Petrarca polemista

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QUADERNI PETRARCHESCHI

PETRARCA, L’UMANESIMO E LA CIVILTÀ EUROPEA Atti del Convegno Internazionale Firenze, 5-10 dicembre 2004 I A cura di Donatella Coppini e Michele Feo

Ministero per i Beni e le Attività Culturali Dipartimento per i Beni Archivistici e Librari Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali

Casa Editrice Le Lettere - Firenze

XV-XVI (2005-2006)

Casa Editrice Le Lettere - Firenze

Quaderni petrarcheschi pubblicati sotto gli auspici della Commissione per l’edizione nazionale delle opere di Francesco Petrarca

Direttore: MICHELE FEO Consiglio scientifico: ROSANNA BETTARINI, ROBERTO CARDINI, DONATELLA COPPINI, VINCENZO FERA, THOMAS KLEIN, BERNHARD KÖNIG, NICHOLAS MANN, EMILIO PASQUINI, ARMANDO PETRUCCI, GERHARD REGN, SILVIA RIZZO, ALFREDO STUSSI, CLEMENS ZINTZEN Redazione: PAOLA DE CAPUA, JÜRGEN GEIß, CATERINA MALTA, PAOLA MEGNA, GIULIA PERUCCHI, ANTONIO ROLLO, PAOLA VECCHI GALLI

Direzione: Dipartimento di Italianistica, Piazza Savonarola 1, 50132 Firenze; tel. 055.2756990; fax 055.2756974; e-mail: [email protected] Sito web: www.franciscus.unifi.it Amministrazione: Le Lettere - c/o LICOSA, Via Duca di Calabria 1/1, 50125 Firenze e-mail: [email protected]; tel. 055.2342710; fax 055.2346010 www.lelettere.it Abbonamenti e vendite: LICOSA, Via Duca di Calabria 1/1, 50125 Firenze ccp n. 343509 e-mail: [email protected]; tel. 055.64831 www.licosa.com Impaginazione: STEFANO ROLLE

INDICE Volumi XV-XVI MICHELE FEO, Petrarca, l’Umanesimo e la civiltà europea

p.

Il programma del Convegno e i presenti atti

» XIII

CESARE VASOLI, Petrarca e la renascentia

»

1

MARCO SANTAGATA, L’Io lirico

»

23

GUGLIELMO GORNI, Francesco Petrarca e la fondazione del genere lirico

»

35

ROBERTO ANTONELLI, Petrarca e la tradizione romanza

»

47

DANIELE BIANCONI, Uno sguardo verso l’altrove. Suggestioni da Bisanzio

»

69

GUGLIELMO BOTTARI, A Verona nella prima metà del ’300: i segni della renovatio

»

95

PAOLA VECCHI GALLI, Le parole del peccato

»

127

GIAN MARIA VARANINI, Le signorie trecentesche e Francesco Petrarca. Appunti storiografici »

151

ENRICO FENZI, L’intellettuale e il potere. Il potere dell’intellettuale

»

169

MARIA GRAZIA BLASIO, Il dibattito religioso fra Due e Trecento

»

231

IX

GIOVANNA MORELLI, Acto ibi triennium: Francesco Petrarca allo Studio di Bologna » 261

VI

INDICE

FRANCESCO PAOLO TOCCO, Il Gran Siniscalco

» 347

VINCENZO FERA, Storia e filologia tra Petrarca e Boccaccio

» 369

CATERINA MALTA, «Ystoriam retexere». Modelli di costruzione del De viris

» 391

ANTONIO LA PENNA, Il commento esclamativo del Petrarca alla propria narrazione storica

» 421

PAOLA DE CAPUA, Compendiare la storia

» 449

CLAUDIO GALLICO, Occorrenze di Petrarca in musica

» 507

DONATELLA COPPINI, Petrarca, le epistole, gli umanisti

» 517

FRANCESCO BAUSI, Petrarca polemista

» 537

MIRELLA FERRARI, Petrarca e i suoi libri: scrittura e lettura

» 565

MARCO PETOLETTI, L’opera, l’autore e la scrittura

» 577

VINICIO PACCA, Petrarca e il canone degli auctores, fra antichi e moderni » 605 Volumi XVII-XVIII GIULIO GOLETTI, «Scriptura qua utimur»: la Bibbia del Petrarca

» 629

MICHELE RINALDI, Petrarca, firmico materno e la tradizione astrologica

» 679

CARLA MARIA MONTI, Petrarca e la tradizione di Seneca

» 707

MONICA BERTÉ, In margine a uno Svetonio di Petrarca (Oxford, Exeter College, 186)

» 741

ÍÑIGO RUIZ ARZÁLLUZ, Petrarca, el texto de Terencio y Pietro da Moglio

» 765

VII

INDICE

GERHARD REGN, Renovatio studiorum: l’umanesimo del Petrarca fra ermeneutica, individualizzazione e autorappresentazione

» 813

GIORGIO PIRAS, Nuove testimonianze dalla biblioteca di Petrarca: le annotazioni al De lingua latina di Varrone

»

829

CARLO DELCORNO, La ‘vita solitaria’ e la tradizione agiografica

»

857

ANDREA TILATTI, Le esequie del Petrarca e la ‘beatificazione’ dell’umanista »

883

JAMES HANKINS, Petrarch and the canon of neo-latin literature »

905

BERNHARD KÖNIG, Tra filologia e poesia: le citazioni dai classici nel ‘Canzoniere’

»

923

MAURIZIO FIORILLA, Arte dell’imitatio nei Rerum vulgarium fragmenta. Su alcuni versi delle canzoni CXXXV e CCCXXIII »

943

ANTONIO LANZA, Elementi tardogotici nella lirica del Petrarca

»

961

MARZIANO GUGLIELMINETTI, Straniamento ed appartenenza: Gozzano, Ungaretti, Zanzotto »

977

THÉA PICQUET, Petrarca e la rinascenza francese

»

981

SILVANO FERRONE, Petrarca in Accademia

»

997

FRANCISCO RICO, Erasmo e Petrarca: «Nunc vix est in manibus»

» 1015

FABIO PAGANI, Il Platone di Petrarca tra Giorgio Valla e Giano Lascaris: spigolature sul Parisinus graecus 1807

» 1027

CARLO GINZBURG, L’epistola dantesca a Cangrande e i suoi due autori

» 1053

VIII

INDICE

VINCENZO FERA, I libri peculiares

» 1077

KIYOSHI IKEDA, Le opere volgari del Petrarca tradotte in giapponese

» 1101

KIYOSHI IKEDA, Tra Petrarca e Saigyô, poeta giapponese

» 1109

DONATELLA COPPINI, Adonay domine deus. Preghiere attribuite a Petrarca nella tradizione manoscritta

» 1139

MICHELE FEO, Fritz Wagner e la Rezeptionsgeschichte di Petrarca in Germania

» 1161

MICHELE FEO, Scevola Mariotti e la filologia medievale e umanistica

» 1165

MICHELE FEO, Eugenio Garin il Burckhardt italiano

» 1177

BERNHARD KÖNIG, Francesco Mazzoni (1925-2007)

» 1183

FRANCESCO BAUSI, Mario Martelli

» 1189

MICHELE FEO, Eugenio Massa

» 1199

MICHELE FEO, Petrarca, la filologia e la lentezza

» 1207

Indici 1. Nomi e cose notevoli 2. Opere del Petrarca 3. Manoscritti 4. Stampe

» » » »

1217 1271 1281 1287

FRANCESCO BAUSI PETRARCA POLEMISTA Petrarca ben sapeva che l’invettiva, come l’encomio, pertiene al genus demonstrativum1, e come tale è innanzitutto un prodotto letterario; e in conclusione delle Invective contra medicum si dice (la traduzione è mia) che “un uomo di lettere, purché manchi in lui qualsiasi intenzione malvagia, e purché gli si presenti un’occasione non richiesta, deve esercitare la penna in ogni genere retorico”2. Anche la violenza degli attacchi e la crudezza del linguaggio e delle immagini fanno dunque parte del gioco: lo ricorda ancora lo stesso Petrarca, citando, sempre nell’ultimo libro delle Invective contra medicum, i probra e le contumeliae che si scambiarono vicendevolmente Cicerone e Sallustio, nonché le aspre contese tra Eschine e Demostene e tra Gerolamo e Rufino di Aquileia3 (né si dimentichi che Petrarca assegnava il titolo di Invective anche alle Catilinariae di Cicerone, citate con questo titolo nelle Invective contra medicum e nell’elenco dei propri libri peculiares)4. È facendo appello alle convenzioni del gene1 Cfr. P. G. RICCI, La tradizione dell’invettiva tra il Medioevo e l’Umanesimo, «Lettere italiane», XXVI (1974), pp. 405-414 (saggio ristampato ora in ID., Miscellanea petrarchesca, a cura di M. BERTÉ, Roma 1999, pp. 189-200); su Petrarca, pp. 408-411. 2 Cito, qui e in séguito, dalla traduzione compresa nell’edizione delle Invective da me curata nell’àmbito dell’Edizione petrarchesca del Centenario: F. PETRARCA, Invective contra medicum. Invectiva contra quendam magni status hominem sed nullius scientie aut virtutis, a cura di F. BAUSI, Firenze 2006, p. 169 (IV 277: «Quidni igitur turber, temporisque iacturam querar nec michi nec alteri fructuosam, nisi quantum studioso homini, modo animi crimen absit, et data sit occasio non quesita, in omni genere orationis exercendus est stilus?»; il primo numero si riferisce al libro, il secondo al paragrafo). E vd. anche IV 278 (p. 168): «En in demonstrativo genere exerceor». 3 Ibid., p. 164 (IV 245-248). 4 Ibid., p. 130 (III 319). E vd. l’elenco dei libri peculiares (desunto dal foglio di guardia iniziale del ms. Lat. 2201 della Bibliothèque Nationale di Parigi) in B.L. ULLMAN, Studies in the Italian Renaissance, second edition with additions and corrections, Roma 1973, p. 118; e da ultimo il contributo di M. PICONE, I “libri peculiares” di Petrarca, «Rassegna europea di letteratura italiana», XXIII (2004), pp. 9-22.

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FRANCESCO BAUSI

re, nonché ricordando che in simili polemiche egli è sempre stato trascinato da altri, che Petrarca si giustifica coi suoi lettori per aver fatto talora ricorso, in questi scritti, a toni troppo accesi e aggressivi, per lui inconsueti; ma certo, se si confronta la virulenza della Contra eum qui maledixit Italie con gli accenti decisamente più equilibrati e moderati dell’epistola di Jean de Hesdin da cui essa trasse spunto5, bisogna concludere che l’asprezza delle invettive petrarchesche scaturisce probabilmente sia dalla precisa volontà di annientare del tutto l’interlocutore (mettendone in risalto senza mezzi termini la pochezza culturale e intellettuale), sia forse, almeno in parte, da quella predisposizione agli accessi d’ira che Francesco confessa nel secondo libro del Secretum, riconoscendo vani i suoi tentativi di tenerli a freno6. Ma non sono questi gli aspetti del Petrarca polemista che qui mi interessano. In questa sede vorrei invece, innanzitutto, ribadire come la polemica sia una modalità dialettica e, direi, anche una forma mentis tipicamente petrarchesca. Non c’è praticamente opera, infatti, in cui Petrarca non sia talora anche aspramente polemico, o – per dir meglio – in cui rinunci a esprimere le sue idee in forma polemica, contrapponendosi a qualcuno o a qualcosa; come se egli avesse sempre bisogno di nemici e di avversari, ovvero di esporre il proprio punto di vista contrapponendolo ad altri, diversi e antitetici punti di vista. Basti pensare a quante e quali siano le pagine polemiche nelle Familiares e nelle Seniles, ma anche nei trattati morali (in particolare nel De vita solitaria e nel De remediis) e nelle opere poetiche (dalle Epystole ai Rerum Vulgarium Fragmenta). Questo perché Petrarca conduce senza sosta, da un capo all’altro della sua vita e della sua opera, una vera e propria battaglia contro la cultura dominante dell’epoca e contro i suoi più autorevoli rappresentanti: una battaglia a favore di una nuova e diversa idea di cultura e di sapienza, e una battaglia più generale contro i tempi nei quali si trova a vivere. Da qui, come si capisce, l’importanza degli scritti polemici – e in particolare delle Invective contra medicum e del De ignorantia, ma senza escludere ampie parti del De vita solitaria, del De remediis, delle Familiares e delle Seniles – ai fini delle compiuta definizione del profilo ideologico e culturale di PeVedine ora il testo (in edizione critica) in M. BERTÉ, Jean de Hesdin e Francesco Petrarca, Messina 2004, pp. 118-163. L’epistola (secondo il testo della vecchia edizione curata da Enrico Cocchia nel 1920) si legge anche in calce a F. PÉTRARQUE, Invectives, Texte traduit, présenté et annoté par R. LENOIR, Grenoble 2003, pp. 505-527. 6 F. PETRARCA, Secretum, a cura di E. FENZI, Milano 1992, pp. 168-170. 5

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trarca; i temi fondamentali che percorrono testi come quelli appena ricordati, infatti, costituiscono altrettanti elementi, fra loro strettamente connessi, di un progetto e di una battaglia che Petrarca portò avanti, con estrema coerenza, lungo tutto l’arco della sua vita. Un progetto e una battaglia che proprio le polemiche petrarchesche consentono di ricostruire nel modo più organico e preciso, permettendo di individuarne le direttrici fondamentali, nonché di identificarne con esattezza gli interlocutori e i bersagli. Il nodo più stretto, in questo senso, è quello che lega le Invective contra medicum e il De ignorantia, nodo tanto più stretto se – come credo e come ho argomentato altrove7 – le Invective, composte in prima redazione fra 1352 e 1353, riviste e riunite in un unico volume fra 1355 e 1357, sono state rielaborate in séguito, fino ai tardi anni ’60, quelli che videro appunto la stesura del De ignorantia. La polemica contro i medici e la medicina va infatti ben al di là dell’occasione e della motivazione contingente che la vide sorgere: i medici, o almeno certi medici moderni, sono agli occhi di Petrarca gli esponenti di punta della per lui pericolosa e inaccettabile tendenza non solo a conferire dignità filosofica e sapienziale alla medicina, sottraendola al suo status di arte meccanica, ma anche a spostare il fulcro della conoscenza dall’interiorità dell’etica (il conoscere e dunque il vincere sé stessi) all’esteriorità delle scienze naturali e di una filosofia intesa o come vana curiositas o come pura sottigliezza logico-dialettica8. Ancorare saldamente, sulla scorta di Ugo di San Vittore9, la medicina alle arti meccaniche, significa da un lato sottrarle qualunque dimensione Rimando qui al mio Medicina e filosofia nelle «Invective contra medicum» (Petrarca, l’averroismo, l’eternità del mondo), in Petrarca e la medicina. Atti del Convegno di Capo d’Orlando, 27-28 giugno 2003, Messina 2006, pp. 19-52. 8 Cfr. M. MARTELLI, Petrarca epistolografo: le «Senili», in Il Petrarca latino e le origini dell’Umanesimo. Atti del Convegno Internazionale (Firenze, 19-22 maggio 1991), Firenze 1996, p. 649: «sembra bene di dover concludere come tra i seguaci di Occam da una parte e, dall’altra, quelli di Averroè, Petrarca non facesse infine altra distinzione se non quella che deve essere fatta tra due varianti, peraltro estremamente simili, di una medesima genía di persone. Né diversamente potrebbe essere stato: ambedue le categorie, infatti, guardavano alla scienza dell’uomo – logica o fisica che fosse – come ad un qualcosa che avesse diritto ad affermare la propria validità, nel proprio àmbito, indipendentemente dalle verità della fede [...]. In questo appunto stava per Petrarca l’empietà: nell’affermare la legittimità di una ‘filosofia’ – come dire? – del corpo, autonoma dall’unica e vera filosofia, quella dell’anima, che ci è stata rivelata da Dio e che tutta consiste nell’essere un buon cristiano». 9 Cfr. UGO DI SAN VITTORE, Didascalicon, II 27 (PL, CLXXVI 762). E vd. F. DE CAPITANI, Ugo di San Vittore e il problema delle “artes mechanicae”, «Rivista di filosofia neo-scolastica», XCII (2000), pp. 424-460. 7

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speculativa, dall’altro confinarla nel limbo di quelle attività di rango inferiore – preposte alle necessità del corpo – che sono utili, necessarie e ‘buone’ solo nella misura in cui sopperiscono ai bisogni umani, in funzione dei quali sono state escogitate (come Petrarca stesso afferma in una bella pagina del De remediis)10; attività dalle quali per questo motivo – secondo quanto si legge ancora nel De remediis – i dotti devono in ogni modo astenersi, limitandosi tutt’al più a praticarne alcune (e vedremo quali) a scopo puramente ricreativo, ossia, come scrive Petrarca, «non pro arte vel negotio, sed pro otio et curarum alternatione»11. Delle arti meccaniche, in virtù di questa loro fiVd. ancora UGO DI SAN VITTORE, Didascalicon, I 6 (PL, CLXXVI 745); e anche PETRARCA, Rem., II 93 (De tristitia et miseria), con allusione – da me esplicitata tra parentesi quadre – ad alcune delle arti meccaniche: «Quid illa nuditas imbecillitasque corporea multarumque rerum gravis indigentia, que humane conditionis infamie ascribuntur? Variarum nonne artium ac multiplici remediorum supplentur auxilio? Ut magis ad gloriam hominis quam miseriam trahi possit, quod animantibus ceteris ratione carentibus prevalidam cutim, unguesque et villos mater natura providerit, homini unum repertorem omnium contulerit, intellectum [...]. Animantibus igitur que vel senio vel scabie depilata, aut caligantia oculis aut pede clauda conspicimus, remedii nichil est nisi ab homine conferatur; homo autem, per se nudus, ingenio vestitur atque ornatur [tessitura], et, si res poscat, armatur [metallurgia]; claudus atque debilitatus equo aut navi [navigazione] fertur aut vehiculo aut auxiliaribus bacillis innititur; denique modis sese omnibus adiuvat attolitque; [...] valitudinem fatiscentem medicaminibus erigit [medicina], gustumque torpentem saporibus excitat [cucina, che è parte della venatio]» (si cita da F. PÉTRARQUE, Les remèdes aux deux fortunes - De remediis utriusque fortune, Texte établi et traduit par CH. CARRAUD, Grenoble 2002, vol. I, pp. 954-956); nonché – a proposito delle origini dell’agricoltura – ivi, I 57 (vol. I, p. 274): «Non homo terre, sed terra homini servire debuerat; hominum culpis effectum est ne terra possessori suo sine labore respondeat, inculta messem horridam, lappas et tribulos paritura. Hanc ferro sollicitare mirisque blanditiis mollire mortalis coegit indigentia: hinc agriculture fluxit initium». Vd. inoltre Inv. med., III 146-148 (ed. BAUSI, p. 110): «Scio enim necessitates hominum multiplices et graves, ut non immerito propheta idem et rex clamet ad Dominum: “De necessitatibus meis erue me” [Ps., XXIV 17]. Et undecumque necessitatibus nostris veniens auxilium, a Deo est; cuius dona gratanter reverenterque suscipi debere quis nesciat? Sive ergo Ille nobis per se ipsum sanitatem dederit, sive ad id expertus medicus, sive herbarum conscia tremula anus accesserit, et ars et arte quesita vel servata sanitas munera Dei sunt». E cfr. in generale F. ALESSIO, La riflessione sulle “artes mechanicae” (XII-XIV sec.), in Lavorare nel Medio Evo. Rappresentazioni ed esempi dall’Italia dei secc. X-XVI. Atti del Convegno di Todi (12-15 ottobre 1980), Todi 1983, pp. 279-281. 11 Rem., I 57, dove dell’agricoltura (definita «humile ac depressum artificium») si afferma quanto segue: «Nunquam tamen aut scriptorum claritas aut inopie metus coget ut liberalibus et honestis artibus preferendam censeam nec equandam quidem [...]. Hac etate igitur excellentibus viris agriculture operam dare non pro arte vel negotio, sed pro otio et curarum alternatione permiserim; utque interdum teneros ramos pubescentibus gemmis inserere, luxuriantia folia curva falce compe10

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nalità esclusivamente pratica, è ammesso dunque – secondo la distinzione di Ugo e di Goffredo di San Vittore, che sembra ben presente a Petrarca – solo l’ ‘uso’, e non l’ ‘abuso’12, in cui cade chiunque le eserciti non per la soddisfazione delle pure e semplici necessità del corpo, ma in vista o del piacere o della gloria o del guadagno, come Petrarca vede accadere ai suoi tempi, quando la medicina viene esercitata o a scopo di lucro o per vanità intellettuale (i medici che aspirano a diventare filosofi), e quando ad arti come la venatio (della quale, ripeto, fa parte anche la cucina) e come la mercatura si richiede non tanto di porre riparo – seguendo la natura – ai bisogni elementari dell’uomo, quanto piuttosto di soddisfare i piaceri più smodati, divenendo così strumenti del lusso, del vizio e dell’eccesso (ad uso e consumo dei ricchi, «gaudio lasciviaque fluitantes», come si dice nel Secretum a proposito degli abitanti della corrotta Avignone13). Il luogo in cui si concentrano i cultori delle arti meccaniche, e soprattutto coloro che di queste arti fanno ‘abuso’ (nel senso poc’anzi accennato), è ovviamente la città: non a caso, quindi, già nelle Invective contra medicum la polemica contro la medicina si salda all’avversione per la città e all’esaltazione della natura e della solitaria vita campestre, considerata la condizione ideale e necessaria per il vero e autentico dotto, per l’esercizio della vera sapienza14. Nella città trionfano, secondo la tradizione, il piacere, la cupidigia e l’ambizione (la «concupiscentia carnis», la «concupiscentia oculorum» e la «superbia vitae» di cui parla la Scrittura)15, e in quel vero e proprio “inferno dei viventi” si raccolgono pertanto i loro sordidi ministri, in gran parte dediti alle arti meccaniche; eloquente è al riguardo un passo del secondo libro del De vita solitaria in cui Petrarca – in preda, come non scere, lascivos palmites prolis in spem scrobibus cavis infodere, sitientibus pratis querulos rivos prono calle devertere illos sinam, sic fodere pertinaciter atque arare totoque animo incumbere terris, nisi necessitas cogat, indecorum atque indecens docto fortique viro arbitror, cui nobilioris exercitii deesse materia vix possit» (ed. CARRAUD, vol. I, pp. 276-278). E vd. qui anche più avanti, n. 17. 12 Cfr. i passi citati da ALESSIO, La riflessione sulle “artes mechanicae”, pp. 283288. 13 Secretum, ed. FENZI, libro II, p. 190. 14 Cfr. P. VON MOOS, Les solitudes de Pétrarque. Liberté intellectuelle et activisme urbain dans la crise du XIVe siècle, «Rassegna europea di letteratura italiana», VII (1996), pp. 23-58. 15 Cfr. Inv. med., IV 47: «Nempe iniquitas et contradictio in civitate, et labor in medio eius, et iniustitia, et non deficiens de plateis eius usura, et dolus» (ed. BAUSI, p. 142); IV 81 : «Iam illud ne probari quidem est necesse, civitatem libidinum esse sentinam, omniumque ibi turpium voluptatum illecebras scaturire» (ibid., p. 146).

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di rado gli accade, a un vero e proprio furor onomastico ed elencatorio – allestisce un babelico catalogo delle vili attività cittadine, tra le quali trova posto naturalmente anche la medicina, messa sullo stesso piano dei più disonesti e truffaldini mestieri ‘urbani’: Surge, veni, propera: linquamus urbem mercatoribus, advocatis, prosenetis, feneratoribus, publicanis, tabellionibus, medicis, unguentariis, lanionibus, cocis, pistoribus atque fartoribus, alchimistis, fullonibus, fabris, textoribus, architectis, statuariis, pictoribus, mimis, saltatoribus, cytharedis, circulatoribus, lenonibus, furibus, hospitibus, circumscriptoribus, maleficis, adulteris, parasitis ac scurris edacibus, odorem fori vigili nare captantibus, quibus ea felicitas est, illi inhiant; nullus autem nidor in montibus, et solitis ac placitis caruisse supplicium16.

Non per nulla, le uniche arti meccaniche che Petrarca ammette poter essere occasionalmente praticate dagli uomini di lettere (e, come si diceva in precedenza, esclusivamente per diletto e a fini ricreativi, a mo’ di hobbies, senza alcuna finalità pratica né – tanto meno – economica) sono la caccia e l’agricoltura, ossia le due arti che si esercitano necessariamente in campagna e lontano dalla città17. Ma la città è anche il luogo in cui vivono ed operano i sapienti dei tempi moderni: filosofi naturali, medici, dialettici, giuristi, il cui ininterrotto e sofistico chiacchiericcio concorre non poco a creare l’insopportabile frastuono urbano. E la città è la sede di quell’istituzione cordialmente detestata dal Petrarca che è l’università, luogo d’elezione dei «moderno more philosophantes» (l’espressione è desunta dalla senile V 2)18, i rappresentanti delle false scienze e delle deteriori forme di sapienza; una sapienza il cui vuoto orgoglio, il cui intrinseco esibizionismo, la cui inestirpabile superbia trova sfogo ed espressio16 Si cita da F. PETRARCA, Opere latine, a cura di A. BUFANO, con la collaborazione di B. ARACRI e C. KRAUS REGGIANI, introduzione di M. PASTORE STOCCHI, Torino 1975 (rist. 1987), 2 voll., vol. I, p. 558. 17 Cfr. a questo proposito F. BAUSI, Il “mechanichus” che scrive libri. Per un nuovo commento alle «Invective contra medicum» di Francesco Petrarca, «Rinascimento», II s., XLII (2002), p. 92 e n. 62, con rinvio a un passo del II libro del De vita solitaria: «Et siquid mechanicum [studiis liberalibus et honestis] miscere iuvat, sit agricultura venatioque» (Opere latine, I, p. 560). Naturalmente, in quest’ottica, l’agricoltura deve essere praticata evitando i lavori più pesanti ed impegnativi (vd. il passo del De remediis qui sopra citato alla n. 11); mentre la caccia deve essere praticata da semplici spettatori, in modo da servirsene come puro esercizio fisico, e da poterla interrompere in qualunque momento (cfr. ancora De vita solitaria, II, in Opere latine, I, p. 560). 18 F. PETRARCA, Senile V 2, a cura di M. BERTÉ, Firenze 1998, p. 82.

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ne anche in un’altra attività verso la quale Petrarca ostentò sempre disinteresse e disprezzo: l’insegnamento («seges inutilium magistrorum» sono definiti nel De remediis i moderni filosofi19; e si pensi agli strali frequentemente scagliati contro il chiassoso e verboso «Vico degli strami», la sede parigina della Facoltà delle Arti)20. Che questo fosse agli occhi di Petrarca l’habitat del filosofo à la page è ad esempio dimostrato da una pagina del De ignorantia (dove si rappresentano i moderni filosofi naturali che «per vicos ac plateas urbium» vanno disputando «de quadrupedibus ac beluis»)21; ed è documentato con chiarezza ancora maggiore da un passo del proemio del De vita solitaria, dove si mette in scena la figura di un filosofo aristotelico contemporaneo (ossia, di un averroista22) che, reso tronfio dalla vuota dottrina appresa nelle moderne scolae, va instancabilmente in giro per la città dalla mattina alla sera, compiacendosi della folla e del fracasso, e quasi vendendo per le strade e per i trivii la sua «stultitia literata»: Rem., I 46 (De variis titulis studiorum: ed. CARRAUD, vol. I, p. 232). Cfr. Ign., 143: «contentiosa Pariusus ac strepidulus Straminum vicus» (ed. a cura di E. FENZI, Milano 1999, p. 266); Sen., IX 1, 37: «fragosus Straminum vicus» (cito da E. CASAMASSIMA, L’autografo Riccardiano della seconda lettera del Petrarca a Urbano V [Senile IX 1], Firenze 1986, p. 116 = F. PÉTRARQUE, Lettres de la vieillesse, tome III, Livres VIII-XI, Èdition critique d’E. NOTA, Présentation, notices et notes de U. DOTTI, Paris 2004, p. 135); Inv. mal., 221: «in arcu parvi pontis [il Pont Saint Bénézet di Avignone] et in vico Straminum, famosissimis nunc locorum omnium nostri orbis (F. PETRARCA, Contra eum qui maledixit Italie, a cura di M. BERTÉ, Firenze 2006, p. 79; in questa nuova edizione, il titolo Contra eum qui maledixit Italie sostituisce quello vulgato di Invectiva contra eum qui maledixit Italie, da noi conservato nell’abbreviazione). Si tratta, com’è noto, della parigina Rue de Fouarre, la «Via della paglia», così detta per il fatto che gli studenti assistevano alle lezioni seduti su balle di paglia; già Dante (Par., X 137) l’aveva chiamata «Vico de li Strami». Come scrive L. AVELLINI, Letteratura e città. Metafore di traslazione e Parnaso urbano fra Quattro e Seicento, Bologna 2005, p. 22: «il Petrarca delle Invective in medicum quendam e del tacito diniego opposto all’offerta di una condotta universitaria fiorentina può aprire emblematicamente un excursus prosopografico sui letterati che interpretarono e misero in atto la relazione fra umanesimo e università, reintroducendo, in polemica con l’alta pedagogia professionalizzante, termini concettuali di un’educazione liberale per così dire socratica, apparentemente contraddittori con la funzione organico-civile dell’intellettuale moderno». 21 Ign., 179 (ed. FENZI, p. 288). 22 Adotto talora per comodità, in queste pagine, i termini «averroismo» (e «averroista»), pur essendo al corrente del fatto che la più aggiornata storiografia filosofica preferisce parlare di «aristotelismo radicale» o «eterodosso» (cfr. ad es. F. VAN STEENBERGHEN, La filosofia del XIII secolo, trad. it. Milano 1972, p. 333; G. FIORAVANTI, Boezio di Dacia e la storiografia sull’Averroismo, «Studi Medievali», n.s., VII, 1966, pp. 315-316). 19 20

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Sed copia literarum non semper modestum pectus inhabitat, et sepe inter linguam et animum, inter doctrinam et vitam concertatio magna est. De his autem loquor qui, literis impediti et onerati potius quam ornati, rem pulcerrimam, scire, turpissimis moribus miscuerunt, tanta animi vanitate ut scolas nunquam vidisse multo melius fuerit; qui hoc unum ibi didicerunt, superbire et literarum fiducia vaniores esse cuntis hominibus; qui, quieturum libenter Aristotilem ventilans per compita, cuneatim vulgo mirante pretereunt; quique vicis atque porticibus effusi numerant turres equosque et quadrigas; qui plateas et menia metiuntur, femineoque inhiantes ornatui, quo nichil est fugacius, nichil inanius, obstupescunt. Neque solum in vivis, sed et in marmoreis herent imaginibus et ceu collocuturi subsistunt attoniti occursibus statuarum, queque novissima pars insanie est, turbis et strepitu delectantur. Hi sunt qui quasi tritam venalemque supellectilem tota urbe circumferunt stultitiam literatam; hi sunt solitudinis inimici sed et proprie domus hostes, quos primo mane digressos ad invisum limen vespera vix tandem revehit; hi sunt quibus in proverbium venit: bella res est gentes videre, cum hominibus conversari. Melius equidem videre rupes ac nemora, versari cum ursis ac tigribus23.

Queste città, per il Petrarca del De vita solitaria e delle Invective contra medicum, sono soprattutto le città in cui trionfano la nuova scienza e la moderna filosofia: non solo e non tanto l’odiata Avignone, ma anche e soprattutto Parigi (la «contentiosa Parisius» del De ignorantia24) e Oxford, accomunate – e condannate come le capitali della falsa scienza dei moderni – nella senile XII 225. Alle spalle di questa condanna sta un altro dei bersagli prediletti del Petrarca polemista: la diffidenza, per non dire l’ostilità, nei confronti di tutto ciò che non è italiano, o per dir meglio delle culture ‘altre’, ossia non Opere latine, vol. I, pp. 268-270. Su questo passo richiama l’attenzione anche S. GENTILI, L’uomo aristotelico alle origini della letteratura italiana, prefazione di P. DRONKE, Roma 2005, pp. 223-226, dove si sottolinea come il bersaglio di Petrarca sia qui costituito dall’«ambiente scolastico dei magistri universitari», che «avevano opposto il proprio modo di praticare gli studi, i cui frutti scientifici essi liberalmente offrivano alla società cittadina, agli intellettuali solitari che tengono la scienza per sé»; e dove si osserva opportunamente che Petrarca, allo scopo di proporre un «modello antiuniversitario e anticittadino», reagisce all’«affermarsi d’una classe di studiosi riuniti in corporazione come tutte le categorie di lavoratori che svolgevano negotia artigiani in seno alla città». E – si aggiunga – gli intellettuali ‘urbani’ e i magistri universitari che prima e più si impegnarono nel costituirsi in ‘corporazione’ (onde rivendicare l’autonomia della propria scientia dalle ipoteche della teologia e dal controllo della Chiesa) furono proprio gli ‘artisti’, ossia i filosofi aristotelici che insegnavano presso la Facoltà delle Arti. 24 Ign., 143 (ed. FENZI, p. 266). 25 «stomacosum illud ‘ergo’ Parisiense et Oxoniense quod mille iam destruxit ingenia» (in F. PETRARCHAE Opera quae extant omnia, Basileae 1554 [rist. anast. Ridgewood 1965], p. 1008). 23

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italiane, non latine, non ‘romane’. Il resto dell’Europa sembra infatti a Petrarca dominato dalla barbarie e, quindi, del tutto incapace di reggere culturalmente il confronto con la gloriosa tradizione latina. Dalla Britannia – taciuti i nomi del venerabile Beda, pur citato di sfuggita nella Contra eum qui maledixit Italie26, di Walter Burleigh (di cui molto probabilmente ben conosceva il De vita et moribus philosophorum27), dell’amico Riccardo da Bury (benché lodato nella familiare III 1 come «vir ardentis ingenii nec literarum inscius»28) e di Giovanni di Salisbury, del quale nondimeno gli erano noti il Policraticus e, forse, anche il Metalogicon29 – è uscito e continua ad uscire, a suo parere, solo un fastidioso «dyalecticorum agmen» (l’espressione è della familiare I 730), una schiera di dialettici – ossia di logici occamisti e terministici – che altrove (nella senile V 2) viene paragonata a una «formicarum nigra acies» che devasta i campi della migliore e autentica cultura31. Quanto ai Francesi, che tanto vanno superbi della Inv. mal., 211 (ed. BERTÉ, p. 74: «Legat Bede librum De temporibus»). Cfr. P. BOITANI, Petrarca e i barbari Britanni, «Strumenti critici», XX (2005), pp. 370-371, dove si ricorda che la compilazione del Burleigh è spesso chiamata in causa dai commentatori moderni dei Triumphi, e si riferisce l’opinione di Francisco Rico in merito alla quasi certa conoscenza del De vita et moribus philosophorum da parte di Petrarca (che dell’opera si è probabilmente servito, «cancellando però accuratamente qualunque traccia di averla consultata, come ha fatto in molti casi simili»). Una citazione (nella familiare III 1, 7-9) Petrarca riserva invece al De mirabilibus Hybernie (meglio noto come Topografia Hibernica) di Giraldo di Cambrai (XIIXIII sec.), definito «libellus [...] licet tenui rerum filo, non rudi tamen verborum arte contextus», e per questo accolto da Francesco nella sua biblioteca; il giudizio petrarchesco su quest’opera, consultata a proposito dell’ubicazione della mitica isola di Tule, è però in sostanza limitativo, come emerge non solo dalla litote cui è affidato il cauto elogio appena riferito («non rudi tamen verborum arte contextus»), ma anche e soprattutto dai rilievi circa la lacunosa cultura classica dell’autore (il quale, dice Petrarca, cita Solino e Isidoro, ma ignora o trascura Claudiano e Plinio). 28 Cfr. C. SEGRÈ, Petrarca e Riccardo da Bury, nei suoi Studi petrarcheschi, Firenze 1911, pp. 263-291. Riccardo, com’è noto, era cancelliere del re d’Inghilterra e cappellano di Giovanni XXII. Su di lui vd. qui anche n. 79. 29 Cfr. ancora BOITANI, Petrarca e i barbari Britanni, pp. 371-372. Il fatto che Petrarca (Fam., IX 5, 26) definisca «philosophice nuge» il Policraticus non implica (come invece ritiene il Boitani) un giudizio negativo sull’opera, giacché le parole petrarchesche riecheggiano certo volutamente il ‘sottotitolo’ del trattato, noto infatti come Policraticus sive de nugis curialium et vestigiis philosophorum. 30 F. PETRARCA, Le familiari, edizione critica a cura di V. ROSSI, Firenze 19331942 (4 voll., l’ultimo a cura di U. BOSCO), I, p. 36. 31 Ed. BERTÉ, p. 81: «Surgunt his diebus dyalecticuli non ignari tantum, sed insani et quasi formicarum nigra acies nescio cuius cariose quercus e latebris erumpunt omnia doctrine melioris arva vastantes». Su Petrarca e i Britanni vd. ora BOITANI, Petrarca e i barbari Britanni, pp. 359-377, dove si ricorda fra l’altro che 26 27

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loro dottrina, essi – come si legge nella Contra eum qui maledixit Italie e nella senile IX 1 – possono vantare solo mediocri poeti (l’Architrenio, Gualtiero di Châtillon, Alano di Lilla32; il pur ammirato e più volte citato Ausonio è invece passato sotto silenzio33) e rozzi compilatori (come Tommaso Ibernico, autore del fortunatissimo Manipulus florum34); i veri dotti sono rarissimi (nella Contra eum è menzionato il solo Ilario di Poitiers, cui si potrebbe forse aggiungere Pietro AbeRiccardo da Bury «è l’unico uomo di cultura proveniente dall’Inghilterra contemporanea che il Petrarca menzioni» (p. 369). La scarsa simpatia petrarchesca per gli inglesi è testimoniata anche dal credito concesso nella dodicesima egloga del Bucolicum carmen (v. 62) alla diceria secondo cui essi nascerebbero muniti di coda, in segno della loro natura fraudolenta e malvagia: cfr. V. PACCA, L’«infame coda» degli inglesi, in Verso il centenario. Atti del seminario di Bologna (24-25 settembre 2001), a cura di L. CHINES e P. VECCHI GALLI, Firenze 2004, pp. 167-187. 32 Inv. mal., 157, 166-168, 241-243, 253 (ed. BERTÉ, pp. 61, 63-65, 85-87, 91). Per l’Architrenio (Johannes de Hauvilla, o de Altavilla, o de Auvilla, vissuto nel XII sec.) vd. in particolare ibid., 157 e 253 (pp. 61 e 91); per Gualtiero, 166, p. 63 (dove egli è definito «levissimus quidam [...] vanissimusque Gallorum»; «plebeius poeta» è detto invece in Fam., XIII 10, 7 [ed. ROSSI, vol. III, p. 91]; e vd. anche Vir. ill., XV 50: ed. a cura di G. MARTELLOTTI, Firenze 1964, p. 70); per Alano di Lilla, ibid., 253, p. 90 (dove egli è definito «paulo minus tediosus Architrenio»). 33 Il codice di Ausonio posseduto da Petrarca è l’attuale Lat. 8500 della Bibliotèque Nationale di Parigi (vd. M. FEO, Inquietudini filologiche del Petrarca: il luogo della discesa agli inferi, «Italia medioevale e umanistica», XVII, 1974, pp. 132-133). Ausonio è citato esplicitamente da Petrarca nel De remediis (II 14 e II 125), nelle Seniles (XIII 10) e nella lettera pubblicata da N. MANN, «O deus, qualis epistola!». A new Petrarch letter, «Italia medioevale e umanistica», XVII (1974), p. 242, con le osservazioni ulteriori di M. FEO, Fili petrarcheschi, «Rinascimento», II s., XIX (1979), pp. 75-78 (= Disp. 61). 34 Per Tommaso Ibernico vd. Inv. mal., 9 (ed. BERTÉ, p. 18), dove il Manipulus florum (antologia di sentenze desunte dai Padri della Chiesa, ad uso soprattutto dei predicatori) è definito «opus vere gallicum, et quod gallica levitas pro omnibus libris habet». Il disprezzo verso questi autori, naturalmente, non impediva a Petrarca di leggerli e di utilizzarli nelle sue opere: a questo proposito vd. E. FENZI, Di alcuni palazzi, cupole e planetari nella letteratura classica e medievale e nell’«Africa» del Petrarca, «Giornale storico della letteratura italiana», CLIII (1976), pp. 19, 35-36, 186, 218-222 (il contributo è ora raccolto in ID., Saggi petrarcheschi, Fiesole 2003, pp. 227-303); FEO, Fili petrarcheschi, pp. 87-88 (p. 87: «Petrarca [...] aveva letto Alano e Gualtiero [...]. Da giovane li aveva assimilati, fino a non poterseli poi del tutto scrollare di dosso»); G. VELLI, Petrarca, Boccaccio e la grande poesia latina del XII secolo, in Retorica e poetica tra i secoli XII e XIV. Atti del secondo Convegno Internazionale di studi dell’AMUL, in onore della memoria di Ezio Franceschini (Trento e Rovereto, 3-5 ottobre 1985), a cura di C. LEONARDI e E. MENESTÒ, Perugia-Firenze 1988, pp. 239-256; ID., Petrarca, la poesia latina medioevale, i «Trionfi», in I «Triumphi» di Francesco Petrarca. Atti del Convegno di Gargnano del Garda (1-3 ottobre 1998), a cura di C. BERRA, Bologna 1999, pp. 123-33. E cfr. anche F. RICO, Petrarca e il Medioevo, in La cultura letteraria italiana e l’identità europea. Convegno internazionale (Roma, 6-8 aprile 2000), Roma 2001, pp. 39-45.

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lardo, l’unico filosofo moderno ricordato nel De vita solitaria accanto a quelli antichi e ai Padri della Chiesa35), perché anche coloro che sono divenuti tali in Francia (da Ugo di San Vittore a Pietro Lombardo, da Tommaso d’Aquino a Bonaventura da Bagno Regio e a Egidio Romano) provenivano in realtà da altre nazioni, e in grande maggioranza erano italiani36. Né le cose stavano diversamente nell’antichità, se è vero che Stazio – per Petrarca, come per Dante, nativo della Gallia Narbonense – deve considerarsi a tutti gli effetti latino e romano per lingua, stile e cultura (non diversamente dall’ispanico Lucano37). La senile IX 1 estende la medesima valutazione a tutti i campi del sapere (arti liberali, scienze storiche e naturali, filosofia, diritto civile e canonico, oratoria e poesia); i Francesi non hanno né ingegni né libri, e le lodi che essi si attribuiscono sono prive di qualunque fondamento, perché non c’è parte dello scibile che in Italia non abbia avuto origine e in Italia non sia stata condotta alla sua perfezione38. Barbari i Galli, dunque, pressoché senza eccezioni, e barbari i Britanni: Petrarca, dunque, non crede minimamente a quella translatio studiorum che, a parere di molti (come, ad esempio, Elinando, Vincenzo di Beauvais e Ottone di Frisinga39), avrebbe spostato già a partire da Alcuino il cuore culturale dell’Europa da Roma alla Francia, facendo della Gallia l’erede spirituale della latinità classica e portando a termi35 Opere latine, I, p. 502: «Iungam tot veteribus recentiorem unum nec valde semotum ab etate nostra, quam recte nescio, sed apud quosdam ut audio suspecte fidei, at profecto non humilis ingenii, Petrum illum cui Abelardi cognomen est». Petrarca leggeva l’abelardiana Historia calamitatum e il carteggio di Abelardo ed Eloisa nell’attuale ms. Lat. 2923 della Bibliothèque Nationale di Parigi, che reca postille di sua mano. 36 Inv. mal., 226-228 (ed. BERTÉ, p. 81); Sen.,IX 1, 35-36 (ed. CASAMASSIMA, p. 115 = ed. NOTA-DOTTI, III, p. 133). 37 Inv. mal., 251-252 (p. 89). 38 «Quid, queso, de liberalibus artis, quid de rerum cognitione seu naturalium seu gestarum, quid de sapientia, quid de eloquentia, quid ve de moribus et de omni parte philosophie habet lingua latina, quod non ferme totum ab italis sit inventum? Siquid enim externi de his rebus feliciter ausi sunt, vel italos imitati sunt vel in Italia scripserunt, in Italia didicerunt»; «Oratores et poete extra Italiam non querantur (de latinis loquor) vel hinc orti omnes vel hic docti. [...] Radix artium nostrarum et omnis scientie fundamentum, latine hic reperte sunt litere, et latinus sermo, et latinitatis nomen quo ipsi gallici gloriantur. Omnia, inquam, hic exorta non alibi, atque hic aucta sunt» (Sen., IX 1, 35-36, ed. CASAMASSIMA, pp. 115-116 = ed. NOTADOTTI, III, p. 133). E vd. al riguardo F. RICO, Il sogno dell’Umanesimo. Da Petrarca a Erasmo, trad. it. Torino 1998, pp. 7-8. 39 Cfr. i testi citati da Giuliana Crevatin nelle sue note di commento all’invettiva Contra eum qui maledixit Italie (F. PETRARCA, In difesa dell’Italia, a cura di G. CREVATIN, Venezia 1995, pp. 172-173). Per altri autori vd. qui anche più avanti, n. 79.

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ne il processo, avviatosi fin dall’antichità, in virtù del quale non solo la supremazia politico-militare, ma anche quella letteraria, filosofica e scientifica si sarebbe progressivamente andata trasferendo da Oriente verso Occidente40. Ma Gallia e Britannia non sono le sole vittime di questa visione rigidamente latino-centrica, che trova le sue radici profonde in istanze di natura sia culturale che religiosa (giacché, agli occhi di Petrarca, un filo strettissimo congiunge la latinità classica al cristianesimo, e giacché Roma e l’Italia sono le sedi dell’autentica spiritualità cristiana, minacciata a est dall’avanzare degli infedeli e a ovest dal diffondersi di una sapienza empia e tendenzialmente atea). La civiltà greca gli appare ormai irrimediabilmente decaduta, e d’altronde (come leggiamo ancora nella Contra eum qui maledixit Italie) non c’è nessun campo in cui essa non sia stata, anche all’epoca del suo massimo fulgore, superata da quella romana41; per quanto concerne gli Arabi – che egli dichiara senza mezzi termini di detestare –, dall’Arabia (scrive categoricamente Petrarca a Giovanni Dondi nella senile XII 2, del 17 novembre 1370) non è mai venuto nulla di buono42. Egli stesso, in quella senile, ammette di conoscere ben poco della cultura araba (a parte i poeti, che, come abbiamo visto, giudica snervati, fiacchi e turpi): ma quel poco che doveva conoscere – ovverosia, verosimilmente e forse indirettamente, pensatori come Averroè e Avicenna – gli era sufficiente per individuare in quella civiltà la prima scaturigine delle più perniciose tendenze della filosofia medievale (l’aborrito averroismo degli aristotelici radicali) e in generale di una ai suoi occhi inaccettabile mentalità scientista e materialista, meccanicistica e 40 Cfr. a questo proposito J. LE GOFF, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, e altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, trad. it. Torino 1977, p. 11 e la bibliografia lì citata in nota. 41 Inv. mal., 267 (ed. BERTÉ, pp. 93-95). Petrarca appoggia questo suo convincimento a CIC., Tusc., I 1, 1. 42 «Unum, antequam desinam, te obsecro: ut ab omni consilio mearum rerum tui isti Arabes arceantur atque exulent. Odi genus universum. Scio Grecos fuisse olim ingeniosissimos ac facundissimos viros: multi inde philosophi et poete maximi et oratores et mathematici insignes; medicorum principes illa pars mundi genuit. Arabes vero quales medici, tu scis; quales autem poete, scio ego: nichil blandius, nichil mollius, nichil enervatius, nichil denique turpius; et quamvis animi hominum alii ad alia proniores sint, ut tu tamen dicere soles, in omnibus elucescit ingenium. Et quid multa? Vix michi persuadebitur ab Arabia posse aliquid boni esse. Vos autem, docti viri, nescio qua fragilitate animorum magnis illos et, ni fallor, indebitis preconiis celebratis» (PETRARCAE Opera, p. 1009; testo rivisto sulla nuova edizione compresa in M. BERTÉ-S. RIZZO, Le ‘senili’ mediche, in Petrarca e la medicina. Atti del Convegno di Capo d’Orlando, 27-28 giugno 2003, Messina 2006, pp. 359-360).

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naturalistica, che si era diffusa in Europa già nei secoli precedenti. Una mentalità pericolosa per la religione cristiana, giacché da una parte stimolava la vana curiositas, la «cognitio rerum variarium» che conduce (come si legge nella senile XIII 5) «ad ignorantiam Creatoris omnium»43, e dall’altra favoriva un approccio ‘laico’ – ossia indifferente alle ragioni della fede – alle scienze della natura e dell’uomo (medicina compresa). Senza dimenticare, naturalmente, che proprio dall’Oriente e dall’Islam giungeva al Medioevo europeo la gran parte dei più rilevanti progressi tecnici e scientifici (soprattutto nei campi dell’ottica, della matematica e della medicina), nonché la stessa spinta alla rivalutazione delle arti meccaniche e alla loro dignificazione filosofica. Significativa, a questo riguardo, è la chiusa della senile V 2, in cui Petrarca, dopo aver narrato della sua lite con un filosofo di scuola averroista, si scaglia contro i moderni sapienti che, «scientie vacuos ac virtutis», «novos vulgo auctores et exoticas invehunt disciplinas», riempiendo delle loro stolte ed eretiche dottrine «non scolas sed latissimas urbes et vicos ac plateas»44. La specola privilegiata delle invettive è utile però anche a valutare la posizione del Petrarca nella cultura del suo tempo, a indagare cioè l’effettiva ‘attualità’ dei suoi bersagli polemici (e dei mezzi impiegati per colpirli) nel panorama culturale del pieno Trecento. A questo riguardo, è indubbio – conviene dirlo sùbito – che le polemiche petrarchesche si configurino come espressione di un consapevole e consapevolmente perseguito conservatorismo culturale professato da posizioni senz’altro definibili ‘di retroguardia’, allo scopo di portare avanti un progetto radicalmente ‘antimoderno’, scavalcando d’un balzo i secoli XIV e XIII (dominati dalla Scolastica e dall’aristotelismo) per ricollegarsi direttamente ai maestri del secolo XII, e – attraverso Agostino e gli altri Padri della Chiesa – alla lezione del mondo classico45; così come decisamente ‘arretrati’ appaiono, a ben guardare, anche i mezzi di cui Petrarca si serve per condurre questa sua battaglia, nonché gli stessi obiettivi della sua serrata polemica. In genere, questa che ho definito ‘arretratezza’ nasce senza dubbio da un voluto e programmatico rifiuto della modernità; ma in altri casi Ivi, p. 1016. Ed. BERTÉ, p. 83. I corsivi sono ovviamente miei. 45 Cfr. E. GILSON, Notes sur une frontière contestée, «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen-Age», XXXIII (1958), pp. 59-88; MARTELLI, Petrarca epistolografo: le «Senili», p. 654; G. C. GARFAGNINI, Note sull’uso degli “auctores” nelle «Seniles», in Il Petrarca latino e le origini dell’Umanesimo, pp. 669-682. 43 44

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può sorgere il legittimo dubbio che essa, almeno in parte, sia la conseguenza delle scarse e scarsamente aggiornate conoscenze petrarchesche in certi settori dello scibile. La pervicace volontà di tener confinata la medicina nell’angusto recinto delle arti meccaniche, ad esempio, dimentica o ignora il fatto che ormai fosse unanimemente riconosciuta alla medicina, accanto a quella pratica, una dimensione teorica, e dunque una portata filosofica e conoscitiva; né questa era solo l’opinione di un averroista come Pietro d’Abano46, se non diversamente si erano espressi in passato autori non sospetti, fra i quali, in particolare, Isidoro di Siviglia (per il quale la medicina era addirittura una «secunda philosophia»): Quaeritur a quibusdam quare inter ceteras liberales disciplinas medicinae ars non contineatur. Propterea, quia illae singulares continent causas, ista vero omnium. Nam et grammaticam medicus scire debet, ut intelligere vel exponere possit quae legit. Similiter et rhetoricam, ut veracibus argumentis valeat definire quae tractat. Nec non et dialecticam, propter infirmitatum causas ratione adhibita perscrutandas atque curandas. Sic et arithmeticam, propter numerum horarum in accessionibus et periodis dierum. Non aliter et geometriam, propter qualitates regionum et locorum situs, in quibus doceat quid quisque observare oporteat. Porro musica incognita illi non erit: nam multa sunt quae in aegris hominibus per hanc disciplinam facta leguntur, sicut de Davide legitur, qui ab spiritu inmundo Saulem arte modulationis eripuit. Asclepiades quoque medicus phreneticum quendam per symphoniam pristinae sanitati restituit. Postremo et astronomiam notam habebit, per quam contempletur rationem astrorum et mutationem temporum: nam, sicut ait quidam medicorum, cum ipsorum qualitatibus et nostra corpora commutantur. Hinc est quod medicina secunda philosophia dicitur: utraque enim disciplina totum hominem sibi vindicat. Nam sicut per illam anima, ita per hanc corpus curatur (Etym., IV 13)47. 46 Su Pietro d’Abano e la medicina vd. B. MARTINELLI, Petrarca e la medicina, in Appendice a F. PETRARCA, Invective contra medicum, testo latino e volgarizzamento di ser Domenico Silvestri, edizione critica a cura di P. G. RICCI, appendice di aggiornamento a cura di B. MARTINELLI, Roma 1978, pp. 234-235, e soprattutto F. ALESSIO, Filosofia e scienza. Pietro d’Abano, in Storia della cultura veneta, a cura di G. ARNALDI e M. PASTORE STOCCHI, vol. II (Il Trecento), Vicenza 1976, pp. 186206. Alessio richiama l’attenzione su quei passi di Pietro (tratti dal suo Conciliator differentiarum) nei quali egli, rifiutando il confinamento della medicina nel limbo delle arti meccaniche e l’assegnazione ad essa di una dimensione esclusivamente ‘pratica’, ribadisce la dignità scientifica e filosofica di questa ‘arte’ («Qui vero medicinalem scientiam asserunt fore practicam, subalternari eam mechanicae concupiscunt»; «philosophia et medicina sunt sorores»). 47 Il codice delle Etymologiae posseduto (e riccamente postillato) da Petrarca è il Lat. 7595 della Bibliothèque Nationale di Parigi: vd. P. DE NOLHAC, Pétrarque et l’humanisme, Paris 19072 [rist. anast. ibid. 2004], II, p. 209, e D. GOLDIN FOLENA, Petrarca e il Medioevo latino, in Il Petrarca latino e le origini dell’Umanesimo, p. 467.

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Isidoro aveva escluso la medicina dalle arti liberali non perché la considerasse ad esse inferiore, ma al contrario perché la riteneva – proprio come la filosofia, anche se in modo diverso e con diverse finalità – una scienza integrale dell’uomo, alla quale le arti liberali (che hanno invece per oggetto, ciascuna, singole e specifiche branche del sapere) prestano il loro contributo. In tempi più recenti, sulla sua scia si era mosso anche Vincenzo di Beauvais, che nello Speculum doctrinale aveva ritenuto di dover escludere la medicina dal novero delle arti meccaniche (sostituendola con l’alchimia) proprio in virtù della sua duplice dimensione, insieme ‘pratica’ (manuale) e ‘teorica’ (speculativa): medicinam quoque magister Richardus [scil. Riccardo – ma in realtà Ugo – di San Vittore] inter septem mechanicas artes computat, sed quoniam haec ipsa non tantum in operatione manuum sicut caeterae, sed etiam in mentis speculatione consistit (videlicet quantum ad causarum considerationem, unde quasi media est inter praticam et theoricam), huius tractatum sequenti libro difficilius aliquantulum prosequendum reservamus48.

Né la medicina del XIV secolo era ormai più – come sembra invece credere o voler far credere il Petrarca – un’arte supinamente schiava dell’ipse dixit, giacché è dimostrato che, diversamente, essa aveva assunto lo status di una scienza frequentemente impegnata a mediare tra i dettami delle auctoritates greche ed arabe e le risultanze della concreta e moderna esperienza clinica49. In pieno Trecento, in48 VINCENTIUS BELLOVACENSIS, Speculum doctrinale, Graz 1965 (rist. anast. dell’ediz. Duaci 1624), coll. 1053-1054 (= XI 105). Su questo passo ha richiamato recentemente l’attenzione R. LENOIR, Présentation a PÉTRARQUE, Invectives, p. 15. Vincenzo di Beauvais dedica alla medicina ben tre libri dello Speculum doctrinale (il XII, De arte medicina; il XIII, De medicina theorica; il XIV, De morbis particularibus), e apre il XIII ribadendo la sua natura al tempo stesso pratica e teorica: «Post scientias sermocinales et practicas et mechanicas, tandem accedendum est ad theoricas. Et quoniam inter mechanicas ultimo loco dictum est de medicina, quantum ad illam eius partem quae consistit in operatione manuum, ut sequentia praecedentibus congruenter adhaereat; nunc etiam in prosecutione theoricarum a medicina incipiendum est, quantum ad illam partem quae consistit in speculatione causarum atque morborum» (ed. cit., col. 1169 = XIII 1). Vincenzo prosegue poi (XIII 2) trascrivendo il passo isidoriano – qui poc’anzi riportato a testo – relativo alla medicina come «secunda philosophia», e di séguito (XIII 3-5) cita tre auctoritates (Papia, Avicenna e il medico della scuola salernitana Costantino Africano) che confermano il duplice statuto della medicina («Papias. Medicina alia theorica, alia practica»; «Avicenna [...] Haec dividi potest in theoricam et practicam»; «Constantinus [...] Medicinae divisio multiplex est. [...] Medicina omnis aut est theorica, aut practica»). 49 Rimando per questo all’importante studio di F. SALMON, On whose authority? Ancient and contemporary voices in medical scholasticism, in Petrarca e la medicina, pp. 142-162.

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somma, gli attacchi di Petrarca alla medicina, così come la stessa immagine che di questa disciplina egli fornisce, sembrano non poco anacronistici; e, non a caso, per trovare una analoga svalutazione della medicina è necessario risalire ad autori del XII secolo quali san Bernardo, Pietro Comestore e Pietro il Venerabile, che contrappongono – come fa il Petrarca – la vile medicina corporale all’autentica medicina spirituale, finalizzata non alla sanitas (o valetudo che dir si voglia), ma alla ben altrimenti importante salus, la salvezza dell’anima, garantita dall’unico e vero medico cui il credente possa e debba ricorrere con fede assoluta: l’Apollo celeste, Cristo50. 50 Cfr. i passi di san Bernardo («minime competit religioni vestrae medicinalis quaerere corporalis [...]. Species emere, quaerere medicos, accipere potiones religioni indecens est, et contrarium puritati, maximeque ordinis nostri nec honestati congruit, nec puritati»; «Tota erras via, si credis monachum saecularium medicinam sequi posse. Ad monasterium enim venimus, ut corpori incommoditates, et non commoda et voluptates quaeramus»), di Pietro il Venerabile («Miror unde Iesu Christi scholasticae Hippocratis scholas redolent [...]. Non contemno quidem adiumenta medicinalia, corruptae plerumque naturae medentia, maxime cum legam medicinam ab Altissimo creatam. [...] Accuso tamen hostes naturae, interfectrices carnis propriae, crucifixas cum crucifixo, rursum de vita, rursum de remediis vitae, rursum de statu corporum cogitae») e di Pietro Comestore («Qui student valetudini non sunt in schola Salvatoris, sed Hippocratis. “Omnia tempus habent”, sed isti commutant tempora, procurantes sanitatem, cum magis deberent procurare salutem. Salus quippe est animae, sanitas corporis. Nunc est tempus salutis [...]. In futuro erit tempus sanitatis, quando hoc mortale induet immortalitatem») citati da F. ALESSIO, La filosofia e le “artes mechanicae” nel secolo XII, «Studi medievali», VI (1965), p. 89. E vd. anche PETRARCA, Sen., VIII 6, 11-13: «Scripsere et alii multi res ad salutem utilissimam (de iis loquor non que scientia implent et sepe inflant, sed que devotione humili humanum animum accendunt) ut collationes patrum et patrum vitas [...]. Neque in hoc numero pretereundi sunt duo Iohannis Crisostomi devotissimi libelli, quorum alter De reparatione lapsi, De compunctione cordis alter inscribitur [...]. Michi etenim crede: nullis in ypocraticis Aphorismis tanta egris spes salutis aut tam certa remedia» (PÉTRARQUE, Lettres de la vieillesse, ed. NOTA-DOTTI, tome III, p. 87 [il corsivo è ovviamente mio]; ho corretto l’erroneo accusativo scientiam dell’edizione Nota-Dotti nell’ablativo scientia, che è lezione della cinquecentina basileense, confermata dall’edizione curata da Silvia Rizzo [F. PETRARCA, Res Seniles, II, libri V-VIII, Firenze 2009, p. 354], nonché dall’edizione provvisoria allestita alcuni decenni fa – ma purtroppo mai approdata alle stampe – da Mario Martelli). La definizione di Cristo come «medicus celestis» si legge nel De remediis, II 126 (ed. CARRAUD, vol. I, p. 1116); nelle Invective contra medicum, invece, troviamo prima la contrapposizione del «medicus temporalis» al «vivificator eternus» Cristo (III 278), poi la definizione di Agostino quale «magnus medicus animorum» (IV 180; ed. BAUSI, rispettivamente pp. 108 e 140). Sempre nelle Invective, è degno di nota il seguente passo del libro I, in cui si tratta della guarigione di papa Clemente VI: «Cristus autem, in cuius manu salus hominum sita est, salvum illum, ignorantibus omnibus vobis, fecit (et faciet quantum sibi libuerit, quantum Ecclesie, cui presidet, est necesse); vos, Dei beneficium et complexionis ac nature sue laudem usurpantes, videri vultis illum a mortuis suscitasse» (I 46; ed. BAUSI, p. 30).

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Anche la persistente fedeltà allo schema vittorino delle sette arti meccaniche è indizio di una visione ‘arcaica’ e ‘conservatrice’, sia perché i rapidi e continui progressi della scienza e della tecnica rendevano ormai impossibile, a parere di molti, costringere la varietà pressoché infinita di tali arti in un così ristretto e rigido catalogo (come riconoscono, fra gli altri, Giovanni di Salisbury e il domenicano inglese Robert Kilwardby51), sia perché lo sviluppo delle città e la nascita della società comunale stava infrangendo e superando la stessa tradizionale distinzione tra arti liberali e arti meccaniche, prodotto di una cultura alto-feudale caratterizzata (sono parole di Franco Alessio) dalla «contrapposizione fra due mondi costituiti l’uno tutto e solo nella libertà dello spirito, l’altro tutto e solo nella servitù del corpo»52. Nella moderna città non ci sono nobili e servi, ma uomini attivi e uomini sapienti, spesso chiamati a interagire e a collaborare: quella che a Petrarca appariva come una bolgia infernale di mestieri rumorosi intesi esclusivamente al guadagno altro non era che il crogiuolo di una civiltà nella quale si andavano progressivamente attenuando le distanze tra il filosofo e il ‘meccanico’, e in cui il mondo astratto della ‘dottrina’ veniva sempre più spesso in contatto – e a patti – con il brulicante universo di una ‘pratica’ che reclamava con crescente insistenza (come nel caso della medicina) una propria legittimazione teorica e filosofica. Petrarca, se mai lo conosceva, doveva considerare Ruggero Bacone uno dei ‘barbari’ dottori di Oxford e di Parigi; ep51 Per Giovanni di Salisbury cfr. Policraticus, VI 20 (ed. a cura di C.C.J. WEBB, Frankfurt a.M. 1965 [rist. anast. della prima ediz., Oxford 1909], pp. 58-59), dove si sostiene che i «pedes rei publicae» (ossia «qui humiliora exercent officia») «prae multitudine numerari non possunt [...] ut res publica non octipedes cancros sed centipedes pedum numerositate transcendat». Per Robert Kildwardby cfr. ancora ALESSIO, La riflessione sulle “artes mechanicae”, pp. 290-292, dove si ricorda che nel suo De ortu scientiarum prima viene sottolineato il gran numero di arti meccaniche («Mechanicae variis modis distingui possunt et in variis numeris»), e poi viene messo in discussione il canone settenario delle arti meccaniche tracciato da Ugo di San Vittore («nullam enim video necessitatem quare in tam innumerabilibus artibus ponamus praecise septenarium nisi quandam congruentiam apparentem ad septenarium artium liberalium. Et forte facile inveniri [invenire Alessio] posset aliqua mechanica quae non faciliter ad aliquam istarum reduceretur»). Va aggiunto, inoltre, che il già ricordato Vincenzo di Beauvais (nel libro XI dello Speculum doctrinale, dedicato alle arti meccaniche) da un lato aderisce, preliminarmente, al canone settenario di Ugo (XI 1 = ed. cit., coll. 993-994), e dall’altro – di fatto – lo supera e lo disintegra dall’interno, dedicando alle arte meccaniche una trattazione estremamente minuziosa e articolata (per un aspetto particolare – la sostituzione della medicina con l’alchimia – vd. qui sopra, p. 551 e n. 48). 52 ALESSIO, Filosofia e scienza. Pietro d’Abano, p. 184. E vd. anche LE GOFF, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, p. 66, dove si osserva che già dalla fine del

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pure il francescano inglese fu uno dei primi a vedere nello sviluppo della scienza e della tecnica, con intuizioni davvero profetiche, un decisivo fattore di progresso e uno strumento fondamentale per migliorare le condizioni di vita dei simplices53; e anche Bacone credeva fermamente nella doppia faccia, insieme teorica e pratica, del sapere («studium sapientiae – si legge nel Compendium studii philosophiae – habet duas partes: unam scilicet speculativam, et aliam practicam et operativam»54). Il disprezzo verso i mestieri cittadini e le attività ‘manuali’ in genere (si veda l’elenco compreso nel passo del libro II del De vita solitaria qui sopra citato a testo) è, anch’esso, eredità della società feudale dell’alto Medioevo, che tra quanti esercitano professioni illecite o comunque spregevoli includeva, come fa ancora Petrarca, «locandieri, macellai, giullari, istrioni, maghi, alchimisti, medici, chirurghi, soldati, protettori, prostitute, notai, mercanti, [...] follatori, tessitori, sellai, tintori, pasticcieri, beccai, calzolai, giardinieri, pittori, pescatori, barbieri, balì, guardie campestri, doganieri, cambisti, sarti, profumieri, trippaioli, mugnai» 55. Ma la situazione cambia fra XII e XIII secolo, in séguito a quella rivoluzione economica e sociale che ha come prima e più evidente conseguenza lo sviluppo delle città. L’atteggiamento nei confronti dei mestieri muta progressivamente, diminuisce il numero delle professioni proibite o screditate, cominciano ad essere giustificate e approvate (in primo luogo dalla Chiesa) attività che fino ad allora erano state condannate. Come ha scritto Jacques Le Goff, nel basso Medioevo «nuovi mestieri nascono e si sviluppano, nuove categorie professionali appaiono o prendono corpo, gruppi socio-professionali nuovi, forti del loro numero, del loro ruolo, reclamano e conquistano una stima, ossia un prestigio adeguati alla loro forza. Essi vogliono essere considerati e ci riescono. Il tempo del disprezzo è finito»56. XII secolo «il quadro tradizionale delle arti liberali si sgretola per accogliere le nuove specializzazioni intellettuali e scolastiche e – fatto ancora più notevole – le arti meccaniche fino ad allora disprezzate», e si ricorda che Giovanni di Salisbury (nel luogo del Policraticus qui citato alla nota precedente), «riprendendo la vecchia immagine antropomorfica dello Stato in una Repubblica in cui ogni mestiere – contadini e artigiani compresi – rappresenta una parte del corpo, sottolinea la complementarietà e l’armonia di tutte le attività professionali». 53 Cfr. F. ALESSIO, Mito e scienza in Ruggero Bacone, Milano 1957, p. 233 e passim. 54 Citato ibid., p. 235. 55 LE GOFF, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, pp. 54-55. 56 Ibid., p. 59.

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Alla luce di questo retaggio ‘alto-feudale’ della cultura petrarchesca (o, meglio, del suo ‘progetto’ culturale) acquista più preciso spessore la stessa polemica anticittadina, dietro la quale si cela ben altro e ben più dello snobistico fastidio per la maleodorante Avignone e dell’amore letterario per la solitudine campestre. A dire il vero, non sempre il Petrarca ha dipinto la città a tinte fosche: basti pensare alle lodi di Pavia e di Venezia che si trovano nelle Seniles, e in particolare a una senile come la celebre X 2, nella quale egli dichiara che città come Bologna, Montpellier, Parigi, Napoli, Milano e molte altre da lui visitate o abitate in gioventù erano, almeno a quell’epoca, ricche, splendide, accoglienti e felici (e di città universitarie come Bologna, Montpellier e Parigi si elogiano, significativamente, anche il fervore degli studi e l’abbondanza di illustri professori57). Il che dimostra, credo, come la polemica anticittadina di opere come le Invective contra medicum e il De vita solitaria sia innanzitutto funzionale – come accennavo in precedenza – alla condanna di uno specifico tipo di società e di un ben determinato modello di cultura: non per nulla, nella stessa senile X 2 il passato splendore culturale e accademico di Bologna (con la «maiestas preceptorum» che la caratterizzava all’epoca della giovinezza del Petrarca) viene contrapposto alla sua presente decadenza, segnata dal dominio di una «ignorantia» che, soppiantando i grandi ingegni di una volta, ha invaso la città e ne è diventata regina58 (e che dovrà certamente identificarsi con quella filosofia averroistica che nel corso del XIII e del XIV secolo – come hanno mostrato gli studi di Bruno Nardi, Paul Oskar Kristeller e altri – aveva trovato uno dei suoi centri più vivi e vitali proprio nell’università bolognese59). Anche in questo caso, comunque, si tratta di una pole57 Cfr. F. PETRARCA, Le senili, a cura di G. MARTELLOTTI, traduzione italiana di G. FRACASSETTI, Torino 1976 (estratto da F. PETRARCA, Prose, a cura di G. MARTELLOTTI, P.G. RICCI, E. CARRARA, E. BIANCHI, Milano-Napoli 1955), pp. 72 e 84 (di Montpellier si ricordano la «scolarium turba» e la «copia magistrorum»; di Bologna lo «studiosorum conventus», accanto all’«ordo [...] vigilantia [...] maiestas preceptorum»; di Parigi gli «scolasticorum agmina» e lo «Studii fervor»). 58 Ibid., p. 72: «Quorum [scil. degli antichi preceptores] hodie prope nullus est ibi, sed pro tam multis et tam magnis ingeniis una urbem illam invasit ignorantia; hostis utinam et non hospes, vel si hospes at non civis seu, quod multum vereor, regina: sic michi omnes videntur abiectis armis manum tollere». 59 Cfr. B. NARDI, L’averroismo bolognese nel secolo XIII e Taddeo Alderotto, «Rivista di storia della filosofia», IV (1949), pp. 11-22; P.O. KRISTELLER, Petrarch’s «Averroists»: a note on the history of Aristotelianism in Venice, Padua, and Bologna, «Bibliothèque d’humanisme et renaissance», XIV (1952), pp. 59-65 (poi nei suoi Studies in Renaissance Thought and Letters, II, Roma 1985, pp. 209-216). E vd. inoltre

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mica ‘inattuale’ e consapevolmente antimoderna; non per nulla (a fronte degli elogi della città che si possono trovare in numerosi autori medievali, quali Guglielmo d’Alvernia, Pietro Abelardo, Giovanni di Salisbury o Alberto Magno60), l’idea secondo la quale i filosofi devono abbandonare le città – in quanto luoghi non adatti allo studio e alla speculazione – rimonta, fra gli altri testi, a un passo dell’AdverM. GRABMANN, L’aristotelismo italiano al tempo di Dante con particolare riferimento all’Università di Bologna, «Rivista di filosofia neo-scolastica», XXXVIII (1946), pp. 260-277; J. CH. ERMATINGER, Averroism in the Early Fourteenth Century Bologna, «Medieval Studies», XVI (1954), pp. 35-56; S. VANNI ROVIGHI, Gli averroisti bolognesi, nei suoi Studi di filosofia medievale, vol. II (Secoli XIII e XIV), Milano 1978, pp. 222-244; M. CORTI, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino 1983, pp. 5-8. E vd. i testi raccolti e pubblicati da Z. KUKSEWIKZ, Averroisme bolonaise au XIVe siècle. Editions des textes, Wroclaw-Varsovie-Cracovie 1965. 60 Per Guglielmo d’Alvernia cfr. J. LE GOFF, Una metafora urbana di Guglielmo d’Alvernia (1979), trad. it. nel suo L’immaginario medievale, Roma-Bari 1998, pp. 49-56, che tratta dell’elogio della città contenuto nel De sacramento (GUILIELMI ALVERNI Opera omnia, Aureliae-Londini 1674, pp. 407-416), dove Guglielmo dipinge la civitas come una «familia bene ordinata» in cui regna l’aequalitas, e descrive i cittadini come gli unici veri uomini, contrapposti ai rozzi abitatori della campagna (p. 409: «Cives civitatis proculdubio sunt veri nominis homines, adeo ut comparatione eorum caeteri non homines, sed potius animalia sint habendi»; p. 412: «in adeptione civitatis necessario deponitur omnis morum rusticitas et vitiorum impositio»). Per Pietro Abelardo vd. i passi della Historia calamitatum e della lettera VIII ad Eloisa citati da GENTILI, L’uomo aristotelico alle origini della letteratura italiana, pp. 224-225, dove si ricorda che secondo Abelardo l’intellettuale non deve ritirarsi nella solitudine eremitica, ma viceversa «ad urbem redire, tornare in città, e scavare pozzi nelle pubbliche piazze [...] da cui la scienza zampilli in modo da dissetare l’intera società» (e a questo riguardo vd. anche J. LE GOFF, Gli intellettuali nel Medioevo, trad. it. Milano 1979, p. 65; ID., Tempo della Chiesa e tempo del mercante, pp. 156-157). Per Giovanni di Salisbury, il rinvio è all’entusiastica descrizione di Parigi contenuta in una sua lettera del 1164 (edita in Chartularium Universitatis Parisiensis, [...] collegit [...] et contulit H. DENIFLE, [...] auxiliante AE. CHATELAIN, I, Paris 1899 [rist. anast. Bruxelles 1964], I, pp. 16-19); ma l’elogio di Parigi, definita «paradisus mundi», è anche nel Philobiblon di Riccardo da Bury (ed. a cura di R. FEDRIGA, introduzione di M. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, Milano 1998, p. 110, cap. VIII), nonché nelle lettere di Filippo di Harvengt, dove la città è esaltata come centro di cultura e di studi (cfr. LE GOFF, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, pp. 159-160, e anche ID., Gli intellettuali nel Medioevo, pp. 22-26). Di Alberto Magno si vedano i sermoni editi da J. B. SCHNEYER, Alberts des Grossen Augsburger Predigtzyklus über den hl. Augustinus, «Recherches de théologie ancienne et médiévale», XXXVI (1969), pp. 100-47, che prendono spunto da Mt., V 14 («Non potest civitas abscondi supra montem posita»), e nei quali, fra l’altro, Alberto fa l’elogio delle arti meccaniche (come necessarie alla comunità) e afferma che, se pure la città offre il destro alle insidie del demonio, essa fornisce nondimeno ai cittadini i mezzi per difendersi (attraverso il ricorso alla giustizia e ai suoi rappresentanti). Contro Parigi – dipinta come la moderna Babilonia – e contro i suoi ‘maestri’ universitari si scagliano invece nel XII secolo san Bernardo e Pietro di Celle (cfr. ancora LE GOFF, Gli intellettuali nel Medioevo, p. 24).

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sus Iovinianum di Gerolamo, citato ad verbum nella ben nota a Petrarca (e da lui apprezzata) Historia calamitatum di Abelardo61. La stessa avversione petrarchesca nei confronti di quanti – come i magistri universitari e i medici62 – guadagnano ‘vendendo’ nelle città il loro sapere, è legata alla tradizionale e arcaica concezione della scientia come di qualcosa di cui è non lecito fare commercio (giacché appartiene solo a Dio) e che deve pertanto essere coltivata in modo disinteressato, per puro amore della sapienza63: concezione, anch’essa, ‘feudale’ e pre-urbana, secondo la quale, come ritiene anche Petrarca, l’intellettuale che si fa pagare si degrada al rango di un lavoratore retribuito, ossia di un cultore delle arti meccaniche (il cui fine è appunto il guadagno, e non la conoscenza); concezione non a caso testimoniata da teologi ‘conservatori’ del XII secolo quali san Bernardo di Chiaravalle e Onorio di Autun64. E che dire delle modalità con cui è condotta nel De ignorantia la polemica antiaverroistica contro la tesi dell’eternità del mondo65? Non ripeterò qui quanto già osservato ripetutamente da altri studiosi (non a caso, storici della filosofia più che petrarchisti, quali Paul Renucci, Gennaro Sasso e Luca Bianchi66); mi limiterò a sottolineare come il 61 HIER., Adv. Iovin., II 8 (= PL, XXIII col. 297); e PETR. ABEL., Historia calamitatum mearum, 11 (in Lettere di Abelardo e Eloisa, introduzione di M. T. FUMAGALLI BEONIO BROCCHIERI, traduzione e note di C. SCERBANENCO, Milano 1996, pp. 122-124). Per il codice di Abelardo posseduto e postillato da Petrarca, vd. qui sopra, n. 35. 62 Per i primi vd. il passo sopra cit. del proemio al De vita solitaria, dove si afferma che questi magistri ostentano la loro sapienza «quasi tritam venalemque supellectilem»; per i secondi cfr. Inv. med., III 293-294 (ed. BAUSI, p. 126): «si quod alio spectat, et ad aliud refertur, et propter aliud est inventum, illi serviat oportet, ut tu vis. Medicina autem tua pecuniam spectat et ad illam refertur et propter illam est. Conclude, dyaletice: ergo pecunie serva est». 63 Vd. ancora Inv. Med., II 265-268 (ed. BAUSI, p. 80): «Philosophi enim, si nescis, pecunias spernunt: philosophiam venalem facere non potes. Quis enim vendit quod non habet? Si eam haberes, non tu illam ideo venalem faceres, sed illa te venalem esse non sineret. Nunc nec ipsa te honestat, nec tu eam, sed nomen eius turpi avaritia dehonestas». 64 Cfr. LE GOFF, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, pp. 5, 117-118, 157. Nota e fortunatissima nel Medioevo (e oltre) è la sentenza di san Bernardo (Sermones in cantica, XXXVI 3 = PL, CLXXXIII 968): «sunt qui scire volunt ut scientiam suam vendant, verbi causa pro pecunia, pro honoribus; et turpis questus est». 65 Al riguardo vd. E. FENZI, Petrarca e l’eternità del mondo. Appunti per un commento al «De ignorantia», «Intersezioni», XIV (1994), pp. 345-378; e il mio Medicina e filosofia nelle «Invective contra medicum» (Petrarca, l’averroismo, l’eternità del mondo), cit. 66 Cfr. P. RENUCCI, Pétrarque et l’averroïsme de son temps, in Mélanges de philologie romane et de littérature médiévale offerts a Ernest Hoepffner, Paris 1949, pp.

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Petrarca citi, al riguardo, soltanto Aristotele, Cicerone, Agostino, la Scrittura e (ma a sproposito) il commento di Calcidio al Timeo platonico67, ignorando del tutto il vivacissimo dibattito moderno e contemporaneo, e trascurando il fatto che anche un pensatore certamen339-46 (pp. 344 e 346: «bien loin de donner l’impression d’un écrit d’avant-garde, le De ignorantia fait figure d’oeuvre très attardée [...]. Au style et au “personalisme” près, le De ignorantia pourrait avoir été composé par un platonicien syncrétiste de Chartres ou un augustinien de Paris: et non au 1367, mais en 1250»); G. SASSO, De aeternitate mundi («Discorsi», II 5), nel suo Machiavelli e gli antichi e altri saggi, I, Milano-Napoli 1987, pp. 294-320 (p. 315: «in questa parte della sua cultura, [Petrarca] dimostrava lacune, incertezze, imprecisioni assai gravi, che certo sarebbe assurdo pretendere di spiegare soltanto con l’empito della sua polemica antiaristotelica e con l’esuberanza del suo cuore votato a Cristo»; p. 302: «questo piccolo libro riflette insieme la crisi della filosofia e l’incapacità di superarla, nonché la tendenza ad occultare questa incapacità attraverso l’esaltazione dei valori “umani” e la deprecazione della superbia speculativa»); L. BIANCHI, L’inizio dei tempi. Antichità e novità del mondo da Bonaventura a Newton, Firenze 1987, p. 58 (che parla, a proposito del Petrarca, di «antiaristotelismo di maniera [...] incapace di superare i limiti che i critici “averroisti” avevano impietosamente denunciato: una certa ignoranza filosofica, che tendeva a trasformarsi in un difensivo, completo rifiuto della filosofia, dagli echi paolini e forse abelardiani»). 67 Nel trattato, infatti, il commento di Calcidio al Timeo viene introdotto senz’altro come teste a favore della posizione creazionistica, passando sotto silenzio – se volutamente o meno, è impossibile stabilirlo – l’interpretazione opposta che da più parti ne era stata avanzata (fin da Agostino), e che certo appare la più aderente al testo. Vd. su questo le osservazioni di SASSO, De aeternitate mundi, pp. 301, 306-315 (p. 311: «si direbbe che lo lesse male [scil. il commento di Calcidio], e distrattamente, o che ne fece un uso tendenzioso»; p. 313: «che [...] il Petrarca citasse senza rigore filosofico, o tendenziosamente, il testo di Calcidio, può sorprendere: ma è un fatto»). Il codice di Calcidio posseduto da Petrarca (Par. Lat. 6820) riporta, come è noto, numerose postille di sua mano (cfr. S. GENTILE, Le postille del Petrarca al «Timeo» latino, in Il Petrarca latino e le origini dell’Umanesimo, pp. 129-139), parzialmente pubblicate da DE NOLHAC, Pétrarque et l’humanisme, II, pp. 141-147. Può essere interessante, ai nostri fini, osservare che queste postille «non hanno mai un oggettivo contenuto filosofico, sono solo appunti di lettore colto ed erudito» (C. ZINTZEN, Il platonismo del Petrarca, in Il Petrarca latino e le origini dell’Umanesimo, p. 98); anche se, a proposito della creazione del mondo (in corrispondenza di Tim. 29e: «Dicendum igitur cur rerum conditor fabricatorque geniturae omne hoc instituendum putaverit»), Petrarca, dopo aver annotato «Que ratio Deum movit ad mundi fabricam», trascrive un passo del ciceroniano Timaeus (che egli chiama De essentia mundi), a conferma del suo interesse per questo argomento e, al tempo stesso, della sua adesione alle posizioni antieternalistiche (cfr. al riguardo E. FENZI, Platone, Agostino, Petrarca, in «L’adorabile vescovo d’Ippona». Atti del Convegno di Paola, 24-25 maggio 2000, a cura di F. E. CONSOLINO, Soveria Mannelli 2001, pp. 315-316). Lo stesso Fenzi, a proposito delle postille petrarchesche al Fedone (nella traduzione latina di Enrico Aristippo; il codice posseduto da Petrarca è l’attuale Lat. 6567 A della Bibliothèque Nationale di Parigi), osserva che esse rimandano «non già alle parti propriamente dottrinali e speculative dell’opera, ma a quelle considerazioni morali che Petrarca sentiva particolarmente vicine alla sua sensibilità» (ibid., p. 316).

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te non eretico quale Tommaso d’Aquino si era mostrato aperto a riconoscere le ragioni degli ‘eternalisti’ e aveva denunciato la fragilità degli argomenti comunemente addotti dai loro avversari68. Di certo l’idea che Petrarca si era fatto – e che intendeva propagandare – di questi moderni filosofi aristotelici era quantomeno parziale e tendenziosa: nelle Invective, il profilo culturale del ‘medico’ è tratteggiato sulla scorta dei luoghi comuni antiaristotelici invocati nel secolo precedente dai teologi conservatori (primo fra tutti Bonaventura) e fatti propri dagli estensori del documento di condanna promosso da Stefano Tempier a Parigi nel 1277, a cominciare dalla semplicistica formulazione della nozione di «doppia verità»69; mentre nel De ignorantia i filosofi moderni vengono accusati di un cieco ossequio all’auctoritas di Aristotele, dal quale persino i più radicali degli averroisti erano in realtà svincolati (giacché il riconoscimento della fallibilità di Aristotele faceva ormai parte da tempo della comune coscienza filosofica70). Parimenti significativa è poi la mancata discussione del principio centrale dell’averroismo, l’unità dell’intelletto possibile, alla quale si legge solo un fugace accenno nelle medesime Invective con68 Cfr. al riguardo E. BERTOLA, Tommaso d’Aquino e il problema dell’eternità del mondo, «Rivista di filosofia neo-scolastica», LXVI (1974), pp. 312-355. 69 Vd. L. BIANCHI, L’errore di Aristotele. La polemica contro l’eternità del mondo nel XIII secolo, Firenze 1984, pp. 72, 179-180; A. MAIER, Scienza e filosofia nel Medioevo. Saggi sui secoli XIII e XIV, trad. it. con prefazione di M. DAL PRA, Milano 1984, pp. 385-420; R. C. DALES, The Origins of the Doctrine of the Double Truth, «Viator», XV (1984), pp. 169-179; ID., Medieval Discussions of the Eternity of the World, Leiden 1990, p. 153; L. BIANCHI, Introduzione a BOEZIO DI DACIA, Sull’eternità del mondo, Traduzione, introduzione e note di L.B., Milano 2003, pp. 42-55. Quanto a Petrarca, cfr. De ignorantia, 119 (ed. FENZI, p. 252), dove si afferma che i suoi interlocutori «protestari solent se in presens sequestrata ac seposita fide disserere; quod quid, oro, est aliud, quam reiecta veritate verum querere [...]?»; passo che lo stesso Enrico Fenzi (nel suo commento, pp. 427-428) collega alla presa di posizione della commissione Tempier: «dicunt enim ea esse vera secundum philosophiam, sed non secundum fidem catholicam, quasi sint due contrarie veritates, et quasi contra veritatem sacre scripture sit veritas in dictis gentilium dampnatorum» (in Carthularium Universitatis Parisiensis, I, p. 543; riprodotto anche da R. HISSETTE, Enquête sur les 219 articles condamnés à Paris le 7 Mars 1277, LouvainParis 1977, p. 13). 70 Cfr. L. BIANCHI, «Aristotele fu un uomo e poté errare»: sulle origini medievali della critica al “principio di autorità”, in Filosofia e teologia nel Trecento. Studi in ricordo di Eugenio Randi, a cura di L. BIANCHI, Louvain-La-Neuve 1994, pp. 509533, dove è citata anche l’importante testimonianza di Giovanni di Salisbury (Metalogicon, IV 27; ed. J. B. HALL, Turnholti 1991, p. 164): «Nec tamen Aristotilem ubique bene aut sensisse aut dixisse protestor, ut sacrosanctum sit quicquid scripsit. Nam in pluribus, optinente ratione et auctoritate fidei, convincitur errasse».

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tra medicum, dove la sua teorizzazione viene attribuita ad Averroè71: questione che (ben più di quella dell’eternità del mondo) costituiva il fulcro del pensiero degli aristotelici radicali, e che dunque non poteva essere ignorata da chi contro quei filosofi volesse combattere; ma, anche, questione che avrebbe richiesto agguerrite competenze specifiche di cui Petrarca era senza dubbio privo, e questione che a Petrarca – per la sua ‘tecnicità’ – doveva interessare assai meno di quella dell’eternità del mondo, ben altrimenti ricca di implicazioni morali ed escatologiche, e strettamente connessa a caratteristiche ‘ossessioni’ petrarchesche, come, in particolare, l’idea della fuga del tempo, della fine della storia, della decadenza e dell’invecchiamento del mondo. Il ‘conservatorismo’ e il ‘tradizionalismo’ culturale del Petrarca emergono a chiare lettere anche dalla sua polemica contro le civiltà e le culture non latine. La categorica chiusura nei confronti del mondo islamico («Odi genus universum», egli dice a proposito degli Arabi nella già ricordata senile XII 2) implica il disinteresse più totale riguardo alle fondamentali acquisizioni di origine araba nei campi della filosofia, della tecnica e delle scienze della natura, che si stavano rapidamente diffondendo nell’Europa medievale, determinando un’autentica rivoluzione epistemologica72. Non è certo casuale che Petrarca non ricorra mai – se ho visto bene – alla formula agostiniana, vulgatissima nel Medioevo e oltre, degli «iniusti possessores», con la quale si legittimava la lettura e lo studio, da parte dei cristiani, delle opere dei gentili, “ingiusti possessori” di verità che il cristiano ha il diritto e il dovere di sottrarre loro, per impiegarle a maggior gloria di 71 Inv. med., II 236 (ed. BAUSI, pp. 76-78): «fuit et qui mirabilius quiddam dicere auderet, siquidem unitatem intellectus attulit dux noster Averrois» (sono parole messe in bocca da Petrarca al medico). 72 Anche se – detto fra parentesi – Petrarca, così come disprezzava i medici ma al tempo stesso (soprattutto in vecchiaia) li andava a cercare e ne richiedeva l’amicizia e l’aiuto, allo stesso modo non disdegnava di ricorrere ai moderni ritrovati tecnologici, come gli occhiali, dei quali (secondo quanto si legge nella Posteritati) fu costretto a servirsi dopo i sessant’anni («vivacibus oculis et visu per longum tempus acerrimo, qui preter spem supra sexagesimum etatis annum me destituit, ut indignanti michi ad ocularium confugiendum esset auxilium»: F. PETRARCA, Lettera ai posteri, a cura di G. VILLANI, Roma 1990, p. 36). Analogamente, la polemica contro l’inutilità delle scienze naturali (per la quale vd. in particolare Ign., 24-25: ed. FENZI, p. 190) non impedisce a Petrarca, nella prefazione al II libro del De remediis, di esibire in questo campo non trascurabili competenze (fondate principalmente su Plinio il Vecchio e su Isidoro di Siviglia), oltre che una buona dose di vera e propria curiositas (ed. CARRAUD, I, pp. 530-553, e il relativo commento nel vol. II, pp. 399-417).

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Dio e del suo popolo. Per Agostino, gli «iniusti possessores» erano i filosofi greci, e in primo luogo i platonici73; per i contemporanei di Petrarca (e sto pensando ancora a Bacone), essi erano invece soprattutto gli Ebrei e ancor più gli Arabi, depositari di conoscenze e autori di scoperte che potevano aprire ai cristiani inediti orizzonti in molteplici settori dello scibile74. Il medesimo Ruggero Bacone, ad esempio, non aveva esitazioni a sostenere (con parole che sarebbero state riecheggiate due secoli più tardi da Giovanni Pico della Mirandola) che «tota sapientia non est data Latinis» e che «secreta philosophiae adhuc iacent in linguis alienis»75, esortando per questo allo studio delle lingue (greco, ebraico ed arabo) e criticando aspramente chi, come Alessandro di Hales, Alberto Magno e i filosofi tradizionalisti, continuava a restare chiuso alle nuove discipline e alle lingue cui erano consegnate («cum ignorat linguas – scrive Bacone a proposito di Alberto Magno – non est possibile quod aliquid sciat magnificum, propter rationes quas scribo, de linguarum cognitione»)76. È vero che Petrarca, nel De ignorantia, afferma che Agostino, partendosene dall’Africa, riempì il petto e il grembo dell’oro e dell’argento degli Egiziani, e si cinse delle fulgenti armi dei nemici, alludendo con questo alla profonda assimilazione della cultura classica e pagana da parte del santo di Ippona, che se ne servì poi per propugnare la fede e combattere a favore della Chiesa: 73 Cfr. Doctr. Christ., II 40: «Philosophi autem qui vocantur, si qua forte vera et fidei nostrae accommodata dixerunt, maxime Platonici, non solum formidanda non sunt, sed ab eis tanquam iniustis possessoribus in usum nostrum vindicanda». Spunto analogo anche a II 18; e vd. inoltre Conf., V 6 e VII 9; C. Petil., II 30. 74 Cfr. ALESSIO, Mito e scienza in Ruggero Bacone, p. 46. 75 Sono parole desunte dall’Opus tertium, e citate da ALESSIO, Filosofia e scienza. Pietro d’Abano, p. 183. Quanto a Pico della Mirandola, il rinvio è alla Oratio de hominis dignitate, 193 («omnis sapientia a barbaris ad Graecos, a Graecis ad nos manavit»), e soprattutto a un passo della cosiddetta prima redazione dell’operetta (115-117: «sacras omnino Litteras et mysteria secretiora ab Hebreis primum atque Chaldeis, tum a Grecis petere necessarium. Reliquas artes et omnifariam philosophiam cum Grecis Arabes partiuntur. Quos qui non adit, qui in illis progredietur, quando permulti hique pretiosiores eorum libri ad nostros nullo interprete pervenerunt, et horum qui pervenerunt tum plures inverterunt potius quam converterunt illi interpretes, tum certe omnibus eam caliginem obscuritatis offuderunt, ut quae apud suos facilia, nitida et expedita sunt, apud nostros scrupea facta, fusca et laciniosa studiosorum conatum eludant plurimum atque frustrentur?»). Si cita da G. PICO DELLA MIRANDOLA, Discorso sulla dignità dell’uomo, a cura di F. BAUSI, Parma 2003, rispettivamente pp. 92 e 150-151. 76 È un passo del baconiano Opus minus, citato da ALESSIO, Mito e scienza in Ruggero Bacone, p. 49.

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Nec vero Cicero fideliter ac modeste lectus aut illi [scil. Hieronymo] nocuit, aut cuique alteri, cum ad eloquentiam cuntis, ad vitam multis valde profuerit, nominatim, ut diximus, Augustino, qui ex Egipto egressurus, Egiptiorum auro et argento sinum sibi gremiumque complevit, ac tantus pugil Ecclesie, tantus propugnator fidei futurus, ante diu quam in acie descenderet, sese armis hostium circunfulsit77.

Ma va osservato come Petrarca si serva di questa immagine (desunta dalla celebre interpretazione allegorica fornita dallo stesso Agostino del passo dell’Esodo in cui si narra che gli Ebrei, nel fuggire dall’Egitto, si impadronirono, seguendo il precetto divino, di preziosi vasi e ornamenti d’oro e d’argento78) solo per giustificare e legittimare lo studio, da parte del cristiano, delle opere letterarie della latinità classica, e in particolare degli scritti di Cicerone, e come egli si guardi bene dal tradurre questa nozione in un’apertura di credito nei confronti della cultura araba e in genere delle moderne civiltà non cristiane. Anche la polemica contro la ‘barbarie’ dei Galli e dei Britanni (senza dimenticare, comunque, che in Petrarca la prima è strettamente funzionale alla battaglia per ricondurre la sede pontificia a Roma) sembra a tutti gli effetti quella di un nostalgico e attardato vagheggiatore della periclitante, minacciata e ormai, in pieno XIV secolo, pressoché scomparsa centralità culturale latina, italiana e ‘romana’. Che una sorta di translatio studiorum verso Occidente fosse in atto da tempo in Europa pareva a molti un dato di fatto difficilmente contestabile; e tra questi molti non si contano soltanto dotti d’oltralpe che – come quelli sopra menzionati: Elinando, Vincenzo di Beauvais e Ottone di Frisinga – potevano essere sospettati di parzialità nazionalistica e ‘anti-italiana’79, ma anche il più grande amico e discepolo Ign., 171 (ed. FENZI, pp. 282-284). Ex., III 21-22 e XII 35-36, passi ripresi da Agostino nel luogo sopra citato del De doctrina Christiana (II 40). Vd. il citato commento di Enrico Fenzi al De ignorantia, pp. 501-502. 79 Un sospetto del genere può ricadere anche su Chrétien de Troyes, che nel suo romanzo Cligés, composto negli anni ’60 del XII secolo, dichiara con enfasi l’avvenuto passaggio della “cavalleria” e della “dottrina” (clergie) da Atene a Roma e infine in Francia (cfr. E. R. CURTIUS, Letteratura europea e Medio Evo latino, trad. it. Firenze 1992, pp. 426-427); e su Riccardo da Bury, che verso la fine del cap. IX del suo Philobiblon (1344) scrive: «Minerva mirabilis nationes hominum circuire videtur, et a fine usque ad finem attingit fortiter, ut se ipsam communicet universis. Indos, Babylonios, Egyptios atque Grecos, Arabes et Latinos eam pertransisse iam cernimus. Iam Athenas deseruit, iam a Roma recessit, iam Parisius preterivit, iam ad Britanniam, insularum insignissimam, quin potius microcosmum, accessit feliciter, ut se Grecis et barbaris debitricem ostendat» (ed. FEDRIGA, p. 134). Che i Britanni del XIV secolo non potessero certo ormai più essere considerati culturalmente dei ‘barbari’ sottolinea BOITANI, Petrarca e i barbari Britanni, pp. 366-377. 77 78

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del Petrarca: Giovanni Boccaccio. Il quale, nelle Esposizioni sopra la Comedia, dopo aver constatato che non solo «lo ’mperio delle cose temporali», ma anche la religione e la scienza passarono anticamente dall’Asia alla Grecia e infine «appo i Latini», dove «per lungo spazio furono», non esita ad aggiungere che esse «poi di qui paiono andate inver ponente, essendo appo i Tedeschi e appo i Galli, e par già che il cielo ne minacci di portarle in Inghilterra»80. Né ci sarà da stupirsi di una simile affermazione: il Boccaccio (che ha parole di stima per Guglielmo di Occam81, che mostra interesse tanto per la filosofia naturale di ascendenza arabo-averroistica82 quanto per la dialettica e la «logica modernorum»83, che copia per suo uso personale – più volte utilizzandoli nelle sue opere – il commento di Tommaso all’etica di Aristotele e quello del medico averroista Dino Del Garbo alla cavalcantiana Donna me prega)84 era molto meno legato dell’amico e maeG. BOCCACCIO, Esposizioni sopra la «Comedia» di Dante, a cura di G. PADOAN, Milano 1965, p. 88 (Inf. I all., 161-162). L’approdo della scienza e della cultura 80

in Inghilterra riecheggia forse l’analoga affermazione di Riccardo da Bury (vd. n. precedente). 81 Il riferimento è all’epistola II (Mavortis milex extrenue), del 1339, indirizzata forse allo stesso Petrarca (G. BOCCACCIO, Epistole, a cura di G. AUZZAS, con un contributo di A. CAMPANA, in Tutte le opere, a cura di V. BRANCA, vol. V, Milano 1992, p. 514). Cfr. in merito E. GARIN, La cultura fiorentina nella seconda metà del ’300 e i «barbari britanni», in «La rassegna della letteratura italiana», LXIV (1960) [poi nel suo L’età nuova, Napoli 1969, pp. 141-177], p. 187; e C. VASOLI, La dialettica e la retorica dell’Umanesimo. “Invenzione” e “metodo” nella cultura del XV e XVI secolo, Milano 1968, p. 12. 82 Cfr. le osservazioni di M. VEGLIA, Il corvo e la sirena. Cultura e poesia del «Corbaccio», Pisa-Roma 1998, pp. 16-17 e 43-58. 83 Nell’epistola IV, indirizzata ad un ignoto (ed. AUZZAS, p. 526). VASOLI, La dialettica e la retorica dell’Umanesimo, p. 12, osserva in proposito che Boccaccio indica «come ottimi metodi di formazione mentale proprio taluni procedimenti della “logica modernorum”». 84 Il commento di Tommaso all’Ethica Nicomachea è stato copiato da Boccaccio (anteriormente al 1350) nell’attuale ms. A 204 inf. della Biblioteca Ambrosiana di Milano (cfr. A. M. CESARI, L’«Etica» di Aristotele nel Codice Ambrosiano A 204 inf.: un autografo del Boccaccio, «Archivio Storico Lombardo», XCIII-XCIV, 19661967, pp. 69-100; e G. AUZZAS, I codici autografi. Elenco e bibliografia, «Studi sul Boccaccio», VII, 1973, pp. 16-17); la conoscenza di questo testo emerge, in particolare, nelle novelle della decima giornata del Decameron (cfr. F. BAUSI, Gli spiriti magni. Filigrane aristoteliche e tomistiche nella decima giornata del «Decameron», «Studi sul Boccaccio», XXVII, 1999, pp. 205-253). Quanto al commento di Dino del Garbo a Donna me prega (messo a frutto da Boccaccio nella chiose al Teseida, nell’esposizione del quinto dell’Inferno e nelle Genealogie), vd. A. E. QUAGLIO, Prima fortuna della glossa garbiana a «Donna me prega» del Cavalcanti, «Giornale storico della letteratura italiana», CXLI (1964), pp. 336-368 (l’autografo boccacciano è il ms. Chigiano L V 176 della Biblioteca Apostolica Vaticana, copiato fra il 1359 e il 1366: cfr. ancora AUZZAS, I codici autografi, pp. 3-5).

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stro al culto esclusivo e ossessivo dell’antichità classica e dell’aurea ‘latinità’ romana, e di lui assai più aperto e curioso verso gli sviluppi contemporanei della letteratura, della filosofia e della conoscenza; in una parola, verso quella ‘modernità’ che resta sempre e comunque, in prima istanza e in ultima analisi, il vero e il principale bersaglio delle polemiche petrarchesche.

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