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May 27, 2017 | Autor: Enrico Fenzi | Categoria: Petrarca
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PETRARCA POLITICO

UNIVERSITÀ DI GENOVA SCUOLA DI SCIENZE UMANISTICHE

PETRARCA POLITICO a cura di Francesco Furlan e Stefano Pittaluga

ISBN 978-88-6705-415-2

Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia (sezione D.AR.FI.CL.ET.) 2016

UNIVERSITÀ DI GENOVA SCUOLA DI SCIENZE UMANISTICHE

PETRARCA POLITICO a cura di Francesco Furlan e Stefano Pittaluga

Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia (sezione DARFICLET) 2016

Enrico Fenzi

Petrarca politico e diplomatico tra Genova e Venezia, 1351-1355

I. Con il suo solito modo tranchant Billanovich ha scritto: «Petrarca e la Liguria – è inutile citare vecchie chiacchiere sollecitate, sotto questo titolo, dalle celebrazioni d’un centenario – dovrebbe dire subito per i pochi esperti Petrarca e Guido Sette»1. È e non è vero. Lo è perché gli stretti, continui rapporti di Petrarca con il lunigianese di due o tre anni più vecchio di lui, amico d’infanzia e compagno di studi a Carpentras, a Montpellier, a Bologna, vicario generale del vescovo di Bologna Bertrando Acciaiuoli alla fine degli anni ’30, canonico e arcidiacono della cattedrale 1 . G. Billanovich, Petrarca e gli storici latini, in Id., Petrarca e il primo umanesimo, Padova, Antenore, 1996, pp. 377-458: p. 424 (si cita di qui, ma il saggio era già comparso in Tra latino e volgare. Per Carlo Dionisotti, Padova, Antenore, 1974, pp. 67-145). La polemica citazione va al volumetto celebrativo di E. Celesia, Petrarca in Liguria, Genova, Tip. Sordomuti, 1874. Va subito detto che in queste pagine di Billanovich è concentrato tutto l’essenziale che la vecchia e la nuova erudizione hanno raccolto intorno a Guido Sette e ai suoi rapporti con Petrarca, e ad esse dunque rimando come alla ‘voce’ sin qui più importante. Ma si veda ancora F. Poggi, Lerici e il suo castello, Genova, Impresa gen. d’affissioni e pubblicità già Montorfano e Valcarenghi, 1909, II, pp. 104-9; G. Zaccagnini, Guido Sette amico del Petrarca, in Parma a Francesco Petrarca. Atti […], Parma, Fresching, 1934, pp. 237-47, anche se con varie cautele circa le date. In particolare, per quanto ci interessa, vi si legge: «Il Petrarca stesso dice d’avere abitato per quasi due anni in Genova ospite di Guido», con rinvio a Fam. XIX 16 4, e tale soggiorno è fatto risalire al 1352-3: ora, la lettera a Guido, del 1357-8, rievoca in questo passo il soggiorno di Petrarca e del figlio Giovanni in casa Sette ad Avignone, ove si erano trasferiti da Valchiusa nel 1351(vd. E. H. Wilkins, Studies in the Life and Works of Petrarch, Cambridge Mass., The Mediaeval Academy of America, 1955, pp. 99-100). Si aggiunga, per il suo testamento: I documenti dell’Archivio Capitolare di Sarzana dal 1095 al 1776, a cura di E. Freggia, La Spezia, Accad. Lunigianense di Scienze Giovanni Capellini, 1989, p. 102, e V. Polonio, Genova, in V. Polonio – J. Costa Restagno, Chiesa e città nel Basso Medioevo: Vescovi e capitoli cattedrali in Liguria, in «Atti della Soc. Ligure di Storia Patria», n. s. (CIII) XXIX, 1989, pp. 167-8. Ci restano tredici lettere di Petrarca all’amico: Fam. V 16-17-18; XVII 3-4-5; XIX 8-9-10 e 16-17; XXIII 12; Sen. X 2: ad esse fa varie volte ricorso A. Foresti, Aneddoti della vita di Francesco Petrarca. Nuova edizione […] a cura di A. Tissoni Benvenuti, con una premessa di G. Billanovich, Padova, Antenore, 1977 (Ia ed. 1928), passim. (e vd. ora la completa ‘schedatura’ di R. Antognini, Il progetto autobiografico delle ‘Familiares’ di Petrarca, Milano, LED, 2008, pp. 153-4; pp. 238-40; pp. 257-9; pp. 289-90). Dell’amico, Petrarca parla anche nel De vita solitaria II 14, ed. Martellotti, in F. P., Prose, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, p. 560.

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di Genova dal giugno 1339, e poi arcivescovo della città dal 1359 alla morte, il 12 novembre 1367, hanno spesso, sullo sfondo, Genova. Non lo è, perché Guido sembra aver risieduto stabilmente a Genova solo dopo la sua nomina ad arcivescovo, mentre prima ha continuato a vivere nella sua casa di Avignone, e soprattutto perché la sua amicizia con Petrarca percorre vie personali poco condizionate dalla relativamente tarda e, dal punto di vista di quell’amicizia, affatto occasionale dimensione genovese, come esemplarmente mostra la Senile X 2, scritta da Venezia sulla fine del 1367, che davvero si può definire, con Billanovich, degna compagna della Posteritati. Di più, si ha anche il sospetto (ma basti qui l’accenno a un discorso che andrebbe meglio ripreso) che l’arcivescovo Guido Sette, probabilmente perché estraneo all’ambiente locale e rigido interprete delle direttive papali, non sia stato particolarmente amato dai genovesi. Per dirla in breve, insomma, come l’accoppiata Petrarca–Guido Sette può stare a sé, in relativa indipendenza da Genova, così l’accoppiata Petrarca–Genova non richiede sempre e necessariamente la presenza di Guido Sette, ma ha una storia tutta sua, anche se proprio in Genova Petrarca indica il luogo nel quale le loro vite hanno cominciato ad annodarsi. Nella citata Sen. X 2, 5, cominciando a rievocare le tappe della loro lunga amicizia, Petrarca infatti scrive: «Atque hic ego tuam Ianuam sileo, unde tunc nobis transitus fuit; cuius tu ortus in finibus, nunc pontificatus in vertice constitutus, nosti omnia; et ego quidem de his latius duci urbis illius et consilio scripsi olim epystolamque illam tibi cognitam et probatam scio»2. Nel 1311 ser Petracco si era trasferito a Pisa con la famiglia che l’anno seguente si era imbarcata alla volta di Marsiglia, per poi raggiungere definitivamente Avignone: dalla Senile sappiamo dunque che quel viaggio, finito avventurosamente con un mezzo naufragio presso Marsiglia3, aveva 2 . La lettera qui ricordata da Petrarca è la Fam. XIV 5 diretta nel 1352 al Doge e al Consiglio di Genova in occasione della guerra tra Genova e Venezia, e di essa si dovrà parlare meglio più avanti. 3 . Fam. I 1, 24: «Finis tusci erroris, Pise, unde rursus etatis anno septimo divulsus ac maritimo itinere transvectus in Gallias, hibernis aquilonibus haud procul Massilia naufragium passus, parum abfui quin ab ipso rursus nove vite vestibulo revocarer» (con il rursus, ‘di nuovo’, Petrarca si riferisce all’episodio riferito appena sopra, quando il servo che portava lui infante di sette mesi fu sbalzato di cavallo guadando l’Arno, e rischiò di morire affogato con il suo carico). Anche nella citata Sen. X 2, 41 si legge: «Quid nunc Pisas, ubi vite septimum annum egi?», mentre nella Posteritati: «Primum illum vite annum neque integrum Arretii egi […] octavum Pisis, nonum ac deinceps in Gallia Transalpina» (in Prose, cit., p. 8; p. 264 nell’ed. critica a cura di K. Enenkel, in Modelling the Individual. Biography and Portrait in the Renaissance […] ed. by K. Enenkel, B. de Jong-Crane and P. Liebregts, Amsterdam, Rodopi, 1998). L’anno pisano è certamente quello, settimo appunto, del 1311: per la discrepanza tra le lettere e la Posteritati, vd. F. Rico, Il nucleo della ‘Posteritati’ (e le autobiografie di Petrarca), in Motivi e forme delle Familiari di Francesco Petrarca, a cura di C. Berra, Milano, Cisalpino, 2003, pp. 1-19: pp. 8-10. Si è creduto che allora, in Pisa, il giovanissimo Petrarca abbia avuto l’occasione di incontrare Dante, compagno d’esilio di suo padre, come ricorda nella Fam. XXI 15 al Boccaccio, § 7: «In

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comportato una sosta a Genova, e da Genova era allora passato anche Guido Sette con la stessa finale destinazione, non però costretto dall’esilio, ma richiamatovi dallo zio Guido, importante prelato di curia che si era preso cura degli studi e della carriera del nipote. Ma lasciamo per ora Guido Sette, per dire che sul fanciullo Petrarca quel viaggio da Pisa a Genova ha fatto una grande impressione, e sta esplicitamente all’origine della famosa descrizione di Genova e della costa ligure vista dal mare che è nella Fam. XIV 5, 23-5, del 1352, ch’è quasi una costola staccatasi dalla descrizione che fa corpo con l’episodio relativo alla morte di Magone, nel sesto dell’Africa, 839-84, ove si va da Portofino a Sestri a Monterosso a Corniglia alla foce del Magra e si arriva infine rapidamente, dopo l’Argentario e Talamone, a Roma. E tale excursus geografico-descrittivo è poi ancora una volta replicato con qualche circostanza in più, specie per ciò che riguarda la città, nell’Itinerarium, §§ 10-20, del 13584. Molto ci sarebbe ancora da dire su questi pezzi di bravura5 nei quali, nonostante la primis quidem odii causas prorsus nulla est erga hominem nunquam michi nisi semel, idque prime pueritie mee parte, monstratum. Cum avo patreque meo vixit, avo minor, patre autem natu maior, cum quo simul uno die atque uno civili turbine patriis finibus pulsus fuit». Ma il Foresti, Peregrinazioni di Petrarca fanciullo, in Aneddoti, cit., pp. 6-7, tiene per fermo che l’incontro avvenne a Genova, alla fine del 1311, basandosi su alcune testimonianze circa la presenza di Dante in città (vd. P. Revelli, La Liguria nell’opera di Dante, in Dante e la Liguria, Milano, Treves, 1925, pp. 16-49: pp. 32 sgg.), e ora conferma ampiamente la cosa Giuseppe Indizio, Un episodio della vita di Dante: l’incontro con Francesco Petrarca, in «Italianistica», XLI, 3, 2013, pp. 71-80, al quale rimando. Tra l’altro, cosa che Indizio non manca di sottolineare, dal 21 ottobre di quell’anno sino al febbraio successivo Arrigo VII teneva corte proprio a Genova, ove, in novembre, sua moglie, Margherita di Brabante, morì (Villani, Nuova cronica X 24-37, ed. Porta, II pp. 231-7. 4 . Vd. F. P., Itinerario in Terra Santa 1358. A cura di Francesco Lo Monaco, Bergamo, Lubrina, 1990, pp. 42-48, e la bella ed. Petrarch’s Guide to the Holy Land. Itinerary to the Sepulcher of Our Lord Jesus Christ. With an Introductory Essay, Translation and Notes by Th. J. Cachey jr, Notre Dame Indiana, University of Notre Dame Press, 2002, §§ 1.1-6.0. che dà la perfetta e completa riproduzione fotografica del codice di Cremona, Bibl. Civica B. 1.2. 5., piuttosto tardo (fine ‘300 o primi ‘400), ma direttamente esemplato sulla copia che Petrarca ha fatto avere al destinatario, Giovanni Mandelli, nell’aprile del 1358. 5 . E molto è stato detto, per l’importanza fondativa che essi hanno nella storia e nella nozione moderna di ‘paesaggio’. Al proposito, oltre alle Introduzioni nelle citate edizioni di Lo Monaco e di Cachey, vd. P. Camporesi, Il mare e il littorale, in Id., Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, Milano, Garzanti, 1992, p. 110, ripreso sul punto nell’importante saggio di G. Bertone, Lo sguardo escluso. L’idea di paesaggio nella letteratura occidentale, Novara, Interlinea, 1999 (su Petrarca in particolare pp. 95-147). Vd. ancora A. Paolella, Petrarca e la letteratura dei viaggi nel medioevo, Napoli, Loffredo, 1990; Id., Petrarca e la letteratura odeporica del medioevo, in «Saggi e studi di critica testuale», 44, 1992, pp. 61-85; Id., Petrarca peregrinus an viator?, in «Annali d’Italianistica», XIV, 1996, pp. 152-176, e ancora, in un’ottica più specificamente geografica, il volume di N. Bouloux, Culture et savoirs géographiques en Italie au XIVe siécle, Tournhout, Brepols, 2002, che ha pagine fondamentali su Petrarca geografo e lettore di geografi (vd. in particolare il bel capitolo sull’Itinerarium, pp. 134-42); della stessa studiosa vd. pure Encore quelques réflections sur l’usage des cartes par Pétrarque, in «Quaderns d’Italià», 11, 2006, pp. 313-26; nella medesima rivista, vd. Francesco Stella, La grammatica dello spazio nel Petrarca latino, pp. 273-289, anche per le indicazioni di metodo, e infine P. Pontari, Pictura latens. La dispersa carta geografica d’Italia di Petrarca e Roberto d’Angiò, in «Rinascimento», s. II, XLIX, 2009, pp. 211-244. Da questi pochi titoli si trarranno anche le ulteriori indispensabili indicazioni

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fitta stratificazione culturale alla quale essi rimandano, dai libri geografici di Plinio il Vecchio a Solino a Pomponio Mela a Isidoro, la geografia costiera è vista da un occhio ‘marino’ che conserva una innegabile dimensione di realtà, e insomma trattiene l’eco di una esperienza diretta, del resto rivendicata apertamente dall’autore quando nell’Africa, VI 854-6, afferma d’essere il primo a celebrare quegli incantevoli luoghi della costa ligure di levante sino ad allora trascurati dai poeti: «Tunc, seu pigra situ, nulli seu nota poete / illa fuit tellus, iacuit sine carmine sacro, / hoc michi nunc cantanda loco», e quando ripete la stessa cosa nell’Itinerarium, § 19, pp. 46-8, citando se stesso e dicendo che il silenzio di scrittori e poeti «me movit, omnium qui scripserunt et ingenio et stilo et etate novissimum, ut in Africa mee quodam loco, idoneam nactus occasionem, loca ista describerem, caractere dicendique genere longe alio» (cioè nel ‘genere’ della poesia epica dell’Africa, e non in quello della prosa didascalica dell’Itinerarium). Se dunque nella Fam. XIV 5 egli riportava alla prima fanciullezza il ricordo della bellezza di Genova vista dal mare (§ 23: «Infans ego tunc eram, et vix velut in somnis visa commemini, quando sinus ille vestri litoris, qui et solis ortum respicit et occasum, non terrena sed celestis habitatio videbatur…», ecc.), nell’Itinerarium egli rimanda all’Africa, composta per la parte che ci interessa prima del 1343, quando, a Napoli, i versi che immediatamente seguono la descrizione geografica, VI 885-918, contenenti il ‘lamento di Magone’ furono fatti conoscere a Barbato da Sulmona che provvide a diffonderli e ad assicurare loro una specifica tradizione manoscritta6. Ora, la forza suggestiva dell’impressione provata a sette anni resta credibile, ma non basta per passare in un solo salto ai versi del poema, che richiamano altre e più adulte esperienze di viaggio. Quali possano essere, è presto detto. Nel 1321-2, durante l’anno di sospensione dell’attività didattica all’Università di Bologna, Petrarca ne profitta per viaggiare nel nord dell’Italia, e infine, da Pisa o da Genova torna via mare ad Avignone, donde poi, nell’autunno del ’22, ritorna a Bologna7. Nel 1336 fa il suo primo viaggio a Roma in gran parte per mare, da Marsiglia a Civitavecchia, probabilmente (vd. Fam. II 9, 28 e Fam. IV 6, 3, ove rievoca la partenza invernale, le tempeste e il mal di mare), e all’inizio dell’estate ritorna ad Avignone rifacendo, per quanto si può immaginare, lo stesso percorso. Nel febbraio 1341 ripete il viaggio (vd. ancora la Fam. IV 6), ma con destinaziobibliografiche. 6 . A rigore, ciò significa che solo i vv. 885-918 sono certamente stati composti prima del 1343, ma quelli che li precedono, vv. 839-84, relativi alla descrizione della costa da Genova a Roma, già li accompagnavano: lo conferma il successivo lavoro correttorio nei confronti della vetus Africa di cui dà conto V. Fera, La revisione petrarchesca dell’Africa, Messina, Centro di Studi Umanistici, 1984, pp. 260-7. 7 . Foresti, Aneddoti, cit., p. 25.

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ne Napoli, dove re Roberto lo esaminerà prima dell’incoronazione capitolina, avvenuta l’8 aprile di quell’anno. Tornerà ad Avignone alla fine dell’inverno del 1342, partendo da Parma, ma questa volta per via di terra, attraverso il valico del Monginevro8. In seguito, Petrarca farà un secondo viaggio a Napoli, nel settembre-ottobre 1343, complicato dal mare grosso nel Golfo del Leone: imbarcatosi a Nizza, deve fare sosta a Monaco; reimbarcatosi, sempre costretto dalla forza delle onde, passa una notte a Porto Maurizio; qui, compra alcuni cavalli e spediti per nave servi e bagagli prosegue lungo la costa sino all’altra estremità del golfo ligure, a Lerici, ove di nuovo si imbarca per sbarcare nel vicino porto di Motrone, oggi scomparso, a circa tre chilometri da Pietrasanta, tra Massa e Viareggio, e di qui compie il resto del viaggio per via di terra sino a Roma e Napoli9. Quando nella Fam. XIV 5 ai genovesi, dopo aver esaltato le bellezze della città viste dal mare, continua, § 25: «at si terra iter ageres, quem non stupor animi maximus habebat augustissimos et plusquam humanos virorum matronarumque habitus cernentem? Quis non viator medio calle torpebat, nunquam visas in urbibus delitias inter silvarum latebras et remotissima rura conspiciens?», come non pensare alla sua doppia esperienza di viaggiatore per nave e a cavallo per tutto l’arco della costa ligure? Che poi il linguaggio di Petrarca assuma cadenza e spessore iperletterario non deve cancellare, insomma, il momento originario dell’emozione visiva diretta che attiva e rilegittima il patrimonio culturale ma non si annulla in esso, come talvolta si tende a credere. In seguito, si sa, dinanzi ai disastri provocati dalla terribile tempesta napoletana del novembre del ’43 Petrarca ha giurato a se stesso di non fare più viaggi per nave (Fam. V 5, 19: «hoc unum michi certe prestiterit, 8 . Così con U. Dotti, Vita di Petrarca, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 103, che rinvia a uno dei Carmina dispersa: Linquimus Italia, che descrive il passaggio del Monginevro verso la Francia (era la via più comune, attraverso la valle di Susa e il Monginevro sino alla sorgente, nell’opposto versante, della Durenza). Vd. l’ed. Martellotti, in F. P., Rime, Trionfi e poesie latine […], Milano-Napoli, Ricciardi, 1951, p. 850, ma ora soprattutto F. P., Gabbiani. A cura di F. Rico, Milano, Adelphi, 2008, pp. 47-51 (la traduzione è di Gabriella Albanese) e pp. 83-84. Qui il componimento è datato dubitativamente al giugno 1351, come m’era sembrato di poter dire per gli stretti legami per opposizione che intrattiene con la famosa Epyst. III 24, Ad Italiam (E. Fenzi, Saggi petrarcheschi, Firenze, Cadmo, 2003, pp. 594 sgg.), ma potrebbe ben essere di dieci anni prima, come Rico stesso sottolinea, per la maggior corrispondenza tra il tempestoso paesaggio invernale e la stagione della traversata, nel caso febbraio-marzo. Resta difficile, in ogni caso, essere precisi, perché Petrarca passò molte volte le «nimis notas Alpes» (Epyst. III 1, 38: vd. anche Fam. XVII 6, 3, e XVII 10, 8). 9 . L’esatta ricostruzione del viaggio è nella Fam. V 3, 1-5, scritta a Giovanni Colonna da Napoli il 29 novembre. Parlando della breve navigazione tra Lerici e Motrone, Petrarca scrive: «coactus sum apud Hericem mari iterum me credere; et Corvum, scopulum ingentem a colore nominatum, ac Rupem candidam et Macre ostia ac Lunam, olim famosam potentemque nunc nudum et inane nomen, pretervectus, nocte concubia apud ipsum Mutronem, in Pisanorum castris, expositus, per terram absque insigni impedimento reliquum vie feci». Lerici, il capo Corvo, la Rupe bianca, la foce del Magra sono anche nell’Africa, VI 858 sgg., e vi è anche Luni con i palazzi di quand’era ‘famosa e potente’. Nell’Itinerarium, 18-20, tornano Lerici, capo Corvo, le foci del Magra e le rovine di Luni, e più avanti Pietrasanta e Motrone.

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ut te obsecrem ne me unquam amplius vitam ventis ac fluctibus credere iubeas. Hoc enim est in quo neque tibi neque Romano Pontifici neque patri meo, si ad lucem redeat, parere velim. Aerem volucribus, mare piscibus relinquo: terrenum animal terrestre iter eligo»), e tutto fa credere che abbia mantenuto la promessa. Così, dobbiamo pensare che per via di terra egli da Avignone sia arrivato a Genova nel novembre del 1347 donde, con la qualifica di ambasciatore papale, ha proseguito per Verona, latore di una lettera di Clemente VI a Mastino della Scala10. Il 22 e il 25 del mese, durante il viaggio scrive a Lelio e a Socrate, Fam. VII 5 e 6; il 28, già arrivato a Genova, sappiamo che acquista due volumi, l’Orazio laurenziano e il commento di Boezio al Perihermeneias di Aristotele, e il giorno dopo, 29, manda la famosa lettera a Cola con la quale gli annuncia il suo definitivo distacco da lui, Fam. VII 711. Sembra almeno probabile che proprio in questi giorni egli abbia meglio conosciuto gli ambienti cittadini ai quali non si presentava più come un giovane di passaggio ma come ‘poeta laureato’ e insomma come intellettuale di grido (l’acquisto dei codici lo dimostra), e azzardando qualcosa si può pensare che proprio allora abbia intrecciato qualche rapporto personale: non quello con il giovane e sconosciuto Bartolomeo genovese al quale scrive la Fam. XXI 4, probabilmente del 1357-812. Non quello con Galeotto Spinola, conosciuto solo nel corso dell’esilio di costui a Milano, probabilmente, come io penso, nell’estate-autunno 1353, come si deduce dalla Fam. XX 3 scritta qualche tempo dopo (sulla quale dovremo tornare)13. Con Marco Portonari, semmai, 10 . Su questa missione che mirava a creare difficoltà proprio a Cola, e sulla delicata posizione di Petrarca, vd. in particolare C. Cipolla, Sui motivi del ritorno di Francesco Petrarca in Italia nel 1347, in «Giornale storico della lett. italiana», XLVII, 1906, pp. 253-65, con l’edizione, nelle sue due versioni, della sin lì inedita lettera del papa che accreditava Petrarca come suo ambasciatore. E da ultimo E. Fenzi, Per Petrarca politico: Cola di Rienzo e la questione romana (Bucolicum carmen V, Pietas pastoralis), in «Bollettino di italianistica», VIII, 2011, pp. 49-88. 11 . La data e il luogo d’acquisto dei due codici risultano da due postille autografe identiche nell’uno e nell’altro: «Empus Ianue 1347 Novembris 28a», nella c. 2r del primo, l’Orazio, Biblioteca Medicea Laurenziana XXXIV 1, e nella carta 107v del secondo, il commento ad Aristotele, Par. lat. 6400. Vd. rispettivamente M. Feo, in Codici latini del Petrarca nelle Biblioteche fiorentine. Catalogo a cura di M. F., Firenze, Le Lettere, 1991, pp. 3-9 (la riproduzione, a cura di E. Rostagno, L’Orazio laurenziano già di Francesco Petrarca, Roma, Ist. Poligrafico dello Stato, 1933); E. Pellegrin, Manuscrits de Pétrarque dans les bibliothèques de France, Padova, Antenore, 1966, pp. 281-282; A. Petrucci, La scrittura di Francesco Petrarca, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana,1967, p. 126. 12 . Così, ragionevolmente, E. H. Wilkins, Petrarch’s Eight Years in Milan, Cambridge Mass., The Mediaeval Academy of America, 1958, pp. 238-9. 13 . Per l’interpretazione e la data di questa lettera, nella quale Petrarca si fa interprete dell’intenzione del Visconti di puntare sul vecchio esponente dell’aristocrazia genovese per riprendere il controllo di Genova, vd. l’ultimo paragrafo di questo saggio, nel quale discuto le diverse opinioni di Wilkins, Petrarch’s Eight Years, cit., pp. 155-156 (le sue conclusioni sono accolte da Dotti: vd. F. P., Le Familiari, traduzione e cura di U. D., collaborazione di F. Audisio, Torino, Aragno, 2008, tomo IV, p. 2805).

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al quale indirizza le Fam. III 12, XVII 9 e XX 4. Nella prima, scritta da Valchiusa un imprecisato primo di gennaio, Petrarca risponde al giovane ammiratore definendosi, rispetto a lui, seniculus e facendo chiaramente intendere d’averlo conosciuto di persona quattro anni prima, il che mi induce a credere che la loro conoscenza risalga appunto al novembre-dicembre del 1347, e che il primo gennaio valchiusano della lettera di Petrarca sia quello del 1352. La seconda (la terza non offre agganci particolari), che Wilkins ha datato al 1353 sulla sola base della sua posizione tra le altre del libro, non è di facile interpretazione: Petrarca, che sarebbe uscito allo scoperto, esponendosi troppo («qui tutius latuissem»), esorta Marco a non essere troppo indulgente nel giudicarlo, tanto più che ciò rischia di riuscire controproducente presso i suoi amici che potrebbero accusarlo del male inescusabile di una insolentia che in verità non gli appartiene. Di che si tratta? In un primo momento avevo pensato alla tempesta di polemiche suscitata dalla decisione di Petrarca di stabilirsi a Milano sotto la protezione dei Visconti. Ora, considerando che l’unico termine preciso è appunto l’insolentia, non ne sono più tanto convinto, e preferirei intendere che l’eventuale colpa di Petrarca che tanto può irritare gli amici genovesi di Marco sia stata quella di essersi intromesso nella questione della guerra tra Genova e Venezia, e nel dispensare consigli e giudizi non richiesti ai governanti delle due città14: in entrambi i casi, come si vede, quella data sarebbe del tutto appropriata. II. Abbastanza rapidamente siamo arrivati al punto o, meglio, al salto che divide il personale rapporto di Petrarca con Genova, a partire dal lontano 1312 sino al 1347, dalla successiva, matura stagione nella quale Genova diventa per Petrarca uno dei poli del complesso gioco politico italiano entro il quale egli comincia ormai ad agire con continuità in veste di diplomatico. Al proposito, è opportuno ricordare velocemente che Petrarca già era stato incaricato dal cardinale Colonna e da Clemente VI di una missione presso la corte di Napoli, nel 1343, per ottenere dalle regine Sancha e Giovanna la liberazione dei conti d’Altamura; sopra, ho accennato a un’altra missione, nel 1347, presso Mastino della Scala, che comportava la qualifica di ambasciatore del papa, mirante a impedire l’ingresso in Italia di Luigi d’Ungheria, dal quale Cola, a Roma, s’aspettava aiuto. Né queste prime esperienze vanno da sole, sia perché Petrarca le affronta con occhio attento alle loro implicazioni e su di esse sa costruire una fitta rete di relazioni, sia perché s’accompagnano a una lunga serie di interventi di tipo personale, estremamente reattivi 14 . Vd. E. Fenzi, Ancora sulla scelta filo-viscontea di Petrarca e su alcune sue strategie testuali nelle Familiares, in «Studi petrarcheschi», n. s. XVII, 2004, pp. 61-80: pp. 78-79.

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nei confronti di varie situazioni. Potremmo partire da lontano, dall’Epystola in versi I 3 a Enea Tolomei (1331), in occasione della discesa in Italia di Giovanni I di Boemia, alle 2 e 5 dello stesso libro (1336 e 1337) dirette a Benedetto XII, esortandolo a riportare a Roma la sede del papato15, per arrivare alle Sine nomine e al Bucolicum carmen, opere intrise non solo di passioni e giudizi morali ma anche esplicitamente politici. In questa sede non posso fare di più, ma voglio almeno sottolineare, anche in funzione di quanto si dirà circa il Petrarca ‘visconteo’, la progressiva strategia di avvicinamento ai Visconti alla fine degli anni ’40, quando Petrarca, per il tramite di Gabrio Zamorei e soprattutto di Paganino da Besozzo che dal 1346 governava Parma per conto di Luchino Visconti, strinse ottimi rapporti con lo stesso Luchino e con l’arcivescovo Giovanni, e individuò in Milano e nel dominio visconteo l’ambiente più adatto alle sue esigenze qualora si fosse trasferito dalla Provenza all’Italia, come da tempo meditava di fare. Questa strategia tra altre cose produsse l’importante Fam. III 7, Ad Paganinum Mediolanensem, temperandum imperii appetitum et de optimo reipublice statu, una sorta di breve institutio regia, e cioè un insieme di esortazioni e consigli che Paganino è incaricato di far arrivare al signore, Luchino Visconti. Qui sono già perfettamente definiti i contorni di quel ruolo del quale Petrarca s’investe e al quale non verrà mai meno di ‘voce’ che riporta l’empirica e complessa realtà della lotta politica al vaglio dei suoi principi e dei suoi scopi ultimi (e ciò non coincide affatto, vedremo, con l’accusa che fa di lui un rètore innocuo e soddisfatto, appagato dai privilegi di cui gode presso il mecenate di turno). Tale lettera costituisce inoltre una sorta di archetipo per più corpose iniziative successive, come la Fam. XII 2 mandata nel febbraio 1352 a Niccolò Acciaiuoli quale somma di precetti per ben governare da far avere al re di Napoli Luigi di Taranto, e soprattutto come la tarda e lunga Sen. XIV 1, del 1373, direttamente indirizzata a Francesco da Carrara signore di Padova16. 15 . Per queste prime prove ‘politiche’ vd. Dotti, Vita, cit., pp. 30 sgg. Le Epystole sono ora leggibili nell’ed. tedesca. F. P., Epistulae metricae. Briefe in Versen. Herausgegeben, übersetz und erläutert von O. und E. Schönberger, Würzburg, Königshausen & Neumann, 2004. 16 . Vd. in particolare Fenzi, Ancora sulla scelta filo-viscontea, cit., pp. 68-72. E vd. ora il recentissimo saggio di L. Hermand-Schebat, Pétrarque et Jean de Salisbury: miroir du prince et conceptions poliques, in La bibliothéque de Pétrarque. Livres et auteurs autour d’un humaniste. Actes […] M. Brock, F. Furlan, F. La Brasca (edd.), Tournhout, Brepols, 2011, pp. 177-95, ove si considera in particolare la Sen. XIV 1, e donde si trarranno le principali indicazioni bibliografiche circa il genere degli specula principis. Ma molto si ricaverà da M. Kerner, Randbemerkungen zur Institutio Traiani, e da T. Struve, The importance of the organism in the political theory of John of Salisbury, entrambi in The world of John of Salisbury, ed. by M. Wilks, Oxford, Blackwell, 1994, rispettivamente pp. 203-6 e 303-17, e dal volume della ‘Micrologus Library’: Consilium. Teorie e pratiche del consigliare nella cultura medievale, a cura di C. Casagrande, C. Cristiani, S. Vecchio, Firenze, SISMEL Ed. del Galluzzo, 2004 (per es. dal saggio di S. J. Williams, Giving advice and taking it: the reception by rulers of the pseudo-aristotelian Secretum secretorum as a Speculum principis, pp. 139-80). Vd. ancora M. Sarnelli, Premesse per la delineazione di figure protagonistiche nella storiografia dell’Umanesimo: il Rex/Princeps/Dux belli (e Pacis), in «Studi

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Questi accenni vogliono solo dire, in sostanza, quanto la dimensione in senso lato ‘politica’ governi sin da principio la vita di Petrarca e informi i suoi scritti con una costanza e un’intensità che meriterebbero d’essere finalmente meglio considerate. Con ciò, resta vero che dopo il coinvolgimento nell’esperienza di Cola di Rienzo nell’estate –autunno del 1347 e dopo la grande peste del 1348, l’impegno di Petrarca, al volgere del decennio, subisce un incremento notevolissimo e, come vedremo, un altrettanto forte salto di qualità: lo mostrano bene i suoi interventi relativi alla guerra tra Genova e Venezia, tra il 1351 e il 135517. In estrema sintesi: • il lungo scontro tra Genova e Venezia ha una forte accelerazione nel corso del 1350, dopo che i genovesi hanno conquistato l’isola di Scio nel 1346 e ripreso il controllo di Focea e Pera, e pretendono di dominare il Mar Nero vietandone la navigazione ai veneziani, che essi vogliono allontanare da Tana, sul mare d’Azof, capolinea orientale del traffico marittimo. Le galere venete nell’autunno attaccano e depredano un convoglio di galere genovesi a Kastri, al largo di Negroponte, ma una parte di esse scampa e, riunitasi con altre, poco dopo la metà d’ottobre occupa e saccheggia Negroponte, mentre il bailo veneziano della città, Tommaso Viaro, fugge (sarà portato in catene a Venezia per ordine del Dandolo, ma per motivi di opportunità non vi sarà processato). Andrea Dandolo, doge dal 1343, si prepara alla guerra vera e propria e stringe un patto quinquennale d’alleanza con Pietro IV d’Aragona, da sempre avversario di Genova per il controllo della Sardegna, firmato a Perpignan il 16 gennaio 1351, e con l’imperatore bizantino Giovanni IV Cantacuzeno, ostile alla presenza genovese; • il 18 marzo 1351, da Padova, Petrarca scrive ad Andrea Dandolo la Fam. XI 8, esortandolo alla pace; ad essa il Dandolo risponde il 22 maggio con la sua Promissam diuque optatam18; veneziani», n. s. XLVIII, 2004, pp. 15-39, per le dense pagine su Petrarca (e ulteriori indicazioni bibliografiche, pp. 23 sgg.). Per le due institutiones petrarchesche in particolare vd. F. P. Tocco, Niccolò Acciaiuoli. Vita e politica in Italia alla metà del XIV secolo, Roma, Istituto storico it. per il Medio Evo, 2001, pp. 130-133, e B. G. Kohl, How a Ruler Ought to Govern his State, in The Earthly Republic. Italian Humanists on Government and Society, ed. by B. G. K., R. Witt with E. B. Welles, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1978, pp. 24-78 (alle pp. 35-78 la traduzione della Sen. XIV 1 al Carrarese). 17 . Tra la bibliografia che sarà via via citata, vd. ancora, in particolare, A. Sorbelli, La lotta tra Genova e Venezia per il predominio del Mediterraneo. I. 1350-1355. Memoria di A. S. presentata il 13 marzo 1911 […], Bologna, Industrie Grafiche Italiane, 1921, da «Memorie della regia Accademia di Scienze dell’Istituto di Bologna. Classe di Scienze morali - Sezione di Scienze storico-filologiche», s. I, IV, 1910-11, pp. 87-157. E dico subito che sin qui le considerazioni più attente circa la lucidità propriamente politica mostrata da Petrarca nei suoi interventi presso il Dandolo e la repubblica genovese mi sembrano quelle di D. Bigalli, Petrarca: dal sentimento alla dottrina politica, in Motivi e forme delle Familiari di Francesco Petrarca. Gargnano del Garda (2-5 ottobre 2002), a cura di C. Berra, Milano, Cisalpino, 2003, pp. 99-118: in part. pp. 112-5. 18 . Questa e l’altra lettera del Dandolo a Petrarca (vd. avanti) si leggono ora nell’edizion

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• il 28 maggio 1351 Pietro IV d’Aragona comunica al Dandolo il primo piano di guerra, al quale il Dandolo risponde in giugno19; • febbraio 1352, mar di Marmara: scontro durissimo tra la flotta genovese di Paganino Doria e quella veneziana-catalano-aragonese. Tutti si proclamano vincitori, ma in verità la spedizione contro Genova è fallita20. Dopo di che la flotta catalana non abbandonerà più il mediterraneo occidentale, nonostante le proteste veneziane, e il 6 maggio l’imperatore bizantino è costretto alla pace separata con Genova sulla base di un trattato che conteneva pesanti clausole anti-veneziane21. • il primo novembre 1352, da Avignone, Petrarca scrive la Fam. XIV 5 al Doge e al Consiglio di Genova; • nel febbraio-marzo 1353, probabilmente da Avignone (dal maggio-giugno è a Milano, presso i Visconti), Petrarca scrive la Fam. XIV 6 al Doge e al Consiglio di Genova, incitando alla guerra di Sardegna insieme a Mariano IV d’Arborea contro Pietro IV d’Aragona; • il 20 agosto 1353 la flotta genovese comandata da Antonio Grimaldi è duramente sconfitta presso Alghero dalla flotta veneta del Pisani e da quella catalana: da questo momento Pietro IV, che subito dopo occupa Alghero (ma dovrà riconquistarla l’anno successivo), non ha più ragioni per proseguire nell’alleanza con Venezia 22; • dopo la sconfitta genovese, nel settembre, da Milano, Petrarca scrive critica fornita da E. Rausa, Le lettere di Andrea Dandolo, Benintendi Ravagnani e Paolo de Bernardo a Francesco Petrarca, in «Studi petrarcheschi», n. s. XIII, 2000, rispettivamente pp. 180-4 e pp. 193-197. 19 . Vd. C. Manfroni, Il piano della campagna navale veneto-aragonese del 1351 contro Genova, in «Rivista marittima», XXV, 1902, pp. 323-32. Dal piano, in tutte le sue possibili varianti, risulta abbastanza chiaro il gioco degli aragonesi che, interessati solo al controllo della Corsica e della Sardegna, non avevano alcuna voglia di mandare le loro navi in oriente, come pure era previsto, ma nello stesso tempo erano obbligati a farlo se volevano armare le loro galee con i soldi promessi dai veneziani (vd. avanti, nota 45). Per il coté occidentale della guerra, che coinvolge essenzialmente Genova, vd. l’ampio saggio di G. Meloni, Genova e Aragona all’epoca di Pietro il Cerimonioso, Padova, CEDAM, 1971, I (1336-1354), in particolare cap. III-VI, pp. 83-214, che al centro del suo lavoro mette la Sardegna e la politica di Pietro IV nei confronti dell’isola. Per l’alleanza veneto-aragonese e le clausole del trattato, vd. Sorbelli, La lotta, cit., pp. 109-116 (la formale dichiarazione di guerra di Pietro IV contro Genova è del 3 agosto 1351). 20 . Vd. Manfroni, Il piano, cit., p. 331; A. Sorbelli, La lotta, cit., pp. 142-52; M. Balard, A propos de la bataille du Bosphore. L’expédition de Paganino Doria à Costantinople (1351-1352), in «Travaux et mémoires». Centre de Recherche d’Histoire et Civilisation Byzantines, 4, 1970, pp. 431-460 (con appendice di documenti, pp. 460-469). Per lo Zurita, naturalmente, i genovesi sono stati sconfitti (Anales de la Corona de Aragon compuestos por Jeronimo Zurita. Ed. preparada por A. Canellas Lopez, Zaragoza, Institución ‘Fernando el Católico’ (CSIC), 1978, VIII 46, t. IV, pp. 211. Vd. nota 59. 21 . Una analisi delle clausole del trattato con il Cantacuzeno è in C. Manfroni, Le relazioni fra Genova, l’impero bizantino e i turchi, in «Atti della Società ligure di storia patria», XXVIII fasc. 3, 1898, pp. 575-858: pp.709-13. 22 . Vd. Matteo Villani, III 79-80, ed. Porta, Parma, Guanda, 1990, I, pp. 420-420-6, per la descrizione della battaglia e le successive vicende di Sardegna; Meloni, Genova e Aragona, cit., pp. 149-79.

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all’amico Guido Sette, eletto arcidiacono di Genova ma sempre residente in Avignone, la Fam. XVII 3, commentando la sconfitta, e poco dopo (settembre-ottobre), gli scrive la Fam. XVII 4, con la quale dà conto della conclusione dell’ambasciata genovese che aveva rimesso la signoria della città e di tutta la riviera nelle mani dell’arcivescovo, e del personale colloquio con alcuni membri di essa. Il 9 ottobre è deposto il doge genovese Giovanni di Valente, ed a governare la città per conto del Visconti è inviato Guglielmo Pallavicini di Cassano; • dopo che Genova s’è posta sotto la protezione del Visconti la guerra si radica a occidente, e diventa una guerra italiana23: in questo preoccupante quadro Petrarca è mandato ambasciatore a Venezia dal Visconti: secondo Wilkins nei primi mesi del 1354, secondo Godi nel novembre 1353. Petrarca ne parla nel maggio 1354 nella Fam. XVIII 16 al Dandolo (vd. sotto), e la ricorda circa diciassette anni dopo, nell’aprile 1373, nella Sen. XVII 2 al Boccaccio24; • Venezia a questo punto reagisce cercando di formare una lega anti-viscontea con Padova, Verona e l’imperatore Carlo IV (19 marzo 1354). Mentre il papa cerca un accordo tra Carlo IV e i Visconti e cominciano le prime ostilità (la ‘guerra di Modena’), Petrarca il 28 maggio scrive al Dandolo una lettera, Fam. XVIII 16, alla quale il Dandolo risponde il 13 giugno con la sua, Amice dum singulare. Ma Petrarca ebbe il testo di questa lettera solo nel gennaio 1356 (il Dandolo era morto nel settembre 1354), accompagnata da una lettera del cancelliere veneziano Benitendi Ravignani presso il quale si era lamentato di non avere mai avuto la risposta del Doge25; 23 . «la guerra, con l’intervento dei Visconti, s’era spostata in Occidente, riguardava ormai la Venezia italiana, non più la Venezia orientale». Così G. Cracco, Società e Stato nel medioevo veneziano, Firenze, 1967, p. 400, citato da G. Arnaldi, Andrea Dandolo Doge-Cronista, p. 158 (vd. avanti, nota 28). 24 . C. Godi, Il Petrarca «inutilis orator» a Venezia: l’arringa per la pace tra genovesi e veneziani, in Vestigia. Studi in onore di Giuseppe Billanovich, a cura di R. Avesani et alii, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1984, I, pp. 399-416. Qui, pp. 412-6, il testo dell’orazione tenuta nell’occasione da Petrarca a Venezia alla presenza del doge e del Senato nella sala del Maggior Consiglio, dall’unico ms. che la conservi, Vienna, Oest. Nationalbibliothek 4498, ff. 104v-106v. L’orazione, avverte l’editore, p. 410, è «stranamente opaca e povera nella sostanza; forse ha questo aspetto dimesso perché trasmessaci in forma abbreviata, e ripresa quasi da un regesto o transunto ufficiale». Qualcosa di simile diceva già l’editore ottocentesco R. Fulin, Il Petrarca dinanzi alla Signoria di Venezia. Dubbi e ricerche, in Petrarca e Venezia. Nel V Centenario di F. Petrarca, Venezia, Cecchini, 1874, pp. 297-327: pp. 304-5. Nella tarda Senile Petrarca scrive: «Semel Venetias pro negotio pacis missus inter urbem illam et Ianuam reformande, hibernum in hoc mensem integrum exegi» (in F. P., Prose […], Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, p. 1148). Circa la data, Godi, pp. 407-8, accetta quella più alta, 8 novembre 1353, sulla fede del codice, ma restano convincenti le osservazioni di E. H. Wilkins, Petrarch’s Eight Years in Milan, Cambridge Mass., The Mediaeval Academy of America, 1958, pp. 57-60, che pensa ai primi mesi del ’54. 25 . Il testo nella cit. edizione Rausa, pp. 193-7 (vd. nota 17). Ma vd. qui, pp. 189-92, sul sospetto che la risposta del Dandolo sia in realtà opera, lui morto, del suo cancelliere Benintendi :

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• nell’agosto la flotta genovese guidata da Paganino Doria è nell’Adriatico, e saccheggia Parenzo; la stessa Venezia è minacciata, tanto che l’ingresso della laguna viene sbarrato con catene. In questo frangente il Dandolo s’ammala; • alla metà d’ottobre 1354 Carlo IV scende per l’incoronazione26: ma il Dandolo in settembre, e Giovanni Visconti in ottobre, sono già morti. Petrarca, che si rallegra con lui per la sua venuta nella Fam. XIX 1, lo incontra nel dicembre a Mantova, e da qui l’imperatore rinnova la nomina a vicari imperiali ai tre fratelli Visconti, Matteo, Bernabò e Galeazzo. Intanto, in novembre, i genovesi riportano un’importante vittoria sui veneziani a Portolongo presso l’isola Sapienza, lungo le coste del Peloponneso27; • il giorno dell’Epifania 1355 Carlo IV è incoronato re d’Italia a Milano, in Sant’Ambrogio, da un legato papale, e il 5 aprile è incoronato imperatore a Roma dal cardinale Bertrand de Colombier. L’1 giugno 1355 si conclude finalmente la pace tra Genova e Venezia, stipulata a Milano. Vi si ripetono sostanzialmente le clausole del vecchio trattato del 1299, definendo le rispettive sfere di interesse: l’Adriatico per Venezia e il mare tra Pisa e Marsiglia per Genova, con reciproca interdizione, e vietandosi entrambi per tre anni il commercio con la colonia commerciale di Tana28. Poco dopo la firma del trattato, Carlo IV parte dall’Italia. Quanto ho sin qui riassunto è già stato ampiamente studiato, naturalmente, sia sul versante propriamente storico che su quello che riguarda Petrarca29, al punto che si potrebbe pensare che una buona bibliografia rasospetto che però la studiosa finisce per rigettare. 26 . Il racconto completo della discesa in Italia di Carlo IV è in F. Baldasseroni, Relazioni tra Firenze, la Chiesa e Carlo IV, in «Archivio storico italiano», s. V, XXXVII, 1906, pp. 3-60 (ibid., pp. 322-47, una Appendice di documenti). Ma vd. pure G. Romano, Nota all’itinerario della prima spedizione in Italia di Carlo IV di Lussemburgo (1354-1355), in «Archivio storico lombardo», s. III, XXII, 1895, pp. 78-97. 27 . Di questa battaglia, caratterizzata dalle quasi nulle perdite genovesi e dalle enormi dei veneziani, in termini di uomini e navi, vd. il minuzioso racconto che ne fa Matteo Villani, IV 32, ed. Porta, cit., pp. 517-21. 28 . Il testo del trattato di pace, sottoscritto in presenza e con la mediazione di garanzia dei tre fratelli Visconti, Matteo II, Galeazzo II e Bernabò, è ora in I Libri Iurium della repubblica di Genova, vol. II/3, a cura di F. Mambrini, Genova, Società ligure di Storia patria [Fonti per la storia della Liguria, XXII], 2011, n° 313, pp. 433-52. Vd. anche il regesto in P. Lisciandrelli, Trattati e negoziazioni politiche della Repubblica di Genova (958-1797): regesti. Con prefazione di G. Costamagna, in «Atti della Società ligure di Storia patria», n.s. I (LXXV), 1960, n° 597, 1 giugno 1355, p. 118. Tale trattato è presentato come sfavorevole per i veneziani da Matteo Villani, V 45, ed. Porta, cit., p.667-8. 29 . Oltre a ciò che è stato citato sin qui (in particolare Sorbelli, La lotta tra Genova e Venezia), e ciò che lo sarà in seguito, ricordo alcuni contributi importanti, a cominciare da un vecchio studio russo, del 1860, di M. Volkov, La rivalità tra Venezia e Genova nel secolo XIV,

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gionata sarebbe a questo punto largamente sufficiente. Ma, come sempre del resto, non è proprio così, e nonostante gli ottimi contributi in proposito si può ancora dire qualcosa su Petrarca, per meglio contestualizzarne e giudicarne l’azione. Il fatto è, per dirla in breve e ripetendo un’osservazione che già altre volte m’è capitato di fare, che ancora agisce l’ombra lunga degli impietosi giudizi di De Sanctis che di Petrarca ha fatto il prototipo del letterato italiano asservito ai potenti e gonfio di una retorica tanto inutile e frivola quanto estranea ad ogni vera dimensione politica e sociale30. Molto è cambiato rispetto a De Sanctis, ma le cose non vanno poi molto meglio quando si punta, in Petrarca, sul risolversi del discorso politico in discorso morale, tipico «appannaggio dell’intellettuale» che si autopromuove giudice al di sopra della mischia, e si fa custode e testimone dei valori della storia31, ora tradotto e pubblicato senza l’appendice documentaria in Saggi e documenti, IV, Genova, Civico istituto colombiano [Studi e testi, 5], 1983, pp. 143-181, e da quello di E. C. Skržinskaja, Petrarca sui Genovesi nel Levante [1949], in Saggi e documenti, V. Storici sovietici del Levante genovese, a cura di A. Prefumo, Genova, Civico istituto colombiano [Studi e Testi, 7], 1985, pp. 55-88 (è un ottimo saggio che, partendo dai motivi che hanno dato origine alla guerra, ne percorre l’intera vicenda ritmandola con i vari interventi di Petrarca ben compresi nella loro serietà e rilevanza); F. Giunta, Sulla politica orientale di Innocenzo VI, in Miscellanea in onore di Roberto Cessi, Roma, Edizioni di storia e letteratura, I, 1958, pp. 305-20 (sottolinea bene la stretta connessione tra gli interventi petrarcheschi e l’azione diplomatica del papa); G. Arnaldi, Andrea Dandolo Doge-Cronista, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di A. Pertusi, Firenze, Olschki, 1970, pp. 127-268 (vd. in particolare pp. 159-72; pp. 234-46, e l’Appendice I, pp. 253-62, con il testo delle due lettere del Dandolo e di quella di Benitendi Ravegnani); U. Dotti, Petrarca a Milano. Documenti milanesi 1353-1354, Milano, Ceschina, 1972, in particolare pp. 77-127 (qui, lo studioso traduce e commenta le lettere di Petrarca e del Dandolo relative ai vari momenti della lotta tra Genova e Venezia: dunque Fam. XI 8 al Dandolo; la prima risposta del Dandolo; Fam. XIV 5 e 6, ai genovesi; i resoconti fatti a Guido Sette nel settembre 1353, Fam. XVII 3 e 4; il discorso tenuto da Petrarca a Venezia quale ambasciatore del Visconti, datato dallo studioso nell’aprile 1354, come fa pure nella Vita, cit., pp. 289-90: vd. sopra, nota, 21; la Fam. XVIII 16 al Dandolo e la risposta di costui, datata 13 giugno 1354); le sintesi di F. Cognasso, L’unificazione della Lombardia sotto Milano, in Storia di Milano, V, La signoria dei Visconti (1310-1392), Milano, Fond. Treccani degli Alfieri, 1955, e qui in particolare i capp. XI e XII, pp. 323-395, e di M. Balard, La lotta contro Genova, in Storia di Venezia, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1997, III, in particolare pp. 138142: ma dello stesso Balard va almeno citato l’amplissimo lavoro sulla presenza e sull’economia genovese nel mar Nero La Romanie génoise (XIIe -début du XVe siècle), in «Atti della Società ligure di storia patria», n. s. XVIII (XCII), fasc. I-II, e in particolare, per quanto qui ci riguarda, I, pp. 78 sgg. 30 . F. De Sanctis, Saggio critico sul Petrarca, a cura di N. Gallo con introduzione di N. Sapegno, Torino, Einaudi, 1952, in particolare il cap. I, pp. 37-45. Un importante momento di svolta rispetto a questi giudizi è rappresentato, a mio parere, dal saggio di R. Manselli, Petrarca nella politica delle signorie padane alla metà del Trecento, in Petrarca, Venezia e il Veneto, a cura di G. Padoan, Firenze, Olschki, 1976, pp. 9-22. 31 . Vd. per ciò le pur belle pagine di G. Bàrberi Squarotti, L’intellettuale e la storia. I versi ‘politici’ del Petrarca, in Fine dell’idillio. Da Dante al Marino, Genova-San Salvatore Monferrato, 1978, per esempio pp. 98 ss. Ma proprio a proposito dell’aspetto giudicato in passato come tipico della vana retorica petrarchesca, quello di ‘esortatore della pace’ un’aria nuova circola ora nelle belle pagine di M. R. Dessì, Pratiques de la parole de paix dans l’histoire de l’Italie urbaine, in Prêcher la paix et discipliner la societé. Italie, France, Angleterre (XIIIe -XVe siècles). Études réunis par R. M. Dessì, Tourhout, Brepols, 2005, pp. 245-78: in part. pp. 261-270 (p. 269: «le sermon de paix devint une sort de fondement indispensable à l’existence d’un pouvoir, ainsi qu’une stratégie

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e quando, magari in maniera indiretta o addirittura inconscia, si continua a sovrapporre e a misurare la sua figura sul ‘principio di realtà’ che sarebbe rappresentato da Dante. Onde mi piace riferire vecchie e ancora eclatanti parole di Carducci che scriveva al Pelosini nel 1862: «All’Università do a intendere […] chi era il Petrarca, e perché scriveva così, e come qualmente e’ non fosse un canonico che faceva all’amore […] ma sì veramente fosse un gran pensatore e un gran cittadino, superiore a Dante pel concetto politico, il solo degli italiani che imponesse al suo secolo la venerazione per l’arte e l’ingegno, il solo avanti la Francia del sec. XVIII che della letteratura si servisse come istrumento di civiltà su tutta l’Europa»32. Meglio delle dichiarazioni, in ogni caso, valgano i fatti, non difficili da ristabilire. Se si ripercorrono le lettere di Petrarca via via citate non si potrà fare a meno di osservare alcune cose che contraddicono approcci dilettanteschi e meramente retorici all’argomento: la completezza e l’esattezza dell’informazione; la tempestività dell’intervento; la coerenza del discorso unita alla capacità affatto professionale di interpretare e propriamente incarnare una determinata linea politica. Prima di vedere più da vicino tutto ciò, tuttavia, anche a costo di qualche ripetizione ripercorriamo la traccia appena delineata, allargando un attimo lo sguardo a qualche altro elemento. Abbiamo visto che il 18 marzo 1351, da Padova, Petrarca scrive la prima, importante lettera ad Andrea Dandolo, la Fam. XI 8: ora, il 24 febbraio e cioè meno di un mese prima, aveva scritto la prima lettera ‘esortatoria’ all’imperatore Carlo IV di Boemia, Fam. X 1, invitandolo a scendere in Italia, mentre più avanti nell’anno, il 18 e il 24 novembre, indirizza ai quattro cardinali incaricati di riorganizzare il governo di Roma le Fam. XI 16 e 17, nelle quali, in sostanza, egli prolunga la parte ‘buona’ e riformatrice in senso democratico del programma di Cola, rievocando sulla scorta di Livio la lunga vicenda attraverso la quale nell’antica Roma la plebe aveva conquistato l’accesso alle varie magistrature, sino al consolato. Nel febbraio del ’52 scrive la seconda lettera a Carlo IV, Fam. XII 1, breve ma politicamente ben aggiornata, e in quello stesso mese scrive l’impegnativa institutio diretta al gran siniscalco Niccolò Acciaioli, Fam. XII 2, e, il giorno 26, la seconda lettera al Dandolo, Fam. XV 4, in risposta a una del doge che non ci è pervenuta: una lettera privata sul proprio continuo mutare di luogo, ma certamente intesa a intrecciare un più stretto rapporto personale con il doge che già aveva risposto alla sua prima. Nel novembre 1352 e nel febbraio-marzo 1353 indirizza due dont les régimes politiques neufs et moins neufs ne purent plus se passer », ecc). 32 . Lettere: Edizione Nazionale, III, pp. 150 sgg.: ho ricavato la citazione da S. Martini, Dante e Petrarca: mutamento di primati agli inizi degli anni sessanta, cap. V del volume Dante e la Commedia nell’opera di Carducci giovane (1846-1865), Genova, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, 1999, pp. 245-87: p. 273.

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‘esortatorie’, Fam. XIV 5 e 6 al Doge e al Consiglio di Genova: la prima segue appena d’un mese il cautissimo spiraglio aperto dagli stessi genovesi che nell’ottobre avevano mandato quattro legati ad Avignone per sondare le possibilità di una pace con Pietro IV e con Venezia33. Ma è soprattutto significativo che tali mosse s’intreccino con la costante azione di Clemente VI che sin dal novembre del 1349 si preoccupava di prevenire la guerra e si proponeva quale intermediario; che nell’agosto dell’anno seguente riuniva gli ambasciatori veneziani e genovesi, scriveva al Dandolo e tentava di formare una lega anti-turca, e che ancora nei mesi precedenti la morte, avvenuta i primi di dicembre 1352, si muoveva per evitare la guerra accreditando allo scopo il vescovo di Capodistria presso il Dandolo, e il vescovo di Nasso presso il doge di Genova, e sollecitando l’invio di ambasciatori ad Avignone sia da parte delle due città che da Pietro IV d’Aragona34. Ma Petrarca in parte anticipa anche l’iniziativa del tutto analoga del neo-eletto Innocenzo VI che nell’aprile e poi ripetutamente nel settembre e nell’ottobre 1353 scrive sia al doge di Genova, Giovanni di Valente, che al Dandolo e nel novembre a Pietro IV chiedendo l’invio di ambasciatori per negoziare la pace35, e insieme preme su Giovanni Visconti perché si adoperi in tal senso: non è dunque un caso se a novembre proprio Petrarca (chi meglio di lui? verrebbe da chiedere), che frattanto dal mese di giugno si è stabilito a Milano, è incaricato dal Visconti di guidare l’ambasceria presso il Dandolo, per ottenere un’apertura di dialogo tra Genova e Venezia. Né è un caso se proprio il 23 di quel novembre egli scrive un’altra lunga appassionata lettera a Carlo IV, Fam. XVIII 1, sollecitandone con forza la venuta in Italia e giocando dunque ancora una volta d’anticipo, in perfetta sintonia con l’intenzione del papa di favorire un accordo tra Carlo IV e il Visconti nel preciso momento in cui, dopo che nell’ottobre Genova s’era data all’arcivescovo di Milano, si poteva capire che Venezia si sarebbe mossa per attirare l’imperatore insieme alle città di Padova e Verona in una lega anti-viscontea e anti-genovese. La lega si farà nel marzo 1354, in parallelo con un’analoga lega guelfa di Toscana, e Petrarca puntualmente scriverà un’altra lettera al Dandolo nel maggio, Fam. XVIII 16, ma nonostante qualche episodio di guerra, 33 . Vd. Lisciandrelli, Trattati e negoziazioni, cit., n° 580, 15 ottobre 1352, p. 116; n° 583, 28 novembre 1352, p. 116; n°584, 9 dicembre 1352, p. 116. 34 . Sorbelli, La lotta tra Genova e Venezia, cit., pp. 104 sgg.; Meloni, Genova e Aragona, cit., p. 97, che rinvia ad Arch. Secr. Vat., reg. vat. 145 f. 26v, del 6 luglio, per il vescovo di Capodistria, e allo stesso reg., f. 40 del 21luglio 1351, per quello di Nasso. A tale proposito vd. quanto scrive lo stesso Pietro IV nella sua Cronaca, V 12, in G. Meloni, L’Italia medioevale nella Cronaca di Pietro IV d’Aragona, Cagliari, Della Torre, 1980, p. 80, e quanto diffusamente scrive lo Zurita, Anales VIII 48, ed. Canellas Lopez, cit., IV, pp. 218-9. 35 . G. Biscaro, Le relazioni dei Visconti di Milano con la Chiesa. L’arcivescovo Giovanni, Clemente VI e Innocenzo VI, in «Archivio storico lombardo», s. VI, LV, 1928, pp. 1-96: pp. 66-7. Vd. Matteo Villani, III 54, ed. Porta, cit., p. 389; Giunta, Sulla politica orientale, cit., pp. 307 sgg.

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quale l’assedio di Modena da parte delle truppe del Visconti, abortirà per il disimpegno dell’imperatore, mal digerito dai veneziani36. Il quale scende finalmente in Italia nel tardo autunno mentre la flotta genovese spadroneggia nell’Adriatico e torna a vincere, con Paganino Doria, nel Peloponneso, e il Dandolo e Giovanni Visconti sono morti entrambi da poco. A Mantova, nel dicembre, l’imperatore incontra Petrarca, che gli indirizza la Fam. XIX 1, e nel giugno, sùbito dopo la firma della pace tra Genova e Venezia, torna a Praga, con personale disappunto di Petrarca (Fam. XIX 12). Se ora torniamo all’ambasceria guidata da Petrarca nel novembre 1353 dovremmo dirla a rigore fallita, visto che Venezia rifiuta la pace e sùbito dopo s’affretta a formare la lega anti-viscontea, ma è certo che Petrarca, nell’occasione inutilis orator, ha invece portato avanti da comprimario la linea politica specificamente papale e viscontea intesa a disinnescare la minaccia costituita dalla discesa dell’imperatore a fianco di Venezia non già alimentando eventuali contrapposizioni ma piuttosto trasformandola in qualcosa di diverso, fagocitandola entro un orizzonte più ampio. Ma ha anche vinto sui contenuti, visto che le clausole della pace non fanno che confermare quanto egli aveva cominciato a scrivere sin dalla prima lettera al Dandolo: non esservi cioè, al momento, altra soluzione possibile al conflitto. III. In questo nostro continuo girare attorno all’argomento è necessario richiamare l’altro importante elemento che proprio in quegli anni caratterizza il panorama politico: la guerra tra il Visconti e Firenze, scatenata dall’acquisto di Bologna da parte dell’arcivescovo nell’ottobre 1350. Tale acquisto aveva provocato sia la reazione di Clemente VI, che dopo varie ammonizioni i primi di febbraio 1351 aveva scomunicato Giovanni Visconti, sia quella di Firenze, direttamente minacciata e disperatamente tesa a guadagnare il concreto appoggio del papa e a creare una lega toscana per resistere alle mire espansionistiche milanesi. Nel 1351 Giovanni di Oleggio con le sue scorrerie era arrivato a cinque chilometri da Firenze e solo la resistenza 36 . Basti qui quello che ne scrive il Caresini: dopo la sconfitta di Alghero Genova si trovò in tale stato di necessità «quod proprijs destituta viribus, eius duce deposito Johanne de Valente statuque libertatis amisso, qui charior vita haberi debet, subdidit colla iugo Joannis Vicecomitis, archiepiscopi Mediolanensis et domini. Unde inclytus Venetorum dux, moleste, nec immerito, ferens quod ipse archiepiscopus, contra antiquam Venetorum amicitiam, venationem usurpaverat alienam, provocavit Carolum quartum, Romanorum imperatorem, et maiorem partem Italiae adversus archiepiscopum supradictum. Qui imperator, cum pecunia et favore Venetorum et Jacobini ac Francisci de Carraria dominorum Paduae, Canis Grandis de la Scala domini Veronae, marchionum Ferrariae, illorum de Gonzaga dominorum Mantuae et illorum de Manfredis dominorum Faventiae, colligatorum Venetiarum, se ad partes Mantuae transtulit. Et profecto multa magnifica facere potuisset; sed statim cessit, contentus quod Vicecomites Mediolani, scilicet Matthaeus, Bernabos et Galeatius, nepotes et successores prefati archiepiscopi interim defuncti, non impedirent iter suum Romam, ubi tunc extitit coronatus» (Raphayni de Caresinis Chronica, a cura di E. Pastorello, RR.II.SS. XII 2, pp. 7-8).

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di Scarperia, inutilmente assediata, l’aveva indotto per il momento a ritirarsi, e nel 1352 la guerra aperta era ripresa con la campagna toscana di Ludovico dal Verme, con tutta probabilità già amico di Petrarca37. Nel fitto e a tratti confuso gioco diplomatico nel quale la cancelleria papale e quelle dell’Italia del Nord, da Firenze in su, erano immerse, è probabilmente da inserire un episodio minore ma significativo. Nella primavera del 1351 Boccaccio si era recato in missione presso il Petrarca, a Padova, latore di una lettera scritta da lui stesso a nome della Signoria nella quale si invitava il poeta a tornare a Firenze e gli si offriva la restituzione dei beni paterni a suo tempo confiscati e una cattedra presso lo Studio, con la libertà di scegliere l’insegnamento che più gli piacesse. La cosa finì nel nulla per il rifiuto cortese ma netto di Petrarca, con disappunto di Boccaccio ch’era stato il principale animatore dell’iniziativa. A quanto già s’è detto al proposito38 si dovrà aggiungere che in quel torno di tempo Boccaccio era impegnato quale emissario della Signoria fiorentina con lo scopo di tessere le trame di un’alleanza anti-viscontea (alla fine dell’anno era in Tirolo per attirare nell’alleanza Ludovico V di Baviera, il figlio del Bavaro, e l’anno dopo era in Romagna presso gli Ordelaffi e i Da Polenta, con lo stesso fine), e che è difficile non pensare che una tale mossa presso Petrarca avesse la finalità politica di guadagnare a Firenze l’appoggio di una voce di tanto peso e in diretto, eccezionale rapporto con i vertici dello scacchiere politico: il papa, il Visconti, Andrea Dandolo e l’imperatore. Tutto sembra dire che l’accordo fallisse per una reciproca incompatibilità tra Petrarca e Firenze, probabilmente sottovalutata da Boccaccio, ma è anche vero che Petrarca aveva già maturata la sua scelta filo-viscontea e dunque, nei fatti, anti-fiorentina, e in quel quadro aveva già intrecciato tutta una serie di rapporti. Di ciò abbiamo una prova indiretta ma chiara. Negli anni 1351-1352 Avignone è il crocevia di complicati intrecci diplomatici, come quelli tentati in particolare dai fiorentini contro l’aggressivo espansionismo visconteo. Carlo Cipolla in un vecchio ma ancora fondamentale saggio basato sui documenti originali ricostruisce l’intera vicenda 37 . Su questa guerra vd. ancora A. Sorbelli, La signoria di Giovanni Visconti a Bologna e le sue relazioni con la Toscana, Bologna, Zanichelli, 1901, con importante appendice di documenti, pp. 335-507; G. Biscaro, Le relazioni dei Visconti, cit., pp. 27-42. (vd. avanti, nota 43). Quanto a Luchino dal Verme, uno dei maggiori condottieri del ‘300, Petrarca l’aveva conosciuto probabilmente a Parma nel ’50, e di lui parla come amicus maior e magnus e optimus in due lettere a Giovanni Fedolfi del 1355 (Disp. 30 e 31, ed. A. Pancheri, Parma, Guanda, 1994, pp. 244, 250 e 256); gli indirizzò le Sen. IV 1-2 e VIII 4, della metà degli anni ’60, e ne compiange la morte, avvenuta probabilmente a Costantinopoli, nella Sen. VIII 5 (9 giugno 1367). Su di lui vd. la voce di M. E. Mallet nel DBI, 32, pp. 267-70. 38 . Rimando per ciò a E. Fenzi, Petrarca a Milano: tempi e modi di una scelta meditata, in Petrarca e la Lombardia. Atti […], a cura di G. Frasso, G. Velli, M. Vitale, Padova, Antenore, 2005, pp. 221-63: pp. 229 sgg.

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della diplomazia fiorentina in questa circostanza, e più volte lamenta il silenzio di Petrarca in proposito concludendo infine che il poeta «preferiva l’idealismo poetico […] alle difficili noie di una intricata matassa diplomatica, dove era richiesta la pratica degli affari piuttosto che la concezione artistica. Affari privati lo conducevano spesso alla Corte papale; essi non avevano relazione alcuna coi negoziati politici. Il Petrarca fu talvolta, nella sua vita, anche diplomatico, ma in altro modo e con diversi intenti»39. Queste parole riflettono i vecchi pregiudizi ai quali ho accennato. Se consideriamo le cose un poco più da vicino (ma quanto s’è detto sin qui dovrebbe già mettere sull’avviso), vediamo infatti che, seppure in modi affatto particolari e non sempre facilmente decifrabili, le tracce di un coinvolgimento personale e professionale di Petrarca davvero non mancano. Certo, nel caso delle trame anti-viscontee di Firenze egli tace: ma il suo è il silenzio politicamente parlante di chi sta dalla parte del Visconti e, nel momento di un così delicato gioco a tre tra Milano, Firenze e Avignone, con il papato che si pone quale sommo mediatore, ancora non può né vuole, per un monte di ragioni, compromettersi apertamente. Egli agisce, però, e da perfetto diplomatico lo fa ostentando un ruolo super partes che in verità interpreta una precisa linea politica. Nella doppia guerra tra Genova e Venezia e tra Firenze e Milano s’incarica dunque della prima, non della seconda, ma alcune delle sue mosse hanno una portata generale. Per esempio, la lunga lettera a Carlo IV, Fam. X 1, del 24 febbraio 1351. Due cose interessa qui rilevare. La prima, il tempestivo senso politico che di per sé ha il semplice fatto di rivolgersi all’imperatore e di esortarlo a venire in Italia, nel momento cruciale in cui tutti lo volevano come alleato: lo fa, per esempio, Firenze, sempre più decisa a giocare la carta di Carlo IV dinanzi alle ambiguità del papa che aveva, sì, scomunicato Giovanni Visconti, ma trattava con lui e si preparava a perdonarlo, a concedergli il vicariato di Bologna il cui acquisto era stato causa della rottura e minaccia mortale per Firenze, e ad assolverlo dalla scomunica, che sarà infatti ritirata nell’aprile-maggio del 135240. La seconda, che Firenze, quando viene allo 39 . C. Cipolla, La diplomazia fiorentina e il soggiorno di Francesco Petrarca in Avignone negli anni 1351-1352, in «Memorie della Reale Accademia delle scienze di Torino». Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, s. II, LIX, 1909, pp. 161-213: p. 213. 40 . Scrive Matteo Villani, II 68, ed. Porta, cit., pp. 309-10: «Mentre che ‘l Comune di Firenze e di Siena avieno li ambasciadori a corte di papa contro all’arcivescovo di Milano, avedendosi che·lla Chiesa per le preghiere de·rre di Francia e d’altri baroni, e per la grande quantità di muneta che ‘l tiranno spendea in corte, colla quale avea recato in suo favore tutta la corte, ed era per essere riconciliato e fatto assai maggiore che non era in prima, e disfidandosi di non potere per loro risistere alla sua potenzia, ordinarono molto segretamente di volere far muovere della Magna messere Carlo re de’ Romani eletto imperadore, e però mandarono e feciono venire d’Alemagna a·fFirenze segretamente un suo cancelliere con grande mandato: il quale fu collocato e stette tutto il verno racchiuso in sa· Lorenzo per modo che’ Fiorentini non sapieno chi·ssi fosse e di notte andavano

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scoperto con l’intenzione di cercare l’alleanza di Carlo IV, nella primavera del 1352, usa durissimi toni anti-viscontei scrivendo che tale alleanza mira alla «destructionem eiusdem Viperee nationis», e dichiarando in una lettera dell’1 maggio allo stesso Carlo di voler essere protetti «sub alarum umbra vestrarum contra tyrampni viperei venenosam ingluviem»41. Ma a quella data Petrarca, con la sua lettera, con anticipata contromossa, ha già proiettato l’intervento dell’imperatore su uno scenario diverso, svincolato da alleanze particolari e dedito invece a una missione di ordine e pace erga omnes, e semmai più concretamente indirizzato, con quella che a me pare, nonostante tutto, anche una manovra diversiva, al risanamento della situazione di Roma, in sintonia dunque con le preoccupazioni manifestate nelle Fam. XI 16 e 17, del novembre 1351, rivolte ai cardinali che di tale risanamento dovevano occuparsi42. In particolare, in questo quadro è interessante che Petrarca sottolinei ripetutamente all’imperatore come tutti ne invochino la venuta, sì che essa non potrà essere, a rigore, piegata ad interessi di parte: e in ciò occorre comprendere come egli suggerisca, di là dal velo moralistico-retorico del linguaggio, una vera e propria linea politica di equidistanza che assomiglia molto a quella che Carlo IV metterà in pratica. Ancora più significativo è che nella successiva lettera all’imperatoa·llui i segretari del Comune». 41 . Vd. Cipolla, La diplomazia, cit., pp. 195 e 196. 42 . Il riferimento alle condizioni di Roma è esplicito anche nella successiva lettera, Fam. XII 1, e qui, in X 1, 14 sgg., s’appoggia all’immagine della città quale vecchia vedova in lutto, «Fige nunc animo almam te Romane urbis effigiem videre; cogita matronam evo gravem, sparsa canitie, amictu lacero, pallore miserabili, sed infracto animo excelso». In Petrarca la ritroviamo già in una serie di testi che presentano fitti riscontri con il nostro testo: le Epyst. I 2 e 5, indirizzate a papa Benedetto XII nel 1335 e nel 1336 esortandolo a tornare a Roma, e la canzone Spirto gentil, RVF 53, di datazione (e destinazione) dubbia, ma certo precedente il 1347; Buc. carmen V, Pietas pastoralis, 1 sgg. L’immagine è anche in Dante: nell’Epist. VI 1, 3 è l’Italia ad essere rappresentata come una misera vedova abbandonata e oppressa; l’Epist. XI ai cardinali italiani, che si apre citando quello che può essere considerato l’archetipo dell’immagine, Geremia, Lam. 1, 1: «Quomodo sedet sola civitas plena populo, facta est quasi vidua domina gentium», ricordato esplicitamente poco avanti, 2, 3, mentre più avanti, 10, 21 ss., Dante sviluppa il concetto che tocca ai cardinali venerare e soccorrere lei «solam sedentem et viduam», con un’esortazione che Petrarca parrebbe riprendere nelle parole della Familiare a Carlo IV: «qualis est, pro modulo vestre ymaginis ante mentales oculos affigatis oportet»); Purg. VI 112-3, all’imperatore: «Vieni a veder la tua Roma che piagne / vedova e sola». Ma Roma come vedova piangente è anche in Lucano, I 186-190, e poi Simmaco, sant’Ambrogio, Prudenzio, Cassiodoro, Claudiano … (i rinvii completi in M. Berghoff-Bührer, Das Bucolicum Carmen des Petrarca. Ein Beitrag zur Wirkungsgeschichte von Vergils Eclogen, Peter Lang, Bern-Berlin [...] 1991, p. 357, note 19-24), e, per quanto ci interessa più da vicino, così è raffigurata nel famoso affresco fatto dipingere da Cola in Campidoglio nel 1344: «Era pento uno grannissimo mare, le onne orribile, forte turvato. In mieso de questo mare stava una nave poco meno che soffocata, senza tomone, senza vela. In questa nave, la quale per pericolare stava, stava una femina vedova vestuta de nero, centa de cengolo de tristezze, sfessa la gonnella da pietto, sciliati li capelli, como volessi piagnere. Stava inninocchiata, incrociava le mano piecate allo pietto per pietate, in forma de precare che sio pericolo non fussi. Lo soprascritto diceva: “Questa ène Roma”» (Anonimo romano, Cronica, a cura di G. Porta, Adelphi, Milano 1981, pp. 144-50).

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re, Fam. XII 1, del febbraio 1352, e dunque nell’imminenza del momento in cui Firenze renderà esplicita la sua volontà di mobilitare Carlo IV contro i Visconti, egli per dire così si scopra e scriva una frase tutta direttamente politica densa di stratificate perfidie: «Intelligis, providentissime princeps, non tantum quid loquar sed quid cogitem; presentem Tuscie statum vides: ubi plurimum rebellionis avo tuo aliisque retro principibus fuit, illic tibi plurimum erit obsequi. Utere rerum mutationem felicissima». Insomma: ‘vedi come s’è ridotta la guelfa Firenze già ribelle al tuo avo Arrigo VII (questo era un punto sul quale Carlo IV era asssai sensibile) e, prima, ai suoi predecessori, ed ora invece costretta ad obbedirti: approfitta dunque di un tale fortunato cambiamento …’. In altri termini ancora, visto ch’è ridicolo il solo supporre che Petrarca (ma anche qualsiasi altro) ignorasse la valenza anti-viscontea che Firenze assegnava all’alleanza con Carlo IV, il senso politico della frase suona: ‘che i fiorentini si rivolgano a te sta solo a significare la loro debolezza, e alla tua volontà dovranno adeguarsi, quale essa sia’. Ch’era un bel modo di svuotare dall’interno la strategia fiorentina e di prepararsi a ravvisare nel patto sottoscritto nel maggio da Carlo IV con i fiorentini, con varie modifiche che questi ultimi non avevano gradito, null’altro che la sottomissione di questi ultimi alle decisioni dell’imperatore43. Ma le parole di Petrarca, che in quell’accenno: ‘Tu che capisci non tanto le mie parole ma il mio pensiero’ sembrano quasi presupporre precedenti rapporti di cui nulla sappiamo, danno anche un quadro esatto della realtà, come i fatti non tarderanno a dimostrare: Firenze infatti, stremata dalla guerra e in assenza dell’imperatore, non può fare altro che rimettersi al papa e arrivare a una pace che lascia le cose come stanno, concordata dopo lunghe trattative nel marzo 1353 a Sarzana, e ratificata in Firenze nell’aprile, un anno dopo la bolla di riconciliazione del papa con i Visconti44. IV. L’analisi della corrispondenza con Carlo IV, che copre gli anni 1351-136445, dovrebbe andare ben oltre questi minimi accenni, che hanno 43 . Vd. il riassunto, del tutto congruente con ciò che scrive Petrarca, del Muratori, Annali d’Italia, cit., XII, p. 415: «seppe molto bene l’arcivescovo trattenere quest’altro principe [Carlo IV] con aurei regali, e con rappresentargli qual indecenza sarebbe il venire contra chi sosteneva i diritti dell’imperio in Italia, laddove i Fiorentini e gli altri Guelfi non cercavano se non di abolirli». 44 . Di là dalle clausole particolari, il nocciolo dell’accordo tra il papa e Giovanni Visconti consisteva nella nomina di quest’ultimo a vicario di Bologna per dodici anni, dopo di che la città sarebbe tornata alla Chiesa, mentre quello della pace di Sarzana stava nel reciproco impegno di astenersi da azioni contro Firenze da parte del Visconti, in cambio dell’accettazione della situazione di Bologna e della non ingerenza nella regione da parte dei fiorentini. Una eloquente testimonianza dei malumori fiorentini nei confronti della cedevolezza di Clemente VI verso il Visconti è in Matteo Villani, III 2-5, ed. Porta, cit., I, pp. 326 sgg., che mette soprattutto l’accento sulla massa di denari con i quali l’arcivescovo avrebbe corrotto il Collegio dei cardinali. Vd. Cognasso, L’unificazione, cit., pp. 342-54. 45 . Nel volume: F.P., Lettere all’imperatore. Carteggio con la corte imperiale di Praga (1351-

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il solo scopo di mostrare come l’intervento di Petrarca nella lotta tra Genova e Venezia attraverso la lettera al Dandolo del marzo 1351 non sia affatto un atto isolato e personale, ma invece s’inquadri nel contesto di un’attività diplomatica più larga condotta ai massimi livelli istituzionali, e che proprio in quell’anno fa un grande salto di qualità. Petrarca, in ciò sostanzialmente credibile, riferisce come in varie circostanze gli fosse stato offerto la carica di segretario apostolico: nel 1346-1347, nell’autunno del 1351 (vd. la Fam. XIII 5, dell’agosto 1352, e il ricordo consegnato alla Disp. 73 del maggio 1371, ed. Pancheri, cit., p. 484), nel febbraio 1359 (Fam. XX 14) e nell’ottobre 1362 (Sen. II 2), e come avesse sempre fermamente rifiutato. Ma ciò che ha rifiutato al papa lo concede ai Visconti, svolgendo opera di fiancheggiamento delle loro posizioni ancor prima di trasferirsi materialmente a Milano e assumendo direttamente da loro, poi, una lunga serie di incarichi diplomatici46. Non è qui il caso di indagare le ragioni di questa decisione, 1364). A cura di U. Dotti, Reggio Emilia, Diabasis, 2008, è tradotta tutta la corrispondenza di Petrarca con Carlo IV e con il cancelliere imperiale Jan ze Strěda (Giovanni di Neumarkt), più due lettere di Petrarca a Ernesto di Pardubic, arcivescovo di Praga (Fam. XXI 1 e 6) e una all’imperatrice Anna (Fam. XXI 8). Le lettere a Carlo IV sono ben quattordici: Fam. X 1; XII 1; XVIII 1; XIX 1, 4 e12; XXI 7; XXIII 2, 3, 8, 9, 15 e 21; Sen. XVI 5, mentre dell’imperatore ne restano due: la prima è una risposta alla prima di Petrarca, della primavera 1351; la seconda, fine 1361 o inizio dell’anno successivo, è un invito a tornare alla corte di Praga ove Petrarca già era stato in missione diplomatica per conto dei Visconti nell’estate del 1356. Le lettere a Jan ze Strěda sono nove: Fam. X 6; XXI 2 e 5; XXIII 6, 7, 10, 14 e 16; Disp. 29, mentre quelle del cancelliere a Petrarca sono otto, la prima della metà del 1352; l’ultima, arrivata a Petrarca insieme all’invito imperiale, della fine 1361 o inizio dell’anno successivo. 46 . Tra le prove di fedeltà viscontea al di fuori dalla guerra tra Genova e Venezia si può almeno ricordare l’orazione per la morte dell’arcivescovo, nel 1354 (giunta solo in un volgarizzamento anonimo); quella per il ritorno di Novara sotto il dominio milanese, nel 1358 (Scritti inediti di Francesco Petrarca, pubblicati e illustrati da Attilio Hortis, Trieste, Tipografia del Lloyd austriaco, 1874, pp. 341-358; Conrad H. Rawski, Petrarch’s Oration in Novara: a critical transcription of Vienna, Oesterreichische Nationalbibliothek, Ms. Pal. 4498 fols. 98r-104v, in «The Journal of Medieval Latin», IX, 1999, pp. 148-193); le lettere famose al Bussolari, Fam. XIX 18 e Disp. 39, rispettivamente del marzo e dell’ottobre 1359; la Collatio brevis tenuta a Parigi nel gennaio 1361 dinanzi a Giovanni II di Francia, da poco liberato dagli inglesi (Carlo Godi, L’orazione di Petrarca per Giovanni il Buono, in «Italia medioevale e umanistica», VIII, 1965, pp. 45-67: poi anche nelle Opere latine, a cura di Antonietta Bufano, con la collaborazione di Basile Aracri e Clara Kraus-Reggiani. Introduzione di Manlio Pastore Stocchi, Torino, UTET, 1975, II pp. 1285-1309), e infine la partecipazione ai negoziati di pace tra Galeazzo e Carlo IV nella primavera-estate del 1368. Per questa attività diplomatico-oratoria vd. ora l’ampio importante studio di Rosa Maria Dessì, “Nec praedicator sum”:Pétrarque orateur et la communication verbale au temps des Visconti, in corso di stampa in C. Caby er R. M. Dessì (dir.), Les Humanistes et l’Église. Pratiques culturelles et échange entre les litterati laïcs et ecclésiastiques dans la societé urbaine italienne (début XIIIe – début XVIe siècle), Tournhout, Brepols, 2012 (Coll. d’études médiévales de Nice, vol. 12), che ho potuto leggere grazie alla cortesia dell’autrice (la quale pubblica in appendice il testo dell’orazione novarese già edita da Rawski). Ricordo appena che Galeazzo Visconti aveva pagato la prima rata del riscatto del re francese, e che nell’ottobre precedente suo figlio Giangaleazzo aveva sposato, in Milano, la figlia del re di Francia, Isabella. Non ci è invece giunto il testo di una seconda orazione veneziana, dell’ottobre 1373, tenuta come ambasciatore di Francesco da Carrara per chiedere la pace a Venezia dopo la cosiddetta ‘guerra dei confini’. A tutto ciò s’aggiunga il caso particolare della lettera dei fratelli Visconti al vicario imperiale e vescovo di Augusta Markwart di Randeck vescovo di Augusta, dell’ottobre 1356, quasi certamente scritta a loro nome da Petrarca: vd. per

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innervata nel complesso delle scelte di vita di Petrarca, ma si può osservare, con Dotti47, che, in quella situazione, il passaggio verso i Visconti poteva avvenire senza forti soluzioni di continuità stante la tendenziale coincidenza tra la politica papale e quella dei Visconti, almeno per ciò che riguarda il campo d’azione di Petrarca. Di più, e su un piano generale, credo si debba aggiungere che Petrarca ha preferito una soluzione che diremmo in senso lato ‘laica’, e cioè più libera, che lasciava intatto e addirittura riusciva a esaltare il suo apporto squisitamente personale, non di servo ma di collaboratore ‘alla pari’ del signore: un apporto che la dimensione burocratica e totalizzante del funzionario papale avrebbe soffocato. A ben leggere tra le righe, ciò è quanto ci dice anche la Fam. XIII 5, ove Petrarca motiva le ragioni del suo rifiuto dinanzi all’offerta del papa spiegando come l’altezza del suo stile non potesse abbassarsi al livello del latino di cancelleria. E infine, con le parole di Novati: «Niun’altra tra le corti italiane poteva allora al pari della milanese porgersi opportuna sede per chi, come il Petrarca, amava conoscere dappresso i segreti della politica contemporanea, sceverare le fila de’ delicati maneggi diplomatici e, all’occorrenza, prendervi parte attiva e diretta»48. Se questo è, a grandi linee, il contesto entro il quale va inserita l’iniziativa nei confronti di Genova e Venezia, alla quale è finalmente il momento di arrivare, non dovrebbe esserci dubbio ch’essa non vada isolata e intesa come un caso esemplare di megalomania da parte di un intellettuale di grido che a tutti i costi vuole far risuonare la propria voce. Si tratterà invece, pur con i distinguo e i caratteri irripetibili della personalità di Petrarca, del dispiegamento di una vera e propria attività diplomatica in sostegno della politica viscontea, con i suoi condizionamenti e tutto il suo sottile e talvolta indecifrabile corredo di intenzioni non dichiarate, di sotto- o sovrasensi, di allusioni significative. E, nel caso, di grande retorica. Solo così, del resto – solo prendendola sul serio, vorrei dire – a tale attività si riesce a rendere giustizia. la ricostruzione della vicenda M. Feo, L’epistola come mezzo di propaganda politica in Francesco Petrarca, in Le forme della propaganda politica nel due e nel trecento, a cura di P. Cammarosano, Roma, École française de Rome, 1994, pp. 203-26, e dello stesso, con l’edizione critica della lettera, Francesco Petrarca e la contesa epistolare tra Markwart e i Visconti, in Filologia umanistica per Gianvito Resta, a cura di V. Fera e G. Ferraù, Padova, Antenore, 1997, I, pp. 621-92. Quelle di Feo sono pagine importanti e assai severe sulle ‘richieste umilianti’ alle quali Petrarca si sarebbe abbassato nel mettere la sua penna al servizio dei domini, avendo perso la fiducia nella democrazia e nelle libertà comunali, ed essendo approdato a una visione sconsolatamente pessimistica della storia umana e dei meccanismi amorali della politica. Pagine importanti, ripeto, che invitano ad aprire una discussione della quale questo mio intervento vorrebbe essere solo un tassello. 47 . Dotti, Petrarca a Milano, cit., p. 47. 48 . F. Novati, Il Petrarca ed i Visconti. Nuove ricerche su documenti inediti, in F. Petrarca e la Lombardia, Milano, Società storica lombarda, 1904, pp. 11-84: p. 29. Ma s’intenda sempre sottinteso il rinvio all’indispensabile guida costituita dal citato volume di E. H. Wilkins, Petrarch’s Eight Years in Milan.

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Il 18 marzo 1351, abbiamo visto, Petrarca scende in campo scrivendo ad Andrea Dandolo la Fam. XI 8, «long and very able letter»49, per esortarlo alla pace. Dopo lo scontro dell’anno precedente di Kastri, presso Negroponte, in Venezia aveva prevalso il partito della guerra alla quale la città si preparava, in particolare, cercando l’alleanza con il naturale nemico dei genovesi, Pietro IV d’Aragona, il quale avrebbe comunicato nel maggio il proprio piano di guerra al Dandolo50. Petrarca interviene dunque con tempismo: è al corrente dei passi che sta compiendo questa alleanza, e ciò gli fornisce uno degli argomenti di più forte polemica, l’ultimo (§§ 28-31) prima della perorazione finale. Gli aragonesi sono considerati alla stregua di truppe barbare e mercenarie, avide e infide, alle quali è vergognoso e criminale ricorrere per una di quelle guerre fratricide che hanno insanguinato e portato alla rovina l’Italia: il che corrisponde da vicino ai contenuti della canzone Italia mia, ma si dà il caso che corrisponda anche, a suo modo, cioè con quelle immagini e quel linguaggio, alla realtà dei fatti, come Venezia avrebbe dovuto sperimentare a sue spese. Gli aragonesi miravano infatti al controllo della Sardegna ed erano disposti ad allearsi con i veneziani perché da costoro sarebbe arrivato un fiume di denaro per armare le loro navi (‘istupiditi dall’oro veneziano’, «Venetorum auro attonitos» li dice Petrarca nella Fam. XIV 16, 7)51: tant’è che dopo essersi malamente adattati al piano di guerra veneziano (avrebbero preferito che la flotta catalano-aragonese non s’allontanasse dall’alto Tirreno, per aspettare e annientare la flotta genovese quando fosse tornata semi-distrutta dallo scontro nei mari orientali con i veneziani) e dopo aver conquistato Alghero, nel 1353, non si mossero più, nonostante le alte proteste di Venezia. Si che la condanna di questa alleanza, che indubbiamente nella lettera ha tutto l’aspetto di un’esibizione astrattamente letteraria di patriottismo ‘italiano’, costituisce in realtà la base sulla quale Petrarca potrà in seguito scrivere la appena citata e bellicosa Fam. XIV 6 al Doge e al Consiglio di Genova, inneggiando ancora con tempismo alla guerra contro lo straniero Pietro IV, ora fondata sull’alleanza che 49 . Così Wilkins, Studies, cit., p. 140. La lettera è diffusamente analizzata da Arnaldi, Andrea Dandolo, cit., pp. 162 sgg. Da quanto dirò, è evidente che non sono d’accordo con Dotti, Petrarca a Milano, cit., p. 89, che ben rispecchia le vecchie opinioni correnti: «Petrarca scrive nella sua lettera che le esortazioni e gli ammonimenti rivolti a Venezia dovevano intendersi egualmente rivolti a Genova: non si poteva meglio confessare l’astrattezza e la vanità di quell’intervento, il suo tono letterario; in breve, il suo carattere di pretesto per un’esercitazione di retorica politica». 50 . Vd. sopra, note 18 e 19. 51 . Vd. Manfroni, Il piano, cit., p. 325. Nella sua Cronaca lo stesso Pietro IV scrive chiaramente che il pagamento delle spese era a carico di Venezia: «E la dita covinença fo feta e fermada en aytal manera que·l dit comú de Venecia donás e pagás a Nos certa quantitat de moneda per cascuna de le galees nostras, per pagar lo sou de la xurma e de la panatica e altres avantages» (Cronaca V 4, in Meloni, L’Italia medioevale, cit., p. 72). Inizialmente il patto prevedeva che Venezia pagasse dieci delle diciotto galee armate dagli aragonesi, ma in seguito il re pretese il doppio dei denari promessi.

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i genovesi avevano stretto nel febbraio 1353 con Mariano IV d’Arborea, il quale aveva rotto i vecchi rapporti con gli aragonesi e insieme a Matteo Doria aveva affidato ai genovesi la custodia di Alghero della quale Pietro IV aveva acquistato i diritti da altri due fratelli Doria, Branca e Manfredi nel 135052. Se questo realistico avvertimento ai veneziani a non fidarsi dell’alleato aragonese è tradotto nel linguaggio e nelle immagini fortemente ideologizzate dell’esaltazione delle virtù patrie contrapposte alla malfida barbarie degli ‘stranieri’, altri argomenti sono invece più diretti, e poco o nulla ideologici. A questo proposito molto ci sarebbe da rilevare nel denso e davvero abile discorso di Petrarca, ma mi limiterò a pochi punti essenziali. Il primo: Petrarca cerca di sfruttare al massimo l’esistenza di opposti schieramenti all’interno della classe dirigente veneziana nei confronti della guerra, e efficacemente li sintetizza attraverso la contrapposizione tra i ‘giovani’, inesperti e avventati (§ 6: «nil magis quam intractabiles animos et consilia iuvenum pavesco»), e i ‘vecchi’ saggi e pieni esperienza. L’argomento, che per lo sviluppo che ha nella lettera potremmo far rientrare in un tentativo di condizionamento psicologico53, ha una pointe particolare, dato che il Dandolo è, anagraficamente, un giovane (nato nel 1306, era diventato doge nel 1343), ma Petrarca, sfruttando il topos del puer o iuvenis maior sua aetate54, l’arruola provocatoriamente tra i saggi e loda in ispecie la sua decisione di rimettersi per una decisione così grave come quella della guerra al Consiglio degli anziani: «Ideoque letus audivi te res ambiguas ad senile consilium reiecisse. Hoc providentiam moresque tuos decuit, quorum gravitas atque 52 . Vd. R. Carta Raspi, Mariano IV, conte di Goceano, visconte di Bas, giudice d’Arborea, Cagliari, Edizioni della fond. il nuraghe, 1934, in part. pp. 100 sgg., e il più volte citato volume di G. Meloni, Genova e Aragona, passim., ma specialmente il cap. V, pp. 149-79. Un utile riassunto di queste vicende è in F. C. Casula, Profilo storico della Sardegna catalano-aragonese, Cagliari, Della Torre, 1982, pp. 30 sgg. Dopo la sconfitta genovese nelle sue acque, nell’agosto 1353, Alghero è occupata dagli aragonesi-catalani, ai quali però i sardi si ribellano, e solo dopo la spedizione dell’anno successivo di Pietro IV, che il 22 giugno la stringe d’assedio, la città torna a lui, in forza del trattato sottoscritto nel novembre con Mariano IV e Matteo Doria (Meloni, Genova e Aragona, cit., pp. 210-13, e vd. la Cronaca di Pietro IV, V 27-38, in Meloni, L’Italia medioevale, cit., pp. 96-112, per la ribellione di Alghero fomentata da Mariano IV e la spedizione del 1354). In tutta la vicenda non devono stupire le divergenti posizioni tra i Doria: un documento aragonese del 1347 giudica infatti complicatissimo e pressoché irrisolvibile l’acquisto dei feudi e dei diritti della famiglia genovese, spartiti nella sola città di Alghero tra trenta membri (L. D’Arienzo, Carte reali diplomatiche di Pietro IV il Cerimonioso re d’Aragona riguardanti l’Italia, Padova, Cedam, 1970, doc. n° 279, pp. 133-140). 53 . Osserva giustamente Ortalli, nel quadro di un riesame dei rapporti di Petrarca col Dandolo: «L’apparente affetto delle parole è in realtà un attacco psicologicamente pesante» (G. Ortalli, Petrarca e Venezia fra attrazione e incomprensione, in Petrarca politico, Roma, Istituto storico italiano per il medio evo, 2006, pp. 99-130: p. 106. 54 . Ampiamente frequentato da Petrarca (anche a proposito di Laura), è studiato da G. Cipriani, Scipione ‘Enfant Prodige’, in Preveggenze umanistiche di Petrarca, Pisa, ETS, 1993, pp. 141-70.

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maturitas te in illa acie primum fecit, cum in altera sis etate» (§ 7). Petrarca è tuttavia consapevole che il partito della guerra gode di maggior favore, ed esorta dunque il doge a sfidare l’impopolarità: «optime et e republica te facturum noveris, si ubi res exigat, iactura etiam proprie laudis bonum publicum redemeris frementique turbe tuta magis quam speciosa consilia et profutura potius quam placitura prebueris» (§ 27), e nel cercare di condizionarlo riesce addirittura profetico: «hoc semper tecum cogita primas ad te partes vel glorie vel infamie pertinere» (§ 23), se è vero che proprio la disastrosa guerra con Genova affannò tanto il Dandolo, si disse, da portarlo alla morte e da macchiare la sua immagine55. Ma il nodo vero o, se si preferisce, il principio di realtà che regge il discorso di Petrarca è un altro, estremamente semplice nella sua formulazione: Venezia non è in grado di vincere, o meglio, si tratta di una guerra che entrambi i contendenti possono solo perdere, che vincano o no. In ciò Petrarca è duro e chiaro: nelle presenti condizioni sperare di vincere contro i genovesi non è segno di generosa fiducia ma di disinformata pazzia (§ 15: «vide ne non tam generose fidutie quam incuriose dementie signum sit»). Ed è appunto qui che s’innesta il discorso sugli ‘stranieri’, che inevitabilmente dilagheranno là dove le città italiane incapaci di unità e di lungimiranza politica si distruggeranno una con l’altra. La convinzione di Petrarca che nessuna delle due città potesse vincere, e in ogni caso non lo potesse se non a troppo caro prezzo, ha una significativa controprova della sua effettuale verità nella risposta del Dando55 . Vd. Arnaldi, Andrea Dandolo, cit., pp. 160-2, che cita tra l’altro la Venetiarum historia ove si giudica il Dandolo «Vanagloria, mendacio et imbecilitate et inanimositate plenissimus» (Venetiarum historia vulgo Petro Iustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di R. Cessi e F. Bennato, Venezia, Dep. di storia patria per le Venezie, 1964, p. 225). Al proposito vd. anche i cenni di E. Pastorello nell’Introduzione a Andreae Danduli Ducis Venetiarum Chronica per extensum descripta, RIS XII 1, p. VII. Ed è da leggere il giudizio su di lui di Petrarca, nella Fam. XIX 9, 11-21 (probabilmente del 1358, a Guido Sette non ancora vescovo di Genova): «bonum enim virum atque integrum sueque reipublice amantissimum michique amicissimum sciebam, doctum preterea et facundum et circumspectum et affabilem et mitem, uno tamen offendebar, quod belli studio ardentior erat quam nature ac suis moribus conveniret». In questa circostanza Petrarca ribadisce con efficacia le sue convinzioni su quella guerra, e rivendica il merito d’aver sempre e anticipatamente visto il giusto (ma per ciò, vd. avanti). Ma un bel ritratto del Dandolo anche attraverso i suoi rapporti con Petrarca è in L. Lazzarini, «Dux ille Danduleus». Andrea Dandolo e la cultura veneziana a metà del Trecento, in Petrarca, Venezia e il Veneto, a cura di G. Padoan, Firenze, Olschki, 1976, pp. 123-56, al quale in toto rimando. Lazzarini nella ‘venezianità’ del Dandolo vede l’elemento di maggior distacco da Petrarca: «certamente hanno radici e prospettive molto diverse le concezioni del Dandolo e del Petrarca. In questo l’esaltazione della concordia italica era legata alla coscienza di una tradizione di civiltà classica e cristiana, con in sé i caratteri dell’universalità; l’impegno civile del Dandolo era invece fortemente circoscritto nell’ambito della Repubblica, rivolto al suo mantenimento e alla sua grandezza; una concezione che sarà partecipata da generazioni di patrizi e che non è sostanzialmente legata ai valori umanistici» (p. 138). Vd. anche, seppur da un punto di vista particolare (i progetti del Dandolo per il Battistero di san Marco), D. Pincus, Andrea Dandolo (1343-1354) and Visible History: The San Marco Projects, in Art and Politics in Late Medieval and Early Renaissance Italy: 1250-1500. Ed. by Ch. M. Rosenberg, Notre Dame-London, University of Notre Dame Press, 1990, pp. 191-206.

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lo che, davvero con incuriosa dementia, pensa la vittoria a portata di mano, là dove, alla fine della sua risposta, descrive Genova come un nemico di fatto già sconfitto «pacatum cedentemque hostem […] prope confractum resistentem ac targiversantem», facendoci capire come fosse proprio tale illusione a guidare le decisioni dell’oligarchia veneziana ch’egli rappresentava 56. E a questo punto, aprendo una breve parentesi, mi sembra il momento di dire che non ha senso alcuno contrapporre l’astrattezza intellettualistica e moraleggiante della lettera di Petrarca alla empirica e professionale concretezza della lettera del Dandolo. Anche a una veloce scorsa risulta sin troppo evidente che quella di Petrarca sul piano politico è infinitamente più ricca di quella del Dandolo, veramente astratta per non dire del tutto ipocrita nel santificare di là da ogni realistica decenza il buon diritto di Venezia a fare la guerra e addirittura sbagliata là dove dalla cortina delle altisonanti dichiarazioni di principio lascia sfuggire un giudizio preciso –quello che abbiamo visto, sulla presunta debolezza di Genova ch’è, in fondo, la sola vera giustificazione della guerra. In tal senso, per dirla tutta, capovolgerei il giudizio della Pastorello che dopo aver citato la lettera di Petrarca e quella del Dandolo commenta a proposito di quest’ultimo: «parole di passione e di realtà vissute, parole di ieri e di oggi, a controbattere le quali il richiamo ad una legge superiore di giustizia, perché astratto nella forma e almeno prematuro nel tempo, doveva inevitabilmente riuscire inadeguato»57. In questa prima lettera, insomma, impiegando tutte le armi della cultura e della migliore retorica Petrarca può recitare la parte dello suasor pacis, e tanto meglio può farlo ora che di tale ruolo è per il momento semi-ufficialmente e di lì a poco ufficialmente investito da due poteri, il papato e il Visconti, sostanzialmente concordi seppur da punti di vista diversi nel voler evitare una guerra che trascinata dalle sue stesse logiche avrebbe prevedibilmente finito per investire l’Italia minacciandone i fragili equilibri e turbando i loro stessi interessi. Ma non saremmo dinanzi a Petrarca se non avessimo poi qualche sorpresa. Solo in nome di uno schema abbastanza superficiale per quanto fortunato, infatti, si può riguardare all’insieme dei suoi interventi come a un tutto unico governato dalla medesima logica che, per semplicità, diremmo pacifista ad oltranza. Non è così, o almeno, non è del tutto così, e le sue mosse successive, quelle nei confronti di Genova, hanno un tono molto diverso e sollevano più di una perplessità.

. Ed. Rausa, cit., p. 184. . E. Pastorello, Introduzione, cit., pp. XIX-XX.

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V. Il primo novembre 1352, dopo i tentativi clamorosamente falliti di Clemente VI per evitare la guerra, Petrarca da Avignone scrive la Fam. XIV 5 al Doge e al Consiglio di Genova, e ad essa qualche mese dopo, febbraio o marzo del 1353, farà seguire la Fam. XIV 6, assai vicina, questa, a un nuovo tentativo pur esso inutile di Innocenzo VI58. Riesce naturale mettere queste nuove lettere in parallelo con quelle indirizzate al Dandolo, ma appena lo si fa emergono profonde differenze. Alcune dipendono dalla mutata situazione: non siamo più nella fase di preparazione della guerra, ma a guerra inoltrata, e in particolare dopo la battaglia del Bosforo che per la sua durezza e per le circostanze in cui si è svolta (il mare agitato, il combattimento notturno, il numero dei morti) colpì tanto i contemporanei e lasciò ampie tracce nei cronisti. Altre dipendono dalla mancanza di un interlocutore personalizzato e magari conosciuto da Petrarca: ciò accentua il carattere ‘istituzionale’ della missiva e per contro la priva della dimensione colloquiale e della fine dialettica psicologica che caratterizzava quella al Dandolo. Ma sono soprattutto gli argomenti e il tono complessivo che mutano completamente, in modo piuttosto imbarazzante. Intanto, Venezia è quasi del tutto assente. Petrarca, nella sua prima ai genovesi, Fam. XIV 5, dice sùbito, è vero, di avere già scritto al doge di Venezia «ut surgentes irarum flammas extinguerem»59, ma in seguito dice poco altro: quando con forti colori descrive la battaglia del Bosforo (§§ 8-10), mette un’enfasi particolare nel proclamare vincitori i genovesi ai quali si rivolge, ribadendo a distanza lo stesso modulo retorico: «Vicistis; conquescite […] Vicistis, viri fortes; ostendite nunc … » (§§ 3 e 15)60, mentre i veneziani non sono affat58 . La Venetiarum historia del Giustiniani, ed. Cessi-Bennato, cit., p. 237, ne riferisce così: dinanzi a Innocenzo VI gli ambasciatori veneziani «cum Ianuensibus coram papa [Innocenzo VI] fuerunt et super negotio disputando talia verba inhonestatis per parte relacta et dicta sunt, quod in discordium recesserunt». Secondo Matteo Villani, invece, III 54, ed. Porta, cit., p. 389: «In questo medesimo verno papa Innocenzio mandò al Comune di Genova e a quello di Vinegia che mandassono a·llui li ambasciadori ch’erano stati a papa Clemento a trattare della loro pace, e per la morte sopravenuta del detto papa se n’erano partiti sanz’essere d’acordo, però ch’elli intendea di metterli in pace giusto suo podere. I Genovesi non vollono tornare a corte, né entrare in trattato di pace co’ Viniziani, anzi ordinarono lega e compagnia co·rre d’Ungheria contro a’ Viniziani». 59 . In questo passo c’è una particolare finezza di tratto, là dove Petrarca scrive di essersi rivolto «apud inclitum Venetorum ducem, cui et notior sum et vicinior tunc eram» (§ 2): insomma, ora non gli è più tanto vicino … 60 . Andando oltre le percezione che si aveva di questa battaglia, ben testimoniata da Matteo Villani, II 75, ed. Porta, cit., pp. 319-20, nel caso più ‘petrarchesco’ di Petrarca: «Della quale vittoria avegna che molto ne montasse in fama il Comune di Genova, più tristizia ch’allegrezza, più pianto e dolore che festa tornò a la loro patria: trovossi all’ultimo di questa maladetta guerra di queste armate, che tra morti in battaglia, e anegati in mare, e periti di pestilenzia, tra l’una parte e l’altra più di VIIIm Italiani vi morirono in quello anno». In campo genovese. Giorgio Stella proclama il ‘trionfo’ dei genovesi, naturalmente, ma lo tempera anch’egli con l’amara considerazione del prezzo pagato: i genovesi «licet victores extiterint, ex percussis tamen et occisis multis numero Ianuensibus, Ianue eiusque territorio orta est amaritudo non parva: de hoc enim triumpho non vidi per annum agi memoriam, nec ex eo Ianue presidem, ut moris est, templo alicui aliqualem

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to distinti dai loro alleati catalani e greci, ma posti insieme a loro in forte contrapposizione con la sola virtus dei genovesi, esaltata senza riserve : Quis unquam simile aliquid audivit, quis tale aliquid vidit aut legit? Magna unius, magna etiam alterius lucis parte et tota interim nocte pugnatum cum fluctu cum vento cum hostibus. Tres ab adverso acies, et in unum coacte de diversis tractibus tres disiunctissime nationes; in medio Ianuensium sola virtus, sola Ianuensium fortuna.

L’esaltazione dei genovesi e delle loro innumerevoli vittorie percorre del resto gran parte della lettera. Se là, al Dandolo, Petrarca metteva in guardia i veneziani dal sottovalutare la forza dei genovesi e su ciò basava la sua esortazione alla pace, qui al contrario egli parla a degli invincibili. Ciò comporta un altro essenziale elemento di differenza: da questa lettera è del tutto assente la basilare considerazione che guidava quella al Dandolo, cioè l’impossibilità di una vera vittoria e del conseguente rischio di collasso per entrambe le repubbliche, quale che fosse l’esito della guerra. In questo quadro spicca, tra altro, ancora un particolare. Petrarca rimproverava al Dandolo l’alleanza con Pietro IV d’Aragona e finiva per metterla sullo stesso piano di quella, appena accennata, dei genovesi con i ‘tiranni’ d’oriente61, ma ora, scrivendo ai genovesi, tace di ciò, quando invece l’alleanza di questi ultimi con il re d’Ungheria e il patto d’amicizia con i Turchi avrebbe motivato un analogo e assai più giustificabile sfoggio di indignazione62. Che dice allora la lettera? Nell’ordine, tre cose: incita i genovesi a trasformare una guerra italiana e intestina in una guerra esterna contro aragonesi oblationem impendere, forsan quod, deficientibus hoc prelio Ianuensibus tot probis, huius diei minime palma recollitur» (Georgii et Johannis Stellae Annales genuenses, a cura di G. Petti Balbi, RR.II.SS XVII 2, p.152). La Petti Balbi opportunamente ricorda come il troppo duro prezzo della vittoria abbia indotto i genovesi a tentare una via per la pace presso Clemente VI nell’ottobre del 1352: vd. sopra, nota 34. Della stessa studiosa vd. pure L’identità negata: Veneziani e Genovesi nella cronachistica delle due città (secc. XII-XIV), in Genova, Venezia, il Levante nei secoli XIIXIV, in «Atti della Società ligure di Storia patria», n.s. XLI (CXV), 1, 2000, pp. 413-40, per una caratterizzazione del diverso ‘tono’ dei rispettivi cronisti. 61 . Fam. XI 8, 29: «Quanto dignius fuerat […] Venetos cum Ianuensibus unum fieri, quam formosum corpus Italie lacerari, vobis occidentalium, illis, ut audio, dextras orientalium tyrannorum in partem furoris implorantibus». 62 . Sullo sfondo del dissolvimento della lega anti-turca del 1343-’44, i Turchi Osmani di Urchan aiutano infatti i genovesi fornendo loro viveri e informazioni e, stando a Matteo Villani, II 75, ed. Porta, cit., p. 318, anche «LX legni armati»: vd. Manfroni, Le relazioni , cit., pp. 709-10; Balard, A propos de la bataille du Bosphore, cit., pp. 443-4; Id., La Romanie génoise, cit., p. 81. Ciò, quando la percezione del pericolo che i Turchi rappresentavano per la cristianità era assai viva sia in Clemente VI che in Innocenzo VI (vd. Giunta, Sulla politica orientale, cit., passim). Per l’alleanza con Luigi d’Ungheria, vd. Lisciandrelli, Trattati e negoziazioni, cit., n° 574, 3 luglio 1352, p. 115; n° 579, 20 settembre 1352, p. 115; n° 582, 22 ottobre 1352, p. 116, per la definitiva stipula di un trattato biennale contro Venezia e i suoi alleati.

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e greci considerati quali infidi istigatori dello scontro con Venezia, ed a impegnarsi in una crociata per la liberazione della Terra Santa (§§ 11-14); li esorta a mostrare, dopo la vittoria, virtuosa moderazione, dimostrando ‘uniformità e ‘costanza’ (§§ 15-16), e infine si diffonde a lungo, sino alla fine della lettera (§§ 17-31) sul rischio mortale che per Genova le divisioni interne hanno rappresentato nel recente passato e potrebbero tornare a rappresentare63. Di là da alcune contraddizioni immediatamente percepibili: per non dire altro, incitare i genovesi alla guerra contro i greci e dunque ad estendere il loro potere a oriente non è, nei fatti, molto diverso dall’incitare alla guerra contro Venezia, né di per sé l’esortazione a superare le divisioni interne comporta che si faccia la pace con la città nemica, potendo significare addirittura il contrario …, colpisce un inusuale tono bellicoso del tutto fuori misura, del quale fanno le spese gli aragonesi e l’infame ed eretico imperium dei greci presentati, s’è visto, quali perfidi istigatori, quando la verità, che tutti presumibilmente sapevano, era l’esatto contrario (§ 14: «adversus infidos instigatores ultricia simul arma 63 . Nella Fam. XV 7, a Stefano Colonna proposto di Saint-Omer, § 6, Petrarca scrive che «consuetudine iam vetusta externi belli finis principium sit civilis». È nel contesto di questa prima lettera al doge di Genova che Petrarca inserisce la famosa descrizione della città che tanto l’ha colpito nell’infanzia e che già ho ricordato all’inizio di questo saggio. Ma ad essa egli contrappone una successiva stagione di decadenza che ha talmente trasformato quei palazzi e quei luoghi «ut deserta et inculta et feda civitatis facies et litoreum illud decus, pro edium magnificentia in totidem speluncas latronum versum, horrorem ac metum pretereuntibus incuteret» (§ 27). Il riferimento, chiarito nelle righe che seguono, va alle lotte interne tra guelfi e ghibellini, e alla reazione dei fuorusciti ghibellini, in ispecie Spinola e Doria, che nel 1317 ottennero l’appoggio di Matteo Visconti che inviò il figlio Marco ad assediare la città. I guelfi si affidarono allora alla Lega guelfa, e nel luglio 1318 in città arrivò Roberto d’Angiò, che vi rimase per un anno, ottenendo la signoria della città per dieci anni insieme a papa Giovanni XXII. In seguito, nel 1335, i ghibellini riottenero il potere ma lo persero nel 1339 quando si ebbe la riscossa popolare che portò all’elezione di Simone Boccanegra quale doge unico. E tale istituzione è elogiata da Petrarca, come quella che ha restituito splendore e sicurezza alla città: «… donec tandem malis admoniti, ad unius iusti ducis auxilium confugistis, qui optimus proculdubio reipublice status est» (§ 29: vd. Fam. XVII 4, 10). Per la turbolenta fase angioina, vd. oltre la sintesi di T. Ossian De Negri, Storia di Genova, Milano, Martello, 1968, pp. 438-45, il diffuso racconto dello Stella, Annales, ed. Petti Balbi, cit., pp. 86-9; Petri Azari Liber Gestorum in Lombardia, a cura di F. Cognasso, RIS XVI 4, pp. 24-25; G. Villani, Nuova cronica, X 93-9, ed. Porta, Parma, Guanda, 1991, II, pp. 298-304. Vd. D. Abulafia, Genova angioina, 1318-35: gli inizi della signoria di Roberto re di Napoli, in La storia dei genovesi, Genova, Tipolit. Sorriso Francescano, 1994, XII parte 1a, pp. 15-24; il recente e importante contributo di J.-P. Boyer, La prédication de Robert de Sicilie (1309-1343) et les communes d’Italie: le cas de Gênes, in Prêcher la paix, cit. (nota 31), pp. 383-411, ove si analizza la politica angioina nei confronti di Genova e si pubblicano in appendice quattro sermoni di re Roberto rivolti ai genovesi. Ma per una colorita descrizione di queste vicende genovesi che continuavano «a contorcersi in infiniti avvolgimenti» e intricate lotte di fazioni vd. ancora R. Caggese, Roberto d’Angiò e i suoi tempi, Firenze, Bemporad, 1930, II, pp. 27-37, e ora il sintetico giudizio sulla cronica instabilità e sul perenne stato di guerra civile che ha caratterizzato la storia di Genova di R. Musso, La tirannia dei cappellazzi. La Liguria tra XIV e XVI secolo, in Storia della Liguria, a cura di G. Assereto e M. Doria, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 43-60: pp. 43-47. Qui opportunamente si ricorda che dei trentotto dogi ‘perpetui’ che vi furono dal 1339 al 1528, solo tre morirono in carica, mentre gli altri furono deposti dopo poco o pochissimo. Al discorso sulle perpetue discordie interne dei genovesi è pertinente anche É. Crouzet-Pavan, Gênes et Venise: discours historiques et imaginaires de la cité, in Le forme della propaganda politica, cit., pp. 427-53, che mostra la «mise en image avortée» della città rispetto a quella di Venezia.

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vertatis, et illis ferro laqueo pelago absumptis, quod momento temporis fieri potest, mox expeditionem piam ad liberationem Terre Sancte atque obsequium Iesu Cristi feliciter assumentes, spectaculum mundo et posteritati gratissimum prebeatis!»). Insomma, nel corso della lettera il punto di partenza – la necessità della pace con Venezia- passa largamente in secondo piano, con il paradossale risultato che leggendo la frase finale: «Si hinc caveritis [dalla guerra civile] cetera tuta sunt; victores ex omni acie redibitis. Amate vos invicem, amate iustitiam, amate pacem, et si studium belli tenet, ite in bella feliciter –nunquam hostes deerunt-; tantum belli civilibus abstinete», non si può non essere indotti a intendere che ogni guerra, eccettuata quella civile, è lecita ai genovesi, destinati a riuscire inevitabilmente vincitori. Se passiamo alla seconda lettera, Fam. XIV 6, le cose non cambiano: semmai, s’aggravano. La lettera tutt’intera è infatti un isterico incitamento alla guerra di sterminio contro gli aragonesi, intesa come l’attuazione della profonda vocazione imperialista di Genova nell’area mediterranea e quale sostanziale rimedio alla ‘ruggine’ delle sue divisioni interne. Non è il caso di analizzarla minutamente, basta leggerla sin dalla prima riga: Quod optabam video; ab ortu ad occasum victricia signa convertitis. Hic precor incumbite, viri fortes; hoc agite; hoc pium hoc iustum hoc sanctum hoc minime italicum bellum est; hic rei militaris artificium atque animos exercere, hic vos impetum sequi cupio; hinc enim prima malorum radix vestris extirpanda securibus; hic est rex ille periurus […] Ecce iam promissum illi tempus advenit; Thirreno atque Africo mari rependitur quod defuit Hellesponto; pontus occiduus cedibus fumat et suis ardet incendiis; quin et in terram egressi ferro ac flammis inopum predonum tecta vastatis. Insistite, oro, et nolite desistere; persequimini inimicos vestros et comprehendite illos et nolite converti donec deficiant, ut ait Psalmista [17, 38-9]; confrigite illos: non poterunt stare, cadent subtus pedes vestros […] Hic est, inquam, ille rex insolens, federum contemptor ac fidei; hic populus pacis impatiens; hec scelerata classis et impia; hi vestri et publici hostes sunt. Et vos simul et rempublicam vindicate, et hos barbaros agnoscere cogite se amenter adversus iustitiam et armatos viros bellum indignum ac nefarium suscepisse, Venetorum auro attonitos et ceca cupidine alienarum opum […] Qui semper pacis autor esse soleo, nunc fidenter hoc dixerim; expedit vobis vel ista vel similia iusta bella non mori. Rubigo civilis externo labore detergitur; nescio quid vobis animi est; vestre me, fateor, iniurie exacerbant; itaque peream si in his literis ullam pacis legeritis mentionem. Opto vobis incruentam de perfido hoste victoriam.

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‘Possa io morire se in questa lettera potrete leggere anche un solo accenno alla pace’. Strano finale per una lettera che si pretende dettata per mettere pace! Davvero la piccola foglia di fico di quell’iniziale «hoc minime italicum bellum est» non basta a coprire la gridata sostanza di un opportunistico e strumentale inno alla guerra contro i ‘poveri’ e oltre ogni limite demonizzati aragonesi 64, da sempre e naturalmente in lotta con Genova per il controllo della Sardegna e della Corsica entro il comune spazio vitale del Mediterraneo occidentale. L’impressione, insomma, è che dietro Pietro IV Petrarca abbia di mira proprio i veneziani. Nella lettera precedente era troppo spudorata per non essere voluta la bugia che faceva del re aragonese e del Cantacuzeno degli ‘istigatori’ ai quali si doveva risalire e che dovevano essere distrutti, mentre qui, si noti il ribaltamento, la verità è dichiarata a chiare lettere: i catalano-aragonesi si sono stoltamente gettati nell’avventura anti-genovese proprio perché istupiditi dall’oro di Venezia, l’istigatrice vera della guerra. Molte altre cose si potrebbero dire, sullo strano tono di queste due lettere e sulle loro imbarazzanti contraddizioni quando le si voglia interpretare come messaggi di pace, secondo quanto una debolissima verniciatura di facciata vorrebbe far credere. Applicando a Genova quanto il Dandolo rivendicava per la sua Venezia, non c’è dubbio che per Petrarca le guerre (al plurale!) dei genovesi sono guerre ‘giuste’ che non devono assolutamente ‘morire’ prima della loro vittoriosa conclusione: «expedit vobis vel ista vel similia iusta bella non mori». La cosa essenziale è tuttavia un’altra, e di colossale evidenza, come s’è già detto: esaltare la vocazione imperiale di Genova sul mare e pungolarla con tanta veemenza alla guerra mediterranea, contro aragonesi e greci nella Fam. XIV 5 e contro gli aragonesi nella successiva, non significa altro che buttare legna sul fuoco della guerra con Venezia. Immagino che questa mia appaia come un’affermazione rischiosa, ma solo intendendo così si spiegano le varie aporie delle due lettere, ed esse diventano leggibili entro l’ottica politica che giustamente reclamano. E così si spiega anche la profonda diversità, per non dire vera e propria opposizione, tra le lettere al Dandolo e queste, esemplari di una doppia convergente linea: la prima, intesa a prospettare con molto realismo a Venezia i rischi di una guerra con Genova che si sarebbe rapidamente trasformata in una guerra italiana con tutte le esplosive conseguenze del caso; la seconda, intesa a indebolire Venezia tenendola sotto scacco sul mare dinanzi all’iniziativa 64 . Direi che questi ‘poveri predoni’, secondo l’insultante quasi-ossimoro petrarchesco, risentano della dantesca «avara povertà di Catalogna» (Par. VIII 77), confermando la vitalità di un blasone negativo che tornerà, per esempio, anche in Sannazaro, Arcadia, egl. X 69-72 (vd.per ciò E. Fenzi, L’impossibile Arcadia di Iacopo Sannazaro, in «Per leggere», 15, 2008, pp. 157-78: pp. 169-70).

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genovese che non deve affatto cessare, al contrario! costringendola dunque a svenarsi per sostenere i suoi alleati. A chi questa doppia linea faccia capo non è difficile dire: non può essere che l’arcivescovo Giovanni Visconti che si prepara a fronteggiare le sin troppo prevedibili mosse di Venezia contro di lui e che ha un interesse vitale a tenerla il più possibile lontana da un intervento diretto sullo scacchiere italiano (in questo senso quella che sopra ho definito la piccola foglia di fico di quell’iniziale «hoc minime italicum bellum est» ritrova tutta la sua verità). Ma non basta. Dopo anni di ambigui rapporti e di ventilate alleanze con Pietro IV, tutte ruotanti intorno a una Genova da distruggere per il re e da indebolire solo quel tanto che fosse necessario per portarla sotto il suo controllo per l’arcivescovo, proprio a cavallo tra il 1352 e ’53 saltano i rapporti tra Pietro IV e Giovanni Visconti che riprende le vecchie rivendicazioni milanesi sulla Gallura ed è pronto ad appoggiare sia Genova sia, in Sardegna, Mariano IV d’Arborea. Ecco dunque che nei primi mesi del 1353 il Visconti fa arrestare Romeo Lull, inviato da Pietro IV ambasciatore a Venezia, e del 1° aprile è l’ordine del re, valido per il regno di Valenza, la Sardegna, il regno di Maiorca, e la Catalogna, il Rossiglione e la Cerdagna «di arrestare tutti i Lombardi e sudditi dell’arcivescovo di Milano che fosse possibile reperire e confiscare i loro beni»65. La coincidenza tra i tempi dell’azione e quelli delle due lettere ai genovesi è troppo stretta per essere casuale. Petrarca, che proprio in quei mesi si prepara al gran salto verso Milano, dà voce in tempo reale alla politica viscontea, e insomma si sta meritando i galloni di ambasciatore che di lì a poco l’arcivescovo gli conferirà. VI. La seconda lettera ai genovesi, Fam. XIV 6, è, ripeto, del febbraio-marzo 1353, e perciò immediatamente contemporanea all’alleanza tra Mariano IV, Genova e Milano (anche se il Visconti resta in secondo piano) contro i catalano-aragonesi, ed è singolare che per il momento la guerra con Venezia sembri essere altra cosa, tant’è che Petrarca evita di nominarla. Il teatro della guerra s’è in ogni caso spostato nel Mediterraneo occidentale. Poco tempo dopo, gli ultimi giorni d’agosto, la flotta genovese comandata da Antonio Grimaldi è clamorosamente sconfitta presso Alghero dalla flotta congiunta degli aragonesi e dei veneziani guidata dall’am65 . G. Bernuzzi, Relazioni politico-diplomatiche tra i signori di Milano e la Corona d’Aragona durante il regno di Pietro il Cerimonioso. L’epoca di Luchino e Giovanni Visconti, in «Nuova rivista storica», LXIII, 1979, pp. 275-91: pp. 285-6. Lo studio ricostruisce il complesso gioco politico che ha Genova come posta, e illustra bene, in particolare, la dura reazione di Pietro IV contro il passaggio di Genova sotto il controllo del Visconti, che diventa l’insormontabile ostacolo sulla via di una possibile pace. Solo dopo la morte dell’arcivescovo essa comincia a sembrare possibile, e dopo che i veneziani hanno separatamente firmato la loro con i genovesi, nel giugno 1355, e infine dopo che, nel 1356, col ritorno del Boccanegra, Milano perde la signoria su Genova.

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miraglio Nicolò Pisani, e nel settembre prendono avvio le trattative che porteranno Genova a parare il colpo ponendosi dal 10 ottobre sotto la signoria del Visconti. Petrarca segue queste trattative, discute con i membri della delegazione genovese (ma declina l’invito a tenere l’orazione ufficiale il giorno della firma del trattato) e tra la fine dell’anno e l’inizio del successivo è incaricato di guidare un’ambasciata a Venezia per indurla alla pace66. Ciò significa che, stabilitosi a Milano quasi certamente a partire da giugno, Petrarca è sùbito entrato a far parte della diplomazia viscontea in un ruolo di spicco, confermando pienamente l’ipotesi che le lettere sin qui considerate non siano private esternazioni ma rientrino in una vera e propria attività politica di supporto alle strategie del signore di Milano, e che soprattutto esse siano la parte visibile di un impegno che ha avuto contorni sicuramente più ampi e articolati. Le due Fam. XVII 3 e 4 all’amico Guido Sette danno conto dei nuovi fatti: la sconfitta dei genovesi e la loro volontaria sottomissione al Visconti. La prima lettera, che precede l’atto di sottomissione, è del settembre. Petrarca si mostra sinceramente sbalordito dell’èsito della battaglia, e ne trae occasione per un lungo discorso tipicamente suo infarcito di rimandi morali, religiosi e storici (Alessandro Magno, Ettore, Annibale, Pompeo, Cesare …) relativi all’instabilità e alla fatale rovina delle cose umane, e solo dopo una lunga introduzione, §§ 1-14, affronta l’argomento principale prendendolo, come spesso fa, di sbieco: Dum talia volverem iratus tibi et fortune mee, ecce subito fama tristior infelicis Ianuensium belli terribili tonitru percussit aures meas. Obrigui stupens […] quid vero nunc loquar, quibus verbis magnitudinem rei equem? ‘Quod verebar accidit’: id si dicam, mentiar. Imo vero accidit quod vix possibile arbitrabar. Ianuensium classem profugam mare vidit et stupuit; nam si raritas miraculum facit, quid rarius quam Ianuenses in pelago iusta acie vinci? Quamvis nec iusta acies nec par classis, sed auxiliorum illuvies externorum et plures adversus unam gentes et exercitus inde numerosior, et cum ventis atque hostibus prorsus non equo Marte certatum est (§§ 15-6).

Da qui, e dal tono con il quale il discorso procede, resta confermato tanto lo stupore quanto il fatto che Petrarca assume un punto di vista filo-genovese, ed è significativo al proposito che di Venezia non si faccia parola e solo vi 66 . La data è discussa (vedi nota 24), ma mi sembra ancora preferibile la convinzione di Wilkins, secondo il quale l’ambasciata andrebbe posta nei primi mesi del 1354.

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si alluda indirettamente là dove si parla della ‘moltitudine di alleati stranieri’ (di chi?), che non possono essere, ovviamente, che gli aragonesi. C’è anche, sùbito, un tentativo di giustificazione: lo scontro non sarebbe stato ‘giusto’, cioè con equilibrato dispiegamento di forze, e le condizioni del mare sarebbero state contrarie ai genovesi. Ma avanti nella lettera Petrarca aggiunge altro. Riconosce d’essersi sbagliato nel prevedere nelle lettere precedenti l’inevitabile vittoria dei genovesi, ma ricorda anche d’aver posto come condizione la concordia, proprio quella concordia che nell’occasione è mancata, sì che la sconfitta sarebbe stata la conseguenza delle loro divisioni interne: Quid igitur? An mentitum esse non pudet? Puderet utique si mentitum me crederem. Nunc vero ita demum michi victorias semper et felicitatem perpetuam pollicebar, si civilis unitas infracta concordie non deesset, que profecto defuit. Sunt qui odio ducis victos sua sponte milites affirment; quod si ita est, novum non est, talem olim aliquid ex historiis scimus. Sunt qui odio militum ultro cessisse ducem ferant, quod si credimus, exemplum flagitii non occurrit (§§ 34-5).

Così, Petrarca offre separati gli elementi che ritroviamo nella lunga minuziosa cronaca della battaglia fatta da Matteo Villani, che precisa il numero delle forze in campo: cinquanta galee aragonesi più venti dei veneziani che in più avevano anche «tre gran cocche incastellate, e armate di CCCC combattitori per cocca»67, mentre i genovesi erano partiti con sessanta galee scarsamente equipaggiate, e per questo ridotte poi a cinquantadue meglio armate. Non è tuttavia l’inferiorità numerica che spiega la sconfitta, né il «vento di verso scilocco» che si era improvvisamente levato favorendo il movimento delle cocche, quanto l’inaspettata ritirata dell’ammiraglio genovese, il Grimaldi «invilito nell’animo suo» che, mentre diciannove delle sue imbarcazioni erano impegnate in una manovra di aggiramento, e quando ancora la situazione era in parità e nessuno dei contendenti poteva sperare piena vittoria, «abbandonata la battaglia, e lasciate l’altre galee insieme alla fronte di nimici, fece la via di Genova sanza tornare all’oste»68. Sì che a quel punto i rimasti s’affrettarono ad arrendersi. Insomma, qualcosa non ha funzionato in 67 . La cocca era un tipo di imbarcazione a un solo albero munito di una grande vela quadra e di un’unica grande stiva che la rendeva un’ottima nave da carico. Con l’aggiunta di due castelli, a prua e a poppa, diventava una temibile nave da guerra. Vd. Matteo Villani, III 79, ed. Porta, cit., pp. 420-5. 68 . Zurita, Anales, VIII 52, ed. Canellas Lopez, cit., IV, p. 236: «el capitán de la señoria de Génova se escapó huyendo con diez y siete galeras». Vd. anche L. A. Muratori, Annali d’Italia dal principio dell’era volgare sino all’anno MDCCXLIX, Milano, Società tip. de’ classici italiani, 1819, XII, p. 429: «Per viltà d’Antonio Grimaldi loro ammiraglio, che con diecinove galee se ne fuggì, rimase il rimanente sconfitto».

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quella che oggi diremmo la catena di comando, mentre la nomina stessa del Grimaldi non doveva essere stata pacifica se ancora Matteo Villani riferisce che una volta nominato se ne andò con la flotta a Portovenere «per non lasciare mettere scambio a’ cittadini che ‘l procacciavano», cioè per paura che cambiassero idea69. Come che sia, la sconfitta non era irreparabile: ricevuta «con non disordinato danno» la definisce ancora Matteo che piuttosto, come anche lo Stella, fa responsabile della sottomissione al Visconti la discordia cittadina esplosa nell’occasione, perché la parte ghibellina insorse chiedendo la destituzione e la condanna dell’ammiraglio la cui famiglia, insieme a quella dei Fieschi, capitanava la parte guelfa70. Ed è interessante che il suo giudizio coincida perfettamente con quello che Petrarca esprime nella lettera successiva, la Fam. XVII 4, nella quale dà conto a Guido Sette delle trattative e della loro conclusione. Qui, nella prima parte, probabilmente per aver avuto informazioni migliori, oltre al fatto di essere condizionato dal punto di vista dei ghibellini che avevano il loro principale puntello politico nel Visconti, Petrarca scioglie il dubbio circa l’attribuzione di responsabilità parlando apertamente della codardia dell’ammiraglio (§ 4: «Omnis quidem infelicis prelii in unum ducem culpa reflectitur») che nell’antichità gli avrebbe meritato la crocifissione. Ma subito dopo aggiunge d’aver parlato a lungo con il capo della legazione genovese, e riassume quello che ne ha ricavato: Huius vero tante deiectionis causam didici non hostium metum, quibus multo sanguine nudum victorie nomen constat, non virium diffidentiam quibus se nunc etiam superiores esse confidunt, sed quod ab initio timebamus, intestine malum metumque discordie, primoribus procerum, qui miserari debuerant afflictam plebem, tyrannidis causas per nefariam occasionem impia mente captantibus; quibus territum populum et hinc hostibus hinc civibus quolibet hoste peioribus obsessum, ad huius iustissimi principis confugisse presidium.

La frase dice più di quello che possiamo capire, ma è almeno chiaro che anche Petrarca è dell’opinione che è stata la guerra civile a condurre Genova nelle mani di Giovanni Visconti: anche se, com’è ovvio, proprio le divisioni cittadine comportavano che non tutti fossero d’accordo con una 69 . Vd. Lisciandrelli, Trattati e negoziazioni, cit., n° 595, 10 agosto 1353, per le istruzioni del Comune di Genova al Grimaldi, le quali prevedevano ch’egli cercasse e combattesse le navi catalane e veneziane dovunque fossero, e si alleasse con Mariano IV. 70 . Matteo Villani, III 86, ed. Porta, cit., pp. 433-4, e in particolare Stella, Annales , ed. Petti Balbi, cit., p. 152 («post conflictum instantis anni in multa odia et murmura reprobandarum partium gibellinorum et guelforum incendebatur»). Vd. V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova, Società ligure di Storia patria, 1955, I, p. 137.

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sottomissione che cedeva al ricatto congiunto dei ghibellini ‘estrinseci’ e del Visconti che bloccavano i rifornimenti genovesi e li costringevano alla fame, come riferisce l’Azario: «Nam a partibus transalpinis nulla victualia ultra modica ducebantur, cum domini de Spinolis [capi ghibellini insieme ai Doria, con i quali erano tuttavia in dura lotta] prohiberent et precipue prefatus dominus Archiepiscopus Mediolanio, qui Alexandrie, Terdone et Placentie dominium habebat et qui victualia ipsa totaliter denegabat»71 (e infatti, una volta signore di Genova, l’arcivescovo riaprì i valichi appenninici). Come che sia, Petrarca esalta la pietas e la grandezza d’animo mostrate nell’occasione dall’arcivescovo che accetta la sottomissione solo per sollevare il popolo dalle sue condizioni ed esercitare la giustizia, e tuttavia insinua a modo suo qualcosa di diverso: tutto ciò varrà qualcosa solo se Giovanni Visconti resterà in vita, unica cosa davvero essenziale (§ 9: «si vita comes fuerit – in hoc enim rerum tota vis vertitur»); poi, non è detto che tutto vada bene, ma al Visconti resterà in ogni caso il merito di un ‘pio desiderio’. Ora, l’arcivescovo morirà un anno e due mesi dopo, e può essere dunque che Petrarca pensi sia alle sue condizioni di salute che alle sue insostituibili capacità politiche. E il tanto agognato controllo visconteo su Genova non andrà oltre il 1356, quando il Boccanegra tornerà in città con il benestare dei Visconti e però subito li caccerà, mettendo fine ai loro disegni. Le insinuazioni petrarchesche, di tono così lieve, colgono dunque nel segno quando, oltre le celebrazioni di facciata, sottolineano la precarietà della situazione, che non era affatto risolta dalla ripetizione di una mossa tipica dei genovesi in difficoltà: nel novembre 1311, infatti, avevano offerto la signoria della città lacerata dalle discordie e incapace di governarsi da sola all’imperatore Arrigo VII, e la stessa cosa avevano fatto più recentemente, nel 1318, dandosi a Roberto d’Angiò72. VII. Il passaggio di Genova sotto la signoria del Visconti, nell’ottobre 1353, non poteva andare senza forti reazioni, specie da parte di Venezia che sùbito si mosse, come già accennato, per formare una lega anti-viscontea. Entro una complessa strategia tesa soprattutto a far digerire il fatto compiuto, e dunque a guadagnare tempo e a scongiurare la saldatura di un vasto fronte avverso, Giovanni Visconti medita in un primo tempo di mandare Petrarca 71 . Azario, Liber gestorum, ed. Cognasso, cit., p. 63. Nel raccontare della sottomissione di Genova l’Azario fa protagonisti della trattativa per parte milanese l’amico di Petrarca e destinatario dell’Itinerarium Giovanni di Mandello e per parte genovese Simone Boccanegra, del quale non è chiaro il ruolo avuto. L’Azario, sbagliando, mostra di considerarlo ancora doge di Genova mentre era allora in volontario esilio: vd. Muratori, Annali d’Italia, cit., XII, p. 429, e per i particolari, vd. G. Petti Balbi, Simon Boccanegra e la Genova del 300, Genova, Marietti, 1991, pp. 36-7. 72 . Per l’offerta fatta ad Arrigo VII vd. G. Caro, Genova e la supremazia nel Mediterraneo (1257-1311), in «Atti della Società ligure di Storia patria», n.s. XIV-XV (LXXXIX), 1975, II, pp. 370-81. Per Roberto d’Angiò, vd. sopra, nota 63.

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come ambasciatore ad Avignone73, ma preferisce poi metterlo alla guida di una difficile missione di pace a Venezia, tenendo certamente conto dei rapporti che il poeta già aveva instaurato sia con il Dandolo che con l’imperatore, che Venezia voleva al suo fianco. Di questa ambasceria ci resta l’orazione ufficiale pronunciata da Petrarca dinanzi al Doge e al Consiglio. In modo abbastanza stringato e prevedibile essa torna ad esortare alla pace con Genova, e mette in guardia i veneziani dai rischi che corrono se invece che alla pace mirassero alla vendetta e alla completa distruzione del nemico. Ma assai diplomaticamente sul detto prevale il non-detto delle allusioni. Petrarca infatti evita di affrontare i nodi posti dalla questione affatto nuova, e cioè la recente sottomissione di Genova al Visconti: dice invece che costui è pienamente legittimato a farsi mediatore di pace per salvaguardare le sue terre («mirum non est si ad terrarum suarum requiem studet»), e con perfido sillogismo finge addirittura che tale sottomissione sia riuscita gradita ai veneziani, visto che in un recente passato gli hanno offerto aiuti d’armi e di denaro proprio perché estendesse il suo dominio sulla città74. Di questo fatto non abbiamo altra notizia, ma è almeno verisimile che Venezia appena un anno prima avesse assai gradito il blocco posto dal Visconti a Genova e si fosse offerta in qualche modo di agevolarlo: con ciò, utilizzare la circostanza così come fa Petrarca mentre la lega anti-viscontea già si metteva in moto suona quanto meno provocatorio, e può confermare che l’autore non s’aspettava nulla da un simile discorsetto, per quanto ben fatto, che in fondo sembra avere l’unico scopo di avvertire in forma ufficiale Venezia che ormai tra lei e Genova c’è l’arcivescovo che «ad terrarum suarum requiem studet». Più diretta e importante è invece l’ultima lettera al Dandolo, Fam. XVIII 16 del 28 maggio 1354, nella quale Petrarca torna a rivolgersi direttamente al doge mescolando con grande abilità argomenti politici e pressioni personali. Comincia ricordandogli la prima lettera, la Fam. XI 8 di tre anni prima («ante hoc ferme triennium») e allineando pochi altri avvenimenti essenziali: le due cruente battaglie navali del Bosforo e di Alghero, e la 73 . Vd. Fam. XVII 6, 3-4, al funzionario visconteo Bernardo Anguissola, nel pieno dell’inverno 1353-’54: il viaggio sarà duro, ma «profectionis causa delectat: eo enim ad pacem inter potentissimos duos Italie populus reformandam, tam feliciter utinam quam libenter» (§ 4); Fam. XVII 10, 8-9; Epyst. III 19, ed. Schönberger, cit., pp. 270-3 (vd. A. Foresti, Una missione ad Avignone da parte dell’arcivescovo Giovanni Visconti per la pace tra Genova e Venezia, in Id., Aneddoti, cit., pp. 325-35). 74 . Oratio 2, 3, ed. Godi, cit., p. 414: «Ad hec cum nuper Ianua, sponte sua, dominio eius accesserit –quod vobis pergratum esse non dubitat- vestre caritatis antique memor et nove, quod scilicet, ut antiquam sileam, nuper nondum anni tempore alias spatio elapso, ad hoc, ut ad dicte urbis dominium perveniret, non parvum ei et armate classis et pecuniarium auxilium obtulistis». Per la mancanza di ogni riscontro a questa affermazione (la quale, fatta in sede ufficiale dinanzi al Doge e al Consiglio, non può che essere vera) vd. Fulin, Il Petrarca dinanzi alla Signoria di Venezia, cit., pp. 302-3.

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recentissima e inefficace ambasciata della quale egli stesso era stato messo a capo. Gli animi del Dandolo e degli altri membri del Consiglio si erano tuttavia mostrati ostinatamente chiusi a ogni parola di pace, e neppure l’eloquenza di Cicerone sarebbe riuscita ad aprirli: ma, aggiunge Petrarca, non era servito a nulla neppure il linguaggio dei fatti di un altro membro dell’ambasciata che, nella sua qualità di esperto di cose militari, aveva parlato per ultimo. In questa prima parte della lettera, oltre all’ostinazione veneziana fatta responsabile della guerra, spicca lo sviluppo di un motivo che era anche nella lettera del ’51: la pazzia dell’affidarsi alle truppe mercenarie, con i toni e le immagini forti e accorate che si ritrovano nella canzone Italia mia e che hanno sicuramente a che fare con l’arrivo al soldo dei veneziani e della loro lega (si è parlato di 150.000 fiorini d’ingaggio) delle famigerate milizie mercenarie di fra’ Moriale guidate dal conte Lando, cioè Corrado di Landau75. Proseguendo (§§ 11 sgg.) Petrarca accentua il tono personale dell’esortazione facendo appello all’intelligenza e al cuore dell’interlocutore invitato a riconoscere che sino a questo momento la guerra nonostante le vittorie (ammesso che tali siano state)76 non ha portato a Venezia che perdite di denaro e di uomini, e altro 75 . Matteo Villani, IV 8, ed. Porta, cit., p. 482, e 15, p. 492, parla dell’intenzione della Compagnia di fra Moriale di passare in Lombardia al soldo della Lega anti-viscontea, e dà la cosa come avvenuta, ma sotto il comando del conte Lando ingaggiato per quattro mesi, in IV 19, p. 500: «Il Comune di Vinegia e il signore di Verona e quello di Padova e quello di Mantova e il marchese di Ferrara, collegati insieme contro l’arcivescovo di Milano, avendo condotto per quattro mesi la compagna del conte di Lando, la quale era cinquemiliadugento paghe, ma non avea oltre a IIImD cavalieri bene armati, la quale era partita dalla Città di Castello, e cavalcata sul contado di Bologna facendo danno, se n’andarono a Modona, dov’erano le bastite del signore di Milano, le quali non ebbono podere di levare, e lasciatovi l’asedio cavalcarono in sul bresciano». Più avanti, 29, pp. 514-5, spiega come tale ingaggio finisse per opera dell’imperatore frattanto sceso in Italia: «e però li parve [all’imperatore] che tutte le cose fossono assai bene disposte al suo proponimento collo quale s’era mosso a farsi trattatore di pace, per accattare da ogni parte benivolenza, e non prendere nimicizia conn·alcuno, e però cominciò a trattare della pace; e parendoli che catuno si disponesse a volerla, acciò che quelli della lega non portassono la gravezza del soldo della Gran Compagna, la fece licenziare a dì VIII del mese di novembre, e quelli della compagna ne furono contenti: ed essendo in sul bresciano, parte ne condussono i signori di Milano, e parte la lega, e i·rimanente si ritenne in compagna col conte Lando». Vd. Muratori, Annali d’Italia, cit., XII, p. 439; E. Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, Torino, Pomba, 1845, II, pp. 113-4; G. Gerola, Fra’ Moriale in Toscana, in «Archivio storico italiano», s. V, XXXVII, disp. 2, 1906, pp. 261-300, in part. pp. 297-8, per il trasferimento nel nord dell’Italia, al soldo della Lega anti-viscontea, del solo conte Lando. Per un panorama generale, vd. E. Sestan, L’Italia del Petrarca «tra tante pellegrine spade» (1977), in Id., Scritti vari. II. Italia comunale e signorile, Firenze, Le Lettere, 1989, pp. 205-29. Circa l’accenno a Italia mia, penso di dedicare uno specifico intervento alla discussa questione della sua data, che a parer mio va alquanto abbassata, proprio per gli stretti rapporti con queste nostre epistole: vd. ora G. Baldassari, Unum in locum. Strategie macrotestuali nel Petrarca politico, Milano, LED, 2006, in particolare pp. 171 sgg., e la bella lettura di S. Stroppa, “Italia mia” (Rvf 128): Petrarca suasor pacis, in «Romance Quarterly», LIV, 2007, pp. 195-216. 76 . Scrive Petrarca: «victi fuistis et vicistis» (§ 13), riferendosi alle battaglie del Bosforo e di Alghero, e aggiunge: «primum forte negaveris». Nella risposta, infatti, del Dandolo, Amice, dum singulare, quella che il Ravegnani gli fece avere dopo la morte del doge (vd. nota 25), c’è, puntuale, la correzione che obbedisce alla versione ufficiale: «Et, quamvis in Hellesponto nos semel

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certamente non porterà visto che ora il nemico non è più solo Genova ma la Liguria tutta, e con Genova e la Liguria anche il Visconti. Del resto, Milano e Venezia hanno responsabilità particolari nel mantenere la pace, mentre la guerra serve solo a chi vive di rapina, cioè, di nuovo, le truppe mercenarie, razza di lupi e avvoltoi desiderosi solo d’oro e di sangue. La bella perorazione che chiude la lettera, infine, fa appello alla coscienza del Dandolo affinché non ceda al furore popolare ed eviti una guerra che finirà per inondare di sangue l’Italia, e la trasformerà in un deserto e in un paese di barbari, mentre le ultime parole, con eccezionale stacco retorico, compendiano la posizione personale di lui, Petrarca, dinanzi a ciò che sta avvenendo: Alioquin omnia videns Deus Cristus michi et presens in omne evum epystola testes sint […] quod in perniciem Italie non modo non pergis auctore Francisco, sed pro viribus reluctante teque, quando aliud nequit, alto suspirio et magnis animi gemitibus revocante. Vale.

Questa lettera rappresenta l’ultimo intervento diretto di Petrarca di cui si abbia testimonianza, e ci permette, a questo punto, qualche considerazione d’insieme. Sempre si è detto dagli studiosi e lettori di Petrarca, anche sull’onda di quello che ne ha detto egli per primo, che queste lettere e l’ambasciata sono state perfettamente inutili, e ne hanno derivato la dimostrazione della vacuità di interventi meramente retorici, ispirati a una logica tutta intellettuale e astratta senza alcun rapporto con i fatti. Non credo sia così, e a quanto detto sin qui vorrei aggiungere ancora qualcosa. Petrarca con ogni evidenza si muove e parla da diplomatico, e di tale ruolo è del resto ufficialmente investito, sì che, in ultima analisi, eventuali inutilità e fallimenti non possono essere addebitati a lui ma alla politica di Giovanni Visconti, della quale era al servizio al pari degli altri diplomatici della cancelleria viscontea (tutti falliti, dunque? anche l’esperto militare che l’accompagnava?). In altri termini, la vecchia posizione di De Sanctis è contraddittoria al limite della mala fede: egli sostiene infatti che la presenza di Petrarca in veste di diplomatico era puramente ornamentale, non di sostanza, e però sùbito dopo gli imputa il fatto di non essere mai riuscito a ottenere qualcosa. Ora, se è vera la prima cosa, è assurdo imputargli la seconda. Se invece non è vera, quello che ha o non ha ottenuto è assai arduo da determinare, e va comunque giudicato con il metro con il quale si giudica qualsiasi altra attività diplomatica, cioè la capacità di interpretare e dare forma a una victos esse descripseris, quod in facto sic erraveris ut de loco quem Prepontum nostri nominavere maiores» (ed. Rausa, cit., pp. 193-4).

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linea politica complessiva –nel caso, ripeto, né più né meno quella di Giovanni Visconti- indipendentemente da un calcolo immediato del successo o dell’insuccesso, che richiede prospettive ben più ampie. Ma poi, è vero che egli abbia fallito? Neppure questo credo si possa dire. Per quanto gli competeva, egli con largo anticipo e nell’interesse dei Visconti ha cucito addosso all’intervento di Carlo IV un’interpretazione che sul piano ufficiale si sarebbe rivelata vincente, proprio quando Firenze e Venezia lo invocavano al loro fianco quale alleato in guerra aperta contro Milano. Al proposito il discorso dovrebbe essere lungo, ma mi limito a ricordare che egli aveva guadagnato la fiducia dell’imperatore; che per una decina di giorni fu presso di lui appena sceso in Italia, a Mantova, nel dicembre del 1354 (allora, il giorno 20 del mese, Carlo IV concesse il vicariato imperiale ai fratelli Visconti), e che si pensò che proprio allora egli avesse collaborato da comprimario alle iniziative di pace tra Genova e Venezia che, protratte nei mesi successivi, portarono alla pace dell’1 giugno 135577. Petrarca smentì d’aver avuto questo ruolo, spiegando a Lelio di non essere stato mediatore della pace ma di averla desiderata e raccomandata, e di non essere stato presente alle trattative ma sì alla loro conclusione78. La circostanza resta tuttavia significativa sia per sé, sia perché ci riporta alla sostanza. Petrarca ha avuto un qualche ruolo nella pace? Certo, il ritorno in forze dei genovesi sul mare che ha portato alla vittoria sulla flotta veneziana a Portolongo e alle scorrerie di Paganino Doria nell’Adriatico sino alle porte di Venezia è stata determinante, così come lo è stata la morte di Giovanni Visconti e del Dandolo, e come lo sono state mille altre circostanze, non ultimo l’insostenibile peso economico della guerra che aveva dissanguato entrambe le città. Tra tutte queste circostanze, il lavorìo della diplomazia, di tutta la diplomazia, nell’accompagnare i fatti avrà pur avuto la sua parte, e non si vede perché proprio l’impegno di Petrarca che in quell’apparato aveva avuto una posizione di spicco e con tempestiva abilità aveva dato voce alla politica viscontea non sia servito a nulla. Di più, la conclusione della guerra non ha fatto che confermare quanto egli aveva sostenuto sin dall’inizio, come egli stesso giustamente rivendica mentre le trattative di pace andavano concludendosi, nella Fam. XIX 9, 11-12, diretta a Guido Sette nell’aprile 1355, pochi giorni dopo la decapitazione di Marin Faliero, il doge succeduto al Dandolo (e lo rivendica, si osservi, ribadendo ancora una 77 . Muratori, Annali d’Italia, cit., XII, p. 441: «Gli [a Carlo IV] spedirono i fratelli Visconti una nobile ambasciata con sontuosi regali, promesse d’aiuti e della corona ferrea […] di modo che Carlo restò soddisfattissimo di loro, e si dispose a passare a Milano. Così rimasero delusi i collegati, che a loro spese avevano tirato in Italia questo debole principe e niun profitto ne ricavarono». 78 . Fam. XIX 3, 4 e 25: «Credidisti igitur nescio cui […] me scilicet ad italicam pacem novo cum Cesare sanciendum singulariter preelectum, feliciter rebus actis et pace reipublice quesita, magna cum gloria remeasse». Ma non fu così: «non sequester pacis ego sed amator fui, neque petitor sed hortator et laudator, neque principio eius interfui sed fini».

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volta che era stata soprattutto Venezia a volere la guerra): Qui [i veneziani] bello cum Ianuensibus suscepto –dicam an detecto, latens enim bellum defuisse nunquam puto- intra breve tempus primum victi, mox victores, rursum maiore prelio victi sunt; in quo illis quidem ut hominibus utque Italis compatior, michi autem gratulor, quod hec eis mala omnia ventura previdi predixique, non astrorum iudicio aut ullo vaticinii genere, quod totum despicio reicioque, sed presagio quodam mentis et urgentibus coniecturis, quibus in eam sententiam sic trahebar ut videre michi tunc viderer quod nunc video.

Il punto non è dunque, grossolanamente, quello di un successo o di un insuccesso che in tutti i casi andava ben oltre la sua responsabilità, ma quello della lucidità e della professionalità con le quali ha intepretato le direttive di fondo della politica viscontea, con le quali era in evidente e convinta sintonia, come mostra anche la continuità e l’importanza dei servizi resi negli anni successivi79. Resta semmai da considerare un’altra questione, riassumibile nel fatto che i documenti attraverso i quali abbiamo cercato di leggere l’attività diplomatica di Petrarca non ci si presentano come ‘documenti’ di tipo burocratico (fa parziale eccezione il testo dell’orazione tenuta a Venezia, che ha sollevato qualche dubbio, e che Petrarca ha escluso dalle sue opere), ma come lettere private e addirittura ‘familiari’ che emarginano o addirittura escludono ogni connotazione di tipo professionale, e per contro mettono al centro l’autonomia dell’autore ed esaltano il carattere squisitamente individuale dei suoi interventi. È una questione importante della quale non riesco a parlare in questa sede, anche perché ci porterebbe lontano, ma vorrei tuttavia, in conclusione, accennare rapidamente qualcosa, quasi un elenco che resta tutto da riempire. Per prima cosa, si può certamente pensare che sia lo smisurato ego petrarchesco a rifiutarsi di comparire nelle vesti del funzionario. Sullo sfondo della famosa affermazione della Posteritati che in qualche modo vale per: ‘non sono stato io a cercare i potenti, ma sono stati loro a cercare me’80, po79 . Vd. sopra, nota 46. Si può aggiungere, in sede di considerazioni finali, che gli interventi di Petrarca nella guerra tra Genova e Venezia sono assai diversi da quello di Raimondo Lullo poco più di cinquant’anni prima, al quale talvolta càpita di vederli associati. Lullo, dopo la sconfitta veneziana contro i Genovesi a Curzola (8 settembre 1298), aveva scritto una Consolatio Venetorum mantenendosi davvero super partes in nome di una prospettiva radicalmente religiosa: vd. R. L., Consolatio Venetorum. Testo critico di M. Ciceri. Traduzione e cura di P. Rigobon. Presentazione di E. Burgio, Padova, Antenore, 2008. 80 . Posteritati 8: «Maximi regum mee etatis et amarunt et coluerunt me. Cur autem nescio, ipsi viderint. Et ita cum quibusdam fui, ut ipsi quodammodo mecum essent» (vd. la citata ed. – nota 3 – di K. Enenkel, in Modelling the individual, p. 360; in F. P., Prose, Milano-Napoli,

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tremmo dire che egli si definisce non come il diplomatico e l’ambasciatore dei Visconti, ma come colui che di tanto in tanto, e non importa con quanta frequenza, si è semplicemente prestato a farlo perché ne è stato ogni volta richiesto in virtù delle sue personali virtù e capacità. Altrettanto certamente, anche se quel tipo di rifiuto è costante in Petrarca al punto da caratterizzare le sue scelte di vita, non ci si può accontentare di questa spiegazione che, vera per la sua parte, si combina con altre che, almeno per noi, sono più interessanti. Per esempio, la dimensione individuale alla quale egli riconduce le sue iniziative politico-diplomatiche è strettissimamente implicata nel fatto ch’egli possa e voglia dichiararsi libero da ogni interesse di parte, e presentarsi come colui che risponde prima di tutto alla propria coscienza, soddisfacendo all’obbligo morale che l’indiduo ha nei confronti degli altri quando più degli altri ‘vede’ e ‘sa’. In tal senso, trasformare una serie di lettere diplomatiche in lettere’familiari’ significa che quel capitolo della sua attività non sta a sé come una separata ‘attività di servizio’, ma è la manifestazione di quello che l’intellettuale Petrarca è, nel continuum della sua esperienza di vita e di magistero. Ancora, tale caratterizzazione corrisponde, o per dire meglio estremizza con coerenza un impianto specificamente retorico. Petrarca, acuto lettore di Cicerone, sapeva bene almeno due cose. La prima, che doveva esibire come proprie le emozioni che voleva suscitare nell’interlocutore, secondo il principio enunciato nel De oratore da Antonio: «neque ego actor sum alienae personae, sed auctor meae» (II 191, ma vd. 188 sgg.), il che voleva dire, nel caso, ‘io non parlo per conto di Giovanni Visconti e tanto meno simulo quello che egli stesso direbbe, ma dico quello che io per primo provo dentro di me’. La seconda, che egli non doveva fermarsi alla materiale concretezza dei fatti, ma piuttosto riferirla continuamente a un orizzonte più vasto di valori condivisi –nel caso il valore supremo della pace- per non soggiacere, di nuovo, all’accusa di essere al servizio di interessi di parte (De oratore II 133 sgg.). In tale senso, che il discorso tecnicamente diplomatico-professionale del funzionario diventi nelle sue abili mani la lettera ‘familiare’ nell’accezione ricca e articolata che Petrarca le conferisce rappresenta il logico approdo della sua specifica modalità argomentativa. Ancora, Petrarca si rivolge continuamente a Genova e a Venezia in quanto ‘italiano’, e le esorta alla pace in quanto città italiane che con la loro guerra si stanno rendendo responsabili della morte di tanti italiani. Così, il punto di vista alto, super partes, che gli è imposto dalle regole della retorica politica, oltrepassa le ristrette misure di un documento di cancelleria perRicciardi, 1955, il passo è a p. 6).

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ché si innerva in una visione d’insieme che poggia sulla profonda capacità evocativa che l’idea culturale e politica di ‘italianità’ naturalmente portava con sé. Questi elementi aprono tuttavia a un discorso molto ampio che qui non è il caso di affrontare. Per cogliere meglio la natura della questione, è invece opportuno chiudere con un ulteriore e forse più chiaro esempio, quasi un’appendice, dello speciale modo petrarchesco di ‘travestire’ una precisa azione diplomatica facendola apparire come un intervento affatto personale. VIII. Siamo ancora in àmbito genovese. Semplificando molto, ecco i fatti. Nel corso del 1355 (dunque nella fase appena successiva alla pace con Venezia) e per tutto il 1356 s’aggrava il difficile nodo di tensioni costituito dalla signoria viscontea sulla città. Dall’esilio di Pisa in un momento imprecisato il vecchio doge Simone Boccanegra si trasferisce a Milano e ottiene dai fratelli Visconti, che pure parrebbero diffidare di lui e che lo trattengono quasi come un ostaggio, di rientrare in Genova con lo scopo preciso di rinsaldarvi il dominio milanese che stava suscitando grossi malumori. Una volta rientrato, però, con rapido voltafaccia, il Boccanegra, con le parole dell’Azario, «contrarium procuravit et studuit»81, e, garantito dall’alleanza stretta con Giovanni II Paleologo marchese del Monferrato, storico nemico dei Visconti, contribuisce da protagonista alla cacciata del podestà e di tutti gli stipendiati viscontei, e il 15 novembre si fa proclamare doge per la seconda volta, tornando a impostare una politica fortemente antinobiliare esiliando o escludendo l’aristocrazia dal governo della città e persino da ogni tipo di attività armatoriale, mentre Bernabò, in particolare, non può fare molto, salvo cercare inutilmente di creare difficoltà al Boccanegra fomentando le lotte interne. Una variante della vicenda è però offerta da Matteo Villani, che tace del soggiorno milanese del Boccanegra, testimoniato solo dall’Azario, e fa invece che costui, richiamato dai rivoltosi, da Pisa rientri direttamente in città, in tempo per orientare la rivolta a suo favore82. Questa discrepanza va qui ricordata perché potrebbe influire, seppure . Azario, Liber gestorum, ed. Cognasso, cit., p. 77. . Matteo Villani, VII 40, ed. Porta, cit., II, pp. 60-1: «incontanente mandarono a Pisa per messer Simone Boccanegra, ch’era prima stato doge di Genova, il quale essendo molto amico de’ Pisani, e avendo secondo l’oppinione di molti trattata questa rivoltura, coll’aiuto de’ cavalieri di Pisa e per loro consiglio si misse per terra, e andò a Genova, e prese la signoria dal popolo». Per maggiori particolari e un inquadramento d’insieme, vd. Petti Balbi, Simon Boccanegra, cit., pp. 36 sgg. La studiosa non ha dubbi nell’accettare la versione dell’Azario, piuttosto particolareggiata e arricchita dalla notizia di un rapporto privilegiato del Boccanegra con il tesoriere dei Visconti, Giovanni di Mandello, che in seguito ebbe a soffrire qualcosa per l’appoggio dato al ‘traditore’ Boccanegra, anche se qualche particolare non torna (vd. sopra, nota 71). Un bel racconto di queste vicende è in C. Varese, Storia della repubblica di Genova dalla sua origine sino al 1814, Genova, Gravier, 1835, vol. II, l. VII, pp. 280-8, che, sulle orme del Villani, nega come inverosimile il soggiorno milanese del Boccanegra e lo fa rientrato a Genova direttamente da Pisa. 81

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alla lontana, con la lettera che vorrei considerare, la Fam. XX 3, che porta la data di un imprecisato 18 dicembre, da Milano, Ad Galeotum Spinulam Ianuensem exhortatio ad rempublicam capessendam, nella quale, come dice apertamente il titolo, Petrarca esorta il genovese Galeotto Spinola a prendere nelle sue mani le redini della sua città, la quale nel presente stato di agitazione ne invoca l’intervento risolutore. Sin qui ha fatto testo l’indicazione di Wilkins che non ha avuto dubbi nel ritenere la lettera successiva al novembre 1356 e alla cacciata dei milanesi, per l’accenno che Petrarca farebbe all’esilio di Galeotto, conseguente appunto al ritorno del Boccanegra83. Non sembra però che le cose stiano propriamente così. Petrarca scrive infatti: «Et exilio illi tuo brevi gratulor et gratiam habeo, quod te ad tempus in hanc urbem compulit, et me dilecti antequam cogniti talis amici conspectu atque optata presentia compotivit» (§ 2). Come si vede, qui tutto fa credere che si parli di un breve esilio che per un certo tempo ha trattenuto Galeotto a Milano, e insomma di un esilio considerato come un episodio del passato. Collocarlo non è difficile, se ricordiamo che proprio gli Spinola, tra i quali Galeotto era leader, dai loro possedimenti nell’Oltregiogo ove stavano in esilio collaboravano attivamente con l’arcivescovo nel mantenere il blocco dei rifornimenti verso Genova, causando la grave carestia che tormentò la città sino alla sua sottomissione ai Visconti, nell’ottobre del 1353. E proprio nei mesi precedenti è dunque probabile che un Petrarca ormai milanese l’abbia conosciuto. A confermare la necessità di trovare una proposta accettabile per quell’esilio sta un altro particolare al quale non si è fatto caso. Perché Galeotto dovrebbe tornare a Genova? Scrive ancora Petrarca, subito appresso le righe appena citate: «nichil iocundius expecto quam rempublicam tuam […] alienis modo motiunculis inquietam, tua providentia atque auctoritate restitui». Ora, mi chiedo se queste motiunculae provocate dall’esterno che inquietano Genova possano applicarsi al rivolgimento che aveva definitivamente cacciato i Visconti dalla città, e se sia accettabile che il compito di riconquistarla, dopo che il Boccanegra si era alleato con il marchese del Monferrato, sia espresso da tali parole. Insomma, tanto le motiunculae che la providentia e l’auctoritas di Galeotto non permettono tanto, e convengono invece benissimo alla fase precedente la cacciata, quando il Pallavicino, governatore della città per conto dei Visconti, non era assolutamente in grado di controllare una situazione assai tesa e turbolenta: se è così, la lettera sarebbe del dicembre 1355, quando Petrarca era a Milano, come tra altre cose conferma la Fam. XVIII 15, scritta il giorno 20 al Boccaccio. In conclusione, sembra proprio che con questa lettera si inviti lo Spinola a tornare a Genova con la stessa missione della qua83

. Wilkins, Petrarch’s Eight Years, cit., pp. 155-6.

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le, secondo l’Azario, i Visconti avrebbero incaricato il Boccanegra in quanto esperto dell’ambiente genovese: collaborare con o sostituire il governatore per ristabilirvi l’ordine. Ed è così che forse entra in gioco quella discrepanza, nel senso che, se ha ragione l’Azario, ne dovremmo dedurre che i Visconti per riportare l’ordine a Genova giocavano, per dire così, su due tavoli, incerti se puntare sulla parte nobiliare e dunque sullo Spinola, oppure sulla popolare, e cioè il Boccanegra. Se invece avesse ragione Matteo Villani, occorre pensare che il loro candidato, almento per un certo momento, fosse lo Spinola, e che l’iniziativa del Boccanegra, da Pisa, li avesse anticipati. Tutto questo non ha a che fare direttamente con il nostro discorso, ma lo illumina. La lettera è tenuta entro i limiti di una ‘familiarità’ personale tutta fittizia, di maniera, mentre il suo contenuto è smaccatamente politico-diplomatico. Chi la detta è il Visconti, e chi scrive è Petrarca, che di suo ci mette gli esagerati elogi di Galeotto Spinola che pur assai vecchio ha ancora ‘la fronte degna d’impero’, e virtù sublimi, e ‘animo invitto’, ed esprime concetti ‘superiori a ciò che è umano e mortale’ (in forma stereotipata tornano espressioni già usate per il ‘grande vecchio’, Stefano Colonna), quando sappiamo con sufficiente certezza ch’era un vecchio arnese dell’aristocrazia probabilmente ormai inservibile. Come cronisti e storici concordemente raccontano, nel 1335 componeva con Raffaele Doria la nuova diarchia biennale, che pretese, alla scadenza del mandato, di averlo rinnovato per altri tre anni riservandosi la scelta dell’Abate del Popolo, o Procuratore annuale, figura per altro abbastanza debole di nomina popolare, e ciò fu l’occasione immediata della rivolta che portò nel 1339 all’elezione del Boccanegra e all’istituzione del dogato perpetuo84. Partito il Boccanegra per il volontario ritiro a Pisa nel 1344, aveva preteso di rientrare armato in città con i suoi, l’aveva assediata e infine era stato respinto e costretto a tornare nei suoi feudi dell’Oltregiogo, dai quali avrebbe poi collaborato, come s’è detto, con Giovanni Visconti per affamare la città85. La realtà, 84 . Con Petti Balbi, Simon Boccanegra, cit., passim, che resta lo studio di riferimento, vd. C. Azzara, Verso la genesi dello Stato patrizio. Istituzioni politiche a Venezia e a Genova nel Trecento, in Genova, Venezia, il Levante nei secoli XII-XIV, a cura di G. Ortalli-D. Puncuh, Genova, Società ligure di Storia patria, 2001, pp. 175-88: p. 182 (per la Diarchia, vd. in particolare V. Vitale, Breviario della storia di Genova, Genova, Società ligure di Storia patria, 1955, pp. 85 sgg.). Tra altri , si può vedere ancora il diffuso racconto di M. G. Canale, Storia politica commerciale e letteraria della repubblica di Genova dall’origine fino al 1340, Capolago, Tipografia Elvetica 1851, vol. 4, pp. 238 sgg. 85 . Vd. G. Stella, Annales, ed. Petti Balbi, cit., pp. 141-4; Azario, Liber gestorum, ed. Cognasso, cit., pp. 45-6 e 63; G. Serra, La storia dell’antica Liguria e di Genova, Torino, Pomba, 1834, t. 2, p. 317; H. Leo, Storia d’Italia nel medio evo fatta italiana per cura degli editori, Lugano, Storm e Armiens, 1840, pp. 636-7. In particolare, riassume la Petti Balbi, Simon Boccanegra, cit., p. 284: «Gli Spinola di valle Scrivia rimangono comunque i più riottosi e i più tracotanti tra i nobili ostili al regime popolare al punto che, anche dopo la fuga del Boccanegra, Galeotto Spinola si rifiuta di entrare in Genova senza deporre le armi e persiste nel suo assedio alla città dove penetra all’inizio del ’45 durante un conflitto in cui rimane ucciso il congiunto Sara Spinola. Questa situazione è sanzionata anche dall’accordo tra le fazioni genovesi stipulato nel luglio a seguito dell’arbitrato di Luchino Visconti. A ben cinque Spinola, cioè al solito Galeotto, a Gherardo e ai

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per quanto si può capire, è dunque ben lontana dalla spessa vernice retorica che copre la realtà di un disegno politico visconteo (uno dei tanti) al quale Petrarca presta la sua voce che nel caso è, sostanzialmente, quella di un segretario86. Anche e soprattutto questa lettera non è dunque quello che l’aggettivo ‘familiare’ lascia credere, ma è tutt’al più la trascrizione in termini ‘familiari’ di qualcosa di assai diverso, dal momento che è anche lecito sospettare che nulla di personale o di particolarmente amichevole sia intercorso tra Petrarca e Galeotto Spinola. E ciò valga appunto come aggiunta rilevante a un dossier più ricco, al quale sarebbe opportuno dedicare una specifica attenzione.

Abstract The present essay examines the diplomatic activity of Francesco Petrarca in service of Visconti’s family of Milan, on the occasion of the war between Genoa and Venice in 1351-1355, and in particular examines the letters that Petrarca wrote at that time to the doge of Venice Andrea Dandolo and to the rulers of the Republic of Genoa. The new consideration of Petrarca’s activity proves that his interventions are not a merely rhetorical an literary declarations in favour of the peace, like many scholars still think, but also show professional seriousness, great political understanding, and the important role Petrarca played as a diplomatic servant of Visconti.

suoi nipoti del ramo di Luccoli oltre che a Federico del ramo di San Luca, viene inibito l’accesso in città, a fronte dello stesso provvedimento contro due Grimaldi e due Fieschi. Sembra che l’esilio e la costante presenza nei feudi abbia notevolmente rafforzato il potere degli Spinola; la famiglia si estranea dalla vita cittadina sotto i successori del Boccanegra e si avvicina ai Visconti», ecc. 86 . Con tutte le diversità del caso (fa differenza che la nostra sia una lettera accolta tra le Familiares), è inevitabile ripensare alla lettera scritta in nome dei fratelli Visconti a Markwart di Randeck, e alle considerazioni in merito di Feo: vd. per ciò la nota 46.

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