Paradiso XVIII tra autobiografia e scrittura sacra

June 3, 2017 | Autor: Lino Pertile | Categoria: Dante Studies, Dante, Filologia dantesca, Dante, Medieval Studies, Italian Studies
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Paradiso XVIII tra autobiografia e scrittura sacra


LINO PERTILE

Il canto XVIII del Paradiso non è tra i più frequentati della Commedia. Le
poche lecturae ad esso dedicate nel nostro secolo ne fanno in generale un
canto, se non dichiaratamente minore, certo composito e di transizione.1 Di
transizione, perché in esso palesemente il poeta narra il passaggio dalla
sfera di Marte a quella di Giove; composito, perché i vari segmenti
narrativi (l'adagio iniziale, la rassegna militare di Cacciaguida, la
salita a Giove, le metamorfosi dei beati, la preghiera di Dante e la
requisitoria finale) non sembrano tenuti insieme da necessità poetiche
interne, ma piuttosto splendidamente giustapposti. Anche da un punto di
vista formale, il canto colpisce come un crogiolo di toni e di stili, una
miniera di materiali preziosi che però non si compongono in un disegno
unitario. L'esegesi corrente aiuta certo a vedere particolari, a percepire
la maestria esecutiva di tante diverse atmosfere, ma non a risolvere la
perplessità di fondo: la sensazione di un canto schiacciato da vicini
troppo potenti, dei quali sarebbe rispettivamente da un lato appendice e
dall'altro proemio; un canto insomma studiatissimo, ma la cui nucleare
identità non esiste o risulta comunque inafferrabile.
Ora si sa che Dante non procede mai per giustapposizione, ma bensì per
implicazione fantastica; che cioè nel poema ogni segmento narrativo è
motivato da necessità profonde, risponde a intime ragioni sia logiche che
poetiche; e se queste non risultano chiare a noi, ciò non significa che non
ci siano, ma piuttosto che non le abbiamo cercate con il vigore necessario
a trovarle. Nel caso specifico del XVIII del Paradiso non si sono messi in
evidenza, a mio sentire, due punti fondamentali alla genesi e struttura del
canto: primo, la continuità della linea narrativa tra i tre maggiori
segmenti testuali che lo costituiscono, ossia la rassegna militare di
Cacciaguida, le metamorfosi dei beati nel cielo di Giove e la requisitoria
finale dell'auctor, secondo, il legame che unisce questi passi alla
profezia di Cacciaguida nel XVII. Sono questi gli elementi che il presente
contributo intende riesaminare nel contesto generale del canto.


L'eco delle solenni parole di Cacciaguida è ancora viva, quando la voce
narrante ricompone, iniziando il canto XVIII, la situazione psicologica di
fondo di tutto il viaggio celeste:


Già si godeva solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava
lo mio, temprando col dolce l'acerbo.
(1-3)


La disposizione sintattica a chiasmo ("si godeva . . . quello specchio . .
. / e io gustava"), la significativa variazione semantica "godeva/gustava,"
su cui tanto hanno già insistito i commentatori del canto,2 le antitesi
"suo/mio" e "dolce/acerbo," in cui però prevale nettamente l'acerbo, come
sottolinea la rima interna "e io/lo mio": tutto questo riporta in primo
piano la "disagguaglianza" (XV, 83) che per tutta la cantica segnala da un
lato la condizione invincibilmente umana del visitatore in statu viae, e
dall'altro quella perfettamente matura e adempiuta dei residenti celesti.
E' proprio nella geniale articolazione di questa teologica disparità che
trovano consistenza sia lo spessore psicologico del personaggio Dante, in
teoria ormai sollevato da ogni motivo di dramma interiore, sia la tensione
poetica della cantica, cosiddetta, della visio Dei. Il fatto è che al
personaggio, costituzionalmente abilitato ormai alla visione, la visione,
in cui si compongono "voglia e argomento," non viene erogata che alla fine
dei trentatré canti previsti dal fren dell'arte, e anche allora non si
tratterà che di un attimo sottratto alla durata; nel frattempo, cioè per
tutto il Paradiso e per quanto gli rimane di vita, egli deve vivere la sua
esperienza nel tempo e nel desiderio, nonché, a partire d'ora, fare i conti
con l'imminenza di un destino assai più acerbo che dolce, presentito, in
forza della rivelazione dell'avo, con la certezza delle cose presenti. Del
resto è questo un destino che il poeta conosce di persona ormai da molti
anni. Il momento d'apertura di questo canto è dunque potenzialmente
drammatico, e vi ritorneremo sopra più avanti. Ma ecco intanto che fra
presente e futuro si inserisce subito, con la naturalezza di una con-
giunzione, l'azione mediatrice di Beatrice:


e quella donna ch'a Dio mi menava
disse: "Muta pensier; pensa ch'io sono
presso a colui ch'ogne torto disgrava."
(4-6)

Durante tutto il colloquio di Dante con Cacciaguida Beatrice era rimasta
appartata, "un poco scevra" (XVI, 13). Così fa spesso l'auctor con le sue
guide, eliminandole dalla scena dove si faccia predominante l'impegno
dell'incontro diretto con l'anima visitata. Il ritorno poi al personaggio
appartato segna anche un ritorno a una più ricca e più complessa
interiorità narrante; nel rinnovarsi del contatto con la guida si
riverbera, come in una interna cassa risonante, l'eco profonda del recente
messaggio. Ciò avviene anche ora. Alla grandezza del vaticinio di
Cacciaguida, esaltante ma terribile, fa seguito il dire piano, affettuoso,
confidenziale di Beatrice. "Muta pensier": pensa che io sono già dove tu
desideri arrivare, che cioè è possibile compiere il salto, conquistare la
pace e la gioia che ora ti sembrano tanto ardue e lontane da raggiungere,
essere compensati del torto che pur devi subire; in altre parole, non
pensare alla prova che ti aspetta, pensa invece a ciò che verrà dopo, alla
felicità che la seguirà e che la realtà della mia beatitudine ti
garantisce.
Si deve ammettere che Dante non bada né poco né punto a quel che gli dice
Beatrice, né tanto meno dimentica il torto che l'attende e che rimane
invece, come vedremo, nella filigrana stessa del canto fino al suo ultimo
verso. Ciò che lo colpisce all'istante e lo distoglie sia pure per poco
alla meditazione sul suo duro avvenire non sono le parole di lei, ma il
suono della sua voce e l'amore che vede nei suoi occhi.


Io mi rivolsi a l'amoroso suono
del mio conforto; e qual io allor vidi
ne li occhi santi amor, qui l'abbandono:
non perch'io pur del mio parlar diffidi,
ma per la mente che non può redire
sovra sé tanto, s'altri non la guidi.
Tanto poss'io di quel punto ridire,
che, rimirando lei, lo mio affetto
libero fu da ogne altro disire,
fin che '1 piacere etterno, che diretto
raggiava in Beatrice, dal bel viso
mi contentava col secondo aspetto.
(7-18)

Viene in mente l'episodio di Casella sulla spiaggia del Purgatorio:


E io: "Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l'amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l'anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!"
(Purg. II, 106-111)


E Casella aveva allora incominciato a cantare Amor che ne la mente mi
ragiona, "sì dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi suona," aveva
scritto il poeta. Amoroso suono e amor ritornano in coppia qui nel
Paradiso, a testimoniare il lavorio sotterraneo della memoria poetica di
Dante in una situazione psicologica almeno parzialmente analoga, per quanto
ne sia del tutto diversa l'implicazione ideologica.3 E come allora la
melodia di Casella aveva sgombrato d'ogni cura la mente dell'affranto
pellegrino, così ora la visione di amore negli occhi santi di Beatrice ne
sgombra l'anima da ogni altro desiderio. Non è quindi la prospettiva del
premio futuro, bensì la visione presente di Beatrice che viene a colmare il
vuoto sentito dentro dal pellegrino; il turbamento causato dalle parole di
Cacciaguida viene a placarsi negli occhi dell'amata, "secondo aspetto,"
raggio riflesso della gioia divina. Mentre a questo punto abbiamo nel
Purgatorio il robusto e drammatico intervento di Catone a sventare la
tentazione retrograda del personaggio, qui nel Paradiso l'incantesimo non
viene infranto. Il lume del sorriso di Beatrice vince a sua volta l'affetto
di Dante, e al sorriso segue l'invito a guardarsi attorno: "Volgiti e
ascolta; che non pur ne' miei occhi è paradiso." Anche altrove nel Paradiso
avviene a volte che Dante s'accontenti dell'anticipo di beatitudine
offertogli dalla presenza dell'amata, e questa allora lo deve non
redarguire, ma piuttosto attirare dolcemente più in alto, educarne il
desiderio orientandolo verso il suo fine supremo.4 Il personaggio di
Beatrice ha questa straordinaria e ambivalente funzione strutturale che non
aveva e non poteva avere Virgilio: essa avvicina e simultaneamente
rallenta, perfezionandolo, il processo di avvicinamento a Dio; diventa così
uno dei termini fissi a cui l'auctor può ricorrere liberamente
nell'articolazione narrativa della sua storia.
Si chiude qui la prima parte del canto. Alla costruzione chiastica della
prima terzina fanno seguito le parole d'amoroso suono di Beatrice, poi
l'amore che splende nei suoi occhi, poi il rapimento dell'agens e la
rinuncia narrativa dell'auctor; in ordine inverso nella chiusa: prima gli
occhi (il "bel viso"), poi il "lume di un sorriso," infine le parole:
"Volgiti e ascolta." Costruzione perfettamente equilibrata e compiuta, una
pausa rapita, un "punto," in cui la perentorietà dell'evento ineffabile
("lo mio affetto libero fu") viene dilatata nel tempo dalla durata dei due
imperfetti: "fin che '1 piacere etterno, che diretto / raggiava in
Beatrice, dal bel viso / mi contentava col secondo aspetto." Qui si ritorna
ai moduli più affettuosi della poesia dantesca, alla piana melodia del
rammemorare, a una, più apparente che reale, semplicità sintattica e
lessicale quasi da dolce stil nuovo. Certe rime (per es., "bel viso/
sorriso/ paradiso") ci riportano appunto a un sistema emotivo assai meno
teso e drammatico, assai più dolce e sognante di quello che prevale nelle
zone alte del volo del personaggio. Ed è però proprio per questo che la
pausa, necessaria per il conforto che porta, reca in sé il motivo del suo
superamento. Dante non cede mai più di tanto al pullulare della commozione
esistenziale; talvolta arriva sino all'orlo del baratro, ma solo per
staccarsene riavviando subito con rinnovato vigore logico e fantastico il
movimento narrativo. Qui tuttavia egli non dimentica né sorvola. Se
rinuncia alla polemica personale, è soltanto perché, come si vedrà, intende
delegare a ben altra corte l'ufficio di articolarla passando sentenza sulle
sue scelte di vita.
Il trapasso al secondo momento del canto viene operato per mezzo di una
comparazione, il movimento in avanti attivato in maniera quasi
impercettibile. Dagli occhi di Beatrice si passa a quelli di Cacciaguida,
dal "disire," temporaneamente "quetato," di Dante, alla "voglia" riaccesa
di Cacciaguida. Il passaggio è sottolineato, la tensione del narrare
ristabilita dall'intrecciarsi sistematico delle spinte fonico-semantiche:
"vede/volta," "vede/vista," "tanto/tutta," "tutta/tolta,"
"fiammeggiar/folgór," "volsi/voglia," finché si arriva all'ultimo verso
piano:


Come si vede qui alcuna volta
l'affetto ne la vista, s'elli è tanto,
che da lui sia tutta l'anima tolta,
così nel fiammeggiar del folgór santo,
a ch'io mi volsi, conobbi la voglia
in lui di ragionarmi alquanto.
(22-27)

La pausa raccolta, lo scambio affettuoso tra Dante e Beatrice, hanno in
certo qual modo contagiato anche il trisavolo, il quale ritorna ora in
primo piano visibilmente commosso.
Di ciò che avviene a questo punto i commenti, a mio sentire, non rendono
conto. Cacciaguida, mosso dal suo proprio affetto e rispondendo alla sua
"voglia," ritorna a ragionare ancora alquanto, ma—si dice—di cosa irrelata
a quanto ha dichiarato nel canto precedente o a quanto è testé avvenuto.
Dice Cacciaguida che in quel cielo di Marte vi sono spiriti beati che
ebbero gran fama mentre furono vivi, e avverte Dante di far bene attenzione
ai bracci della croce luminosa: quando farà il nome di quei beati, le luci
che li avvolgono trascorreranno rapidamente lungo i bracci della croce.
Detto fatto, Dante sente pronunciare i nomi e simultaneamente vede le luci
sante guizzare velocemente per la croce una dopo l'altra: Giosuè e Giuda
Maccabeo, Carlo Magno e Orlando, Guiglielmo e Rinoardo, Goffredo e
Guiscardo. Si tratta di grandi combattenti per la fede che agirono in
momenti critici nella storia del mondo giudeo-cristiano: "dalla conquista e
difesa della Terra promessa, alle lotte contro i Saraceni nella Spagna,
nella Provenza, nell'Italia meridionale, fino alle Crociate."5 Dopodiché
anche la luce di Cacciaguida riprende il suo posto e il suo canto tra gli
altri "cantor del cielo," portando così a nove il numero, forse
significativo,6 degli eroi qui celebrati.
Ora, qual è il significato di questo passo e, soprattutto, si lega esso, e
come, a quanto è avvenuto negli altri tre canti di Cacciaguida? Il Bosco
risponde per tutti così: "Farinata, Brunetto, Matelda, altre grandi
creature dantesche, esaurita o assai indebolita la loro carica vitale, la
loro essenziale ragione d'essere come personaggi, restano sulla scena col
compito più modesto (non si dice insignificante) di delucidatori e ciceroni
d'oltremondo. Così anche Cacciaguida, la cui funzione nel canto XVIII è in
sostanza solo quella di nominare (22-51) alcuni dei suoi compagni di
beatitudine."7 Si tratterebbe dunque di una appendice, per quanto "non
insignificante": rimane tuttavia da chiarire in questa prospettiva perché
insignificante non sia, se è vero che ciò che vien fatto qui da Cacciaguida
poteva benissimo venir eseguito, senza perdita alcuna, da Beatrice o
addirittura da un cicerone qualsiasi. Una cosa ben curiosa, dunque! Quello
di Cacciaguida è per universale consenso uno dei momenti cardinali del
viaggio oltremondano, il vero centro ideale di tutta la terza cantica, "il
cuore del Poema,"8 e perciò si presume sia stato attentamente costruito e
vagliato in tutti i suoi particolari. In tutti, si dice, tranne in questo
ultimo passo, esterno al trittico, un passo che verrebbe ad essere non
molto più che una zeppa narrativa. Ciò che non persuade in questa lettura è
che essa implica un taglio netto tra la pagina autobiografica più bruciante
di tutta la Commedia e il suo seguito immediato. Il personaggio Dante s'è
appena sentito annunciare a chiare lettere l'esilio che l'attende—un esilio
in cui si sa che il poeta vive ormai da oltre tre lustri—, ed è appena
stato investito della dura missione profetica a cui da molti anni dedica
tutte le sue energie. E come potrebbero dei fatti personali di tale
magnitudine, predisposti da tanto lontano, passare senza congrua
riflessione? D'altro canto, come potrebbe il personaggio di Cacciaguida
scendere di punto in bianco dal piedistallo in cui l'hanno posto i tre
canti precedenti, e assumere l'umile ruolo, meramente "strutturale,"9 di
accompagnatore turistico? La logica narrativa vuole che la rassegna
militare abbia una motivazione ben più profonda e conforme sia alla storia
dell'agens che al ruolo di Cacciaguida.
In effetti la motivazione c'è ed è importante, ma per scorgerla dobbiamo
risalire agli ultimi versi del canto XVII, dove l'avo aveva annunciato la
missione futura di Dante poeta:


"Questo tuo grido farà come vento
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d'onor poco argomento.
Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e nella valle dolorosa
pur l'anime che son di fama note,
che l'animo di quel ch'ode, non posa
né ferma fede per essempro ch'aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia."
(133-142)


Questi dieci versi sono più accortamente costruiti di quanto non sembri. La
prima terzina annuncia le modalità della futura missione di Dante poeta: il
suo "grido," la sua poesia, dovrà colpire "le cime più alte," cioè le
personalità più in vista sulla terra, e questa è cosa che al poeta farà
onore. La seconda terzina collega le modalità dell'opera futura del poeta a
quelle dell'esperienza presente del personaggio Dante: se ora gli son
mostrate "pur l'anime che son di fama note," ciò vien fatto perché tali
appunto sono "le cime più alte" ch'egli dovrà colpire con la sua poesia.
Infine, gli ultimi quattro versi si applicano sia ai lettori futuri di
Dante, sia ora a Dante personaggio, perché chi ascolta (cioè Dante ora,
come i suoi lettori in futuro) non pone né presta fede ad esempi la cui
radice sia incognita o invisibile. In altri termini l'esperienza del
personaggio è deliberatamente costruita in base allo stesso principio
retorico della letteratura esemplare, al quale il poeta dovrà attenersi
nella sua opera perché questa sia efficace.10
E' importante rilevare che la metafora portante adibita in questi versi è
quella dell'albero, una immagine topica che caratterizza, e si capisce
perché, tutto il colloquio del nobile avo con il suo lontano rampollo.11
Ora, all'inizio del canto XVIII, mentre l'agens, gravato dal pensiero del
destino immeritato che di sicuro l'aspetta, trova conforto perdendosi negli
occhi ineffabili di Beatrice, Cacciaguida continua a pensare e godere del
suo pensiero, perseguendo in tutta coerenza il filo ininterrotto della sua
immaginifica logica. Ecco infatti che, quando riprende a parlare (vv.
28—30), la metafora dell'albero riaffiora immediatamente ed esplicitamente
alle sue labbra:


"In questa quinta soglia
de l'albero che vive de la cima
e frutta sempre e mai non perde foglia . . . ."


Qui dunque, di nuovo l'albero, ma, al contrario di quelli terrestri, le sue
linfe vitali lo percorrono dall'alto al basso, dalla cima alla radice; e in
quest'albero sono "spiriti beati, che giù . . . fuor di gran voce," esempi
altissimi, quali appunto "l'anime di fama note" che dovranno essere oggetto
del "grido" del poeta. La ripresa della metafora non è casuale: essa ci
avverte che non ci troviamo in zona d'appendice, ma nel cuore stesso del
modo transuntivo tipico della parlata di Cacciaguida. E' come se questi,
accortosi dell'effetto che la sua profezia ha avuto su Dante, volesse
intervenire a bilanciare anche lui, con un supplemento di "dolce,"
l"'acerbo" che prevale nell'animo del suo discendente. Ma Cacciaguida non è
Beatrice, e il suo intervento può avvenire soltanto in modo coerente con la
sua personalità e il suo stile, per mezzo cioè, come ha appena affermato,
di exempla. Di conseguenza egli non solo non cambia discorso—come vuole
l'interpretazione vulgata—, ma riprende la metafora dell'albero e cita una
serie di exempla degni allo stesso tempo della missione che Dante ha da
compiere e della qualità artistica della sua "musa": Giosuè, Giuda
Maccabeo, Carlo Magno, Orlando, e così via; nomi tanto insigni da non
richiedere che d'esser pronunciati per riaccendere l'animo dello scosso
viator, nomi che sono lumi, citazioni che dardeggiano vive nel vivo della
Croce. A questi si congiunge infine, esempio nell'esempio, lo stesso
Cacciaguida, il quale appunto seguitò l'imperador Currado, fu cinto "de la
sua milizia" e morì martire in Terrasanta (XV, 139—148). E nell'unirsi ai
combattenti per la fede, Cacciaguida si fa "essempro" anche per un altro
rispetto: "mostrommi— scrive Dante—qual era tra i cantor del cielo
artista." Il che implica che anche Dante dovrà non soltanto militare per la
sua fede, abbandonare la corrotta Firenze, vivere una vita raminga e
solitaria, ma cantarla la sua fede, farsi lui medesimo "tra i cantor del
cielo artista." Ciò che proprio ora, con questo verso cinquantunesimo del
canto, il poeta ha fatto, cantando non Giosuè o l'alto Maccabeo, Carlo
Magno o Orlando, ma l'esemplare suo trisavolo e compagno loro Cacciaguida.
Così la poesia di Dante non solo è "grido . . . che le più alte cime più
percuote," ma è anche "musa . . . opima" della gloria dei campioni
cristiani, e l'avversione dei grandi malvagi è il prezzo che volentieri il
poeta paga per conquistarsi la solidarietà dei grandi buoni e,
implicitamente, iscrivere tra i loro il suo nome. Come già aveva proclamato
al tempo della canzone Tre donne:


E io, che ascolto nel parlar divino
consolarsi e dolersi
così alti dispersi,
l'essilio che m'è dato, onor mi tegno:
che, se giudizio o forza di destino
vuol pur che il mondo versi
i bianchi fiori in persi,
cader co' buoni è pur di lode degno.12


Così si chiude il cerchio, si completa con grande coerenza fantastica e
ideologica il disegno architettonico del blocco di Cacciaguida, con il
doppio contrafforte dell'amore di Beatrice e dell'essempro dei com-
battenti per la fede, a doppiamente sostenere sia lo spirito dell'agens,
scosso dalla rivelazione del proprio destino, sia quello dell'auctor che
del proprio privilegio deve fare, come fa, comedìa. Lungi dall'essere mera
appendice turistica, questi versi del canto XVIII scaturiscono
organicamente, per sviluppo logico e psicologico e, in concreto, per
naturale suggestione di metafore, dall'episodio di Cacciaguida.
Conclusa la visita alla sfera di Marte, il viator può procedere e la voce
narrante riprendere a tramarne la storia; ma l'ordito è già tutto teso e
predisposto. "Pensa ch'i' sono presso a colui ch'ogne torto disgrava" aveva
detto Beatrice: pensa che la giustizia di Dio esiste, e che io vivo
eternamente presso di essa, più in alto in questo regno. Ora il movimento
si ripete: "Io mi rivolsi dal mio destro lato" (v. 52), e nuovamente gli
occhi di Beatrice appaiono tanto splendenti, tanto felici, da superare in
bellezza ogni altra apparizione di lei. Poggiando su un elemento topico
costante nel Paradiso e or ora accennato, quello dell'inefTabilità della
bellezza di Beatrice, la spinta si fa ora verticale, d'una verticalità
estatica, da contemplativi. La translatio del viaggiatore paradisiaco al
nuovo cielo avviene dentro prima che fuori, si manifesta prima nell'anima
che nello spazio. Il fulcro della mutazione interiore è di nuovo la
miracolosa Beatrice della Vita nuova, venuta un tempo "da cielo in terra a
miracol mostrare," ma il cui miracolo continua e si matura propriamente in
Paradiso.
Il passaggio da un cielo all'altro si colloca al centro del canto ed è
articolato in due similitudini parallele. La prima registra il crescere
della bellezza di Beatrice e si riflette nell'accresciuta "dilettanza" del
pellegrino; la seconda nota il trasmutare del rosso di Marte nel bianco
candido di Giove e si riflette negli occhi dello stesso personaggio.
Entrambi i mutamenti sono colti con movimento graduale e rallentato: il
primo "di giorno in giorno," il secondo "in picciol varco di tempo"; nel
primo "l'uom s'accorge," nel secondo trasmuta "la bianca donna"; nel primo
"s'accorge" e "m'accorsi," nel secondo "si discarchi ... il carco" e la
rima equivoca "volto/vòlto." In questo nuovo adagio descrittivo,
perfettamente bilanciato, solo il graduale infittirsi degli enjambements
nella seconda similitudine segnala il progredire della narrazione. La
riaccende però con subito decollo il trionfale "Io vidi" con cui si apre e
spalanca la visione del nuovo cielo:


Io vidi in quella giovial facella
lo sfavillar de l'amor che lì era segnare
a li occhi miei nostra favella.
(70-72)

La scena è grandiosa. L'amore sfavilla e le sue faville—le anime beate—si
fanno favella, si dispongono in lettere vive, diventano vivente e felice
alfabeto. Il turbamento che Dante si porta dietro dal cielo di Marte trova
presto compenso nel tripudio del cielo di Giove. Scena grandiosa, ma
astratta, almeno finché quelle impalpabili faville non prendono corpo:


E come augelli surti di rivera
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sé or tonda or altra schiera . . .
(73-75)


E' la prima di quattro mirabili similitudini ornitologiche, che non a caso
scandiscono il progredire della narrazione nel cielo dell'Aquila (XIX, 34-
36 e 91-93; XX, 73-75). Il segreto del Paradiso è proprio qui: nella
capacità, che Dante ha in suprema misura, di esprimere gradi di gioia
sempre più intensi e compiti, ma non mai assoluti; una gioia di natura
intellettuale che è tensione verso l'alto, fatta di desiderio e di
speranza, anziché di possesso. La componente lirica agisce sprigionandosi
anche da schemi geometrici e astratti, giacché l'esercizio intellettuale,
la ricerca razionale, la contemplazione del vero hanno per Dante effetti
sentimentali ed emotivi di intensità sconvolgente. Il fervore di queste
"sante creature," ovvero "augelli surti di rivera," come più avanti la
gioia dell'Aquila—ora falcone, ora cicogna e ora allodetta—, altro non vuol
essere infatti che espressione, anche dopo l'abbandonato e superato
Convivio, di una "felicità mentale," che è del poeta almeno tanto quanto è
delle creature della sua poesia.
Nel cielo di Giove si dipana dunque un arabesco di suoni e voli:
"congratulando . . . fanno," "volitando cantavano, e faciensi," "cantando .
. . moviensi," "diventando . . . s'arrestavano e taciensi." I valori fonici
aderiscono strettamente a quelli visivi, così come nel narrato la visione
si tramuta in parole. Al tripudio delle immagini fa seguito il silenzio
della lettura, il cielo comunica per immagini cantanti prima di spalancarsi
come canzone scritta, leggibile parlare: "D, I, L." Il poeta ha a questo
punto raggiunto una quota altissima e rischiosa, da cui è giocoforza che
debba scendere. Le lettere che si vanno formando nel cielo chiedono di
essere lette, e la lettura, si sa, non è avventurosa. Ecco dunque che a
segnare l'apice e lo stacco verso una narrazione più piana e un ritmo più
pacato, s'inserisce con effetto sapientemente ritardante l'invocazione alla
diva Pegasea che, lanciata dal poeta dalla carta su cui scrive, sottolinea
il prodigio vissuto dal singolare personaggio:


O diva Pegasea che li 'ngegni
fai gloriosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e ' regni,
illustrami di te, sì ch'io rilevi
le lor figure com'io l'ho concette:
paia tua possa in questi versi brevi!
(82-87)

E' la sesta delle nove invocazioni della Commedia, seconda nel Paradiso
dopo quella iniziale rivolta al "buono Appollo" (I, 13), segno evidente che
il poeta è giunto ad un punto nodale.13 Il nodo artistico da sciogliere è
quello già enunciato nel Purgatorio: come "forti cose a pensar mettere in
versi" (XXIX, 42); o, per dirla nei termini dell'Inferno, come fare "sì che
dal fatto il dir non sia diverso" (XXXII, 12), cioè come adeguare la parola
all'esperienza. E' la seconda "disagguaglianza," e mentre la prima, cui si
alludeva poco fa, riguardava l'agens, questa riguarda l'auctor: è la
disparità tra l'immediatezza e la perfezione del libro dell'universo, della
scrittura e della comunicazione divina, e l'ardua natura dello scrivere
umano: le fami, i freddi e le vigilie (Purg. XXIX, 37-38), che il poeta
dovrà soffrire, e che sta soffrendo, per portare a termine la sua missione
di scriba, i molti anni che lo faranno macro (Par. XXV, 3).
Non è un caso se il tema di questa disparità si insinua con insistenza tra
i versi del canto XVIII. L'abbiamo incontrato all'inizio (vv. 7—12), dove
il poeta s'era visto costretto a rinunciare ad esprimere l'amore negli
occhi di Beatrice. Questa sua insufficienza era stata sottolineata per
contrasto dalla perfetta aderenza del dire di Cacciaguida al farsi
dell'evento enunciato: Dante aveva osservato allora come le citazioni
esemplari di Cacciaguida fossero simultaneamente lumi trascorrenti per i
bracci della Croce di Marte. Tanto più mirabile è nel cielo di Giove il
farsi scrittura dell'essere stesso dei beati, terzo e più grande momento in
questa serie tematica. Ciò che viene scavalcato qui dalla divina scrittura
è il limite invalicabile contro cui si urta di continuo e con acuta
coscienza la scrittura poetica: l'arbitrarietà del segno, la funzione
referenziale, il divario tra significante e significato. E' di fronte a
siffatta prova della sensazionale e schiacciante "possa" divina che il
poeta deve ora scrivere i suoi versi brevi. E pertanto invoca la diva di
illuminarlo sì ch'egli sia capace di rilevare le figure, di staccarle quasi
dalla tela del cielo, dove Dio le ha dipinte, per trasferirle sulla carta
tal quali le ha recepite nella sua mente. Compiuta poi questa descrizione,
sulla quale ritorneremo tra breve, il poeta commenta:


Quei che dipinge lì, non ha chi '1 guidi;
ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virtù ch'è forma per li nidi.
(109-111)

E' il quarto e ultimo momento, il quale rinvia direttamente (come prova la
ripresa rimica "vidi/guidi") al primo, al tema dell'insufficienza
espressiva e memoriale dell'auctor: "non perch'io pur del mio parlar
diffidi, / ma per la mente che non può redire / sovra sé tanto, s'altri non
la guidi." Mentre dunque il parlare del poeta è per propria natura
inadeguato al suo oggetto, e la sua memoria incapace di risalire
all'immagine senza l'assistenza di Dio, Dio non ha bisogno di assistenza,
ma è lui che assiste e guida, e a lui risale interamente la memoria di
quella virtù che informa di sé tutte le cose create, il libro
dell'universo. E' la disagguaglianza che invano l'ingegno umano si sforza
di superare.14
Ora questo tema della scrittura divina potrebbe sembrare, come in effetti
è sembrato, affatto tecnico e secondario rispetto al messaggio che esso
trasmette. E' un'impressione a cui non si deve cedere, se non si vuol
ridurre in buona parte il significato di ciò che qui avviene. Osserviamo,
per incominciare, lo spettacolo celeste, così come lo rappresenta il poeta,
adiuvato ora dalla diva Pegasea:


Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.
'DILIGITE IUSTITIAM,' primai
fur verbo e nome di tutto '1 dipinto;
'QUI IUDICATIS TERRAM,' fur sezzai.
(88-93)

Le luci sante si mostrarono in trentacinque tra vocali e consonanti, e il
pellegrino le notò tutte nell'ordine in cui vennero rappresentate. Il cielo
di Giove fa da sfondo a un vivo alfabeto, le lettere si dispongono una dopo
l'altra: D, I, L. Poi le lettere-luci si fanno parole e le parole si legano
tramite nessi sintattici. Vocali e consonanti divengono verbi e nomi; i
beati si fanno citazione del primo versetto del Libro della Sapienza. E'
uno degli eventi più sbalorditivi di tutto il poema; tanto straordinario
che il lettore rimane incerto se lo impressioni di più il significante o il
significato, la citazione-cosa, smagliante nel cielo, o l'esortazione ai
governanti di questo mondo ad amare la giustizia.
Ora è stato giustamente e acutamente rilevato che i casi in cui Dante
ricorre al "visibile parlare" sono tre, uno per cantica, e che essi hanno
in comune lo stesso tema della giustizia: la scritta sulla sommità della
porta dell'Inferno (III, 1-9); l'incontro di Traiano con la vedovella,
scolpito sulla parete della prima cornice del Purgatorio (X, 73-96); infine
la scritta celeste che qui ci occupa.15 Ma c'è, mi pare, una sostanziale
differenza tra l'iscrizione celeste e le altre due. Nell'Inferno è la
porta, che non ha l'uso della lingua, a parlare di sé; e nel Purgatorio è
l'altorilievo di pietra che, parimenti muto, racconta con le sue figure la
storia di Traiano. Nel Paradiso invece sono anime parlanti e cantanti che,
anziché parlare, scelgono di comunicare non semplicemente per iscritto, ma
facendosi esse stesse scrittura. Questa mi sembra una cosa curiosa. Nel
Paradiso siamo messi di fronte a lettere e parole che, proprio perché si
fanno oggetti, non rinviano che a se stesse in quanto elementi di fonetica
e grammatica, a una citazione biblica divenuta citazione-cosa, segno e
referente allo stesso tempo; trionfa insomma il significante, nella
fattispecie trentacinque tra vocali e consonanti che si fanno poi verbi e
nomi. Il problema è che, così trattata, la lettera diviene oggetto au-
tonomo, apparentemente privo di significato, se non estetico. Si potrebbe
arguire che questo spettacolo documenti per antitesi la preoccupazione
dantesca, così viva nel Paradiso, a riguardo dello statuto della scrittura
umana, al rischio che essa altro non sia che segno grafico senza rapporto
con l'altra, indicibile realtà della beatitudine. E ci sarà forse anche
questo, ma, come vedremo, sarà una verità accessoria rispetto a quella che
trasmette l'episodio.
Osserviamo intanto che l'iscrizione svanisce nel suo farsi, una lettera
dopo l'altra, e le anime sante rimangono ordinate in un solo segno, "l'emme
del vocabol quinto," trapungendo d'oro il cielo argenteo di Giove. Ora poi,
altre luci scendono al colmo dell'emme e lì s'arrestano cantando. Di nuovo
è soltanto un attimo, perché le luci ritornano subito ad animarsi e a
brulicare per dar forma a un simbolo: "la testa e '1 collo d'un'aguglia,"
in cui con piccoli aggiustamenti si dispongono e finalmente consistono le
altre anime che prima s'erano ingigliate nell'emme. La progressiva
metamorfosi è così completa. Riepilogando: le anime-faville sono diventate
lettere, le lettere parole, le parole citazione; la citazione s'è prima
coagulata nell'emme e questa poi, passando per distinte fasi di quiete e
silenzio e vampate di moto e canto, è diventata aquila araldica. Lo
spettacolo è seguito fin nei minimi particolari, scandito con attenzione
lenta e meticolosa in tutte le sue fasi: "Prima" (79), "poi" (80); "primai"
(91), "sezzai" (93); "Poscia" (94), "Poi" (100); "volitando cantavano"
(77), "cantando moviensi" (79), "diventando s'arrestavano e taciensi"
(80—81); "scendere ... e lì quetarsi cantando" (97-99), "resurger" (103),
"quietata ciascuna" (106), "rappresentare" (108), "contenta prima
d'ingigliarsi . . . con poco moto seguitò" (112-114).
Lettori acuti di questo canto hanno dibattuto se nell'M sia da vedere la
lettera iniziale di "Monarchia," come io credo, o di "Maria";16 se tra la
figurazione dell'M e quella dell'Aquila ci sia in fase intermedia quella
del giglio di Francia o altri simboli.17 Noi voghamo dedicare tutta la
nostra attenzione alla scritta, come del resto sembra fare il poeta. Il
quale ora esclama:


O dolce stella, quali e quanti gemme
mi dimostraro che nostra giustizia
effetto sia del ciel che tu ingemme!
(115-117)

Questo è, inizialmente almeno, uno dei passi più ardui, non da capire, ma
da sentire, di tutto il canto. Che cosa fa qui Dante? Nel giro di tre versi
egli passa da una figurazione estetica a un discorso etico, da una lunga,
elaborata e commossa rappresentazione di segni a una riflessione su
concetti. Le gemme del cielo—dice—, le faville, ovvero i beati, gli
dimostrarono, facendosi essi medesimi spettacolari disegni, che la
giustizia umana deriva dall'influsso di Giove. C'è qui un salto logico che
lascia perplessi; in tutta evidenza noi e Dante vediamo cose diverse: noi
il contenuto della forma, Dante la forma del contenuto. Ma forse qualcosa
di essenziale ci sfugge. L'intenzione del poeta è in effetti tutta calata
nei suoi versi, è quei versi, e noi non siamo finora riusciti a dipanarne i
fili.
Ritorniamo dunque al testo e precisamente al suo nodo centrale, la
scritta nel cielo di Giove "Diligite iustitiam qui iudicatis terram':
'amate la giustizia voi che in terra avete ufficio di giudici.' Qui è, o
sembra essere, l'anello che non tiene, il punto in cui s'interrompe la
concatenazione logica. Perché, ci si chiede, Dante ricorre all'espediente,
tanto vistoso, secondo alcuni troppo vistoso, della scritta, quando ha un
coro di anime che possono parlare? Perché, anzi, non l'ha fatto cantare al
coro dei giusti quel primo versetto della Sapienza? A quanto mi risulta, la
domanda non è mai stata posta, ma tanta è la cura e l'insistenza del poeta
precisamente sulla modalità della scrittura celeste, che essa non si può e
non si deve eludere. Ebbene, la risposta, a nostro avviso, è questa: Dante
non intende con la citazione trasmettere direttamente un messaggio, ma
costruire un simbolo. Se il versetto fosse stato, anche in questo caso come
altrove, cantato o parlato, noi e i giudici della terra avremmo sentito
l'esortazione ad amare la giustizia, esortazione non nuova ma qui lanciata
imperiosamente ed esplicitamente da un pulpito altissimo. Dante mira però a
un effetto ben più radicale. Essendo il versetto segno, scrittura, disegno,
arabesco dorato nel cielo, oggetto né più né meno che l'M e l'Aquila, esso
deve rinviare simbolicamente a qualcos'altro, e ciò non può essere che il
libro sacro da cui è estratto e di cui è l'incipit. La scritta è insomma
simbolo, ed è simbolo non in particolare della giustizia, ma del Libro
della Sapienza, e per estensione della Sacra Scrittura. E' questo il libro
che i potenti della terra non leggono più, il libro del Verbo-Sapienza,18
in cui è consacrato e da cui promana il principio eterno e provvidenziale
della giustizia, la Monarchia universale, che si incarna a sua volta
simbolicamente nell'Aquila, dispensiera di giustizia.
Se ora facciamo quel che Dante ci invita a fare, cioè se apriamo e
leggiamo il Libro della Sapienza, tutto torna e si chiarisce. La Sapienza,
che come virtù è attributo della Seconda Persona,19 mette a confronto le
vie e il destino dell'uomo giusto e pio, e le vie e il destino degli empi:
l'uno—come ha solennemente avvertito Cacciaguida alla fine del XVII con
riferimento al caso futuro di Dante, e insegnato poi nel XVIII con
riferimento storico ai campioni della fede—, perseguitato in terra,
umiliato, tormentato, messo a morte, ma destinato a fama e felicità
immortale; gli altri, potenti in terra, ma condannati a un'eternità di
dolore, la loro stessa memoria cancellata per sempre. Quel che nella
Sapienza si profila a grandi linee è il nucleo originale, fatto di
esperienza esistenziale e di riflessione morale e religiosa, da cui nasce
il poema stesso: da una parte la comedìa dell'umile giusto, dell'exul
immeritus, dall'altra la tragedia degli empi e superbi che lo
perseguiteranno. Cito dalla Sapienza (III, 1—7) un passo tra i tanti, ma
che è singolarmente pertinente, essendo proprio esso il "pezzo forte" nella
Messa del Comune dei Martiri:20


Justorum autem animae in manu Dei sunt,
et non tanget illos tormentum mortis.
Visi sunt oculis insipientium mori:
et aestimata est afflictio exitus illorum,
et quod a nobis est iter, exterminium:
illi autem sunt in pace.
Et si coram hominibus tormenta passi sunt,
spes illorum immortalitate plena est.
In paucis vexati, in multis bene disponentur:
quoniam Deus tentavit eos, et invenit illos dignos se.
Tamquam aurum in fornace probavit illos,
et quasi holocausti hostiam accepit illos,
et in tempore erit respectus illorum.

[Le anime de' giusti sono nella mano di Dio, e non li toccherà tormento di
morte. Alli occhi delli insipidi pare ch'elli muoiano, e la fine loro è
stimata afflizione. (E dal giusto cammino si partiranno li rei, e andaranno
in perdizione; e) quello che è da noi viaggio, è combattimento; ma coloro
sono in pace. E se elli soffersono tormento dinanzi dalli uomini, la loro
speranza è piena d'immortalitade. In poche cose sono stati perseguitati, in
molte cose fieno beni disposti; per che Iddio li tentoe, e trovolli degni
di sé. Sì come oro in fornace li provoe, e sì come ostia di sacrificio li
ricevette, e nel tempo sarà il riguardamento loro.]
Ed ecco finalmente un versetto cruciale:


Fulgebunt justi, et tamquam scintillae in arundineto discurrent.


[Risplenderanno li giusti; sì come faville in canneto, così
scorreranno.]

Qui la coincidenza non è più soltanto concettuale, ma lessicale e
metaforica: le fulgide scintillae del Libro della Sapienza sono le
"innumerabili faville" che discorrono nel cielo di Giove,21 prima di
dipingervi l'incipit del Libro da cui Dante le ha tolte:


Poi, come nel percuoter d'i ciocchi
arsi surgono innumerabili faville,
onde li stolti sogliono agurarsi,
resurger parver quindi più di mille
luci e salir ....
(100-104)

A quell'inciso "onde li stolti sogliono agurarsi" si è obbiettato "per quel
tanto di dispersivo" che vi si è voluto avvertire, "accentuato dall'eccesso
di moralismo che appesantisce il rapporto oggettivo-simbolico."22 Sennonché
l'allusione alle vane pratiche piromantiche degli stolti23 è tutt'altro che
gratuita, contrapponendosi esse all'amore della Sapienza, la quale sì, a
chi la ricerca, concede di pronosticare segni e portenti (VIII, 8):


et si multitudinem scientiae desiderat quis:
scit praeterita et de futuris aestimat,
scit versutias sermonum et dissolutionem argumentorum,
signa et monstra scit antequam fiant,
et eventus temporum et saeculorum.



[E se alcuno desidera grande moltitudine di scienza, sae le cose passate,
ed estima di quelle che sono a venire; egli sae le malizie e ingegni delli
uomini, e sae dissolvere li argomenti; e sae (gl'ingegni degli uomini e) le
cose che debbono venire inanzi che sieno, e li avvenimenti delli tempi e
delli secoli.]

A ulteriore convalida di questa lettura soccorre il canto xix. Che cosa
dice infatti l'Aquila quando incomincia a parlare? ovvero, come si
autodefiniscono le anime del cielo di Giove?


... "Per esser giusto e pio
son io qui essaltato a quella gloria
che non si lascia vincere a disio;
e in terra lasciai la mia memoria
sì fatta, che le genti lì malvage
commendan lei, ma non seguon la storia."
(XIX, 13-18)

Giustizia e pietà sono le virtù che distinguono gli spiriti del cielo di
Giove, ma sono precisamente anche le virtù cantate nella Sapienza, come
sono del resto anche le "vie" con cui opera Dio (Par. vii, 103) e che
muovono Traiano (Purg. x, 93), al punto da renderlo degno del ciglio
dell'Aquila.24 Ma non è tutto. Più avanti l'Aquila, saziato il "gran
digiuno" di Dante in merito alle modalità della giustizia divina, rinvia
chi volesse fare il sottile alla fonte stessa da cui scaturisce il
principio della giustizia, cioè alla Scrittura:


Certo a colui che meco s'assottiglia,
se la Scrittura sovra voi non fosse,
da dubitar sarebbe a maraviglia.
(XIX, 82-84)


Ecco dunque perché la visione metamorfica del nostro canto prende le mosse
dall'incipit sapienziale, quale simbolo della Scrittura e dell'autorità
suprema trascurata dai potenti, ma su cui va misurata ogni vicenda umana e
in primo luogo quella del personaggio Dante.
Si spiegano ora quegli anticipi al tema della giustizia che avevamo
individuato fin dal cielo di Marte. Il fatto è che, quando Dante fa
pronunziare la famosa profezia a Cacciaguida, già ha in mente la Sapienza e
lo sviluppo narrativo che dovrà seguire al canto xvii. Nella Sapienza è
infatti la risposta celeste all'ingiustizia che l'agens dovrà subire sulla
terra e che Dante già da molti anni va subendo, il premio del giusto e la
condanna degli empi: il nucleo autobiografico fondamentale della Comedìa.
La scritta celeste è, dopo quelli di Beatrice e di Cacciaguida, l'ultimo e
il più decisivo conforto assicurato dal cielo a Dante, e insieme il monito
solenne ai potenti della terra a ritornare al Libro che hanno dimenticato,
per leggervi il destino terribile che per essi prepara la giustizia divina.
Di qui scaturisce per naturale sviluppo logico l'ultimo segmento del
canto, le sei terzine finali che Dante impiegherà per lamentare ed
attaccare con violenza e sarcasmo il "malo essemplo" dei papi. La
transizione dalla felicità aerea della visione gioviale alla requisitoria
contro la realtà terrestre, ruotando attorno alla terzina della "dolce
stella," ora non sorprende più. Quella giustizia, dice Dante, che,
consacrata nel Libro divino e figurata nell'Aquila, scende pura come raggio
dal cielo di Giove, è inquinata dal fumo della cupidigia che sale dalla
terra; egli prega pertanto Iddio perché ancora una volta "s'adiri" contro i
mercanti che fanno bottega del tempio "che si murò di segni e di martiri,"
il tempio che non per caso la voce orante della Sapienza dice di avere
edificato "in monte sancto" (lx, 8).25


O milizia del ciel cu' io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti sviati dietro al malo essemplo!
Già si solea con le spade far guerra;
ma or si fa togliendo or qui or quivi
lo pan che '1 pio Padre a nessun serra.
Ma tu che sol per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paulo, che moriro
per la vigna che guasti, ancor son vivi.
(124-132)


Alcune spie verbali avvertono che anche qui, proprio dove il canto sembra
svariare, vige il controllo ferreo dell'implicazione logica e fantastica.
Riflettiamo in primo luogo sul tempio "che si murò di segni e di martìri.'"
A signa et monstra già allude, come s'è visto, la Sapienza. Quanto alla
parola martìri, questa è connessa indissolubilmente ormai alla chiusa della
biografia di Cacciaguida: "e venni dal martiro a questa pace" (XV, 148).
Cacciaguida era morto combattendo per la fede, testimoniando a prezzo della
vita la sua dedizione alla causa cristiana; egli aveva così contribuito con
il suo sangue a 'murare' il tempio dove ora attendono ai loro traffici
abietti i papi simoniaci, e non per caso sarà proprio uno di questi a
ricordare tra poco con sacrilego sarcasmo un altro "martiro," quello del
Battista. In secondo luogo "la milizia del ciel" ci riporta ai combattenti
per la fede, i cui nomi sono stati evocati all'inizio del canto, come si è
notato, in quanto esempi sublimi di "anime di fama note," eroi degni
d'esser cantati da ogni musa; in antitesi a tali esempi il "malo essemplo"
dietro al quale sono sviati ora gli uomini.26 In terzo luogo, evocata da
quella di milizia, l'immagine, non metaforica secondo me, delle "spade" con
cui i combattenti cristiani da Giosuè a Cacciaguida solevano far guerra in
nome della fede, e per contrasto le guerre di oggi combattute subdolamente,
togliendo ai cristiani il cibo loro destinato dal pio Padre, ovvero
scrivendo decreti non per sempre, come Dio nel cielo di Giove, ma per poi
cancellarli a scopo di lucro. In quarto e ultimo luogo, mentre alla fine
del canto il disiro del papa è tutto fisso sull'immagine del Battista
impressa nel fiorino, all'inizio dello stesso canto il desiderio di Dante
si appuntava tutto sugli occhi di Beatrice, riflesso dell'eterna bellezza
di Dio; e come Dante allora era libero da ogni altro disiro, così il papa
ora, tutto preso nel Battista-fiorino, non conosce né "pescator né Polo";
cioè mentre per Dante il paradiso è tutto dipinto negli occhi di Beatrice,
per il papa è tutto nel tondo del fiorino. Come si vede, si tratta di punti
legati insieme da ragioni concettuali e analogie di metafore che rimandano
tutte e sistematicamente, ma in negativo, all'inizio del canto, agli
exempla di Cacciaguida e alla vicenda personale dell'agens, che ad essi si
ispira. Vicenda alla quale, come se non bastasse, riporta proprio il
sistema rimico su cui s'incardinano i versi appena citati:
"terra/guerra/serra." Lo stesso sistema riaffiora infatti in alcuni dei
momenti autobiografici più intensi dell'opera dantesca: la chiusa della
canzone Tre donne, canzone dell'esilio e, si badi bene, della Giustizia,27
che qui non per caso abbiamo già avuto motivo di citare:


camera di perdon savio uom non serra
che '1 perdonare è bel vincer di guerra;

il congedo alla "montanina":


forse vedrai Fiorenza, la mia terra,
che fuor di sé mi serra,
vota d'amore e nuda di pietate;
se dentro v'entri, va' dicendo: "Omai
non vi può far lo mio fattor più guerra";28

l'inizio del canto XXV del Paradiso:


Se mai continga che '1 poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m'ha fatto per molti anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov'io dormi' agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra ....

Certo gli isomorfismi che indubbiamente legano insieme la canzone
dell'esilio, la "montanina" e il XXV del Paradiso,29 si indeboliscono
notevolmente nei versi in questione del XVIII; ciò nondimeno, quando si
considerino questi versi nel contesto in cui li abbiamo letti, il ritorno
rimico è sufficiente almeno a suggerire che essi fossero motivati al
livello profondo dal dolore dell'esilio e dalla ferita sempre sanguinante
dell'infamia subita. Del resto, chi sapeva ormai per lunga esperienza "sì
come sa di sale lo pane altrui," come poteva non sentirsi nel numero di
coloro cui veniva fatta guerra, privandoli, appunto, del "pan che '1 pio
Padre a nessun serra"?
Questi versi conclusivi sono certo costruiti secondo una progressione
negativa che parte dall'accorata meditazione dell'auctor sulla colpevole
degenerazione della Chiesa e finisce nella sguaiata, diabolica parodia
messa in bocca al papa: il quale sarà pure, storicamente parlando, Giovanni
XXII,30 ma come costruzione fantastica è pur sempre lo stesso tipo
dell'odiato Bonifacio VIII.31 Tuttavia, ciò che più conta per
l'intelligenza del canto è il fatto che il suo finale si rivela all'analisi
come antitesi polare del suo inizio. Infatti al torto profetizzato per
l'innocente personaggio si contrappone alla fine chi sarà responsabile di
esso, così come ai combattenti per la fede della rassegna dell'avo fanno
alla fine da perverso, diabolico contraltare i combattenti del fiorino: le
"cime" più alte, sulle quali già si abbatte il "grido" del poeta e contro
le quali egli implora che si manifesti nuovamente la giusta ira di Dio. Non
a caso quindi tra una schiera e l'altra di 'campioni' viene a collocarsi il
celeste rimando alla Sapienza, quale garanzia del giudizio divino sugli
affari del mondo e nella vita immortale di ogni individuo. Sarà appunto
questa giustizia a rovesciare per sempre, 'comicamente' la maligna
gerarchia che ora trionfa sulla terra.
Siamo ora in grado di penetrare più a fondo il senso della terzina
d'apertura del canto, il gioco di parole apparente nello scarto semantico
tra 'godere' e 'gustare' e l'antitesi "dolce-acerbo." Questo incipit non è
gratuito, ma risponde logicamente a quanto aveva detto Cacciaguida nel XVII
(vv. 124-132): "Coscienza fiasca / . . . / pur sentirà la tua parola
brusca. / . . . / Che se la voce tua sarà molesta / nel primo gusto, vital
nodrimento / lascerà poi, quando sarà digesta." Come la parola di Dante
sarà inizialmente "brusca" e "molesta" agli uomini del mondo, così la
profezia di Cacciaguida risulta sulle prime "acerba" a Dante, ma si
trasforma in "vital nodrimento" nel corso del canto. Che sia un caso se a
tale progresso corrisponde proprio la definizione della sapientia, per
esempio, in san Bernardo?

Et forte sapientia a sapore denominatur, quod virtuti accedens, quoddam
veluti condimentum, sapidam reddat, quae per se insulsa quodam modo et
aspera sentiebatur. Nec duxerim reprehendendum, si quis sapientiam
saporem boni definiat.32


[E forse la sapienza prende nome dal sapore che, quasi come condimento,
si aggiunge alla virtù, perché la renda sapida, lei che per se stessa
era di gusto un po' insipido e acerbo. Né riterrei che sbagliasse chi
definisse la sapienza come il sapore del bene.]

Iniziato con una certa qual esitazione e amarezza, il canto si conclude
nella certezza della fede, aprendo la via alla solenne e trionfale
dichiarazione dell'Aquila nel XIX. Così l'auctor supera la
"disagguaglianza" tra il suo ambiguo 'gustare' e il 'godere' del suo avo,
tra il dolce e l'acerbo, tra il male presente e il bene futuro. Il canto fa
della vicenda storica di Dante, presentata nel XVII con la sicurezza
perentoria di Cacciaguida, una vicenda esemplare, e la iscrive nel disegno
'tipico' del Libro della Sapienza,33 sicché ogni uomo giusto e perseguitato
si può riconoscere in essa e in essa trovare non soltanto conforto, ma
motivo di orgoglio e onore. E' il canto in cui il dolore per l'ingiustizia
del perdurante esilio viene compensato dalla certezza del trionfo finale
dell'exul nel quadro dell'immancabile trionfo della giustizia di Dio; in
una parola, un canto comico.
University of Edinburgh
Edinburgh, Scotland



NOTE

1. A quanto mi risulta, le lecturae del canto sono le seguenti: V.
Capetti, Lectura Fiorentina (Firenze: Sansoni, 1912); G. Marcovaldi,
Lectura Dantis Romana, 1956 (Torino: sei, 1964); A. Accame Bobbio, Lectura
Dantis Scaligera: Paradiso (1964), a cura di M. Marcazzan e S. Pasquazi
(Firenze: Le Monnier, 1968), pp. 629-658; G.Barberi Squarotti, Letture
dantesche: Paradiso, a cura di G. Getto (Firenze:Sansoni, 1970, la ed.
1964), pp. 365-385, poi ripresa in parte nel saggio sui canti xviii-xx, "Il
cielo della giustizia," in Lectura Dantis Modenese. Paradiso, a cura del
Comitato Provinciale Dante Alighieri (Modena: Banca Popolare dell'Emilia,
1986), pp. 151-186 (pp. 151-58); S. Vazzana, Lectura Dantis Romana (Torino:
sei, 1965); G. Salinari, Casa di Dante in Roma (1971) in Nuove letture
dantesche, vi (1973), pp. 209—234, poi in Dante e altri saggi, a cura di A.
Tartaro (Roma: Editori Riuniti, 1975), pp. 107—129; G. Iorio, Casa di Dante
in Roma, Paradiso. Letture degli anni 1979-'81, a cura di S. Zennaro
(Roma:Bonacci, 1989), pp. 469-496. Inoltre, spunti interessanti si trovano
in U. Cosmo, L'ultima ascesa (Bari: Laterza, 1936), pp. 245—255, e A. M.
Chiavacci Leonardi, Lettura del Paradiso dantesco (Firenze: Sansoni, 1963:
Nuova biblioteca del Leonardo, vi), passim. Il testo da cui si cita è: La
Commedia secondo l'antica vulgata, a cura di G. Petrocchi (Milano:
Mondadori, 1966-67).

2. Specialmente il Salinari, cit., pp. 213—14.

3. Sul significato dell'episodio di Casella e le sue implicazioni ha
fatto luce in maniera definitiva la critica nordamericana: si veda in
particolare R. Hollander, "Purgatorio II: the New Song and the Old," in
Lectura Dantis, vi (1990) 28—45, dove tutta la questione è sinteticamente
discussa con esauriente bibliografia.

4. Si veda per esempio canto xxiii, 70—72: "Perché la faccia mia sì
t'innamora / che tu non ti rivolgi al bel giardino / che sotto i raggi di
Cristo s'infiora?"

5. Così N. Sapegno nella sua edizione della Divina Commedia (Firenze: La
Nuova Italia, 1985, 3a ed.), vol. III, p. 227.

6. Cf. L. Scancarelli Seem, "Dante's Nine Worthies," di prossima
pubblicazione in Forum Italicum. Ringrazio la studiosa per avermi fatto
leggere il dattiloscritto dell'articolo e Robert Hollander per avermelo
segnalato.

7. La Divina Commedia, a cura di U. Bosco e G. Reggio (Firenze: Le
Monnier, 1979), vol. III, p. 295.

8. F. Figurelli, "I canti di Cacciaguida," in Cultura e Scuola, xiii-xiv
(1965), 634—661, p. 660.

9. Sapegno, cit., p. 227. Anche chi, come G. Iorio (op. cit., pp.
492—93), parla giustamente di "osmosi naturale" tra i canti di Marte e di
Giove, ravvisa però un allentarsi della tensione poetica nella rassegna di
Cacciaguida (p. 474). Analoga la posizione di A. Momigliano, per cui si
vedano la nota ai vv. 1-21 di Par. xviii e la nota al v. 147 del canto xx
nel suo commento alla Divina Commedia, vol. III (Firenze: Sansoni, 1970, la
ed., 1951), rispettivamente pp. 702 e 728-29. Da ultimo B. Maier: "in
questo Cacciaguida [quello del canto xviii] in veste di 'presentatore' non
riusciamo a ravvisare più il grande personaggio dei canti precedenti:
possiamo dire pertanto che il vero, autentico, poetico Cacciaguida scompare
con la fine del canto xvii," in "I canti di Cacciaguida," Lectura Dantis
Modenese, cit.,p. 150.

10. Sulla letteratura "esemplare" con riferimento specifico a Par. xvii
139-42 cf. C. Delcorno, Exemplum e letteratura. Tra Medioevo e Rinascimento
(Bologna: il Mulino, 1989), specialmente pp. 195—96.

11. Si veda: "il mio seme," xv, 48; "O fronda mia" . . . "io fui la tua
radice," xv, 88-89; "cara mia primizia," xvi, 22; "O cara piota mia," xvii,
13. I commenti ci informano opportunamente che la similitudine dell'albero
viene spesso impiegata sia dai mistici per designare la contemplazione, sia
nel linguaggio metaforico delle Sacre Scritture (Ezech. xlvii, 12; Ps. I,
3). Sulla metafora dell'albero nella Bibbia, vedi N. Frye, // grande
codice. La Bibbia e la letteratura, trad. it. G. Rizzoni (Torino: Einaudi
Paperbacks, 1985), pp. 195—199.

12. Rime civ, 73-80, a cura di G. Contini (Torino: Einaudi, 1970, 2a
ed.), p. 178. Si notino almeno due significative riprese: al "consolarsi e
dolersi" di "così alti dispersi" risponde ora a Par. xviii, 3 "temprando
col dolce l'acerbo"; a "l'essilio che m'è dato, onor mi tegno" risponde
Par. xviii, 135, "e ciò non fa d'onor poco argomento."

13. Sulle invocazioni si veda R. Hollander, Studies in Dante (Ravenna:
Longo, 1980), pp. 31-38.

14. Chi ha poi l'audacia di tentare questo superamento con la forza del
solo "ingegno" finisce come Ulisse, al cui canto (Inf. xxvi, 19—24), forse
non per caso, riportano proprio i sistemi rimici "vidi/diffidi/guidi" dei
vv. 7-12 e "vidi/guidi/nidi" dei vv. 107-111 di questo canto. E' un altro
elemento, benché minimo, che conforta l'associazione qui proposta in
apertura tra l'inizio di questo canto e l'episodio di Casella, il quale,
come è già stato illustrato da molti, si collega a quello di Ulisse: cf. di
nuovo Hollander, "Purgatorio II," già citato, ma anche il mio "Dante e
l'ingegno di Ulisse," in Stanford Italian Review, I (1979) 35-65, pp. 53 e
59-60. Del resto, proprio quando viene investito del suo ruolo profetico, è
essenziale che il poeta faccia professione di umiltà, riconoscendo che il
suo "ingegno" non vai nulla senza "che virtù nol guidi."

15. Cf. R. Hollander, Allegory in Dante's "Commedia" (Princeton, New
Jersey: Princeton University Press, 1969), pp. 297-300: "God's 'Visible
Speech'." Cf. inoltre G. Casagrande, " 'Esto visibile parlare:'A
Synaesthetic Approach to Purgatorio 10. 55-63," in Lectura Dantis
Newberryana, ed. P. Cherchi and A. C. Mastrobuono, II (1990), pp. 21-57, e
K. J. Knoespel, "When the Sky was Paper: Dante's Cranes and Reading as
Migration," ibid., pp. 121-146.

16. Vedi J. Chierici, L'Aquila d'Oro nel cielo di Giove (Roma: Istituto
Grafico Tiberino, 1962).

17. Vedi G. R. Sarolli, "Ingigliarsi all'emme (Par. xviii, 113).
Archetipo di pluriunivoca concordanza," in Atti del Congresso di Studi
Danteschi, II, (Firenze: Sansoni, 1966), pp. 237-254.

18. Cf. A. Niccoli, voci sapienza e Sapienza, Libro della, in
Enciclopedia Dantesca, v, 27—30.

19. K. Foster, The Two Dantes (London: Darton, Longman & Todd, 1977),
cap. 9: "The Sons Eagle: Paradiso xix," pp. 137-155.

20. Cf. The Roman Missal in Latin and English, a cura dell'Abbot Cabrai
(London: Herder, 1931, 8a ed.),p. 1183.1 testi e le traduzioni dalla
Bibbia, qui e in seguito, sono quelli della Bibbia volgare secondo la rara
edizione del I di ottobre mcccclxxi, ristampata per cura di C. Negroni
(Bologna: Romagnoli, Commissione pe' testi di lingua, vol. v, 1884 e vol.
vi, 1885).

21. Questa 'fonte' si trova già segnalata nel commento di L. Pietrobono
alla Divina Commedia (Torino: sei, 1943, rist. 3a ed.), vol. III, p. 225.

22. Barberi Squarotti, cit., p. 377.

23. Cf. G. Gorni, Lettera Nome Numero. L'ordine delle cose in Dante
(Bologna: Il Mulino, 1990), pp. 167-170.

24. Cf. Bosco-Reggio, cit., p. 319.

25. E' rilevante notare che l'introitus del Comune dei Martiri, qui sopra
citato, consiste dei versetti iniziali del Salmo 78: "Deus, venerunt gentes
in haereditatem tuam; polluerunt templum sanctum tuum: posuerunt Jerusalem
in pomorum custodia." [Iddio, sono venute le genti nell'eredità tua; hanno
contaminato il tempio santo; hanno posto Ierusalem in guardia de'
giardini.] Cf. The Roman Missal, cit. p. 1182. Più avanti, ai vv. 5—7 dello
stesso Salmo, si legge:
"Usquequo, Domine, irasceris in finem, accendetur velut ignis zelus tuus?
Effunde iram tuam in gentes quae te non noverunt, et in regna quae nomen
tuum non invocaverunt. Quia comederunt Jacob, et locum ejus desolaverunt .
..." (Il corsivo è mio.)
[Insino a quando, Signore, ti adirerai nella fine,accenderassi come fuoco
la tua vendetta? Spargi la tua ira sopra le genti che non ti hanno
conosciuto, e sopra li regni che non hanno invocato il tuo nome. Per che
hanno ingannato Iacob, e hanno disfatto il luogo suo.]
Si tratta certo di motivi topici. Eppure, non può essere senza significato
il fatto che essi appaiano riuniti insieme sia nel canto che Dante dedica
ai suoi "martiri" che nel rito dei martiri della Chiesa. Si prospetta una
duplice conclusione: il Comune dei Martiri è probabilmente nella mente del
poeta, quando egli compone questo canto, e questo canto vuol essere, anche
se forse soltanto in maniera subliminale, il canto del suo proprio
"martirio."

26. Il concetto e il termine 'sviare' ricorrono anche al ix, 127—31: "la
tua città . . . produce e spande il maladetto fiore / c'ha disviate le
pecore e gli agni," e al xxvii, 140-41: "pensa che 'n terra non è chi
governi; / onde si svia l'umana famiglia."

27. Come tale la interpretava già Pietro Alighieri: cf. G. Contini, ed.
cit., pp. 172—73.

28. Rime cxvi, 77-81, a cura di G Contini, cit., p. 210.

29. Si veda il magistrale contributo di E. Pasquini, "La terzultima
palinodia dantesca," in Atti della Accademia delle Scienze dell'Istituto di
Bologna. Classe di Scienze Morali, lxxii (1983-84) (Bologna, 1985), pp. 73-
82.

30. La proposta, poi generalmente accolta, risale al commento di G. A.
Scartazzini alla Divina Commedia (Leipzig: Brockhaus, 1900, 2a ed.: reprint
Bologna: Forni, 1965), vol. III, p. 503.

31. Cf. in particolare Inf. xxvii, 100—105. A stringere il nodo tra
l'episodio di Bonifacio e la chiusa di Paradiso xviii c'è non solo la
comunanza di tono e registro drammatico, ma anche la ripresa di alcuni
concetti significativi, quali quello di "guerra ingiusta" (Inf. xxvii, 85-
86, "Lo principe d'i novi Farisei, / avendo guerra presso a Laterano," e
Par. xviii, 126, "Già si solea con le spade far guerra") e quello
dell'abuso della potestà papale (Inf xxvii, 103, "Lo ciel poss'io serrare"
e Par. xviii, 129, "lo pan che '1 pio Padre a nessun serra," ripreso a sua
volta—e anche qui il fantasma di Bonifacio non è lontano—, a Par. xvii,
58—59). Sulla chiusa "comica" del canto xviii ha scritto note molto
penetranti A. Quaglio, in Commedia. Paradiso, a cura di E. Pasquini e A.
Quaglio (Milano: Garzanti "I grandi Libri," 1986), pp. 304-307.

32. San Bernardo, Sermones super Cantica canticorum, 85 8, in Patrologia
Latina, clxxxiii, 1191d: miei il corsivo e la traduzione.

33. Sbaglia quindi, a mio sentire, Harold Bloom, quando a proposito di
Par. xvii, 124—135 e in generale dell'episodio di Cacciaguida scrive: "ciò
che manca in questo magnifico encomio è la minima referenza a un tropo
biblico, sia esso profetico, come in Isaia e Geremia, o riferito a Cristo,
come nei Vangeli o in Paolo. La rivelazione di Dante appartiene solo a lui
e verrà espressa solo da lui," ecc., in Rovinare le sacre verità. Poesia e
fede dalla Bibbia a oggi, trad. it. C. Béguin (Milano: Garzanti "Saggi
Blu," 1992), pp. 53—54. Il "tropo biblico" c'è, ma, come credo di aver
mostrato, bisogna cercarlo più avanti nel testo: altro segno evidente che
il ruolo di Cacciaguida non termina col canto xvii.
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