Paradiso 33 (DDP)

July 14, 2017 | Autor: Nick Fosca | Categoria: Dante Studies
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1 – 6
Ha ora inizio la celebre "preghiera alla Vergine" di san Bernardo, che si
articola, divisa in tre parti, fino al v. 39: è una preghiera necessaria a
Dante affinché egli si liberi delle residue tracce di mortalità e sia
ammesso alla visione e partecipazione di Dio. Della Vergine, figlia del
figlio, sono esaltate le principali doti, da tutti riconosciute: prima fra
tutte l'umiltà straordinaria ("Te, qua numquam humilior, " in creaturis
legitur " fuisse nec suavior; " et propter hoc sublimior " esse nulla te
noscitur": Bonaventura), segnata dalla assenza di fomite, per cui ella è
più che creatura, termine della storia, nel senso di compimento previsto
anche teleologico, perché è la salvezza il fine dell'individuo ed il suo
perfetto compimento. L'umiltà, per Bernardo, è dote superiore a quella
della verginità: De Laudibus B. Virginis M., I. Le tre antitesi
stabiliscono su un piano superiore realtà ed essenza della Vergine, la
quale nobilitò la specie umana tanto che il Creatore s'incarnò in lei,
prese da lei forma umana (P. Damiani, Orat. 61: "verbum fit factor et
factura, creans et creatura"), rendendo possibile l'Avvento, centro della
storia e conditio sine qua non della giustificazione. La letteratura
mariologica era fatto diffuso e coltivato, in particolare dai mistici;
Dante ne riprende i temi principali con equilibrio, dando esempio di un
componimento in sermo humilis. È necessario richiamare lo studio di E.
Auerbach ("Dante's Prayer to the Virgin and Earlier Eulogies", in Romance
Philology 3, 1949, pp. 1-26), che associa la preghiera a esempi sia
classici sia Cristiani. "Tutti gli elementi delle forme paleo-cristiane
d'elogi sono fusi nel testo dantesco: l'elemento dommatico, lo storico, il
figurale, l'emotivo. Dogma e storia prevalgono; non ci sono figure nella
preghiera dantesca, ma le immagini richiamano interpretazioni figurali;
l'elemento emotivo, nel senso d'una parafrasi emotiva degli eventi, manca;
il fervore della emozione è espresso in modo immanente, attraverso l'ordine
tematico, le parole, i suoni, non per esplicita dichiarazione di
sentimento. I motivi principali sono, senza dubbio, dommatici.... Per
questo elemento di composizione rigida, di potente sintesi, il testo di
Dante differisce dagli elogi dell'alto medioevo.... L'immagine dantesca di
Cristo, come amore incarnatosi nel seno della Vergine per la salvezza
dell'umanità, è un simbolo d'un avvenimento storico insostituibile con
altro esempio, inseparabile dalla dottrina. La rigida coerenza di storia,
simbolo e dottrina conferiscono alla composizione della preghiera dantesca
un grado di rigidezza che un poeta antico non avrebbe potuto né voluto
raggiungere" (trad. it. in Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1963, pp.
291-92). Sul possibile ascendente dell'Anticlaudianus di Alano di Lilla
vedi A. Jacomuzzi ne L'imago al cerchio. Invenzione e visione nella "Divina
Commedia", Milano, Silva, 1965, p. 12n.; cfr. anche G. Ledda, La guerra
della lingua, Ravenna, Longo, 2002, p. 308n. Per R. Guardini, "la rosa è il
punto per cui la virtù divina entra nel mondo e poi ne esce per tornare a
Dio. In un senso analogo, ma nel più elevato dei sensi, questo vale per
Maria. Per essa Dio è entrato nel mondo, per essa il mondo, da Dio
santificato, a Lui ritorna. Ma questo ingresso e questo ritorno hanno un
carattere storico, non cosmico-metafisico come avviene nella rosa" (Studi
su Dante, Brescia, Morcelliana, 1967, p. 112).

7 – 9
Nel ventre (termine di profilo 'basso', solitamente, ma di largo uso in
contesto religioso) si riaccese l'amore, perché lì crebbe il Salvatore, il
quale diede origine al fiore del Paradiso, i cui beati, infatti, devono il
proprio stato all'Avvento, alla germinazione (cfr. Is. 45.8), cioè alla
maturazione, grazie al caldo della eterna pace, di ciò che era in potenza
nel seno della Vergine. Si noti che è l'amore il basilare fattore
nutritivo. Il tema era trattato da molti autori, un vero leit-motiv, ma
Dante pone in particolare rilievo che ora la rosa è formata dai beati, per
cui essa costituisce il corpo di Cristo. L'eucarestia è il modello
soggiacente, a livello terreno la suprema realtà sacramentale: in cielo, il
segno fisico perde il carattere di 'segno di' e si realizza nella
partecipazione effettiva dei santi a Dio.

10 – 12
Bernardo appella ora la Vergine fiaccola solare (face meridiana) di carità,
per noi beati, e sorgente viva (fontana vivace) di speranza, per i vivi.
Nel discorso In Nativ. B.V.M. Bernardo chiama Cristo fonte delle acque
vive, e Maria l'acquedotto grazie a cui la corrente divina ci raggiunge. I
beati, in effetti, non abbisognano di speranza né di fede, ma i vivi ne
hanno oltremodo sete, essendo la loro sicurezza più o meno precaria. Anche
questi sono motivi diffusi nella letteratura e nella liturgia. P. es. san
Bernardo, In Assumptione II.9: "gloriosa Virgo, cuius lampas ardentissima,
ipsis quoque angelis miraculo fuit". Hollander parla della distinzione,
corrente presso alcuni commentatori, tra latria, l'adorazione di Dio,
dulia, l'adorazione di santi ed angeli, e hyperdulia, la venerazione
superiore dovuta a Maria.

13 - 15
Quindi Bernardo passa a esaltare il ruolo fondamentale di Maria uindicome
Mediatrice: chi vuole la grazia senza ricorrere a lei è come se volesse
volare senza ali (antico modo proverbiale). Anche qui è possibile evocare
un passo bernardino: "Nihil nos Deus habere voluit, quod per Mariae manus
non transiret" (In Vigilia Nativitatis Domini III.10). Vedi anche
sant'Ambrogio: "Quid nobilius Dei Matre? quid splendidius ea, quam Splendor
elegit?... Gratiam, quam detulit Angelus, accepit Virgo, salutem saeculis
redditura" (De Virginibus II.1).

16 – 18
Ora è messa in rilievo la prerogativa mariana secondo cui ella giunge
spesso in soccorso anche a chi non ne ha fatto richiesta: Maria precorre la
domanda in modo gratuito (liberamente), come Dante sapeva bene. Il motivo è
diffusamente biblico, perché prova della benevolenza del Signore. Francesco
da Buti: "Liberalità è larghezza di donare da sé medesimo mossa". Cfr.
Conv. I.viii. Bernardo, In Nativitate B.V.M. VII: "Totis ergo medullis
cordium, totis praecordiorum affectibus, et votis omnibus Mariam hanc
veneremur; quia sic est voluntas ejus, qui totum nos habere voluit per
Mariam. Haec, inquam, voluntas ejus est, sed pro nobis. In omnibus siquidem
et per omnia providens miseris, trepidationem nostram solatur, fidem
excitat, spem roborat, diffidentiam abigit, erigit pusillanimitatem. Ad
Patrem verebaris accedere, solo auditu territus, ad folia fugiebas; Jesum
tibi dedit mediatorem. Quid non apud talem Patrem Filius talis obtineat?
Exaudietur utique pro reverentia sua: Pater enim diligit Filium. An vero
trepidas et ad ipsum? Frater tuus est et caro tua, tentatus per omnia
absque peccato, ut misericors fieret. Hunc tibi fratrem Maria dedit. Sed
forsitan et in ipso majestatem vereare divinam, quod licet factus sit homo,
manserit tamen Deus. Advocatum habere vis et ad ipsum? Ad Mariam recurre.
Pura siquidem humanitas in Maria, non modo pura ab omni contaminatione, sed
et pura singularitate naturae. Nec dubius dixerim, exaudietur et ipsa pro
reverentia sua. Exaudiet utique Matrem Filius, et exaudiet Filium Pater.
Filioli, haec peccatorum scala, haec mea maxima fiducia est, haec tota
ratio spei meae. Quid enim? potestne Filius aut repellere, aut sustinere
repulsam; non audire, aut non audiri Filius potest? Neutrum plane.
Invenisti, ait angelus, gratiam apud Deum. Feliciter. Semper haec inveniet
gratiam, et sola est gratia qua egemus. Prudens Virgo non sapientiam, sicut
Salomon, non divitias, non honores, non potentiam, sed gratiam requirebat.
Nimirum sola est gratia, qua salvamur".

19 – 21
In quest'ultima terzina fra quelle dedicate agli encomi sale in primo piano
un'unica virtù: la tendenza e capacità ad intervenire sempre in soccorso
degli uomini, offrendo la possibilità che la grazia sia loro infine
concessa; perciò in lei si raccoglie tutta quella bontà che può trovarsi in
una creatura. Come notato da Hollander, la terzina ricalca Georg. IV.465-66
(Orfeo si lamenta per Euridice: cfr. Purg. XXX.49-51): "te, dulcis coniunx,
te solo in litore secum, " te veniente die, te decedente canebat". "This
seems an obvious revisitation. Perhaps we have not seen it because the
situations are so opposed. But that is the point: Bernard is a better
Orpheus singing a better Eurydice, Maria. It is a small but telling emblem
of how Dante rewrites Virgilian tragedy as Christian comedy. And the
Virgilian context is striking: We last heard the notes of Georgics IV in
tragic mode for his disappearance as a character from the poem; now that
poem becomes the subtext for a better moment, his own re-entry to this
Christian comedy at its highest point". Si ha ora la linea di confine tra
il primo gruppo di versi (1-21) ed il secondo (22-39). Scrive S. Botterill:
"The canto's first seven terzine form an extended captatio benevolentiae,
in which Bernard piles up complimentary epithets and laudatory metaphors as
a means of simultaneously praising Mary and asserting the fundamental
dogmatic truths about her: her humanity (expressed at once in virginity and
motherhood), her divine election, her mediating role in the economy of
salvation; but in line 22 the focus shifts from Mary as object of praise to
Dante personaggio as supplicant, and the remainder of the prayer has a
function more practical than celebratory. Lines 1-21 thus provide Bernard
with an opportunity to display his credentials as a Mariologist, which he
does in a passage as notable for its theological authority as for its
verbal bravura; lines 22-39, on the other hand, show that
characteristically Bernardine combination of doctrine and eloquence placed
at the service of an urgent and specific purpose within the narrative.
Bernard has something to ask for; and it is the efficacy of his speech that
ensures that he gets it" (Dante and the Mystical Tradition, Cambridge UP,
1994, p. 110).

22 – 27
Viene ora ripercorso l'iter di Dante: dal luogo più basso dell'universo
(infima lacuna) fino all'Empireo egli ha visto le anime dei trapassati
(vite spiritali) una ad una; ora chiede alla Vergine tanta virtù, tanta
potenza, da poter innalzarsi con gli occhi verso Dio, la suprema salvezza
(ultima salute). "La visione finale della Commedia illumina, in un certo
senso, tutta la costanza dell'itinerario di Dante e ne giustifica la
validità narrativa. L'ultima espressione salute riassume in una sintesi
mirabile lo scopo morale della Commedia" (Giacalone). ST I, q. 12, a. 1:
"Cum ultima hominis beatitudo in altissima ejus operatione consistat, quae
est operatio intellectus: si numquam essentiam Dei videre potest
intellectus creatus, vel nunquam beatitudinem obtinebit, vel in alio ejus
beatitudo consistet quam in Deo: quod est alienum a fide. In ipso enim est
ultima perfectio rationalis creaturae, quod est principium essendi; in
tantum enim unumquodque perfectum est, in quantum ad suum principium
attingit". "Once again, the eyes are posited as the vehicle through which
experience is apprehended, even in the (immaterial) other world; but, once
again, Dante's sight is not merely the physical registration of phenomena
but the comprehension of their innate reality. It is vite spiritali, rather
than things or people, that Dante has seen; and the object towards which he
will now turn his gaze is equally, if more profoundly, abstract, an ultima
salute that can clearly not be encompassed by the organ of material sense-
perception alone. Sight, in the Empyrean, is always insight; to see is
always to understand; so seeing always turns to contemplation. And thus
Bernard can go on to equate himself with Dante, describing the activity in
which they are both now engaged as veder. This veder, first af all, is
spiritually rather than physically generated, by the ardour already noted
as basic to Bernard's own relationship with Mary (XXXI.100-101)" (S.
Botterill, Dante and the Mystical Tradition, Cambridge UP, 1994, p. 111).
Scartazzini cita A. Cesari: "Lacuna, per Ricettacolo, o Scolatojo d'acque
morte, porse a Dante una bellissima immagine dell'inferno: che infatti
quello è lo scolatojo delle ribalderie, o fecce del mondo; e però nel
concetto riuscirebbe a voler dire Latrina. Ma intendendo così questo
lacuna, verrà a significare tutto il gran vóto d'inferno, che riceve a
diverse altezze la scolatura di tutti i peccati; e coll'infima ne nota il
fondo".

28 – 33
Io - dice Bernardo -, che in terra non arsi mai di desiderio per giungere a
vedere Dio (per mio veder) più di quanto ardo perché possa giungervi lui
(per lo suo), ti offro tutte le mie preghiere, sperando che non siano
scarse, affinché con le tue preghiere tu lo disciolga (disleghi) da ogni
nube della sua condizione mortale, in modo che gli si possa rivelare il
supremo termine dell'amore ('l sommo piacer), Dio. Conv. IV.xii.17:
"l'ultimo desiderabile, che è Dio". Si noti come il discorso di Bernardo
ruoti attorno all'amore, che limita e condiziona la visione. Amore è
carità: "È la espressione più pura del sentimento cristiano: la carità, per
cui Dio discende tra gli uomini, per cui la terra si risolleva al cielo. E
al di sopra c'è uno sfondo infinito. Al di sopra di questa carità non c'è
che la beatitudine eterna. Poiché la preghiera di san Bernardo, ricondotta
all'unità del sentimento che la pervade, al motivo dominante a cui si
riportano e in cui si confermano tutti gli altri motivi che accennano e si
dispiegano nel canto di esaltazione alla Vergine, è il gaudio supremo
dell'anima cristiana che nel cielo di Dio anela e prega perché tutte le
anime siano insieme con lei a gioire della stessa beatitudine, a
riconoscere la stessa verità santa, a cantare l'inno d'amore a Dio che per
amore regna dentro di lei" (L. Casella, "Il canto XXXIII", in G. Getto
[Ed.], Letture dantesche. Paradiso, Firenze, Sansoni, 1961, p. 674).
Evidente poi l'insistenza di Bernardo sul termine di 'preghiera' (qui c'è
la sua più diffusa occorrenza): senza di essa - lo abbiamo capito
soprattutto in Purgatorio - non si abbandona l'orizzonte individualistico,
tipico anche della vecchia poesia, non si è veramente parte del Corpo
Mistico, il che è rappresentato a livello terreno dalla eucarestia, a
livello celeste dalla partecipazione indefettibile al supremo oggetto
dell'amore. Inoltre, il filosofo che aveva esplicitamente definito la
preghiera come unico mezzo per passare dalla filosofia a Dio (cfr. N.
Fosca, "Il canto XX del Paradiso", in Studi danteschi 79, 2014, p. 250) è
qui presente: "Dissice terrenae nebulas et pondera molis atque tuo
splendore mica; tu namque serenum, tu requies tranquilla piis, te cernere
finis, principium, vector, dux, semita, terminus idem" (Boezio, Cons. phil.
III, m. 9, vv. 25-26). Sul ruolo di Mediatrice cfr. san Bernardo, De
duodecim praerogativis B.V., 15: "Jam te, mater misericordiae, per ipsum
sincerissimae tuae mentis affectum, tuis jacens provoluta pedibus luna,
mediatricem sibi apud solem justitiae constitutam devotis supplicationibus
interpellat: ut in lumine tuo videat lumen, et solis gratiam tuo mereatur
obtentu, quam vere amavit prae omnibus, et ornavit stola gloriae induens,
et coronam pulchritudinis ponens in capite tuo. Plena es gratiarum, plena
rore coelesti, innixa super dilectum, deliciis affluens. Ciba hodie
pauperes tuos, Domina; ipsi quoque catelli de micis edant, nec puero Abrahe
tantum, sed et camelis potum tribuas de supereffluenti hydria tua (Gen.
24.15-20): quia tu vere puella es praeelecta et praeparata Altissimi
Filio". C'è probabilmente un'altra fonte da citare, cioè Aen. II.602-606;
622-623. Nota Hollander: "If we believe that the Virgilian passage is being
alluded to, the parallels are fairly inviting. Where Venus removes the
shield of invisibility from the gods so that Aeneas may see his true
enemies for what they are, Mary takes the cloud of his mortality away from
Dante so that he may see his friend, God, as He is". Si legga il commento
di Carroll: "But Dante filled the heathen form with Christian contents. It
is a petition that the last vestige of the darkness of original sin and its
consequences be swept away from his soul. The loss of original justice
through Adam inflicted, according to Aquinas, four wounds on our nature:
ignorance in the intellect, badness in the will, weakness in things that
require courage, and concupiscence, the rebellion of the senses against
reason and Divine law; [...] and this wound of sin, overflowing the bounds
of the soul, involved the body in diseases and death (ST I-II, q. 85, a.
5). These are the clouds of mortality from which Dante must be freed before
he could uplift his eyes to 'the last salvation'; and since the clouds had
their rise in the sin of Eve, they could be dissipated only by the grace
won through the prayers of her who closed the wound which she had made".

34 – 39
Infine Bernardo prega Maria di conservare puri (sani) gli affetti di Dante,
il quale ha visto tante cose: la sua custodia respinga gli assalti delle
passioni. Quindi egli indica la moltitudine dei santi che, le mani
congiunte (ancora un'indicazione corporea), si uniscono con Beatrice
all'invocazione. È l'ultima immagine sia di Beatrice sia del regno celeste
intero: tutti i beati sono intenti alla preghiera. Alcuni studiosi hanno
giudicato non particolarmente appropriata tale ultima richiesta; la
preghiera, in effetti, era stata rivolta a Beatrice (Par. XXXI.88-90), e
concerne i movimenti umani. Ci pare al proposito da evidenziare l'esegesi
di L. Pertile, La punta del desio, Fiesole, Cadmo, 2005, pp. 247-63 (già
pubblicato in Filologia e critica 6, 1981, pp. 1-21): viene richiesto alla
Vergine che "in conseguenza della visione l'anima, i sentimenti, gli
'affetti' di Dante non siano inebriati o sconvolti, ma rimangano 'sani',
sicché egli possa portare impresso in essi, per narrarlo dopo, qualcosa di
ciò che ha provato se non tutto ciò che ha visto" (p. 250). Quindi, oltre
alla 'sanità' invocata a XXXI.88-90, si richiede anche la capacità di
espressione linguistica, che presuppone la correttezza etica, ma la eccede,
come eccede la 'mortalità'. Assieme a vari studiosi, la proposta è stata
sviluppata da R. Manescalchi, che richiama Inf. II.8-9: o mente che
scrivesti ciò ch'io vidi, " qui si parrà la tua nobilitate. "Che cosa è che
ha permesso a Dante di scrivere ciò che ha visto se non la concessione
ottenuta per la richiesta fatta da san Bernardo che le sue facoltà mentali
ed i suoi sentimenti non fossero travolti come è sempre nell'esperienza
mistica? In cosa consiste la nobilitate della mente che scrisse ciò che il
poeta vide se non nel fatto che ha ottenuto la grazia di poter appunto in
qualche modo fissare nella mente la visione ottenuta?" (Studi sulla
Commedia, Napoli, Loffredo, 2011, p. 221). In ogni caso, dato che si tratta
sempre di volontà decisionale, è soprattutto, a nostro parere, il ruolo di
Bernardo, come difensore del libero arbitrio, ad uscire consolidato da tale
particolare narrativo: infatti, accettare o respingere l'aiuto della grazia
è compito del libero arbitrio, e tale aiuto può sempre essere perso una
volta nel mondo terreno, sia per motivi riguardanti la conversio ad
corruttibilia sia riguardanti la aversio a Deo. Il secondo rischio è tanto
più insidioso quanto più si pensi all'enormità della grazia ricevuta da
Dante: contro di esso sono in particolare appropriate - come sappiamo - le
preghiere.
Quindi il quadro generale dipinto da S. Botterill, per cui le
qualificazioni basilari di san Bernardo sono "Marian devotion,
contemplation and eloquence", resta ancora, a nostro parere, piuttosto
sfuocato. "He is a spokesman for Dante, expressing the dedication to Mary
that Dante had come to feel at the end of Paradiso XXXI (139-142). He
stands proxy for Dante, saying and doing for him things that mortal
limitations or due humility prevent him from saying or doing for himself.
He is Dante's sponsor, appearing for him before his patron, beseeching that
patron on his behalf, and putting the full weight of his own prestige and
abilities behind his petitions, to the point where his emotional
committment to Dante's cause exactly matches that which he would feel on
his own account (vv. 28-29). He acts as a spiritual mentor, taking thought
even for the future health of his protégé's soul, concerned how it will
fare after the (inevitably transient) contemplative experience comes to an
end, when Dante's troublesome humanity will reassert itself (vv. 34-37).
And he is, finally, as we have already seen, the mouthpiece of the court of
Heaven, now united in its prayer for Dante, with one particular individual
significantly picked out from the crowd (vv. 38-39). It is, perhaps, the
last and greatest of the Commedia's tributes to Bernard's oratorial powers
that, in the end, his voice alone speaks not only for Beatrice but for the
heavenly host, his prieghi also become the utterance of her and their
desire for Dante's salvation. Spokesman, proxy, sponsor, mentor,
mouthpiece: Bernard is all of these in relation to Dante, while continuing
to be fedel Bernardo, quel contemplante, and doctor mellifluus in himself.
What he is not is Dante's third guide" (Dante and the Mystical Tradition,
Cambridge UP, 1994, pp. 111-12).
Si legga U. Cosmo: "Si rinnova allargata la scena che Dante aveva
immaginato nello schiudersi della sua grande arte (cfr. Vita Nuova, Donne
che avete). Là gli angeli e i santi pregavano il Signore di chiamare a sé
Beatrice; qui, quasi a ricambio, Beatrice con tutti i beati prega la
Vergine di far risalire lassù Dante. Ma là era la glorificazione che un
innamorato faceva della sua donna per la sua meravigliosa bellezza; qui è
la santificazione di un uomo per lo sforzo eroico da lui durato di attuare
in sé il perfetto cristiano con il cancellare da sé, a una a una, tutte le
passioni che erano state sì tempesta alla sua vita, ma anche il segno della
sua grandezza" (L'ultima ascesa, Firenze, La Nuova Italia, 1965, p. 340).

40 – 45
Gli occhi di Maria, occhi da Dio diletti e venerati, restano fissi
sull'orator, dimostrando così che le preghiere sono gradite; quindi si
rivolgono, come segno di volontà concorde, verso Dio, l'etterno lume, nel
quale nessuna creatura può penetrare con sguardo altrettanto chiaro. La
superiorità di Maria è sempre legata all'assenza di fomite, come scrive
Riccardo di san Vittore: "Maria itaque super homines est, in eo quod
numquam peccatum commisit [...] Supra angelos quoque est, quia eos puritate
supergreditur, dum divinitatem clarius illis contemplatur" (In Cant. 39).
Bosco/Reggio: "non un cenno, non una parola (e tanto meno un sorriso, come
con strano abbaglio in un così attento lettore disse Umberto Cosmo),
neppure un atto visibile di assentimento: è sufficiente quello sguardo
fisso nell'orante a indicare il consenso della Vergine. Il sorriso sarebbe
sentimento troppo umano, disadatto quindi alla regale maestà di Maria: potè
sorridere Beatrice (Par. XXXI 92), creatura umana, anche se beata: Maria è
più che creatura". Commenta Scartazzini: "Molte fiate descrive gli occhi di
Beatrice, chiamandoli ora lucenti, ora occhi belli, ora smeraldi, ora pieni
di faville d'amore, ora di letizia pieni. Ma questi che ora mira della
Donna del cielo sono occhi da Dio diletti e venerati, cioè diletti dal
Padre e venerati dal Figlio. E questi occhi si rivolgono maternamente a
quei che la invocano, e sono perenni sorgenti di eterna benedizione,
mostrando a prova quanto le sono grate le devote preghiere. Quindi
ritornano al loro Amore, per porgere a Dio i divoti preghi".

46 – 48
E io, che mi avvicinavo (appropinquava) al termine ultimo dei desideri
(cioè Dio), portai al suo culmine (finii) in me, così come dovevo, l'ardore
del desiderio. Conv. III.x.2: "quanto la cosa desiderata più appropinqua al
desiderante, tanto lo desiderio è maggiore". Giunto nel momento di massima
tensione, l'ardore del pellegrino non può che toccare l'apice: l'arrivare
al fine dei desideri, a Dio, "ultimus finis humanae voluntatis" (ST II-II,
q. 122, a. 2), è per Dante supremo desiderio, scopo della sua vita.
L'obiettivo è la quiete, che solo in Dio, cioè in cielo, può ottenersi.
Dante, spiega Scartazzini, "non vuol dirci che il suo desío si fece più
ardente che mai, sibbene ei vuol descrivere come esso suo desío fu sazio,
ed i terzetti che seguono non parlano dell'ardore, ma della sazietà,
dell'appagamento del desiderio". In questa terzina, afferma Poletto, "c'è
tutto: il tempo e l'eternità, l'umano e il divino, l'anima e Dio, l'uomo in
via ed in patria, la felicità della vita presente e della futura, perché
tutto è in Dio, e di Lui partecipa l'uomo quando a Lui serve; perciò Dante
dell'arbitrio retto scriveva (Mon. I.xii.6): Per ipsum hic felicitamur, ut
homines; per ipsum alibi felicitamur, ut dii".

49 – 54
Bernardo, con cenno e sorriso, sprona Dante a guardare in alto, ma non ce
n'è più bisogno, essendo ora Dante solo di fronte a Dio: la sua vista,
infatti, diventando sempre più pura (sincera: fiamma sincera a Par.
XXVIII.37, fede sincera a VI.17; piacer sincero quello, derivante in lui
dalla crescente bellezza di Beatrice, a XIV.139; e il Paradiso è a VII.130
il paese sincero), penetra sempre di più lungo il raggio della alta luce
che è per sé stessa vera. Poletto: "quanto più un'anima s'appressa a Dio, e
tanto più s'invera (Par. XXVIII.39); infatti l'essere di tutte le cose in
tanto è vero, in quanto partecipa di questa Verità; e così ogni luce
intellettuale o morale ed ogni perfezione". Dante ha avuto il permesso:
egli sta diventando parte di Dio, quindi sta realizzando il suo alto
desiderio. Si trova ora nel momento di passaggio, dal vedere Dio come
riflessione al vedere Dio come sorgente di luce. Scrive Chimenz: "Non
passiva contemplazione, ma una sovrumana conquista, della cui difficoltà il
protagonista, minuto per minuto, si rende conto e avverte la fatica e la
gioia, lo sgomento e il trionfo; un vero e proprio dramma che, per il fatto
di essere squisitamente intellettuale, non è meno umano di qualsiasi altro
dramma umano, se è vero che in tutti gli uomini esiste la passione della
conoscenza" (Il canto XXXIII del Paradiso, Roma, Signorelli, 1951, p. 13).
Ma è una passione che solo l'equilibrio affettivo, cioè la giustizia, può
soddisfare: essendo d'impronta divina, la giustizia è sorretta dal lumen
gloriae. Infatti, come scrive sant'Agostino, "summum hominis opus non esse
nisi Deum laudare" (Enarr. in Ps. 44.9): la lode si compie nell'amore,
l'amore nella lode (Ivi 147.3).

55 – 57
Da questo momento (Quinci) ciò che vidi - chiarisce il poeta - supera ciò
che posso dire, che così viene meno (cede), come la memoria viene meno
(cede) a qualcosa che le è superiore (oltraggio). Dante vuol dire che ormai
il suo linguaggio è incapace di riferire; durante l'ascesa dei cieli esso
ha avuto materiale su cui lavorare, oggetti visibili da rappresentare,
anche se si tratta di oggetti che superano le capacità normali, essendo
adeguati a facoltà 'trasumanate'. Ma ora, nell'Empireo, risalito il raggio
divino, sensi e memoria sono inutili e vuoti: non c'è nulla da raffigurare,
anche se resta il gusto della dolce sensazione, per cui le metafore
risultano indispensabili a chi vuol continuare in qualche modo a narrare.
Ciò pone nel massimo rilievo il ruolo della poesia, che lavora per
metafore, conferendole di conseguenza un'importanza che neanche filosofia e
teologia possono avere (è la nota polemica di Dante contro l'approccio
tomista). L'esperienza di "vedere Dio" è quindi ineffabile. Secondo L.
Pertile ("Paradiso XXXIII: l'estremo oltraggio", in Filologia e critica 6,
1981, pp. 1-21), il termine oltraggio (nel linguaggio cortese, "dismisura")
è versione dantesca dell'excessus mentis della tradizione mistica
cristiana. Si noti che, per Riccardo di san Vittore (Comm. a Gioele), ci
sono tre tipi di visione: la prima, materiale, è della materia e della
forma; la seconda, spirituale, è senza materia ma con forma; la terza,
intellettuale, è senza materia e senza forma, quindi non è assolutamente
circoscrivibile. Si legga l'Ottimo: "Non possiamo lui tutto comprendere, ma
poco e assai, secondo che tale essenza è congiunta con lo intelletto: e
così possiamo conchiudere, che dalla parte di Dio è impossibile a noi di
poterlo comprendere, però ch'è infinito; ma che la visione di Dio per
essenzia si è secondo due visioni: una da parte di Dio veduto; [l']altra da
parte de l'uomo vedente. Alla IJ quistione, brievemente è da sapere, che se
Dio non si puote tutto comprendere per intelletto umano, molto meno con la
memoria, la quale è fondata in organo corporale, come mostra il filosafo
nel IIJ dell'Anima; e lo intelletto è virtù spirituale, né è fondato in
organo corporale, e non puote accedere a tanta altezza d'intendimento. E
così si conchiude, che la memoria per sue naturali non è sofficente a
potere ritenere tali spezie intelligibili, però che la virtù quanto è più
congiunta co' corpi, tanto è meno sofficente alle estratte cose. Dunque è
bisogno che per grazia similemente la memoria sia illuminata, acciò che
possa ridire quello che si comprende per lo intelletto della cosa per
grazia di Dio veduta".

58 – 63
Il poeta cerca di descrivere ciò che provò. Come uno che sogna, ed al
risveglio non ricorda nulla di quanto sognato ma solo la passione, cioè il
sentimento provato, così accadde a lui, per cui il suo cuore è ricolmo
della dolcezza provata, essendo il resto della visïone (termine da molti
usato per definire il poema) ineffabile. Non si tratta perciò di sensazione
banale, atta ad essere elaborata a livello intellettuale. Dante ha sempre
prestato attenzione al momento del risveglio e dell'assopimento (cfr. Purg.
IX.34-36; Par. XXVI.70-75), ma qui siamo a livello mistico. Nel particolare
linguaggio della mistica nuziale, che solitamente usa il tempo verbale al
presente, il sonno corrisponde, nel suo carattere di pieno appagamento,
alle nozze: si tratta dello "sposalizio" tra il Verbo eterno e l'anima
peccatrice, come è anticipato In Cant. 39.10. Di queste mistiche nozze
Bernardo offre una descrizione completa nel sermone 83: qui l'unione con
Dio è intesa come unione di due volontà, che non può che aver luogo
nell'amore. A questo punto si suole citare un passo di san Tommaso, che
tratta del ritorno di Paolo dal terzo cielo: "Paulus, postquam cessavit
videre Deum per essentiam, memor fuit illorum quae in illa visione
cognoverat, per aliquas species intelligibiles habitualiter ex hoc in eius
intellectu relictas sicut etiam, abeunte sensibili, remanent aliquae
impressiones in anima quas postea convertens ad phantasmata memorabatur.
Unde nec totam illam cognitionem aut cogitare poterat, aut verbis
exprimere" (ST II-II, q. 175, a. 4). Precisa Chiavacci Leonardi: "Tuttavia,
nella somiglianza dei due testi, c'è una fondamentale differenza: per
Tommaso restano in Paolo delle 'specie intelligibili', cioè delle immagini;
per Dante resta solo una passione, cioè un sentimento provato. Ciò che vide
non è ricordabile, e quindi non esprimibile".

64 – 66
Naturale il ricorrere alle similitudini. Così la neve si scioglie
(disigilla) al sole; così l'oracolo della Sibilla, da lei scritto su foglie
ben disposte, si perdeva all'irrompere del vento, che ne disfaceva
l'ordine. Cfr. Aen. III.448-49: "... verso tenuis cum cardine ventus "
impulit et teneras turbavit ianua frondes". Cfr. P. Boitani, "The Sibyl's
Leaves: A Study of Paradiso XXXIII", in Dante Studies 96, 1978, pp. 83-126.
Così, il nome della Sibilla pare essere stato riservato da Dante per il
100° canto del poema (numero associato a lei per tre volte nell'Eneide).
Attraverso la Sibilla passavano i messaggi di Apollo, che per Dante sta per
Dio: perciò L. Scancarelli Seem ha opinato che la Sibilla è typus Dantis
"as vatic poet" ("Nolite iudicare: Dante and the Dilemma of Judgment", in
J.L. Smarr [Ed.], Writers Reading Writers, University of Delaware Press,
2007, p. 73). Pensiamo alla voce ambages, ad indicare i fraintendimenti
della visione classica della verità (Par. 17.31), associati quindi ai
contorti enunciati sibillini. I primi commentatori, a parte Francesco da
Buti (Aen. V), si riferiscono ad un passo di Aen. VI, ove Enea convince
l'oracolo a pronunciare, non a scrivere, la risposta di Apollo. Gli unici
commentatori che si riferiscono ad ambedue i passi sono Oelsner e
Singleton. Ma lasciamo la parola a R. Hollander, "The Sybil in Paradiso
33.66 and in De civitate Dei 18.23", in EBDSA, October 2007: "The passage
in the Aeneid (VI.42-155) describing the Sibyl's cave is both long and full
of arresting 'Dantean' detail. The cave possesses one hundred mouths and
one hundred gates (VI.43); Aeneas requests that the Sibyl not write her
'poems' (carmina) on leaves to be scattered by the wind, but recite them
aloud (VI.74-75); the hundred gates open and their breezes carry her reply
(VI.81-82); she gives a prophecy concerning the 'first safe road' (via
prima salutis), which in the original Latin sounds like a Christian
message, 'the first way to salvation'; Virgil (VI.99) typifies her
utterance as horrendas ambages, a phrase that Dante has picked up, as we
have seen, in Par. 17.31; Aeneas asks (VI.108) the Sibyl to bring him into
his father's sight (ad conspectum cari genitoris), while Dante hopes to see
his Father. While there are other resonances of the last four dozen verses
in Dante's poem, they are perhaps not relevant to this passage. If the
obvious references to Virgil have been recognized, there is also possibly a
reference to Augustine, which has only rarely been noticed and not
exploited at all. It is found in De civitate Dei 18.23, a text vengefully
hostile to Virgil for his prideful view of Rome's continuing and
sempiternal hegemony (especially now that the city has been sacked in the
year 410). Augustine says that the Sibyl (not the Cumaean but the
Erythraean - he later hedges by saying it may have been the Cumaean) had
prophesied the coming of Christ and ought to be considered an inhabitant of
the City of God. What led Augustine to make such claims may have been a
desire to castigate Virgil, either for not heeding his own Sibyl (who,
after all, presides over the fourth Eclogue) or for choosing to sponsor the
wrong one. Here is a portion of what Augustine explains in his lengthy
analysis of this poem: The first letters of each successive line in the
Greek Sibylline pronouncement spell out, Augustine reports, 'Jesus Christ
the Son of God, the Saviour'. He continues: 'And the verses are twenty-
seven, which is the cube of three. For three times three are nine; and nine
itself, if tripled, so as to rise from the superficial square to the cube,
comes to twenty-seven. But if you join the initial letters of these five
Greek words,... they will make the word ἰχθὐς ['ichthus'], that is, 'fish,'
in which word Christ is mystically understood, because He was able to live,
that is, to exist, without sin in the abyss of this mortality as in the
depth of waters' (tr. M. Dods). Should one want to gild the lily, one might
note that Dante's verse about the Sibyl, if it contains six words (and not
five), does in fact contain twenty-seven letters".

67 – 75
A questo punto Dante, che non ha possibilità di riferire quanto visto,
invoca la somma luce, che oltrepassa di gran lunga ciò che è accessibile
all'intelletto (concetti mortali), affinché conceda ancora (ripresta) alla
memoria (mente) quello di essa che era allora visibile (parevi); in tal
modo la lingua di Dante potrà essere tanto potente da lasciare agli uomini
futuri almeno un barlume della gloria divina. Scrive Poletto: "dunque
l'intento del Poema è universale, e a tanto ci obbliga quel futura gente
(che risponde a capello al viventes in hac vita dell'Epist. XIII.39); né
bada a differenza di schiatte, ma abbraccia l'umanità intiera, come una
sola famiglia: a tale unità morale di tutti i popoli, la mente del Poeta
era avvezza e per la vagheggiata idea cristiana, che Dante sentiva
profonda, e per l'idea vagheggiata non meno della sua universale Monarchia.
E pare anche che qui il Poeta (come altrove, Par. XVII.119-120) presentisse
non pure la immortalità del suo nome, ma sì anche l'universalità dello
studio del suo Poema in tutti i popoli civili; il che, a sua gloria, e a
beneficio di tutti, non mai meglio si effettuò che nell'età presente. Ma si
noti il fine nobilissimo, che Dante si proponeva; non era già il pensiero
della gloria propria, che a ciò lo inducesse, sì quello della gloria, che a
Dio ne sarebbe provenuta dal sentire la futura gente almeno un poco
dell'alta Visione". Per poter dire qualcosa, Dante deve anche contemplarlo:
chiede perciò la grazia di poter lasciare ai posteri almeno un barlume di
quanto visto, una minima parte della grandezza contemplata. Se infatti
qualcosa gli tornerà alla memoria e se potrà essere espresso, allora si
capirà meglio la grandezza della vittoria divina: si tratta infatti di
celebrare il trionfo di Dio. Par. I.22-24: o divina virtù se mi ti presti "
tanto che l'ombra del beato regno " segnata nel mio capo io manifesti.
Mattalia: "Dante afferma che il lettore potrà farsi un'idea più adeguata
non da quel che egli riesce a ricordare e ad esprimere, ma deducendo dal
fatto ch'egli, il poeta, pur con l'aiuto di Dio, riesce a ricordare solo
alquanto (v. 73) e ad esprimere solo un poco (v. 74). La debolezza delle
umane facoltà, in altre parole, rappresenta un limite insuperabile, ma
appunto per questo, il rapporto essendo dal limitato all'incommensurabile-
illimitato, alquanto e poco, entro quel limite, sono un moltissimo, una
quantità eccezionalmente grande". Qui è presente Dionigi l'Areopagita,
secondo cui lo spirito, nel pervenire all'unione, perviene "al raggio
soprasostanziale della divina tenebra" (Theol. myst. I.1). È noto che
Dionigi insiste molto sul tema della non-conoscenza: "et vere scientia
secundum Deum ignorantia, et superpositae ipsius tenebrae velantur ab omni
lumine, et abscondunt omnem scientiam" (Epist. 1). Emblematica Epist. 7:
"Divina caligo est inaccessibile lumen, in quo habitare Deus dicitur, et
invisibili existente, propter supereminentem claritatem, et inaccessibili
eodem per superexcellentiam superessentialis luminum manationis". In altre
parole: la conoscenza che l'uomo può avere di Dio, nella misura in cui
partecipa di Lui, non è mai completa e totalizzante, ma nello stato beato
pienamente soddisfacente; ancor più limitato è quanto può, sempre per
grazia di Dio, riferire agli altri, utilizzando lo strumento liguistico,
cioè qualcosa che può restare e non è soggetto, come le foglie della
Sibilla, al vento. Basandosi su san Bernardo, Dante - lo abbiamo visto -
afferma che la vera unio con Dio è consensum voluntatum: "Et tamen unus
spiritus dicitur, et est cum Deo, anima adhaerens Deo; nec praejudicat
rerum pluralitas unitati huic, quam facit non confusio naturarum, sed
voluntatum consensio. Propter hanc quoque multa corda unum, et multae
animae una dicuntur, sicut scriptum est: Multitudinis credentium erat cor
unum, et anima una (Act. 4.32)" (In cant. 71.7). Riprendendo queste tesi,
Guglielmo di Saint-Thierry afferma che l'uomo diviene uno con Dio per la
somiglianza della volontà (In Cant. 131.36): non confusio naturarum, ma
consensus voluntatum. Come afferma nella Epistola ad fratres de Monte Dei,
all'uomo "è stato dato il potere non certo di essere Dio, ma di essere
tuttavia ciò che Dio è". Sul termine concetto (presente quattro volte in
quest'ultimo canto), v. la nota ad loc. di Hollander.

76 – 78
Se Dante, data l'acutezza del raggio da sopportare, avesse distolto lo
sguardo (li occhi ... fossero aversi), sarebbe rimasto abbagliato
(smarrito). Ora accade a Dante il contrario di ciò che accade ad un
peccatore: se avesse fatto mostra di aversio a Deo, sarebbe stato perduto.
Si legga Bonaventura, Itinerarium: "Mira igitur est caecitas intellectus,
qui non considerat illud quod prius videt et sine quo nihil potest
cognoscere. Sed sicut oculus intentus in varias colorum differentias lucem,
per quam videt cetera, non videt, et si videt, non advertit; sic oculus
mentis nostrae, intentus in entia particularia et universalia, ipsum esse
extra omne genus, licet primo occurrat menti, et per ipsum alia, tamen non
advertit. Unde verissime apparet, quod 'sicut oculus vespertilionis se
habet ad lucem, ita se habet oculus mentis nostrae ad manifestissima
naturae'; quia assuefactus ad tenebras entium et phantasmata sensibilium,
cum ipsam lucem summi esse intuetur, videtur sibi nihil videre; non
intelligens, quod ipsa caligo summa est mentis nostrae illuminatio, sicut,
quando videt oculus puram lucem, videtur sibi nihil videre" (V.4). La
visione vera e propria ha dunque origine con una sensazione dionisiaca di
abbagliamento, di oscurità. Ma è un'impressione momentanea: l'aversio non è
più possibile, ormai. Comunque, "questo smarrirsi spiega egregiamente lo
smarrimento del Poeta nella selva selvaggia (Inf. I.3; XV.50): or come e
perché si smarrì il Poeta? perché dopo la morte di Beatrice i suoi occhi
furono avversi da Dio, guardando e cercando solo false immagini di bene
(Purg. XXX.131), pure mirando a terra (Ivi, XIV.150). Così è naturale
quello smarrimento; e così, e solo così, Dante in un luogo spiega
bellamente il suo pensiero accennato in un altro" (Poletto).

79 – 81
Sorretto dal lumen gloriae, Dante osa sostenere più a lungo tale luce, al
punto da connettere lo sguardo (l'aspetto mio) all'infinito valore, cioè
Dio, donde proviene la forza di così agire. "E in quel momento cessa la
sensazione del 'viaggiare' ascensionale-abissale attraverso il raggio
irradiato da Dio; e si ha come l'approdo all'imprecisabile riva della
sorgente prima dell'essere, della divina essenza contemplabile dal punto,
anch'esso imprecisabile, di maggior vicinanza" (Mattalia). Francesco da
Buti: "Ciascuna santa anima, che contempla Iddio, adiunge a Dio, secondo la
sua facoltà del comprendere; imperò che ogni cosa che conosce, conosce
secondo la sua facoltà, e non secondo la facoltà della cosa conosciuta; e
però Iddio, secondo sé, è incomprensibile; ma ciascuna mente ne conosce
tanto quanto può, sicch'ella rimane contenta".

82 – 84
Fatta la richiesta ed ottenuto quanto desiderato, ora Dante, che potrà
vedere qualcosa, si rivolge - secondo lo stile dei mistici - in modo
sentito a Dio, ringraziando la grazia per cui ha potuto fissare (ficcare)
lo sguardo nella luce eterna, al punto di esaurire le estreme possibilità
visive (cfr. XXVI.5). Egli è arrivato al punto massimo, è in grado di
comprendere tutto quello che gli è concesso di comprendere. Si noti la
'contraddizione' dell'Aquinate ed il tentativo (disperato) di Carroll di
risolverla: "ST I, q. 12, aa. 5-8. In a. 6 Aquinas says: 'The intellect
that participates more in the lumen gloriae will see God more perfectly.
But he will participate more in the light of glory who has more of charity;
because where is the greater charity, there is the greater desire; and
desire makes him who desires in some fashion apt and prepared for the
reception of the thing desired. Hence he who will have the most of charity
will see God more perfectly, and will be more blessed.' This certainly
seems to contradict the Thomist doctrine that knowledge of God determines
the love, and not conversely. The difficulty is solved, I understand, by
drawing a distinction between charity in via and in patria. Charity on
earth merits the vision of God; but charity in Paradise is the effect of
the vision. There is unreality in such distinctions: the more we love God
the more we know Him, and the more we know Him the more we love Him. Love
and knowledge are mutually cause and effect".

85 – 90
Nella profondità di quella luce si racchiude (s'interna), legata nell'unità
dell'amore come in un libro (volume), ciò che si disperde (squaderna) per
l'universo. In Dio tutto è unito in un solo volume, in un solo libro, non
come le foglie della Sibilla, per cui l'ordine, dettato dall'amore, è unità
ed armonia, che regola i rapporti del molteplice. Quindi Dante può vedere
cio che è in autonomia (sostanze), ciò che appartiene alla sostanza in modo
non essenziale (accidenti), ed il loro rapporto (costume); tutti gli
elementi sono fusi tra di loro, compaginati, soffiati insieme (conflati:
cfr. Is. 2.4), a costituire un'unità di cui ciò che l'osservatore sta
parlando non è che un barlume (semplice lume). In questa fase Dio si
manifesta come Atto puro che contiene in sé tutto l'universo, ma si
esercita con amore e giustizia. Dante ha la possibilità di contemplare
l'ordinamento 'ideale' nella mente divina, il quale non è identico
all'ordinamento 'reale', se non altro per questioni di successione
cronologica: ciò che Dante riesce ad intravedere, perciò, è il 'modello'
dell'universo, che determina il mondo ma non vi coincide. Tale 'modello' è
al di là dello spazio e del tempo: esso trascende, pur se lo determina, il
molteplice. Per Ahern, "Binding the Book: Hermeneutics and Manuscript
Production in Paradiso 33", in PMLA 97, 1982, pp. 800-9, il poema dantesco
riflette il "libro" dell'universo, anche nella struttura trinitaria.

91 – 93
Dante è certo di aver visto la forma universal di questo vincolo che lega
strettamente il molteplice nell'unico volume. Egli può dire di avere
contemplato l'idea modello nella mente di Dio, perché avverte dentro di sé
una profonda gioia, anche se non è in grado di riferirla: la passione
attesta l'esperienza, ma questa è oramai scomparsa, dunque non può essere
riferita.
Si legga C. Moevs: "Dante has experienced the revelation that all
perceivers and things perceived ultimately are the qualified projections or
reflections of one limitness and dimensionless reality. Intellect-Being
writes the scattered pages of creation by identifying itself with (as)
them, giving itself to the multiplicity of finite experience; it 'binds'
those pages into one volume in the sense that (to any intelligence that
knows how to read, that has eyes to see) all of creation manifests the
single simple reality that grounds it and contains it. Conversely,
Intellect-Being, reflected in and as the finite mind, seeks to 'read' those
scattered pages that it itself has written: this is the innate human desire
to know, to understand, to seek Truth. To succeed in reading them is to
understand them (all of creation) as a coherent message (bind them into one
volume), which is to read and receive the message of their author. For a
created intellect to receive that message is for Intellect-Being to awaken
to itself within the world, as or through a finite intelligence: that is
Christian revelation, or salvation. The book of creation is written, bound,
and read by love, by the power of consciousness to experience itself as, or
give itself to, finite experience, and to reawaken (as a finite
intelligence) to the experience of all things as itself: love is the
universal form of the 'knot' that writes and binds the scattered pages of
finite experience. This knot is therefore - Christically - the nexus
between self-subsistent divine unity, denoted by the word interna, which
evokes the Trinity (or the rational faculties of intellect, memory, and
will), and ephemeral matter or multiplicity, denoted by the word squaderna,
which evokes the number four, the number of matter, composed of four
elements. The 'knot' is the revelation (as experience) of the non-duality
between the world and the ground of its being: it is Christ, the experience
of self-sacrificial, self-giving love as the ultimate reality of all
things. The knot of Love that writes and binds the book of creation is the
nodo of the Incarnation of the Word, a knot that - in Par. VII.52-57 - the
pilgrim cannot untie by thinking, by 'restricting' his mind di pensier in
pensier, as here too reason will fail. We shall see that the knot of Love
is the heart of the Comedy's poetics: as the poet Dante has the poet
Bonagiunta say in Purg. XXIV.52-62, the power faithfully to transcribe the
direct inner dictation of Love, so that Love fully determines one's
'signifying' (which means in effect that the 'signifying' ultimately
reveals or signifies Love itself), is the nodo that separates Dante from
other poets. The Comedy is telling us that this poem can be salvific, can
trigger an awakening, because it arises directly from the ground of being
(is written by Love) as creation itself does, or as Scripture does" (The
Metaphysics of Dante's Comedy, Oxford UP, 2005, pp. 78-79).

94 – 96
Segue una terzina discussa, ma in sostanza chiara. Dante commenta dicendo
che un solo istante è causa per lui di maggiore oblio (letargo) di quanti
siano stati venticinque secoli per l'impresa (fissata al 1223 a. C.) che
fece ammirare a Nettuno l'ombra di Argo. Sono passati molti secoli
dall'impresa degli Argonauti, che fece stupire il dio Nettuno, eppure la
sua memoria resta ancora, mentre il ricordo della esperienza del pellegrino
è già, in un momento, scomparsa. Il termine letargo significa appunto
oblio; l'uso non comune designa la simile esperienza di Dante, quasi
morbosa, in quanto egli ha superato nella mente (che ha il corpo con sé)
l'orizzonte spaziotemporale (Lethargus, che in latino classico significa
malattia del sonno, si trova in Alano da Lilla nell'accezione di rapimento:
cfr. P. Dronke, "Boethius, Alanus and Dante", in Romanische Forschungen 78,
1966, pp. 119-25). Quindi si tratta di un'altra ammissione di conoscenza
che fuoriesce dal campo 'umano': una conoscenza, infatti, che non può
essere ricordata perché puramente intellettuale, la quale lascia una forte
e dolce traccia di sé, ma non ha "res" (e "intellectus") da rappresentare.
Scrive Chiavacci Leonardi: "l'inattesa, straordinaria perifrasi indica
l'impresa degli Argonauti, per la quale una nave solcò per la prima volta
le acque; essa fece sì che Nettuno, il dio del mare che vive nel fondo
dell'oceano, vedesse stupito passare sopra di sé l'ombra di quella nave. La
potente fantasia, che vede il viaggio non dalla parte della nave, ma dalla
parte di colui che dal profondo del mare ne scorge l'ombra sulle acque, è
qualità propria dei grandi poeti, il cui occhio penetra il reale vedendo
ciò che gli altri non vedono. L'impresa di Giasone, più volte ricordata nel
poema, non è qui citata a caso (come non lo è nessuna citazione della
Commedia). Essa è portata, all'apertura della cantica (cfr. II.16-8), a
paragone di quella che Dante stesso compie nell'ultimo lavoro (I.13). E
torna ora nella chiusura, significando ancora la somiglianza tra le due
imprese: quella nave che solca arditamente il mare è la stessa poesia di
Dante che tenta di raffigurare l'infinito. Tale rapporto è significato
anche dall'immagine, profondamente suggestiva, dell'ombra: come Dante,
Nettuno vede solo l'ombra della eccezionale realtà che lo sovrasta (cfr.
I.23); e come Dante, egli guarda dal basso verso l'alto". Una fonte
(precaria) è quella in Stazio, Achill. I.20-26. Scrive C. Moevs: "Through
this point of ever-intensifying absorption, intellect turned fully upon
itself passes over into the ground of all being: the mind is perfectly
withdrawn or suspended from the re-reflection of Intellect-Being that is
space and time. Hence it is an 'experience' that has no extension in time,
either long or short, and no location or spatial dimension (attributes). It
is the self-experience of the source of space and time, unmeasurable in
space or time" (The Metaphysics of Dante's Comedy, Oxford UP, 2005, p.
166).
Continua Moevs: "Like the exordium of Paradiso 29, the Argo simile balances
the dimensionless source or ground of all experience against the vast
dimensions of its self-manifestation or self-experienced as space and time.
Dante balances the punto of divine self-awareness against the gigantic
scope of its quest, when it has reflected as a finite human intelligence
and identified itself with spatiotemporal attributes, to seek itself and
reawaken to itself. As so often in Dante, the human intelligence's quest
for understanding is represented by a small vessel navigating the ocean of
being, which is also the space-time continuum in all its modifications. In
medieval chronicles, the Argo was emblematically the first ship, and the
Argo's voyage emblematically the first human quest or enterprise. The
twenty-five centuries since the impresa of Jason and the Argonauts
represent the entire historical span of the human quest for understanding
up to Dante's time: the sum of human aspiration in history. Dante balances
all of human aspirations in time and space against the dimensionless,
extensionless punto of self-knowledge, which is both the goal of that
aspiration and its source. It is the equilibrium of the Comedy itself,
which - on the pivot of the Primo Mobile - balances the Empyrean (the punto
of self-knowledge of the concluding cantos of the Paradiso) against the
entirety of human experience in space and time: the rest of the Comedy. As
Robert Hollander (Allegory in Dante's Comedy, Princeton UP, 1969, pp. 220-
32) has observed, Dante's voyage, which the Paradiso links to Jason's (most
overtly in the first cantos and here in the last), is the other terminus of
the history of quest that began with Jason; at the center of that history,
bracketed by thirteen centuries on either side, is the Incarnation. The
shadow or trace (ombra) cast on the ocean of being by the human quest for
understanding, by intellect's quest to return to itself, are the forms of
myth (Argo): the images of religion, mythology, art, and poetry. Those
images endure through history (venticinque secoli) because, like the
Comedy's Beatrice, they bewitch the mind: through them intellect glimpses
and focuses on itself and begins to pursue and feed on itself, ultimately
to awaken to its own transcendence. Thus Jason and his deeds are remembered
in vivid detail after twenty-five centuries, while the experience of the
goal itself, the reflexive self-seeing of the punto, occurs out of space
and time, leaving no trace, no form, nothing to remember. The experience of
the punto is an ecstatic suspension from or oblivion of all thought, image,
and attribute, hence its 'lethargy' or 'unwillingness' (letargo) to be
brought into memory, into the realm of the finite" (Ivi, pp. 166-67).

97 – 99
Non solo la mente (più che il semplice sguardo) di Dante fissa immobile e
tutta concentrata, ma penetra sempre più in Dio. Nel linguaggio di
Bonaventura, si tratta della inspectio o circumspectio: "Tunc enim debet
anima esse fixa et stans et exspectare". Si ritrovano qui le suspensiones
di Bonaventura, i tre epiteti che definiscono l'attitudine dell'anima e
l'accrescimento di carità che essa ottiene: lo stesso termine circumspectio
è utilizzato poco più avanti (v. 129). Non è quindi il caso che Dante sia
troppo fiso (Purg. XXXII.9). Parodi: "Nel Paradiso si rammentano gli
Argonauti fin dal principio... e ora si rammentano di nuovo sul fine. Alla
più antica impresa dell'umanità che volgeva alla conquista di un prezioso
bene, per misteriose e intentate vie, è in un certo modo posta accanto dal
Poeta la propria impresa, simbolicamente volta ad un medesimo fine, la
conquista del più prezioso dei beni, per vie non meno misteriose, con
ardimento non minore. E Nettuno, che attraverso gli immensi oscuri gorghi
oceanici ammira l'ombra d'Argo, è come lo stesso poeta che, attraverso la
infinità del mistero, ha intraveduto un'ombra di Dio" (Parodi, Bull.
XXIII.67). Ma gli strumenti di Dante sono affatto diversi, adeguati al
genere nuovo e superiore dell'alto desiderio. Andrebbe ricordato che
Giasone è un personaggio negativo, posto all'Inferno: la sua impresa si
realizza con l'inganno e la falsità; egli è associato come seduttore,
nell'Ars amatoria, ad Ulisse (II.103), il quale, non bello, fa affidamento
sulle sole parole ornate (ed è dunque più abile e pericoloso): "Non
formosus erat, sed erat facundus Ulixes" (II.123): cfr. Inf. XVIII, n. 94-
96. Il contrasto fra l'avventura di Dante e quella di Giasone è perciò
qualitativa, sorretta da un costante impegno etico: è questo che consente
ora a Dante di essere dov'è, per cui si conferma la priorità del piano
morale su quello intellettuale, contrariamente a quanto Moevs sembra
arguire.

100 – 105
In presenza di quella luce divina ci si trasforma in tal modo che è
impossibile consentire a distogliere da essa lo sguardo (volgersi da lei)
per guardare un'altra cosa (aspetto); perché il bene, che è l'oggetto
proprio della volontà, è tutto raccolto in essa, al di fuori della quale è
incompiuto (defettivo) ciò che in lei è perfetto. Chi contempla quella luce
non può avere il volere distolto da qualche altro desiderio, che lì trova
massima realizzazione. Scrive san Bonaventura: "Propriissime enim Deus est
lux, et quae ad ipsum magis accedunt plus habent de natura lucis" (In Sent.
II, d. 13, a. 1, q. 1). Cfr. Dionigi, De Eccl. hier. I.4.

106 – 108
Un'altra dichiarazione di impossibilità. Oramai - dice Dante - le mie
parole (favella) saranno più inadeguate, anche per dire quel poco che
ricordo, di quelle di un bambino (fante) che ancora si nutre del latte
materno. Per la terza volta nell'Empireo occorre l'immagine del bambino:
cfr. XXX.82-84, 139-141. L'incapacità del poeta (concettuale ed espressiva)
di parlare appare veramente somma, superiore anche al balbettio infantile,
quindi inarticolato (Ps. 8.3; Mt. 21.16).

109 – 114
Dopo la visione dell'unità nel molteplice, è ora la volta della visione
della Trinità. Il vivo lume muta aspetto di fronte a Dante, ma non perché
la fonte di luce sia mutata, essendo il suo aspetto sempre semplice, uno
solo, ma perché nel guardare la vista di Dante acquista sempre più valore,
per cui l'unico aspetto divino muta forma, si trasforma (a me si
travagliava: "si faceva vedere da me con sempre maggiore fatica"). Dante-
poeta dichiara che l'oggetto è sempre lo stesso, nella propria semplicità,
ma Dante-personaggio lo vede mutare, il che vuol dire che è la sua vista a
produrre l'effetto. La luce divina non muta, ma quello che muta è la
visione. Ciò ha luogo perché Dio non può essere visto nella sua infinita
totalità; il singolo, invece, lo conosce per tutto quello che a lui è
consentito dal suo stato di giustizia e di carità, cioè lo conosce totus ma
non totaliter. "Si enim vere ponimus Deum simplicem, immo quia necessarium
est sic credere et ponere; si cognoscitur, iam non secundum partem et
partem, sed totus cognoscitur. Rursus, si Deum ponimus immensum, quia hoc
credimus et fatemur, necesse est ponere quod numquam ab intellectu finito
comprehenditur totaliter: et sic Deus a quacumque creatura ipsum
cognoscente totus cognoscitur, sed tamen non totaliter". In Dio
"simplicitas" non si oppone a "infinitas", ed altro è "cognoscere" altro è
"comprehendere": "in Deo secundum idem potest summa simplicitas et summa
infinitas: et ideo vera est praedicta positio, quod Deus totus videtur, sed
tamen non comprehenditur ab aliqua creatura" (In Sent. III, d. 14, a. 1, q.
2). Come chiarisce ancora il Dottore Serafico, "anima in cognoscendo Deum
plus est in suscipiendo quam in agendo": "ideo cum intelligit Deum, non
agit anima in Deum, sed Deus influit in animam; in qua influentia Deus
condescendit per gratiam, et anima elevatur et efficitur deiformis. Et ipsa
deiformitas est dispositio reddens oculum animae aptum ad videndum Deum,
non quia facit proportionabilem quantitatem, quia semper illud lumen
excedit in infinitum, sed quia facit proportionabilem qualitatem, quia
datur ipsi animae aliquid, utpote similitudo, quod ipsam animam et
intellectum, cum Deo facit similem, reddit intelligentem" (In Sent. III, d.
14, a. 1, q. 3). Ancora una volta emerge la priorità dell'aspetto etico,
che definisce e delimita quello puramente intellettuale.

115 – 120
In due terzine, come ai vv. 85-90, è descritta la visione: al viaggiatore
appaiono, nella profonda essenza della chiara luce, tre cerchi, di tre
colori diversi ma della medesima dimensione. I tre cerchi eguali
raffigurano le tre persone della Trinità, mentre il cerchio rappresenta
l'infinità. Uno di essi pare riflesso dall'altro, come un arcobaleno (iri)
si genera dal primo, mentre il terzo cerchio pare un fuoco 'spirato' dagli
altri due. Il generarsi per riflesso rappresenta la generazione del Figlio
dal Padre; lo 'spirare' del terzo cerchio è emblema dello Spirito Santo,
che procede dal Padre verso il Figlio e dal Figlio verso il Padre. Carroll:
"We must not think of these in the form of three rainbows one within
another, or even as the three colours of a rainbow, for these are also one
within another. The 'one dimension' shows that Dante conceived of them as
co-existing in the one space, though he does not explain how he was able to
see the three colours distinct within each other". Nel Liber figurarum di
Gioacchino da Fiore, la tavola XI/b rappresenta il mistero trinitario della
storia, in cui le Persone divine sono raffigurate come tre cerchi
intersecati (ma non concentrici) di tre colori: il Padre è verde, il Figlio
azzurro, lo Spirito Santo rosso. Vedi L. Tondelli, Il libro delle figure
dell'abate Gioacchino da Fiore, Torino, SEI, 19392. Commenta Mattalia:
"Alla rappresentazione simbolica del mistero uno-trinitario in forma di tre
circoli diversamente colorati e legati l'un l'altro a catena, aveva fatto
ricorso Gioacchino da Fiore: ma tale modo di rappresentazione, informa il
Busnelli, era stato condannato dall'autorità ecclesiastica perché suggeriva
l'idea delle tre divine Persone come distinte anche per sostanza od
essenza. La composizione d'insieme, sempre secondo il Busnelli,
consisterebbe in una sfera o globo di luce contenente tre 'cerchi
diversamente colorati, uguali nell'ampiezza perché abbraccianti come cerchi
massimi tutta la sfera e perciò, com'è dimostrato in una sfera, distinti e
concentrici, ossia passanti tutti e tre pel centro'. Secondo altri si
tratterebbe di un circolo piano suddiviso in tre circoli minori: ma tanto
nel primo, quanto nel secondo caso, non si vede bene la ragione perché poi
il poeta torni ad insistere sulla difficoltà di esprimere quanto ha visto e
inteso. Poiché nella composizione geometrica è simboleggiato l'arcano
speculativo del processo uno-trinitario, dell'uno che si fa tre pur
restando sempre uno, e del distinto che pur essendo tale, s'identifica con
l'uno-tutto, ci sembra più legittimo e più in tono supporre che nella
composizione Dante abbia inteso indicare non già un 'possibile', ma un
arcano o un 'impossibile' geometrico, ossia un circolo-uno che appare
contemporaneamente come circolo-trino: in cui ogni circolo è
contemporaneamente sé e pur distinto dagli altri due, s'identifica
spazialmente col circolo che solo in via indicativa diremo contenente, col
quale a lor volta s'identifica ognuno degli altri due circoli. Per rigorose
ragioni dottrinali non è lecito immaginare un contenente e dei contenuti
minori di esso, poiché se ne ricaverebbe l'idea di una diminuzione della
una sostanza nelle singole Persone trinitarie. Una figura geometrica del
genere, va da sé, è difficilmente immaginabile: ma tale, appunto, doveva
essere".

121 – 123
Prima dell'ultima visione, quella massima, una duplice dichiarazione di
ineffabilità: in primo luogo le parole sono inadeguate al concetto che si
vorrebbe esprimere; in secondo luogo, questo è a sua volta insufficiente
(non basta dire 'poco') rispetto alla realtà contemplata. Il classico nesso
vox-intellectus-res è così distrutto: dalla parola al concetto c'è un
abisso, ed altrettanto abissale è la distanza fra il concetto e la 'cosa'.
Solo la poesia è in grado di dire qualcosa, ma il poeta non può che
riferire quanto ricorda, che è ben poca cosa. "Nell'intelletto di Dante è
rimasto un vago ricordo non riducibile a una precisa formulazione logico-
razionale, sufficiente tuttavia a dargli la misura della incommensurabile
distanza da ripercorrere per arrivare alla verità speculativa allora
'intelletta'. C'è, insomma, l'idea della cosa, ma la cosa in sé, nel suo
vero essere, è 'cessante' (v. 61)" (Mattalia).

124 – 126
Il poeta compie ora un richiamo trinitario, che è emblema di ciò che egli
non può definire con precisione: l'infinito. "O luce eterna che sola
risiedi in te stessa (sidi: indicativo dell'unica vera 'sussistenza'), sola
intendi te stessa, e mentre sei da te intesa e intendi te, spiri amore e lo
effondi intorno come un sorriso". Dio ciò che intende vuole anche: in Lui
non c'è distinzione tra teoria e prassi, tra decisione ed azione, tra
intelletto ed amore. È ciò cui giunge la creatura nello stato di
beatitudine, ma sempre in modo partecipativo dell'essenza divina, con essa
coincidente solo in campo affettivo, ove si colloca il termine arridi. Si
noti la centralità della luce, che in quanto intendente se stessa è il
Padre; in quanto è intelletta da se stessa è il Figlio; in quanto ama e
arride a se stessa è lo Spirito Santo. La replicazione "intendi intelletta
intendente", legando fortemente le tre espressioni, indica efficacemente la
trinità di persone che, al tempo stesso, è unità.
Si legga Riccardo di san Vittore: "Quod de pluralitate personarum convincit
et probat, plenitudo felicitatis simili ratione approbat. Conscientiam suam
quisque interroget, et procul dubio et absque contradictione inveniet, quod
sicut nihil charitate melius, sic nihil charitate jucundus; necesse est
itaque, in summa felicitate charitatem non deesse. Non potest ergo esse
amor jucundus, si non est mutuus. In illa igitur summa felicitate nec amor
mutuus potest deesse" (De Trinitate III.3). M. Ariani cita un brano di
Dionigi: "Trinitas superessentialis, et superdeus, et superoptime
Christianorum inspector theosophiae, dirige nos in mysticorum eloquiorum
superincognitum et superlucentem et sublimissimum verticem, ubi nova et
absoluta et inconversibilia theologiae mysteria, secundum superlucentem
absconduntur occulte docentis silentii caliginem, in obscurissimo, quod est
supermanifestissimum, supersplendentem, et in qua omne relucet, et
invisibilium superbonorum splendoribus superimplentem invisibiles
intellectus" (Theol. myst. I.1). "È l'unico testo della tradizione
decisamente avvicinabile, anche per altezza di stile, alla visione dantesca
della profunda claritas. Bonaventura da Bagnoregio, alla fine del suo
Itinerarium mentis in Deum, non aveva trovato niente di meglio che
riprodurre alla lettera quel passo, invece Dante, nel ritagliarsi
autorevolmente la propria autonomia di poeta, lo dissolve in compendiosi e
obliqui fantasmi, scaturiti dall'unica certezza di questa contesa con la
percezione del gorgo: tutto non è che lume reflesso (v. 128). [...] Tra
Dionigi e Dante resta comunque una differenza fondamentale: una volta
ammesso, con l'Areopagita, che ciascun bene che fuor di lei si trova "
altro non è ch'un lume di suo raggio (XXVI.32-33), il poeta non poteva
seguire il mistico nel suo nichilismo radicale e doveva travalicare
l'abisso aferetico del silenzio e adeguare agli altissimi theologiae
mysteria le povere parole disponibili. Messa nel dovuto conto questa
divaricazione di competenze e di linguaggi, il poeta portava fino in fondo,
con intemerato ardimento, la stessa via negationis praticata da Dionigi,
peraltro, proprio a maggior gloria della luce divina" (Lux inaccessibilis,
Roma, Aracne, 2010, p. 384).

127 – 132
Ecco infine l'ultima visione, quella dell'Incarnazione. Dante dice: il
secondo cerchio, che, così da me inteso, in te appariva come un lume
riflesso (vv. 118-119), guardato attentamente (circunspetta) dai miei
occhi, mi parve che avesse dipinta al suo interno, col suo stesso colore,
la nostra sembianza umana (effige). Riccardo di san Vittore: "Certe radius
solis de sole procedit et de illo originem trahit, et tamen soli coaevus
exsistit. Ex quo enim fuit, et de se radium producit et sine radio nullo
tempore fuit. Si igitur lux ista corporalis habet radium sibi coaevum, cur
non habeat lux illa spiritualis et inaccessibilis radium sibi coaeternum?"
(De Trinitate I.9). E Bonaventura nell'Itinerarium: "Illa lux aeterna
generat ex se similitudinem seu splendorem coaequalem, consubstantialem et
coaeternalem". Quindi "ille qui est imago invisibilis Dei et splendor
gloriae et figura suae substantiae eius, qui ubique est per primam sui
generationem, sicut obiectum in toto medio suam generat similitudinem, per
gratiam unionis unitur, sicut species corporali organo, individuo
rationalis naturae, ut per illam unionem nos reduceret ad Patrem sicut ad
fontale principium et obiectum" (II.7). È la rappresentazione di un
mistero: una immagine che ha il medesimo colore del fondo è infatti
indistinguibile e dunque non rappresentabile; tuttavia è vista dal
pellegrino, le cui facoltà eccedono di gran lunga quelle comuni, e si
spingono dunque a contemplare la similitudo tra uomo e Dio: Phil. 2.7:
"Formam servi accipiens" (Scartazzini). La innocenza conduce perciò alla
deificazione: l'uomo non è Dio, ma è tuttavia ciò che Dio è, donde la
raffigurazione paradossale del Verbo incarnato. Per il possibile riflesso
della quarta ed ultima tappa dell'amore per Dio in De diligendo Deo di san
Bernardo, v. R. Hollander, Studies in Dante, Ravenna, Longo, 1980, p. 35.

133 – 136
Dante si sente come il geomètra che si concentra tutto nel problema di
misurare il cerchio, ma non riesce a trovare il principio di cui ha bisogno
(ond'elli indige). Il problema era noto agli studiosi medievali: il
principio che mancava era l'esatta misura del fattore per cui bisognava
moltiplicare il diametro per avere la circonferenza (il π, anche oggi
numero indefinito); conoscere tale rapporto voleva dire poter costruire un
quadrato di superficie identica a quella del cerchio dato. Convivio
II.xiii.27: "lo cerchio per lo suo arco è impossibile a quadrare
perfettamente, e però è impossibile a misurare a punto"; e cfr. Mon.
III.iii.2: "geometra circuli quadraturam ignorat". Cfr. R. Herzman e G.
Towsley, "Squaring the Circle: Paradiso 33 and the Poetics of Geometry", in
Traditio 49, 1994, pp. 95-125. Si tratta in sostanza di un problema
epistemologico, cioè del modo in cui il cerchio, figura dell'eternità o del
divino, potrebbe essere correlato al quadrato, figura della finitezza o
dell'umano. Si ripropone la questione del rapporto fra il viaggio di
Giasone e quello di Dante, rapporto solubile soltanto superando l'ambito
terreno e della scienza terrena, a favore di una comprensione o intuizione
non definibili razionalmente, ma solo capaci di cogliere (grazie alla
volontà) l'infinito. Di fronte ad un dato 'impossibile', perciò, intelletto
e fantasia devono cedere: la contraddizione può essere superata solo col
silenzio della ragione (del linguaggio).

137 – 141
Dice il poeta: volevo vedere come l'immagine poteva adattarsi (si convenne)
a quella del cerchio e trovarvi posto (s'indova: usuale neologismo
dantesco), ma le mie ali non erano capaci di tanto; se non fosse accaduto
che la mia mente fu violentemente colpita (percossa) da un fulgore in cui
l'oggetto del desiderio (sua voglia) giunse fino a lei. Cade ogni potenza
razionale, come il ricordo di Ulisse e del folle volo fa capire: il
fulgore, che è istantaneo (come quello celebre di san Paolo), è del tutto
incomprensibile e capace di soddisfare il desiderio (finale) del
viaggiatore. Come afferma E. Gilson (La filosofia di san Bonaventura,
Milano, Jaca Book, 1995, p. 427), ha luogo, prima dell'estasi finale, "la
sostituzione dell'amore alla conoscenza": cfr. Bonaventura, Itinerarium
VII. Va sempre tenuto presente che - come si è più volte sottolineato - non
è vero che, per Dante, la conoscenza precede l'amore. Come l'atto
risolutivo della vita terrena è la giustificazione, atto istantaneo, anche
se soggetto alla volubilità del libero arbitrio, così la quiete del
desiderio è consentita dalla glorificazione, che consiste nella
giustificazione perenne, dato ormai il carattere perfettamente consonante
del libero arbitrio con il volere divino, atto che solo giustizia e carità
permettono: solo in tal modo è superato il vincolo temporale, come il
vincolo della conoscenza analitica e discorsiva. Tenuto conto
dell'importanza nel discorso del tema del libero arbitrio (e quindi di san
Bernardo), la posizione dell'Alighieri non può che essere definita, a voler
classificare, francescana ("prima scuola francescana").

142 – 145
La fine del poema (di 145 versi, ove 1 + 4 + 5 = 10) registra il fallimento
dell'alta fantasia, la quale non può perciò fornire all'intelletto alcuna
rappresentazione. Rotto il vincolo con la fantasia, l'intelletto opera allo
stato puro, come quello degli angeli, "sustanze separate da materia". Si
legga Conv. III.iv.9: "nostro intelletto, per difetto della virtù dalla
quale trae quello ch'el vede, che è virtù organica, cioè la fantasia, non
puote a certe cose salire (però che la fantasia nol puote aiutare, ché non
ha lo di che), sì come sono le sustanze partite da materia; le quali, etsi
alcuna considerazione di quelle avere potemo, intendere non le potemo né
comprendere perfettamente". Cessazione di fantasia vuol dire cessazione di
memoria, e documento del fatto non è il distinto ricordo, ma la 'passione'.
Ma il viaggiatore ha ormai raggiunto il suo scopo, che è quello di entrare
in piena sintonia con Dio: il suo desiderio e la sua volontà sono mosse,
come una ruota che si muove di moto uniforme, da quello stesso amore che
muove sole e stelle, cioè dall'amore dell'universo che lo fa muovere verso
Dio. In tal modo Dante non si identifica con Dio, ma è divino: la sua
volontà è una con quella divina, il suo sapere è realizzato e posto entro
questi limiti. Secondo Scartazzini, che riporta Cesari, Dante pensa: "Io
fui contento di quel non potere più là; sentendomi giunto, per cotal
visione, in quella unione e raddrizzamento di volontà, al quale operar in
me, s'era da Dio speso tanto di grazia, di lavoro e fatica altrui, per cui
era stato condotto per tutti tre i regni: il quale viaggio l'avea disposto
ed acconcio al purgamento del cuore, ed a farlo capace di quella
perfezione, che dimora nel conformare e congiugnere perfettamente la
volontà nostra a quella del Sommo Bene".
Ma di quale fantasia si tratta? non certo della facoltà che si esercita sui
dati sensibili, ma di quella che proviene divinitus, come nella divinatio
per somnium (cfr. Purg. XVII, n. 13-18). Sennonché ora siamo fuori del
campo terreno, ma siamo nel campo della conoscenza per species, che è
tipica dell'Empireo e della novella vista dantesca. Lo stesso Aquinate
aveva ammesso la possibilità di una conoscenza che si basa su "phantasmata"
formati "divinitus". "Cognitio enim quam per naturalem rationem habemus,
duo requirit, scilicet, phantasmata ex sensibilibus accepta, et lumen
naturale intelligibile, cuius virtute intelligibiles conceptiones ab eis
abstrahimus. Et quantum ad utrumque, iuvatur humana cognitio per
revelationem gratiae. Nam et lumen naturale intellectus confortatur per
infusionem luminis gratuiti. Et interdum etiam phantasmata in imaginatione
hominis formantur divinitus, magis exprimentia res divinas, quam ea quae
naturaliter a sensibilibus accipimus; sicut apparet in visionibus
prophetalibus. [...] dicendum quod ex phantasmatibus, vel a sensu acceptis
secundum naturalem ordinem, vel divinitus in imaginatione formatis, tanto
excellentior cognitio intellectualis habetur, quanto lumen intelligibile in
homine fortius fuerit. Et sic per revelationem ex phantasmatibus plenior
cognitio accipitur, ex infusione divini luminis" (ST I, q. 12, a. 13). Ma
ora, nell'Empireo, i dati sensibili sono di per sé stessi intellettuali, di
provenienza divina e quindi non elaborabili dall'osservatore; i concetti,
se li si vuole così chiamare, non sono sottoposti al normale vaglio
analitico, non danno quindi luogo ad un rememorar per concetto diviso (Par.
XXIX.81). Ne deriva che il testo tomista messo in luce da M. Ariani (Lux
inaccessibilis, Roma, Aracne, 2010, p. 371) risulta, in questa occasione,
non bene acconcio: "Et procul dubio oportet, secundum hanc positionem, in
vi imaginativa ponere non solum potentiam passivam, sed etiam activam.
[...] est quaedam operatio animae in homine quae dividendo et componendo
format diversas rerum imagines, etiam quae non sunt a sensibus acceptae"
(ST I, q. 84, a. 6). L'alta fantasia, chiarisce Carroll, "is not, as many
readers seem to suppose, the poem itself, as if he were saying the high
dream or vision failed and broke. It is 'the shaping spirit of
imagination.' The phantasia in scholastic psychology is that interior sense
of the soul which has the power to form images of things perceptible by the
senses. The use of the word does not mean that Dante regarded his crowning
vision of the Incarnation as having come to him through sensible images: it
was a lightning-flash of pure supernatural intellect. For that very reason,
he means us to understand, his fantasy or imagination failed in power to
turn it into any image which would give the reader some faint idea of what
the pure intellect saw. Even the mystery of the Trinity his fantasy had
been able to present under the sensible image of three circles of colour;
but now this is beyond its highest power. When the pure intellect attains
the last reality of Being, it sends back no report, no shadowy image,
through any other power of the soul, such as memory or imagination".
I termini di disio e di velle rappresentano il primo l'istinto naturale, il
secondo la volontà deliberata (coincidenti ora col volere divino). Cfr.
Boezio, Cons. phil. II, m. viii.28-30. Si tratta - scrive Chiavacci
Leonardi - di "un'interpretazione controversa. I più ritengono che il primo
di essi si riferisca all'intelletto (come desiderio di conoscere) e il
secondo alla volontà (come amore del bene), le due facoltà cioè dell'anima
razionale, ormai perfettamente armonizzate nella contemplazione e
nell'amore di Dio. Tale interpretazione si appoggia al passo di XV.73-8,
dove l'affetto e il senno sono dichiarati in tutto uguali nei beati, mentre
sono disuguali nei mortali, nei quali alla voglia (l'affetto) non sempre
corrisponde l'argomento (il mezzo espressivo proprio dell'intelletto, o
senno). Tuttavia quella perfetta concordia col moto dell'universo che
l'ultimo verso dichiara sembra ben più propriamente convenire alla
condizione di totale coincidenza del volere dell'uomo (l'istintivo e il
razionale) con quello divino, condizione che fu celebrata da Piccarda come
caratteristica dello stato di beatitudine (III.82-4). [...] Così inteso, il
testo ci dice infine che Dante ha raggiunto quella suprema stabilità e pace
dell'animo, proveniente dalla assimilazione al volere divino, che è la meta
di tutta la sua vita. In questo modo del resto già interpretarono questi
ultimi versi il Biagioli, il Cesari, il Tommaseo, il Poletto, il Fubini".
Il movimento uniforme della ruota (cfr. J. Freccero, Dante: The Poetics of
Conversion, Cambridge, Harvard UP, 1986, pp. 246-50; L. Pertile, Poesia e
scienza nell'ultima immagine del Paradiso, in P. Boyde e V. Russo [Eds.],
Dante e la scienza, Ravenna, Longo, 1995, pp. 133-48) rappresenta il libero
arbitrio nella condizione di beatitudine. I beati godono di un libero
arbitrio siffatto, che determina fra l'altro la loro condizione di non
posse peccare. Si tratta della pace e della quiete dello stato di gloria,
che fa sì che il libero arbitrio perda quel carattere di mutevolezza e
volubilità che continua ad avere anche presso i giusti in via, il cui stato
costitutivo è per l'appunto quello di non posse non peccare. Per Anselmo,
la beatitudine è questione di "volontà giusta": "qui non volendo quod debet
non velle, cum tamen possit, mereatur ut quod velle non debet numquam velle
possit" (De casu diaboli, 14): è questo "praemium iustitiae" (Ivi, 24).
L'immagine conclusiva del poema, la quale si riferisce allo stato del
protagonista stesso, oramai deificato (non semplicemente "trasumanato"), è
quella della rota ch'igualmente è mossa, ossia una ruota che si muove di
moto uniforme, senza alterazioni, al contrario di quel che accade alla
volontà dell'uomo sulla terra: ebbene, Bonaventura, in margine ad Is. 22.18
("Quasi pilam mittet [Dominus] te in terram latam") ci dice che la ruota,
che "habet vertibilitatem ad motum", rappresenta per l'appunto la
vertibilitas dell'arbitrio, naturalmente per chi è in via, a cui si oppone
l'obbedienza perfetta, conseguibile solo in patria (In Sent. II, d. 25, p.
II, a. un., q. 5).
Scrive C. Moevs, The Metaphysics of Dante's Comedy, Oxford UP, 2005: "The
pilgrim is seeking to understand how man - the human form, he himself - can
be imago et gloria Dei (1 Cor. 11.7), Christ, God made visible. It is to
'love oneself in God', as in Saint Bernard's fourth and culminating way of
love. It is also to seek to understand the non-duality between two
incommensurables, between on the one hand the circle of eternity or unity,
of angelic self-knowledge, and of perfect heavenly motion, and on other the
square of time, rectilinear sublunar motion, animal nature, and the four
elements of corruptible multiplicity. What defeats the geometer, thinking
(pensando) how the square the circle, is that π is an irrational number, a
principle or origin never to be found; what defeats the pilgrim is that the
understanding he seeks is not conceptual: there is no 'how' involved. The
understanding comes in a flash of illumination or experience, canceling
concept and image (l'alta fantasia) and with them the last trace of
autonomous desire and will, which are now integrated into the harmony of
creation, into the experience of self and all things as the self-expression
of divine love. The firsthand knowledge of Truth or reality, of all as
oneself, alone quenches the thirst for understanding" (p. 81). Va da sé che
tale "firsthand knowledge" è resa possibile dalla concordia tra volontà
umana e volontà divina, cioè da una realtà affettiva o, se si preferisce,
da ciò in cui essa consiste: la giustizia perfetta. Questa non è perdita di
autonomia, ma raggiungimento del suo punto ottimale, in cui non c'è più
lotta e l'arbitrio è contemporaneamente libero e sano. Ed è l'unico modo
per l'uomo di realizzarsi effettivamente, adempiendo tutto ciò che è di
nobile e degno in lui: dalle umbrae pagane di Virgilio (con tale termine si
concludono Egl. I e X e l'Eneide stessa) alle stelle cristiane di Dante
Alighieri.
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