Parmenides\' Polumathia: an inventory of his doxai [ 2016 ]

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Draft for the IAPS conference at Austin TX, June 2016 / Revised / Not for quotation

La polumathia di Parmenide: un inventario delle sue doxai Capire quanto sono serie le distorsioni che gravano sulla vulgata concernente Parmenide è, dopo tutto, facile. Tutti noi, presumo, siamo stati educati a credere che Parmenide sia stato il filosofo dell’essere e un grande filosofo, salvo a riconoscere che ci sono alcuni insegnamenti aggiuntivi (su una varietà di argomenti diversi, come il cielo e alcuni organismi viventi) che sembrano terribilmente fuori posto nel contesto di un poema dedicato a elaborare l’idea di essere. Di conseguenza, per moltissimo tempo è sembrato ragionevole trattare questi altri insegnamenti come delle aggiunte non significative, quindi trascurabili, che è il caso di ignorare. È questa la vulgata, vero? Ma si tratta di una rappresentazione seriamente distorta! La consapevolezza della distorsione (che include l’uso di prendere Parmenide per un filosofo) sta quanto meno aumentando, e a questo scopo è cruciale farsi un’idea precisa di quella parte del poema che verte non sull’essere ma su argomenti di tutt’altra natura. E siccome, che io sappia, non è ancora disponibile nessun inventario di questi insegnamenti aggiuntivi, ciò che propongo di delineare ora è precisamente un inventario degli insegnamenti che Parmenide ha posto (o sembra aver posto) in bocca alla dea una volta completata la trattazione sull’essere. Per prima cosa bisogna ovviamente individuare i contenuti, gli argomenti trattati, fermo restando che una migliore conoscenza del contenuto del secondo logos non equivale a capire come precisamente era strutturata la sezione naturalistica del poema. A Incomincerò soffermandomi su B10 e la ‘famiglia’ di argomenti che esso annuncia. Si delinea una serie di otto sub-trattazioni: [*1] αἰθερίαν φύσιν, la natura (o l’origine) dell’etere, [*2] ἐν αἰθέρι πάντα σήματα, tutti i segni che ci sono nell’etere, (potrebbe trattarsi dei punti luminosi, cioè delle stelle), [*3] il sole, in particolare gli effetti della luce solare. Vorremmo sapere a quali effetti si allude. Una possibilità è che si faccia riferimento alla luce solare che raggiunge la terra e la luna (più avanti: [*5.2]), se non le variazioni del clima sulla superficie della terra (più avanti: [9.3*]), [*4] la provenienza di questi effetti, [*5] le opere e la natura della luna dall’occhio rotondo, [*6] il cielo che circonda, [*7] da dove il cielo si originò, [*8] come Necessità legò (cioè costrinse) gli astri ad osservare regole o limiti ben precisi. Si può presumere che qui si alluda al divieto, per le stelle, di alterare le loro posizioni relative nella volta celeste. E che pensare dei pianeti? È possibile che Parmenide, pur essendo consapevole dell’esistenza di qualche corpo celeste cosiffatto, abbia deciso di non farne parola quando ha parlato dell’insieme.

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Questo annuncio in otto punti considera unicamente gli argomenti di carattere astronomico. Non per questo dobbiamo presumere che l’autore si sia qui impegnato a fornire una rassegna esaustiva degli argomenti che sarebbero stati affrontati nella sub-trattazione dedicata al cielo. Infatti B11 torna a menzionare i punti [*1], [*3], [*5], [*6], [*7], ma provvede anche ad aggiungere all’elenco due o tre nuovi argomenti: [*9] la terra (ritornerò su questo argomento nel prossimo paragrafo), [*10] il latte celeste (cioè la via lattea). È verosimile che Parmenide avesse da dire qualcosa di più sull’argomento, visto che Aezio menziona la via lattea tre volte in tre contesti differenti (in t. 61, 68 e 73 Coxon), [*11] il caldo vigore degli astri che rese possibile la loro comparsa (potrebbe trattarsi di una mera specificazione del punto [*7], o anche del punto [*4]). Anche B12 immette in circolo un altro bel gruppo di tematiche: [*12] la volta celeste, che – leggiamo – è costituita da una molteplicità di strati concentrici (le stephanai di alcune testimonianze) alcuni dei quali sono bui, mentre altri sono luminosi e altri costituiscono una sorta di miscela di luce e notte, [*13] la demone, che presiede sia alla congiunzione di femmine e maschi, sia al parto, e che risiede in mezzo a (o al centro di) tali sfere. B13 ci fa sapere inoltre che: [*14] la prima divinità generata (dalla demone?) fu Eros. B14 e B15 forniscono dettagli concernenti il punto [*5]. Essi vertono su: [*5.1] la natura e l’origine ‘anomala’ della luce lunare, [*5.2] la tesi secondo cui la luna guarda il sole ininterrottamente e di fronte. Dai frammenti non affiora niente altro. Chiaramente, solo pochi degli undici punti annunciate in B10-11 sono echeggiati in altri frammenti, mentre i dossografi hanno altro da riferire intorno ai punti [*4], [*6], [*7] e [*12]. I punti [*12], [*13] e [*14], a loro volta, forniscono Chiara evidenza dell’impressionante caduta di livello che si delinea quando la dea passa ad offrire questi insegnamenti del tutto arbitrari e quindi degni di un ‘mero’ poeta anche se, nell’ambito del secondo logos, la regola sembra essere, piuttosto, di mantenersi a un livello alto o molto alto. Peraltro, sembra che B12 e B13 costituiscano la più vistosa eccezione alla regola (ce n’è almeno un’altra: ne parleremo più avanti). Perché mai si riscontrino simili ‘eccezioni’ è una domanda alla quale si risponde molto a fatica. Estendiamo ora il campo di osservazione agli insegnamenti di tipo naturalistico di cui veniamo a conoscenza solo grazie alle fonti dossografiche. Affiorano due nuovi insegnamenti che non sono stati annunciati in B10-11 e non trovano riscontro in altri frammenti: [*15] la stella del mattino e la stella della sera sono, in realtà, la stessa stella (informazione fornita da Aezio e Diogene Laerzio: t. 65 e 123 C.), [*16] la possibile esistenza di una sezione dedicata a rendere conto della formazione del sistema terra-sole-luna-volta celeste. In questo caso, se non erro, disponiamo unicamente delle notizie dossografiche relative alla via lattea. In particolare Aezio (II 20.8a = A43 = t. 68 C.) riferisce che, secondo Parmenide, il sole e la luna si distaccarono dalla via lattea, il primo dalla miscela più rara, che è perciò calda, l'altra da quella più densa e quindi fredda. Con queste dichiarazioni è difficile non giungere alla conclusione che lo schema cosmogonico di Anassimandro venne

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probabilmente ripreso con nuove e originali congetture sul conto delle quali vorremmo sapere molto di più. Nell’insieme, si ha l’impressione che Parmenide abbia avuto molto di più da dire sul conto della terra che non sul conto del cielo, ma dalle nostre fonti non affiora nient’altro che concerna il cielo o la terra (a parte ciò che verrà riferito tra un momento, a proposito del punto [*9]). Che dunque qualche altro argomento sia stato trattato in questa sezione è certamente possibile, specialmente quando un insegnamento è documentato per Anassimandro o Empedocle, con i quali Parmenide ha chiaramente condiviso molti insegnamenti di carattere naturalistico, ma non per quest’ultimo. Questa, comunque, è solo una sezione (una grande sezione, quasi sicuramente la prima grande sezione) degli argomenti trattati dopo l’esposizione sull’essere. Altro sul punto [*9] Una volta completato l’elenco delle teorie concernenti il cosmo è doveroso approfondire i riferimenti alla terra. Molte ragioni inducono a presumere che sul conto della terra Parmenide abbia dato vita a una sub-trattazione impegnativa e ben argomentata. I suoi insegnamenti sulla terra furono infatti così complessi e innovativi da esporre l’autore al rischio di non essere capito e di non convincere nessuno, tanto più che le idee di base sue e di Anassimandro vennero rigettate non soltanto da Senofane e, prima di lui, da Anassimene, ma poi anche da Anassagora, Leucippo, Archelao e Democrito, mentre la nuova dottrina venne recepita e riproposta da Filolao, Platone, Aristotele e poi molti altri, tra i quali Ipparco e Tolemeo. Il punto [*9], d’altronde, è molto di più di una singola teoria: è un conglomerato di dottrine distinte, ma interconnesse, di primaria importanza: [*9.1] l’attribuzione alla terra di una forma sferica, quindi anche [*9.1.1] gli argomenti verosimilmente addotti a sostegno di questo punto quanto mai cruciale, [*9.2] la fondamentale tesi (condivisa con Anassimandro, ma contestata da Anassimene, Senofane e, come sembra, Eraclito) secondo cui il sole completa il suo percorso diurno passando sotto la terra; [*9.3] la ripresa della congettura di Anassimandro sulle ragioni per cui il fatto di avere un limite inferiore non contrasta con la stabilità della terra e non comporta il rischio che la terra precipiti nel vuoto (è notoriamente difficile, se non impossibile, distinguere tra gli argomenti addotti dal primo e quelli addotti dal secondo); [*9.4] il lancio delle primissime congetture su quello che per noi è il lato sud del mondo, in particolare [*9.4.1] l’ammirevole congettura sulle cinque grandi fasce climatiche caratteristiche della superficie terrestre e le complesse inferenze verosimilmente elaborate a sostegno di tale congettura. Di riflesso, Parmenide probabilmente pervenne all’ulteriore conclusione che [*9.4.2] la terra non ha un ‘sopra’ e un ‘sotto’ assoluti (una sorta di proto-relativismo?); e, molto probabilmente, anche alla [*9.4.3] elaborazione della nozione di antipodi, nonché alla coniazione di questo particolarissimo neologismo. A questo riguardo posso riferire che ho completato una ricerca

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espressamente dedicata a precisare il ruolo di Parmenide nell’ideazione della nozione di antipodi. Spero che possa diventare parte di un mio libro. Quanto alla sfericità della terra, disponiamo solo del poco che riferisce Diogene Laerzio in IX 21 (t. 41 Coxon) e VIII 48 (t. 44 C.), mentre non abbiamo evidenze dirette su [*9.1.1], [*9.2], [*9.4.2] e [*9.4.3]. A loro volta Aezio e Anatolio (t. 75 and 150 Coxon) autorizzano a presumere che Teofrasto abbia riferito qualcosa sulle ragioni per cui la terra è in grado di preservare la sua stabilità (= [*9.3]). Invece disponiamo di una documentazione molto più specifica riguardo alle cinque principali aree o fasce climatiche: ci sono evidenze dirette in Strabone, Posidonio, Aezio e Achille Tazio; evidenze ulteriori in Ippocrate, Platone, Aristotele e Teofrasto. Nel loro insieme, esse offrono ampio supporto al poco che apprendiamo intorno alla sfericità della terra. Questo articolato insieme di congetture è semplicemente meraviglioso. Ci parla di un Parmenide visionario, il cui strepitoso ardimento lo ha portato alla elaborazione di congetture che non solo hanno colto nel segno, ma hanno fatto epoca. Una volta stabilita la sfericità della terra, egli si è spinto a stabilire che la fascia torrida (equatoriale) della terra è collocate tra due fasce a clima temperato, in altre parole che la zona torrida che incomincia nei territori denominati Libia o Egitto, e il grande deserto che comincia in prossimità di quelle coste, pur essendo molto estesa, debba avere fine. All’altro estremo della fascia torrida circolare dovrebbe subentrare una seconda grande area o fascia a clima temperato, verosimilmente abitata al pari della nostra. Parliamo dunque di una grande zona torrida centrale che dai due lati cede il posto a due zone o fasce a clima temperato. E siccome la ‘nostra’ area temperata è situata fra una zona torrida e una zona fredda o freddissima, dobbiamo presumere che accada la stessa cosa con l’altra fascia a clima temperato. Da qui la teoria delle cinque aree o fasce. Sappiamo tutti che l’epoca delle grandi scoperte geografiche ha largamente confermato (e chiarito, precisato) queste congetture così straordinarie. Perciò è deprimente vedere quanto sia rimasta fredda, davanti a tutto questo, non solo la traditio ma anche la comunità scientifica del nostro tempo, come se l’ascrizione di congetture di questa portata a Parmenide fosse dubbia. Eppure, se la sua celebrità dipendesse solo dalle sue idee sulla forma e i climi della terra, Parmenide meriterebbe comunque una considerazione non minore di quella che ha come “filosofo dell’essere”. Va da sé che specialmente il gruppo di dottrine concernenti la terra avranno richiesto numerosi esametri per l’esigenza di svolgere un argomento complesso in maniera comprensibile e convincente. Questo è molto verosimile perché l’idea di terra sferica, di aree climatiche e di antipodi ha saputo ottenere il consenso degli esperti nella Grecia di età ellenistica e imperiale, oltre che nel caso di Platone, Aristotele e persone legate a loro due. Come tutto ciò poté essere formulato in esametri e sotto forma di insegnamento impartito al kouros, è però un’altra questione: In materia navighiamo nel buio. B È documentata anche un’altra grande sezione, paragonabile a quella che abbiamo appena esaminato. Questa ulteriore sezione verte sugli organismi viventi. Perciò il nostro catalogo continua con un’altra serie di insegnamenti.

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[*17] Anzitutto alcune osservazioni sul tipo di razionalità che affiora nel caso degli animali ed eventualmente di altre forme di vita. Aezio (t. 78 Coxon) riferisce che, secondo Parmenide e Democrito, nessun animale può essere alogon. Anche di Talete ed Empedocle si riferiscono qualcosa di comparabile (Talete avrebbe notato che certe cose sembrano apsuchos ma non lo sono). Perciò è verosimile che Parmenide abbia avuto anche altro da dire sull’argomento; [*18] osservazioni sui pori. Dato che ci sono ulteriori apporti di Empedocle, Anassagora e Democrito, è possibile che Parmenide sia stato un iniziatore; [*19] una curiosa congettura, condivisa con Empedocle e echeggiata da Democrito, su come vennero generati i primi uomini. Si direbbe che Parmenide, sapendo quale era stata la congettura di Anassimandro, l’abbia respinta perché troppo fantasiosa. Non si tratta, peraltro, di una vera fantasticheria, perché Parmenide poté pensare che, come le piante e gli altri animali, anche i primi esseri umani si sono formati “dalla terra” malgrado l’obiezione avanzata da Anassimandro. In secondo luogo è possibile che Empedocle abbia stravolto la congettura facendola apparire semplicemente ridicola anziché a congetture più meditate. Mi spiace soltanto di non potermi dilungare su questo punto per mancanza di tempo. È tempo ora di riferire sul conto di B17-18. Questi due frammenti abbracciano tre principali punti di dottrina: [*20] una congettura di prim’ordine sul ruolo attribuito alla femmina nella formazione del feto, nel senso che un patrimonio genetico di provenienza femminile c’è e ‘pesa’ tanto quanto il patrimonio genetico di provenienza maschile (B18, 1-3); [*21] l’idea che il buon esito dell’incontro dei due ‘semi’ (di cui si sottolinea la diversità) è ciò che permette di arrivare alla formazione di bene condita corpora (stessi versi). I successivi versi 4-6 ci propongono invece [*22] una congettura sulla fisiopatologia da cui verosimilmente dipendono i casi di incerta identità sessuale. Se qualcosa va male, può accadere che l’identità maschile e quella femminile non si fondano ma finiscano per coesistere, aprendo la porta a conflitti ricorrenti. Quando si delinea un irrisolta dualità di questo genere, il soggetto diviene campo di battaglia di due diverse identità, il che può finire per causare sofferenza. Leggiamo che le due identità sessuali, quando sono coesistenti, vexabunt chi si trova in quella condizione, ed è attraente aggiungere che vexabunt perché queste persone non sono capaci di dire a se stessi chi sono, se maschio o femmina, e come sarebbe il caso di comportarsi. Che Parmenide sia pervenuto a una conclusione così ‘avanzata’ e abbia trovato il modo di dirlo con poche inequivocabili parole mi sembra non semplicemente ammirabile: mi sembra fantastico, quasi incredibile. B17 e un gruppo di informazioni di seconda mano riferiscono inoltre che [*23] l’identità sessuale acquisita dal feto dipende dal fatto di annidarsi sulla destra o sulla sinistra (dell’utero, come sembra). Tuttavia è dubbio che B17 sia compatibile con B18; inoltre, mentre B18 fornisce congetture di primissimo ordine, B17 abbozza una spiegazione che, si ammetterà, scade nell’arbitrario. Ci sono altri quattro insegnamenti che hanno motivo di essere inclusi nella sezione sugli organismi viventi e tre di essi hanno attitudine a formare un solo giro di pensieri. Cominciamo con ciò che emerge da B16: [*24] il corpo è in grado di incidere sulla qualità delle operazioni mentali in molti modi. Parmenide sembra assumere che l’interazione può essere positiva, nel senso che la piena

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efficienza delle strutture corporee permette al noos (Teofrasto dice: alla gnōsis e alla dianoia) di funzionare al meglio, oppure negativa nel senso che inefficienze e disfunzioni hanno il potere di limitare o distorcere l’idea che la nostra mente si fa della realtà. Correlato è il dettagliato resoconto fatto da Teofrasto (De sensibus 4 = A46 DK = t. 45 C.) che introduce la nozione di percezioni negative: [*25] il cadavere non percepisce né luce, né calore, né voce, mentre percepisce il freddo, il silenzio e tutte le qualità contrarie quando viene meno il calore corporeo. A loro volta i dossografi riferiscono che: [*26] secondo Parmenide, il caldo e il freddo incidono in vario modo su ciò che percepiamo. Fonti diverse menzionano separatamente sei tipi di effetti: [*26.1] il ricordo e la dimenticanza (Teofrasto subito dopo aver riportato B16), [*26.2] l’assopimento (Tertulliano in A46b = t. 89 C., cf. Alcmeone 24A18), [*26.3] la relazione tra invecchiamento e attenuazione del calore corporeo (Aezio in A46a = t. 86 C.), [*26.4] le mestruazioni (Aristotele in A52 = t. 34 C.), [*26.5] la maggiore frequenza con cui in certe aree sarebbe stata più frequente la nascita di femmine e altrove di maschi (Aezio in A53 = t. 83 C.), [*26.6] e così pure, va da sé, la morte (cf. [*24]). È inverosimile che i punti [*24], [*25] e [*26] non fossero interconnessi. Questa enfasi sui condizionamenti fa pensare, anzi, che Parmenide abbia aderito all’idea omerica di personalità come soggetta ai più diversi condizionamenti. È dunque possibile che, sui molti modi in cui il nostro corpo è in grado di condizionare nel bene e nel male le funzioni mentali, Parmenide possa aver scritto molto di più. In linea di principio, egli potrebbe aver preso in considerazione anche varie forme di malattia (ad es. la cecità), tutte condizioni suscettibili di incidere sulle idee che ci formiamo riguardo alle cose più diverse. L’eventualità che questo insieme di notizie possa offrire qualche supporto alle congetture sulle connessioni con la cultura e la pratica medica non è esclusa ma, si noti, non è nemmeno confermata da questo particolare gruppo di notizie. Il nostro ultimo punto ha a che vedere con la vista, in particolare con [*27] la dinamica della visione, che dipenderebbe dai raggi emessi da ciascun occhio. I dettagli non li conosciamo, ma Aezio (A48 = t. 82 Coxon) riferisce che Parmenide chiarì le sue idee dia tōn poiēmatōn (a sorpresa viene usato il plurale). Come è noto, l’ipotesi che gli occhi emettessero raggi (o addirittura un fuoco: così Platone in Timeo 45b-e) sembrò a lungo senza alternative, tanto che venne fatta propria anche da Euclide nell’Ottica. Per quanto posso capire, alla sezione ‘biologica’ del poema sono ascrivibili solo questi undici insegnamenti. A confronto con la sezione sul mondo fisico, la possibilità che altri argomenti siano andati completamente persi è maggiore, dato che quanto ci è pervenuto è perfino più frammentato. Non emerge invece nessun indizio in grado di far pensare a una terza macrosezione. C Prima di prendere in considerazione gli altri due insegnamenti su cui ora mi soffermerò, varrebbe la pena di soffermarsi sullo speciale valore di alcuni dei 27 argomenti elencati fin qui, ma

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è preferibile affrettarsi a completare l’inventario. Altri due insegnamenti sembrano prendere forma, ma non sono oggetto di un insegnamento diretto ed esplicito. Anche per questo non rientrano nei due gruppi di argomenti finora passati in rassegna. Essi sono anche oltremodo differenti l’uno dall’altro. [*28] Martin Henn ha osservato che nel proemio (B1) c’è «no strife, no contrariety, no struggle for hegemony in which one force vies to destroy its equal and opposite» (2003, 12). Al contrario, il poeta sottolinea la pacifica accettazione di molte femmine (incluse le cavalla) da parte del kouros, il maschio che rimane solo mentre prende coscienza della loro multiforme operosità delle femmine che lo circondano. A loro volta B12.5-6 and B18.1 ci dicono che sono le femmine, non i maschi a prendere l’iniziativa delle relazioni sessuali. Inoltre, in B18 si parte dal presupposto che la formazione del feto dipende per metà dall’uomo e per metà dalla donna. Si assume inoltre che l’omosessualità sia l’effetto di un inconveniente involontario occorso durante la gravidanza e che l’omosessualità può riguardare sia maschi sia femmine. Tutti questi rilievi non possono essere non intenzionali. C’è un messaggio che essi trasmettono – non è una professione di femminismo ma il rifiuto del maschilismo – ed è un messaggio che ci raggiunge solo obliquamente. Qui mi basti ricordare quanto è stato difficile, per i moderni, pervenire a inquadrare correttamente questa intenzionalità non dichiarata del poeta. C’è un articolo di Heinrich Gomperz (1924), ad es., che è un memorabile concentrato di fraintendimenti. Che io sappia, nella giusta direzione hanno fatto almeno qualche passo Philip Merlan (1976), Rubén Soto Rivera (1999), Robert Henn (2003) e forse nessun altro. [*29] E finalmente la logica. Parmenide non ha inventato o insegnato come si formalizzano gli enunciati e i gruppi di enunciati disposti secondo un ordine deduttivo, ma ha pur sempre fatto dei passi cruciali in questa direzione. Non è certo un caso se B8 comincia con l’annuncio di una intera serie di demonstranda, poi segue un argomento volto a provare la fondatezza del primo attributo della serie, ὡς ἀγένητον ἐὸν καὶ ἀνώλεθρόν ἐστιν (B8.3). Le argomentazioni a sostegno di ἀγένητον e ἀνώλεθρον danno luogo a un enunciato conclusivo, οὕτως ἢ πάμπαν πελέναι χρεών ἐστιν ἢ οὐχί (verso 11), quindi a ulteriori considerazioni e a un ulteriore enunciato conclusivo, τὼς γένεσις μὲν ἀπέσβεσται καὶ ἄπυστος ὄλεθρος (verso 21), e quest’ultima clausola chiaramente ha molto in comune con il quod erat demonstrandum dei matematici. Per di più, qualcosa di comparabile si osserva anche ai versi 20, 25 e 30. Ce n’è già abbastanza per sospettare che Parmenide stava facendo del suo meglio per rendere visibile la forma del ragionamento e sottolineare la sua consequenzialità e cogenza. Questa fu, per l’epoca, una novità strepitosa che sembra articolarsi in quattro innovazioni principali: [*29.1] la serie dei demonstranda, [*29.2] l’ideazione di espressioni sorprendentemente affini al Quod erat demonstrandum, [*29.3] l’ideazione – e la realizzazione – di una serie molto lunga passaggi deduttivi ben concatenati, [*29.4] l’autorevolezza attribuita a ciò che si può considerare razionalmente dimostrato. Questi passi in direzione di una logica formale consapevole hanno offerto un formidabile sostegno alla teoria dell’essere e al suo impatto quasi in ogni epoca. Melisso e Gorgia seppero cogliere questa virtualità. Nondimeno, noi non abbiamo nessuna formalizzazione degli enunciati, né l’identificazione di principi e premesse, ma solo passi in questa direzione, e ha senso chiedersi di che cosa Parmenide poté rendersi conto a questo riguardo.

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Ne deduco che, di nuovo, affiora un insegnamento non dichiarato, e non si tratta di un insegnamento sull’essere, bensì di un insegnamento su come argomentare e rendere visibile (trasparente) la forma dell’argomento. Considerazioni conclusive Se il poema di Parmenide fu costituito non dal solo ‘trattato’ sull’essere, ma anche da due bei gruppi di insegnamenti ulteriori ([*1-15] e [*16-27]) su argomenti che vennero affrontati in maniera piuttosto approfondita, più due insegnamenti indiretti, il poema assume una identità diversa. Si chiarisce che Parmenide fu un cultore, anzi un cultore estremamente creativo, della polumathia. Infatti il suo sofisticatissimo poema si è dimostrato capace di trattare con appropriatezza argomenti diversissimi, e anche di suggerire ciò che per l’autore sarebbe stato, probabilmente, troppo azzardato dire apertamente (nel caso del punto [*28]) e ciò che probabilmente egli non era ancora in grado di trattare come un insegnamento a sé (nel caso del punto [*29]). Di conseguenza la teoria dell’essere cessa di costituire il marchio di identità di Parmenide e del suo poema anche se si vede bene che è stata proposta con la più grande enfasi. A sua volta l’autore merita di passare per l’ideatore di una serie di congetture e dottrine (inclusa, beninteso, quella dell’essere) che sono strutturate e lungimiranti come poche. Di conseguenza abbiamo bisogno di formarci una diversa idea dell’insieme e alcuni principi di interpretazione sono sul punto di collassare: tra questi l’uso di pensare che i frr. 1-9 includano idee precise sul conto degli insegnamenti del secondo logos. Infatti quegli insegnamenti sono difficilmente compatibili con i vincoli introdotti mentre la dea parlava dell’essere. Basti considerare quanto spesso queste dottrine sono in grado di reclamare un tasso di attendibilità non inferiore alla dottrina dell’essere. Nondimeno molte domande inedite si affacciano: che tipo di Peri Physeos può essere stato quello di Parmenide? Che tipo di discontinuità si è delineata tra il primo e il secondo logos? Parmenide fu consapevole di essere un cultore della polumathia? E siccome (A) il ‘nuovo’ Parmenide non emerge da papiri scoperti o decifrati solo di recente, ma dal ben noto capitolo 28 del Diels-Kranz; (B) Parmenide non seppe nulla della filosofia e non poté desiderare di essere considerato un filosofo, possiamo ben dire che stia affiorando tutto un altro Parmenide, un Parmenide sorprendentemente diverso da quello della vulgata, un Parmenide pressoché insospettato.

v. anche https://www.academia.edu/s/6192645d7b

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