grottesco;
la parte didascalica invece è meno riuscita: Baghy predica principi morali,
e chi non è d'accordo con questi rischia di restare indifferente.

Un cenno a parte merita un lungo racconto Printempo en la aŭtuno (Primavera
in autunno, 1931): non ha le dimensioni di un romanzo, ed è però più che
una breve novella. Narra di un incontro romantico, dolcemente malinconico,
tra due giovani: uno studente, Adamo, e la figlia di comici ambulanti, Eva,
detta "Suneto" (piccolo sole). A molti potrà piacere perché ci vedono sé
stessi giovani, perché la giovinezza, più che i due adolescenti, è la
protagonista del racconto; ad altri potrà sembrare troppo zuccheroso, di un
tardo romanticismo insistito: è tutto così bello, che non può essere vero,
neppure verisimile. È un amore fuori della realtà, di poche parole ingenue,
di teneri versi giovanili. Chi leggesse questo romanzo nel momento del suo
primo amore si sentirebbe irresistibilmente preso, e forse, alla scena del
distacco tra i due ragazzi, scorrerebbe qualche lacrima: azione non c'è, ci
sono solo sguardi furtivi e carezze accennate. Baghy amava questo suo
romanzo più delle altre sue opere, e a sviluppare questi temi, questa volta
in versi e con polso molto più maturo, tornerà quasi trent'anni dopo non
più con una prosa, ma con un dramma lirico, Sonĝe sub pomarbo (In sogno
sotto un melo, 1958): i due giovani di allora sono adesso Adamo ed Eva,
l'uomo e la donna rappresentanti dell'intero genere umano, che sognano e si
svegliano sotto un melo che è l'albero della vita. Parlano dell'uomo, di
cosa è la vita, il destino, l'amore, e recuperano, a volte con le stesse
parole, i concetti del vecchio racconto. Sono la prima coppia e l'ultima,
quella eterna, di fronte agli eterni problemi di cosa sia l'uomo. Sognano e
si trovano infine nel mondo tecnocratico, che essi non comprendono e
rifiutano come incapace di risolvere i problemi fondamentali. Questo dramma
lirico è il testamento spirituale di Baghy, che ha vissuto i dolori della
lunga prigionia quando era giovane, la pienezza del successo in età matura
e quindi la miseria in età più avanzata. Egli sogna ancora, ma nel sogno si
rifugia, nel sogno trova una speranza, sapendo che la realtà non ha più
speranze.

Di Baghy citiamo ancora La verda koro (Il cuore verde, 1937) non perché sia
una grande opera, ma perché è tra i libretti più popolari per un corso di
esperanto di secondo grado. Si tratta ancora una volta di prigionieri in
Siberia, ma questa volta il protagonista è proprio la lingua
internazionale. Le persone si conoscono frequentando un corso, e vivono
l'esperantismo nella sua forma più idealistica, quale forse oggi è invece
nascosta dietro ad altri aspetti più utilitaristici. Baghy fu un grande
didatta, nemico delle eccessive evoluzioni della lingua, vicino al popolo.
La sua ideologia lo tiene lontano dalla politica e in conclusione anche dai
problemi sociali: questo lo ha reso amato dal popolo esperantista, che lo
chiamava Paĉjo (Papà) ed ha aiutato a creare quell'atteggiamento apolitico
che ha caratterizzato gran parte del movimento borghese del periodo tra le
due guerre e anche quello successivo.

La satira del popolo esperantista è un'altra caratteristica di alcune opere
di Baghy: non è il solo né il primo a constatare che il mondo degli
esperantisti, utopistico ed idealistico, presenta numerosi elementi adatti
alla satira.

La vena di Baghy si spegne con la seconda guerra. La sua professione di
regista, scrittore con pubblico, insegnante di esperanto crolla:
l'esperanto non è più la grande speranza, il pubblico di lettori ha
emergenze più impellenti e quindi altre priorità. I paesi del centro-
Europa, le cui lingue non appartenevano a quel piccolo gruppo di grande
comunicazione internazionale, non sono più protagonisti della storia,
neppure di quella europea, e quindi anche l'interesse per l'esperanto come
mezzo di contatto con l'estero su un piede di parità si affievolisce. La
guerra fredda costringe a dolorose scelte: vari ungheresi emigrano, Baghy
resta in patria e deve fare il poliziotto, mestiere che detesta. La
rivoluzione del 1956 lo trova in Polonia, e quei giorni sono per lui di
terribile sofferenza e poi di terribile delusione. Proprio in quei giorni,
per distogliere il pensiero da quei tragici eventi, scrive Sonĝe sub
pomarbo. È il grande recupero poetico, ma l'età, la povertà, la salute che
comincia ad essere malferma ne inaridiscono la vena letteraria.

Al nord troviamo un altro prosatore, che è una via di mezzo tra il
novelliere e il romanziere. Le opere dello svedese Stellan Engholm (1899-
1960), un maestro di provincia, riguardano la famiglia e il suo evolversi,
il suo riprodursi, il suo contatto con la terra. Engholm vive in un
territorio di miniere di ferro e altri minerali, territorio ricco perché su
quei minerali si basa la sviluppo della Svezia ancora sottosviluppata
rispetto alle regioni del centro Europa, e povero perché dominato dalla
classe lavoratrice, mentre i borghesi e gli intellettuali sono quasi del
tutto assenti. Engholm insegna in classi di bambini che non hanno radici
culturali locali, infatti i loro genitori sono venuti a lavorare nelle
miniere da ogni regione del paese; si sviluppa il movimento dei lavoratori,
principalmente il sindacato e il partito socialdemocratico, il movimento
delle cooperative, il movimento contro l'alcoolismo, piaga tipica delle
regioni a forte sfruttamento umano. Engholm ha un periodo di grande
attività come traduttore, e opere di Selma Lagerlöf, August Strindberg e
Folke Bernadotte giungono al popolo esperantofono attraverso le sue
traduzioni. Il suo romanzo Homoj sur la tero (Uomini sulla terra) vince un
concorso letterario bandito dalla rivista «Literatura Mondo» nel 1931.
L'ambiente della narrativa svedese è in quel tempo fortemente impregnato di
temi sociali, quasi monopolizzati da una specie di "scuola proletaria". Non
è il caso di esaminarne le cause, che possono farsi risalire alla mancanza
di un lungo periodo feudale in Svezia, e alle condizioni dell'agricoltura
che avevano impedito il crearsi del latifondo. Engholm vive se non proprio
in quest'ambiente, comunque vicino ad esso. Nei suoi romanzi (ci sarà una
trilogia di una certa importanza) si nota una sua forte simpatia per la
sinistra, principalmente per i suoi principi umanitari.

La Svezia è, teoricamente, neutrale durante i primi tempi della seconda
guerra, ma la zona mineraria dove Engholm vive produce metalli per le armi
tedesche: l'autore ne è cosciente e cerca di risolvere la contraddizione
tra il suo antinazismo e la necessità di lavoro degli operai che vivono in
quella zona. Engholm è ottimista, per quanto di un ottimismo un po' rigido,
senza buon umore o sprazzi di gioia. Egli fonda nel 1942, quindi in tempi
in cui il tallone tedesco teneva sotto di sé tutta l'Europa e molti
movimenti esperantisti nazionali erano stati liquidati, una rivista in
esperanto, Malgranda Revuo (Piccola rivista), che accoglie prose e poesie
originali di notevole fattura. La rivista dura dieci anni e cesserà per
difficoltà finanziarie e scarsa collaborazione: il rigore di Engholm lo
portava a fare un po' tutto da solo.

Citiamo ora due autori che trattarono temi sociali: i loro romanzi sono
oggi quasi dimenticati, e a mala pena se ne fanno edizioni attuali. Il
popolo esperantista, specialmente quello che si incontrava ai congressi
universali o leggeva le riviste era un popolo apolitico, che si
accontentava quasi soltanto dell'esperantismo in sé, dell'interna ideo
(idea interiore) di pace e di fratellanza, che godeva della cultura
esperanto in quanto essa affermava l'esistenza del popolo stesso. Le
finzioni di Baghy, il suo sorriso e talvolta il suo sogghigno, la sua
speranza in un mondo migliore che senza dubbio verrà apparivano
sufficienti. Con l'austriaco Hans Weinhengst (1904-1945) e il suo romanzo
Turstrato 4 (Via della Torre, numero 4, 1934) abbiamo per la prima volta la
comparsa di un realismo sociale assurto a principio letterario: è descritta
la vita dei lavoratori nella Vienna del periodo tra le due guerre, una
Vienna troppo grande per un impero che non c'è più, una Vienna a cui sono
arrivati molti rifugiati scacciati dalle loro regioni a seguito della nuova
configurazione della carta dell'Europa. A volte 60 persone abitano nella
stessa stanza, e i parchi sono pieni di senza tetto. La loro miseria è
descritta con un pessimismo profondo, non c'è accenno alla speranza della
vittoria della classe lavoratrice. Ci sono certamente elementi
autobiografici: Weinhengst sognava di diventare un tecnico, ma deve
soffrire disoccupazione e miseria; lui stesso abita al numero 4 di
"Thavonatgasse", che fa da modello per la "Via della Torre", in un
quartiere malfamato, in una camera e cucina con la moglie e la figlia. In
una breve autobiografia così egli parla dei motivi ispiratori del romanzo:

L'argomento? Da dove l'ho preso? Beh, dalla vita stessa. Alcuni lettori
del libro mi hanno già rimproverato che dipinge troppo di nero, che
intristisce. Alcuni addirittura dicono che fa appello alle ghiandole
lacrimali. Beh, quelli per loro fortuna sembrano non conoscere il lato
oscuro della vita, della nostra società. Vadano nel mio ambiente e
troveranno forse cose molto più tristi. È stato scritto fin troppo sui
re, su Creso e altri fortunati del lato luminoso della vita. Ma non sarà
mai abbastanza quello che si scrive su quelli dell'altro lato. Io non
scriverò semplicemente per scrivere, ma per aiutare secondo le mie
modeste possibilità, a scuotere il mondo e a renderlo più razionale e
più giusto.[7]


Il romanzo è stato criticato anche dai socialisti, tra i quali Weinhengst
era un attivista. I due giovani protagonisti non trovano altra soluzione
che il suicidio. L'autore, dopo aver fatto il venditore di giornali,
troverà poi posto a Berlino, dove morirà nel 1945 sotto i bombardamenti. Lo
stile del romanzo è semplice, alla portata di tutti.

Un altro romanziere ispirato al realismo è Vladimir Varankin (1902-1938),
insegnante di storia moderna e poi direttore di un istituto di pedagogia.
Il suo romanzo Metropoliteno (Metropolitana, 1933) racconta di un giovane
ingegnere sovietico che viene a Berlino per studiare i metodi di
costruzione di una metropolitana urbana sotterranea. Egli si trova così a
contatto con una grande città capitalistica e ne osserva le contraddizioni;
partecipa anche a una manifestazione di classe del proletariato tedesco.
Contemporaneamente il protagonista scrive un romanzo autobiografico in
tedesco, con l'intenzione di mostrare i problemi e le realizzazioni della
giovane società sovietica. La sua giovinezza gli scorre davanti agli occhi,
le sue lotte contro la burocrazia e i nemici di classe che si sono
infiltrati nel partito e nella struttura statale… Il problema da tecnico
diventa politico. Si deve oppure no costruire la metropolitana a Mosca? I
burocrati e i conservatori sono contrari….

Il romanzo ha molte pagine commoventi: c'è la tenerezza e c'è l'amore, ci
sono diffidenze e rappacificazioni, barricate e uccisioni di lavoratori per
le strade di Berlino. Il racconto di tanto in tanto sconfina nel romanzo
giallo. La conclusione è quella eroica tipica della narrativa socialista:
gli stupidi e i disonesti sono sconfitti dall'intervento del partito
comunista e del popolo progressista, i problemi morali ed economici sono
risolti dall'entusiasmo della classe lavoratrice. Eppure Varankin, per
quanto entusiasta della rivoluzione, attivista del partito comunista
sovietico, direttore di giornali di ispirazione leninista, non è un cieco
adoratore della situazione postrivoluzionaria; fa le sue critiche alla
Nuova Politica Economica di Stalin, ma soprattutto dipinge una società
reale: c'è la fame, la miseria, c'è bisogno dell'aiuto di tutti, anche
degli esperantisti, i quali sono invitati a fare la loro parte nella
costruzione del socialismo. La vita privata di Varankin si rispecchia nel
suo romanzo che ha molti spunti autobiografici: il non felice rapporto del
protagonista Vitalij con la moglie Olga è la descrizione del suo poco
felice matrimonio con la prima moglie Augusta, con la quale tuttavia divide
la passione per la figlia Feina. Varankin si troverà poi nel gorgo delle
grandi purghe staliniane e, come molti altri esperantisti, verrà accusato
dapprima di spionaggio e sabotaggio, e quindi di far parte di
un'organizzazione spionistica internazionale che si nasconde sotto il nome
di "Unione Esperantista delle Repubbliche Sovietiche". Viene condannato a
morte il 3 ottobre 1938, con esecuzione immediata della sentenza: una
disposizione specifica del Comitato Centrale del 1° dicembre 1934 stabiliva
che le condanne a morte dovessero essere eseguite entro 24 ore, senza
possibilità di appello o amnistia. Le purghe staliniane annientarono le
organizzazioni esperantiste: furono fucilati quasi tutti gli alti
esponenti, dall'accademico Drezen al poeta Miĥalski, mentre figure minori
furono condannate alla pena standard, dieci anni di lavori forzati. Il
movimento esperantista in Unione Sovietica riprenderà molto lentamente
soltanto dopo la destalinizzazione.

Mettiamo insieme ora tre autori uniti dalla patria d'origine, l'Ungheria,
ma parecchio diversi tra loro. Ferenc Szilágyi (1895-1967), dottore in
legge, è pubblicista, redattore e insegnante di esperanto. Trasferitosi in
Svezia dal 1938, è nel comitato di redazione delle maggiori riviste
letterarie e redattore unico di Norda Prismo (Prisma del Nord), una
pregevole rivista letteraria che dura quasi vent'anni, finché per
sopravvenute difficoltà essa confluisce nella maggiore rivista letteraria
odierna, Literatura Foiro (La fiera letteraria). È anche poeta e
traduttore, sia dall'ungherese che dallo svedese, è redattore di antologie,
sia quella ungherese che quella svedese, sia di una raccolta di base di
racconti esperanto; è anche autore di manuali di apprendimento della
lingua. Il suo romanzo principale, Mistero minora (Mistero in tonalità
minore, 1958), è un giallo in cui si notano osservazioni autobiografiche:
il protagonista, Marteno Biro, è un ungherese che vive in Svezia, in
un'epoca in cui gli stranieri che si stabilivano lì erano piuttosto rari e
venivano guardati, se non proprio con sospetto, con una certa curiosità non
sempre benevola. Un amore finito molto tempo prima porta però il
protagonista a indagare sulla morte della sua amata, Aneta, che può essere
stata assassinata; un pezzo musicale fa da sfondo ossessionante, e in quel
pezzo Marteno cerca elementi che lo portino alla soluzione dell'enigma e
alla vendetta nei confronti dell'assassino. Il romanzo è essenzialmente un
romanzo psicologico, con una base di umanità che si trova in tutte le opere
di Szilágyi; ma l'autore è di maggior caratura come novelliere: dal 1931 al
1955 escono quattro raccolte di novelle, con un fine senso dell'humor.

Sándor Szathmári (1897-1974) è un ingegnere meccanico, con l'infanzia e
l'adolescenza segnate da miseria, trasferimenti, umiliazioni. Il padre era
un alto funzionario dell'amministrazione asburgica, ma la zona
dell'Ungheria dove viveva la famiglia passò alla Romania con il trattato di
Trianon, ed egli si trovò in una minoranza etnica disprezzata; arrivato
finalmente alla laurea in ingegneria, fu impiegato nella sezione studi e
progettazione del ministero ungherese dell'industria pesante. Il problema
della comunicazione tra genti di lingua diversa fu presente a Szathmári fin
dall'infanzia, ed egli si avvicinò all'esperanto attraverso l'ambiente dei
lavoratori a Budapest. Di ideologia politica antiasburgica, cristiano-
sociale, credente ma non praticante, formalmente affiliato alla chiesa
riformata, iniziò la sua produzione letteraria in ungherese dopo i
trent'anni, il suo romanzo principale ebbe traduzioni in più lingue, ma la
sua produzione in esperanto rimase a lungo sepolta. Il suo romanzo
fondamentale, Vojaĝo al Kazohinio (Viaggio in Casochina), che egli scrisse
in esperanto per esprimere anche con la lingua la sua filosofia di umanità
universale, fu accettato per la pubblicazione dalla principale casa
editrice di allora, Literatura Mondo, ma il nazismo montante ne impedì
l'uscita. Il romanzo uscì nella versione ungherese nel 1941, quando
l'Ungheria non era ancora nel vortice del conflitto; ma la censura ne
tagliò varie parti, da Szathmári stesso dichiarate le migliori. L'originale
in esperanto venne infine alla luce nel 1958, e ad esso seguì un numero
notevole di volumi di racconti. Il viaggio narra, sullo stile dei "Viaggi
di Gulliver", con lo stesso nome del protagonista, di incontri con un
popolo sconosciuto, con abitudini del tutto difformi da quelle umane: i
"chinesi", gli abitanti della "Casochina", non usano il denaro, non
giocano, non cantano, non chiacchierano, non si sposano, non hanno
religione, non portano vestiti d'estate. Si tratta di un popolo e di un
ambiente ideale? C'è poi un popolo opposto, i "bechinesi", molto più vicini
all'uomo normale, e che sono considerati dei folli dai "chinesi". Szathmári
ha un atteggiamento di dileggio verso tutte le sovrastrutture usuali in
Europa, in particolare il cristianesimo. I "bechinesi" per salutarsi
grattano le natiche uno dell'altro, si vergognano a farsi vedere mentre
mangiano, ma fanno i loro bisogni in pubblico. Non sono nudisti, ma
lasciano scoperte parti del corpo che in Europa vengono coperte, e invece
ne coprono altre. La vena comica è talvolta forzata, ma spesso coglie nel
segno. Un paragone con il Gulliver di Swift mostra una somiglianza delle
critiche che entrambi gli autori fanno alle abitudini europee, ma diverso è
il punto di partenza: Swift è religioso e, ad esempio, dipinge come una
virtù la fedeltà coniugale, Szathmári dipinge invece in maniera positiva il
libero amore.

Altre opere di Szathmári mettono in guardia dalla tecnologia imperante; il
lungo racconto Maŝinmondo (Il mondo delle macchine, 1964), poi ricompreso
nella raccolta Perfekta civitano (Il perfetto cittadino, 1988) ha un
gustoso episodio di un tribunale affidato alle macchine che giudica di una
vicenda di un deputato conteso dalla moglie e da un'altra donna; del pari,
la società della macchine istituisce una "Verità nazionale": sembra
veramente di leggere un libro di Orwell.

Il terzo autore ungherese ci introduce in un genere di evasione totale: il
romanzetto da leggere in treno, il giallo senza troppe pretese. István
Nemere (1944) è romanziere e traduttore di professione. Va citato perché,
come abbiamo detto all'inizio, la produzione di un autore in esperanto è di
solito di qualche unità, comunque assai inferiore alla produzione di un
autore in una lingua etnica. Per Nemere questo non si verifica: egli è
estremamente prolifico ed ha prodotto oltre 20 romanzi in esperanto e oltre
200 in ungherese; inoltre ha tradotto dal polacco in ungherese una trentina
di libri. Le sue opere sono romanzi leggeri o raccolte di novelle, racconti
per bambini e romanzi polizieschi. La lingua ungherese ha orizzonti troppo
ristretti e Nemere usa l'esperanto per ampliarli, ma i suoi racconti non
trattano mai di argomenti o di vita esperantista, che a lui appare "un
vestito troppo stretto". Nell'arco di otto anni Nemere ha prodotto undici
romanzi, un record anche in altre lingue. Il successo che ha Nemere presso
il pubblico esperantofono è certamente superiore a quello che ha in patria,
ma bisogna ammettere che data la quantità di opere, talvolta la qualità ne
soffre. Eppure le sue pagine sono popolari, proprio perché non hanno la
filosofia di Szathmári né il concetto del mondo di Szilágyi, sono pagine
che si leggono senza troppo pensarci sopra. Ma l'autore è valido: chi ha
scritto oltre 200 romanzi ha in mano tutte le chiavi per la costruzione di
un racconto di pura invenzione; a volte gli ingredienti sono stantii e
ripetuti, ma spesso si hanno opere di qualità più che buona.

E poiché abbiamo introdotto il romanzo giallo, non si può non menzionare
Claude Piron (1931), un belga trapiantato nella Svizzera francese. Dapprima
interprete presso l'ONU e presso l'Organizzazione Mondiale della Sanità,
quindi psicologo e per vent'anni professore di psicologia all'Università di
Ginevra, è anche un novelliere. I suoi cinque libri polizieschi sono ben
costruiti, i protagonisti sono sempre gli stessi, tanto che il lettore
acquisisce rapidamente una familiarità con l'ambiente e con la vicenda: il
detective Jano Karal e la moglie Ĝoja, una coppia in cui la psicologia è di
casa, sono i protagonisti di tutti gli episodi, in genere il morto è già
nelle prime pagine, e tutto il romanzo è alla ricerca dell'assassino e del
movente. Piron in certi punti si può avvicinare al miglior Simenon,
anch'egli belga trapiantato in Svizzera.

Un altro detective diventa popolare, l'ispettore Kramer dei romanzi di
Serĝo Elgo (ps. di George Lagrange), un riparatore di pianoforti francese.
Silfer lo descrive così: "Tra lo stilista Valano e l'originale per
contenuto Nemere, Serĝo Elgo si propone come un prosatore che opera una
sintesi, partecipando delle buone qualità di entrambi. […] L'originalità di
Serĝo Elgo, probabilmente il suo tratto più elegante, sta proprio nel suo
realismo (auto)ironico: è sulla via della satira ma cede alle tentazioni
della magia."

In una letteratura che ha centoventi anni e che è stata prodotta da autori
di tutti i continenti, non possono mancare anche racconti di guerra. Il
francese Raymond Schwartz (1894-1973) nacque in una famiglia francese in un
territorio allora tedesco, e la doppia cultura fu uno delle maggiori
caratteristiche della sua vita. Impiegato di banca, fondatore di vari
cabaret parigini di grande successo, che egli animò dal 1920 al 1956, e di
una rivista umoristica, La Pirato (Il pirata), ha la sua migliore
produzione nella satira e nelle poesie o prose brevi di evasione, ma anche
la narrativa lo vede in buona posizione. Dopo la lunga novella Anni kaj
Montmartre (Anni e Montmartre, 1930), che racconta con grande semplicità e
realismo le avventure di una ragazza tedesca a Parigi, il suo romanzo Kiel
akvo de l' rivero (Come acqua del fiume, 1962) è il racconto di una coppia
attraverso le due guerre: i due giovani Pierre e Annemarie, lui francese e
lei tedesca, si conoscono a Berlino nel 1913, hanno un figlio, poi sono
divisi dalla guerra (la prima). Quindi il nazismo impera, e Annemarie viene
mandata a Dachau, da cui si salva; Pierre la ritrova per caso e la famiglia
si può riunire al termine del conflitto (il secondo). L'ambiente è
descritto con molta vivacità: c'è una festa di nozze, una serata
studentesca a Parigi, una celebrazione del Natale in una famiglia tedesca.
Schwartz ha vissuto gli Anni ruggenti in un'Europa che sembrava aspirare
alla serenità dopo i trattati di pace e che invece stava precipitando nella
catastrofe della seconda conflagrazione mondiale.

Per quanto riguarda la guerra abbiamo dei reportages autentici sui
conflitti che hanno insanguinato la Jugoslavia al tempo della sua scissione
in vari stati indipendenti. Ne è autrice la croata Spomenka Štimec (1949),
che ha conosciuto l'esperanto da ragazza e poi è diventata esperantista di
professione, lavorando nel "Servizio Culturale Internazionale" di Zagabria.
In mezzo all'odio tra serbi e croati, che monta come un'inondazione, la sua
prosa è autobiografica, con momenti toccanti, come quello della sepoltura
di un amico medico ed esperantista, la cui vedova accende una "candela
della speranza". La Štimec in racconti e romanzi precedenti aveva
presentato con grande delicatezza l'affievolirsi e quindi la fine di una
lunga convivenza:

Mi sentivo come un nastro adesivo usato che si cerca di usare di nuovo,
ma che non tiene più. Anzi, peggio: mi sentivo come se mi si staccasse
dal muro con una quantità di granelli di polvere che mi ostacolano -
Perché lo hai permesso? Perché ti sei abbandonata ad un tale
attaccamento? - mi diceva una voce maliziosa dentro di me, mentre il
nostro "noi" si divideva con forza in "lui" e "io". Con forza? Non
precisamente. Io ho avuto bisogno di forza per staccarmi. Lui no. O
almeno, lui molto meno.

Concludiamo questa nostra rapida carrellata con l'australiano Trevor Steele
(1940), professore di tedesco all'università di Sydney. Arriva alla
letteratura in età parecchio matura: il suo primo romanzo, Sed nur
fragmento (Ma solo un frammento), esce quando l'autore ha già 47 anni. Il
racconto si basa su fatti reali (il protagonista, lo scienziato russo
Maklin, è realmente esistito) e racconta dell'impatto di un bianco
acculturato con la civiltà degli indigeni della Nuova Guinea. La civiltà
bianca non esce sempre vincente dal paragone, e Maklin, coinvolto nella
politica australiana, cerca di proteggere i suoi amici della Nuova Guinea
dalla colonizzazione europea. Il confronto tra culture è il tema centrale
del romanzo, e per quanto mai compaia nell'opera l'esperanto, tuttavia
compare lo spirito dell'esperantismo: è necessario conoscere, capire e
conservare tutte le culture del globo. A quel primo romanzo seguono una
raccolta di novelle, Memori kaj forgesi (Ricordare e dimenticare, 1992), e
un altro romanzo, Apenaŭ papilioj en Bergen-Belsen (Non ci sono quasi
farfalle a Bergen-Belsen, 1994), che narra, in ottica autobiografica,
l'attività condotta da un docente inglese come assistente sociale nella
Germania degli anni Sessanta. Steele produce quindi ancora racconti di
viaggio e novelle e infine ancora un romanzo, Neniu ajn papilio (Nessuna
farfalla, 2000), che riprende il romanzo precedente, con ricerche sul
posto. Ci sono parecchie interviste con le quali l'autore ricostruisce un
ambiente e un periodo quando ancora molti lo ricordano.

L'ultima opera di Steele è ancora agli inizi, e promette di essere il più
corposo romanzo di tutta la letteratura esperanto. Il primo volume di La
fotoalbumo (L'album di fotografie, 2001) è di oltre 350 pagine, e l'opera
si propone di raccontare la storia di tre generazioni di una famiglia di
origine irlandese che ora vive del Queensland, una regione dell'Australia
che Steele ha già descritto in opere precedenti. Le relazioni tra le
persone sono il motivo principale del romanzo: l'autore sfoglia un album di
fotografie, dove ci sono i vari membri della famiglia, i loro amici, il
loro ambiente. Lo stile è colloquiale, i dialoghi usano un gergo familiare,
come se gli eventi venissero ripresi in diretta.

Un caso a parte è Karolo Pič (1920-1955), un ragioniere ceco, che è poeta,
romanziere e saggista. I suoi romanzi, La Litomiŝla tombejo (Il cimitero di
Litomiŝl, 1981), Klaĉejo (La stanza dei pettegolezzi, 1987), Ordeno de
verkistoj (L'ordine degli scrittori, 1997), come pure le sue novelle, hanno
destato curiosità, grandi lodi e grandi critiche. Il linguaggio è
estremamente di avanguardia; oltre a un numero enorme di neologismi spesso
estratti direttamente dal latino c'è un uso estremo delle potenzialità
dell'esperanto: interiezioni, sostantivi, avverbi che prendono direttamente
le desinenze delle voci verbali. Si aggiunge la brevità del periodo, spesso
composto solo da soggetto e verbo, talvolta con l'ellissi di uno dei due;
frequentissimo è l'uso dei puntini sospensivi, abnorme è la frequenza del
punto esclamativo, le domande retoriche sono seguite da una risposta
gridata. I romanzi spesso non hanno una vicenda, ma descrivono situazioni
statiche, stati d'animo, impressioni: il sentimento dell'amore permea quasi
tutte le pagine, e sconfina spesso nell'erotico. Un tema costante sono le
durissime punizioni corporali somministrate a ragazze adolescenti:
attraverso queste punizioni, descritte insistentemente con dovizie di
particolari si ha uno squarcio sul profondo erotismo dell'autore, che va al
di là di un semplice voyeurismo. La lettura della pagine di Pič risulta
faticosa per chi non è capace di adeguarsi ad un esperanto altamente
sperimentale; ma chi si trova in sintonia con l'autore trova un grande
piacere nella raffinatezza della parola, nell'ampio uso delle potenzialità
della lingua e anche nell'erotismo piuttosto singolare.

Per rendere omaggio anche al nostro paese citiamo ora alcuni italiani:
confrontati con altri personaggi menzionati non sfigurano, anche se non
hanno conquistato un posto di assoluta preminenza nell'ambito della
narrativa esperanto. Lina Gabrielli (1930) è una giornalista e pubblicista
di Ascoli Piceno, laureata in economia a Ca' Foscari, vincitrice di alcuni
concorsi, poetessa e prosatrice. Ha espletato una grande attività come
direttrice della casa editrice "Plejado", e la sua attività letteraria si
colloca principalmente nel ventennio tra il 1960 e il 1980. Scrive novelle,
permeate di una certa atmosfera di malinconica rassegnazione. È assai
frequente il pronome di prima persona: è alla ricerca di un contatto,
principalmente con un uomo, ma, potremmo dire, con l'intero ambiente
circostante. Lina Gabrielli esprime un senso di solitudine, anche in
novelle che avrebbero uno sfondo allegro, come quando racconta di episodi
del carnevale. Le sue prime opere sono quella via di mezzo che potremmo
denominare come "lunghi racconti", in larga parte autobiografici: un tenero
incontro sentimentale durante un congresso sviluppa il suo senso del
dialogo, le rigide imposizioni della famiglia che si aggiungono ad
un'educazione cattolica, la disabilità permanente ad un arto ne rendono una
donna sola, isolata, ma con intensa ricerca di una vita in comune. La
Gabrielli è, come dice il critico Giorgio Silfer, "come un pittore naïf,
più per il soggetto che per la tecnica. Lo stile infatti è fresco, con
frequenti dialoghi, che ne facilitano un'immediatezza efficace"[8]. È
comunque un ponte tra la cultura italiana e quella esperanto: narratrice
anche in italiano, ella porta ad un contatto con gli autori italiani
contemporanei, che cominciano ad interessarsi di un fenomeno come
l'esperanto e la sua letteratura. Sotto questo aspetto vanno segnalati i
concorsi letterari organizzati negli anni Settanta. L'istituzione di un
ramo di poesia o prosa esperanto accanto a quelli in italiano aveva una
funzione molteplice: dare risalto anche internazionale al concorso
medesimo, far conoscere autori esperanto alle giurie italiane e far
cooptare nelle giurie anche esperti esperantofoni. Come effetto
collaterale, le premiazioni avvenivano nei congressi nazionali di
esperanto, il che metteva in stretto contatto con gli operatori letterari
anche il movimento esperantista strutturato. Lina Gabrielli fu valorizzata
da questi concorsi, come pure Alfredo Perricone Pirandello, Gianluigi
Gimelli, Cesare Arieti. Va citato anche il fatto, sebbene esso esuli dal
filone del tema di oggi, che l'attività negli anni Settanta portò alla
creazione di una attività teatrale: a Milano si formò un piccolo gruppo che
mise in scena varie opere, a cui sono legati i nomi dei milanesi Vittorio
Dall'Acqua e Giorgio Silfer.

Un discorso molto più ampio meriterebbe Clelia Conterno (nata
Guglielminetti) (1915-1984), ma la sua produzione narrativa è limitata.
Clelia è una donna che ha acquisito una dimensione internazionale in
esperanto debuttando, ancora diciannovenne, prima del secondo conflitto nel
gruppo che faceva capo alla rivista satirica La Pirato, edita a Parigi
sotto la redazione di Raymond Schwartz. Ella è pienamente partecipe di
entrambe le culture: quella italiana, dove scrive poesie, romanzi e
novelle, e quella esperanto, dove la sua produzione è di pari livello. Nel
filone narrativo la sua pagina è permeata di un impegno cristiano e
sociale: è redattrice di una piccola rivista delle donne democristiane
durante la Resistenza, quindi autrice di un romanzo autobiografico
incentrato sulla ricerca della maternità, interrotta più volte, con il
marito dapprima ufficiale in Russia e poi internato militare in Germania.
Due sue novelle vengono pubblicate, ma la sua attività principale è quella
saggistica, di redattore e di recensore. Il suo romanzo Bambino mio tanto
atteso viene tradotto in esperanto con il titolo Unu tago post la alia (Un
giorno dopo l'altro) e resta un unicum di introspezione, di intimità
familiare, racchiusa tra le mura della casa torinese e la scuola dove ha
scelto di insegnare ai "mutilatini", prima che il vaccino Sabin risolvesse
il problema della paralisi infantile. La sua opera più consistente tuttavia
è rimasta incompiuta: il suo romanzo Ho tomboj de l' prapatroj (O tombe
degli avi!) è parzialmente autobiografico. È un romanzo d'amore, di
quell'amore pulito e romantico, "vissuto nel clima tranquillo della
provincia piemontese, scandito dagli echi del canto gozzaniano"[9].

Di nascita e adolescenza genovese, ma abitante a Milano e coinvolto
nell'attività milanese del Centro Italiano di Interlinguistica, membro del
Centro PEN "Esperanto", giornalista, redattore, pubblicista, saggista è
Marco Picasso (1940), laureato in geologia, manager d'azienda, esperto di
grafica. Il suo finora unico romanzo La tunelo (Il tunnel, 1998) si svolge
avendo in sottofondo una tematica di protezione dell'ambiente: si vuole
costruire un tunnel per un'autostrada sotto le Alpi in un luogo dove la
formazione geologica è inadatta, e c'è il rischio di crollo della galleria
e morte di operai. Ma troppi sono gli interessi attorno a questa impresa, e
gli ammonimenti del geologo, Bruno, risultano sgraditi nell'ambiente
politico: chi deve prendere delle decisioni vede con favore la costituzione
di posti di lavoro in una zona di montagna di scarse risorse, e Bruno viene
allontanato con una commissione in Sud-America. Si intreccia con questa
vicenda un'altra vicenda in cui è difficile distinguere l'amore vero dalla
semplice attrazione fisica: matrimoni oramai senza più passione spingono
Bruno e Magda, che si sono incontrati nell'ambiente dei "verdi", uno verso
l'altro. Picasso non fornisce una soluzione dell'eterno dilemma tra uomo e
donna, e tra l'uomo e la natura; il romanzo finisce aperto a risposte
diverse, ma l'ultima pagina è sintomatica: quanto Bruno temeva sta per
avverarsi. La lingua è piana, semplice: Picasso ha una particolare cura per
le singole parole, e ha scritto anche un libro in italiano, Parole in gioco
(1999), che è una via di mezzo tra il narrativo e il didascalico: sono
segnalati i "falsi amici" in esperanto, sono raccontate particolarità,
curiosità ed etimologie, e il libro si presenta non come un'opera di
consultazione, ma come una lettura di evasione.

Poiché siamo a Milano, non è possibile passare sotto silenzio l'attività di
Giorgio Silfer (1949), poeta, critico letterario, pubblicista, saggista,
insegnante, laureato in Italia in materie letterarie e in lingue e, a
Budapest, in esperanto. La sua attività sfiora la narrativa, ma non è nella
narrativa, bensì nella saggistica la sua produzione migliore, per quanto
anche nella poesia egli ci abbia dato delle vere perle; autore di libri, ma
soprattutto scrittore di articoli. La sua nascita e maturazione è milanese,
poi ha avuto un lungo periodo in Finlandia e quindi una residenza, che dura
tuttora, nella Svizzera francese. Ne citiamo una breve opera, Desislava
ridetas (Desislava sorride, 1987), dove sono raccolte alcune pregevoli
liriche e alcuni schizzi satirici: le liriche sono dedicate alla moglie,
Perla Martinelli, anch'ella attivissima, prima a Milano e poi con Silfer in
vari luoghi; anch'ella redattrice, critica, saggista. Le prose di Silfer
sono in genere impressioni, racconti minimi che potrebbero essere inseriti
in un romanzo, a mo' di ornamento. Anche la sua prima novella, la premiata
Gabriela, tratta di un'impressione, di una visione di un volto, che
svanisce e di cui si va poi alla ricerca, a lungo. In Desislava ridetas ci
sorride in copertina "la Gioconda d'Oriente", una principessa bulgara
raffigurata in un affresco a Sofia, che Silfer poeta ci dice "pallida,
millenaria, crepuscolare, nota e misteriosa". Le prose sono minime, ma di
una grazia toccante:

Una ragazza incantevole colse un papavero sul sentiero. Camminava a
piedi nudi sull'erba e il vento coccolava la sua lunga chioma.
"Tu sei rosso fuoco come i miei capelli, di velluto come le mie
labbra, delicato come il mio petto: sarai il fiore della mia vita",
mormorò lei.
Il cuore del papavero pulsava nella coppa della sua mano, come un
uccellino cieco con le prime piume.
Ancora adesso, se annusate un papavero alla fine dell'estate, sentite
il profumo dei baci della ragazza.


*****
La donna avrebbe partorito presto il primo bambino, e l'uomo ha
preparato una culla di legno.
Si era alla metà di luglio e anche la terra era gravida.
La donna se ne andò e non tornò più. La pianta appassì
improvvisamente, e non sbocciò nessuna gemma.
Dalla finestra della sua casa deserta l'uomo guardò il giardino. Un
mite papavero assomigliava alla bocca di un bambino che piange.
L'uomo lo colse delicatamente e lo pose nella culla vuota. Così anche
la culla è servita una volta, per consolare un pianto muto.

Sen Rodin (1932) è lo pseudonimo di Filippo Franceschi, un padovano che
attualmente vive vicino a Piacenza; maestro elementare (pur con il titolo
di direttore didattico) e appassionato di musica. Sposato ad
un'esperantista bulgara, ha educato i suoi due figli in esperanto fin dalla
nascita, e l'esperanto è ancora la sua lingua familiare. Le sue novelle
sono apparse sporadicamente negli anni: un congruo nucleo era già pronto
nel 1960 e avrebbe dovuto uscire nella prestigiosa collana "Stafeto";
difficoltà insorte successivamente ne impedirono la pubblicazione. È uscita
invece nel 2006 la raccolta Bildoj pri Norda Lando kaj aliaj rakontoj
(Scene di un paese del Nord e altri racconti). I primi racconti sono degli
schizzi autobiografici: l'autore si trova a conoscere un paese, un clima,
un paesaggio, un sistema e un ritmo di vita totalmente diversi da quelli a
cui era abituato; c'è, ovviamente, anche l'innamoramento giovanile per una
ragazza svedese. Anche in Sen Rodin troviamo degli spunti sociali, ad
esempio nella descrizione di alcuni atteggiamenti di pacifica contestazione
giovanile come quello di issare una bandiera rossa sul camino di una
fabbrica, e sono comici gli sforzi delle autorità costituite che cercano di
porre fine a questa esibizione senza riuscirci. L'autore è stato vicino a
Lotta continua e a Radio Sherwood, a Toni Negri e ad Emilio Vesce,
collaborando sempre dall'esterno senza mai un'adesione formale. Sen Rodin
dipinge la realtà a tinte alterne: talvolta è pessimista, talvolta dalle
sue pagine sprizza un autentico umorismo. Leggiamo della sua conversione
vegetariana, nata dalla nausea della macellazione degli animali per i
pranzi dei giorni di festa, leggiamo le sue introspezioni nell'animo umano
basate sulle proprie esperienze. E alcuni racconti sono proprio favole,
come quelle che si narrano ai bambini prima che si addormentino.

Carlo MINNAJA
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[1] I. Lapenna, U. Lins, T. Carlevaro, Esperanto en Perspektivo
(L'esperanto in prospettiva), London-Rotterdam, UEA, 1974, p. 120.
[2] I. Ŝirjaev, Sen titolo, Vieno, Pro Esperanto, 1995.
[3] I. Ŝirjaev, La Nova Vivo, Vieno, Pro Esperanto, 1993.
[4] E. Privat, Junaĝa verkaro, La Laguna, Stafeto, 1960, p. 34.
[5] Sulla vita di Edmond Privat vd: P. Martinelli, Edmond Privat - L'uomo e
l'opera, La Chaux-de-Fonds, Centro Italiano di Interlinguistica, 2004;
sulla sua opera poetica vd. C. Minnaja, Un poeta in esperanto: Edmond
Privat, in Loquentes linguis, Wiesbaden, O. Harrassowitz, 2006 (in corso di
stampa).
[6] L. Totsche, De paĝo al paĝo, Budapest, Literatura Mondo, 1932, pp. 27-
28.
[7] «Lingvo Libro», 2, 1934.
[8] G. Silfer, Il contributo italiano alla letteratura originale in
esperanto, testi di laurea, Univ. di Genova, rel. L. Peirone, a.a. 1985-86,
p. 51.
[9] G. Silfer, op. cit., p. 44.
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