Pre-Dialogo (Luca Galofaro e Beniamino Servino)

May 23, 2017 | Autor: Gianni Romano | Categoria: Journals, Architettura, Traduzione, Archivistica, Cornell Univerity
Share Embed


Descrição do Produto

106

Sketch Book postmedia journal

INTERVISTE

107

SketchBook Pre-Dialogo

PreDialogo. Costruire

Luca Galofaro e Beniamino Servino

l’architettura è il modo migliore per sperimentarla Luca Galofaro e Beniamino Servino Arte e femminismo in Italia negli anni Settanta Conversazione con Tomaso Binga, Cloti Ricciardi e Suzanne Santoro a cura di Raffaella Perna Roman Signer Dealing with Euphoria Michele Robecchi

LG 04 04 20 14 Caro Beniamino, ti scrivo alcune note per cominciare la nostra discussione. Inizio semplicemente ripensando alla tua conferenza a Roma alla Cornell University, e lo faccio sfogliando le mie annotazioni. Ecco una pratica che io trovo fondamentale nel lavoro di un architetto: Annotare. Quella delle Annotazioni è allo stesso tempo un processo progettuale ed un sistema di archiviazione di informazioni, una pratica che cerco di sviluppare in chiave teorica, per questo ho creato dei blog. I blog mi aiutano a dare forma al mio archivio. Le annotazioni sono di due tipi; piccoli testi, che in realtà raccontano libri e segnano un percorso culturale. La produzione di immagini, che serve ha dare forma ad un archivio visivo da usare per il progetto. Le annotazioni prese alla tua conferenza si compongono di una serie di parole in sequenza, che mi hanno colpito molto. Due in particolare: riscrittura e traduzione. Nel loro significato letterale sono due parole che funzionano molto bene assieme. La traduzione ci consente di riscrivere un testo già scritto, significa ripensare il reale. Farlo con le immagini poi ne rafforza il significato e ci guida alla scoperta della tua architettura che è esattamente un lavoro di riscrittura della memoria. Suggerisco quindi di cominciare a riflettere attorno a queste tre parole a cui aggiungerei, l’idea di interpretazione, che le reassume tutte in un unica azione. Annotazioni - Interpretazione - Traduzione - Riscrittura. Che ne dici? BS 06 04 20 14 L’annotazione prova a portare un testo da fuori da sé a dentro di sé. A fissarlo. A conservarlo. Ne scava la carne e tiene gli organi sotto formaldeide. Poi quando trapianti un organo questo [l’organo] non si vede. Il corpo in cui è trapiantato appare inalterato. Però l’organo funziona. Svolge la sua funzione vitale. … Un testo esiste se può essere interpretato. … Traduzione-Tradimento-Tradizione descrivono un movimento [un trasporto] da una lingua a una altra, da un corpo a un altro, da un tempo a un altro.

108

Sketch Book postmedia journal

DIALOGO LG 07 04 20 14 È interessante come, senza un manifesto comune, il nostro modo di pensare all’architettura si stia confrontando negli ultimi anni, scoprendo una linea comune. Quest’empatia non si è formata su uno stile, su una frequentazione negli anni di formazione o su una lingua architettonica. E’ cresciuta su un metodo, su un modo di affrontare la ricerca e il pensiero prima del progetto. Il progetto poi è il nostro interesse comune. Sono sempre convinto che le mie annotazioni, sulle fotografie che scatto o che incontro nella mia pratica quotidiana siano molto vicine alle tue traduzioni del reale, esiste infatti un rapporto diretto di questi segni e montaggi e il nostro modo comune di affrontare l’inizio di un nuovo progetto. È una ricerca che agisce sulla memoria. Siamo entrambi attratti da quell’armonia spontanea che esiste tra artificiale e naturale. È dalla loro combinazione che prende forma la nostra architettura. Ho scelto quest’immagine per cominciare il nostro discorso, un’ immagine che combina un paesaggio astratto, ostile, in cui la vita è possibile solo attraverso la costruzione artificiale. È l’immagine della roccia, primo archetipo e segno che rappresenta per l’uomo un luogo sacro, un rifugio per proteggersi da una realtà ostile, l’origine del pensiero architettonico. Una volontà di pensare l’architettura (in realtà è una rielaborazione di un vecchio collage che avevo fatto per la mia tesi di laurea) come atto primordiale lontano dai segni della contemporaneità, dalle esperienze del moderno, ma anche dalle immagini radicali che consideravano lo spazio come un’estensione del mondo oltre la modernità. BS 07 04 2014 Le tue immagini, costruite usando come sfondo la luna o lo spazio vuoto e nero, mi fanno riflettere sulla forma dell’architettura e sulla sua origine. Di come la funzione [ma prima ancora il bisogno] e la fisica dei corpi l’abbiano generata [abbiano generato la forma, abbiano plasmato la forma]. Di come, poi, la forma sia stata astratta [separata, ritagliata, imparata, insegnata] per caricarsi di connotazioni iconografiche e simboliche. Di come l’archetipo diventa lessico collettivo, riconoscibile e rassicurante.   … LG 07 04 20 14 Questo tuo disegno al tratto è una sintesi perfetta del tuo lavoro enciclopedico avviato con Monumental need e che sta proseguendo con Obvius, due volumi che superano l’idea di libro per definire un vocabolario di azioni da applicare all’architettura e al paesaggio. La tua pennata, è segno primordiale, riparo (anche lui archetipo che completa e trasforma in architettura la caverna) ma allo stesso tempo diventa una possibilità per l’architettura, una riscrittura. Gli Innesti propongono come tema ricorrente l’idea di metamorfosi del non finito e la sua continua evoluzione.

109

SketchBook BS 07 04 2014 [2] La forma si è liberata dal bisogno che l’ha generata e è diventata icona e simbolo. E’ diventata [la forma] uno strumento di comunicazione. Verso uno strumentario di comunicazione alle masse. Per generare una nuova forma [non per inventarne una nuova] occorre quindi partire da un nuovo bisogno e da una nuova fisica dei corpi? LG 07 04 2014 [2] Usare la forma come strumento di comunicazione mi spaventa, è questo che ha portato l’architettura alla deriva negli ultimi anni, sostengo invece che questo lavoro sulla manipolazione ci aiuti a superare il problema della comunicazione attraverso la forma. Sostengo con forza che il nostro sia un esercizio per ritornare all’essere dell’architettura. Come diceva Costantino Dardi: Le architetture disegnate o dipinte, esposte o stampate, riprodotte o esibite, troppo spesso chiudono la ricerca appena raggiunto un risultato valido  entro l’universo della rappresentazione. L’architettura non si rappresenta: l’architettura si presenta, l’architettura è. Noi presentiamo l’architettura. BS 07 04 2014 [3] Il pensiero architettonico è espresso [prende corpo, si consustanzia] attraverso la costruzione dell’architettura. Anche quando questa [la costruzione] è condizionata da motivi economici o di opportunità. O da altri motivi, di qualunque natura. Anche allora. Quando ciò non è possibile [quando non è possibile la costruzione dell’architettura] allora il disegno diventa un manifesto. Di un disagio. Di una utopia possibile. Di propaganda. Il disegno [l’immagine di architettura] è un surrogato per la diffusione del pensiero di architettura. [Il disegno sostituisce in modo imperfetto l’architettura costruita]. La diffusione del pensiero di architettura avviene attraverso la sua [della architettura] costruzione. Il disegno [l’immagine di architettura] è imperfetto perché è incorrotto. Il pensiero invece è corrotto per necessità genetica. L’architettura [la costruzione dell’architettura] è generata dalla malattia. E di questa [della malattia] si nutre per resisterle. Omeopaticamente. … La costruzione dell’architettura[la sua pratica]è l’ambiente naturale alla sua sperimentazione. COSTRUIRE L’ARCHITETTURA è IL MODO MIGLIORE PER LA SUA SPERIMENTAZIONE. I tempi della costruzione[più o meno lunghi] favoriscono la contaminazione inevitabile del proposito originario, però aiutano anche a definirlo. ... Al contrario la elaborazione di una immagine di architettura restringe in tempi

 

110

Sketch Book postmedia journal

estremamente abbreviatiil processo della variazione-adeguamento.In entrambi i casi [la costruzione dell’architettura e la elaborazione della sua immagine] l’esercizio della variazioneadeguamento è vitale per la messa a fuoco del pensiero architettonico.... L’architettura è specchio più o meno fedele della storia del suo autore.... Gli specchi e la dilatazione dell’angusto. OBVIUS, Letteraventidue 2014 LG 08 04 2014 [1] Costruzione e disegno raccontano una storia difficile, almeno in Italia, da sempre vengono usate come figure retoriche per cambiare significato alla storia dell’architettura. Chi costruisce non disegna, chi disegna non costruisce. Per questo motivo ho sempre preferito non disegnare e usare il montaggio. Montaggio di Modelli. Modelli (oggetti tridimensionali architetture reali ridotte nelle loro dimensioni). Montaggi di frammenti. Immagini che rappresentano la mia idea di architettura, frammenti da usare per costruire l’idea di spazio che solo il progetto, poi, può trasformare in architettura. Ovvio che l’unico modo per sperimentare sia costruire, ma il montaggio serve proprio a questo, creare le condizioni del progetto. La condizione del progetto, è fisica, sensoriale ma anche concettuale prima che costruttiva, poi lo spazio deve crescere attorno a questa idea. Quest’ultima immagine che hai inserito è composta di pezzi della tua memoria, costruiti ed immaginati è quindi per me uno spazio reale. Architettura LG 09 04 2014 [1] Cercando tra gli appunti presi alla tua conferenza, ho pescato alcune parole a cui ho affiancato quelle che invece uso io [quando è ripetuta la usiamo entrambi] Parole: traduzione - annotazione autobiografico - autobiografico memoria - archivio corruzione - contaminazione innesto – stratificazione. Tu usi molto: riscrittura – traduzione. Io uso molto: ripetizione e frammento.

111

SketchBook BS 09 04 2014 [1] La riduzione a parole-chiave ordina il pensiero e ne consente il confronto. E forse ne agevola la sua [del pensiero] evoluzione. Le tue annotazioni a un testo mi riportano alla fecondissima pratica della digressione. Agganciarsi alle storie altrui. Agganciarsi alle utopie altrui. E portarle in direzioni diverse. Autobiografico è atto liberatorio. Porta l’IO in primo piano, non con l’uso di pezzi del suo repertorio ma con la dichiarazione di uso dell’istinto. La memoria conserva e adatta a sé. L’archivio conserva fuori da sé. Corruzione è spesso contaminazione ma è anche dispersione della materia, riduzione della consistenza, passaggio di stato. Innesto è spesso stratificazione. Ma è anche digressione. Parto dalla tua storia e me ne faccio una tutta mia. I frammenti mi inquietano. Tendo a comporre un quadro che li contenga.

LG 09 04 2014 [2] Dici: La memoria conserva e adatta a sé. L’archivio conserva fuori da sé. La parola Archivio nasconde molte altre interpretazioni, con diversi significati, gli archivi da sempre rappresentano la memoria collettiva o raccontano le ricerche degli individui. Internet in un certo senso ha cambiato due aspetti fondamentali dell’atto di archiviare, ha aumentato la quantità d’informazioni e la loro selezione, ha costretto tutti a questa pratica. Siamo condizionati dalle immagini e dai dati da catalogare. Io l’ho sempre fatto, il raccogliere oggetti, fotografie ed informazioni, sono questi i frammenti di cui parlo, i montaggi mi permettono di dare forma al mio immaginario, sono l’archivio di questi frammenti. L’archivio è reale ed è legato ad un luogo fisico particolare la mia casa, il mio studio, i blog1 li uso per combinare e raccogliere parte di questi frammenti. Il montaggio delle tre piramidi sopra un edificio in costruzione, e quello che segue 1. www.the-imagelist.com \ www.the-booklist.com

112

Sketch Book postmedia journal

113

SketchBook

sono un esempio di questo metodo di raccolta, (da tempo raccolgo fotografie di edifici in costruzione, specialmente la costruzione dei grattacieli in America, l’ho cominciata durante la scrittura del mio libro sul concorso del Chicago Tribune) raccolgo le fotografie le scansiono e poi ne mischio i frammenti li campiono, cerco di vedere in quelle vecchie fotografie qualcosa di diverso, cerco una traccia da sviluppare, dopo, attraverso il progetto. BS 10 04 2014 Come si arriva alle forme di affezione? Dalla sensazione di familiarità? Fanno parte cioè di un paesaggio domestico, noto, ricorrente…? Sono quelle che seppur familiari appaiono meravigliose? Di una familiarità dilatata deformata trasfigurata ma pur sempre riconoscibile e rassicurante quindi? Sono quelle usate con la leggerezza disinvolta e istintiva di un dialetto? Sono quelle che allontanano l’horror vacui perché da quelle parte ogni racconto? O sono quelle alle quali si arriva dopo aver sperimentato l’altro da sé?... BS 11 04 2014 Il bello si colloca fra la familiarità e la meraviglia. Il bello è una danza macabra fra l’Io e gli scheletri che l’Io conserva. LG 14 04 2014 [1] Le annotazioni sono sempre una lettura di un archivio personale….l’archivio nasce da un’affezione a dei segni, un frammento, uno spazio, un’ immagine ci colpisce più di un altra allora la conserviamo. Poi attraverso le annotazioni gli restituiamo un nuovo significato. Quello che sto facendo in questo periodo (attraverso i blog) ed ora attraverso la scrittura di un libro è quello di costruire un Atlante di questi frammenti. Costruire un Atlante nella definizione che ne dà Georges Didi-Huberman uno strumento di narrazioni parallele tra realtà e immaginazione. L’archivio è l’inizio poi la sua interpretazione produce infinite possibilità di progetto. E questo è un fatto importante per noi. Non considero il nostro come un ritorno al disegno, ma un’evoluzione di questa pratica. La sua attualizzazione, noi non disegnamo, mettiamo assieme un’esperienza culturale di ricerca, legata alla nostra professione, essere architetti, significa attraversare il mondo alla ricerca dello spazio, la nostra è un operazione di montaggio, degli spazi che attraversiamo ed osserviamo ogni giorno. La nostra è una pratica per Ricomporre per immagini il reale e agire sul nostro guardare.

EPILOGO BS 14 04 2014 [1] Luca, credo che a questo punto ci sarebbe bisogno -come per l’apertura c’è stato un antefatto-, per la chiusura, di un epilogo. Tipo: “…vogliamo aggiungere qualcosa? Non so... senza nulla a pretendere! In data odierna”. LG 14 04 2014 [1] Per concludere. In un montaggio esiste una doppia temporalità capace di trasformare il disegnare (non il disegno) in un working process fondamentale nel nostro lavoro di progettisti (non artisti). Quando si realizza un montaggio, se ne può fare uno leggermente diverso immediatamente dopo, prima di incollare si può sempre cambiare, il processo come il progetto non è mai finito. Completato il primo, subito dopo ne comincia un’altro, legato al precedente e a quello che segue, un processo narrativo continuo ed interrotto. In uno stesso montaggio è importante avere diversi livelli di lettura (o complessità) che definiscono i differenti livelli della realtà.

114

Sketch Book postmedia journal

115

SketchBook Roman Signer

Michele Robecchi

Chairs, the piece you made on the occasion of your solo exhibition in London at Hauser & Wirth in 2008, must be one of the few occasions where people have had a chance to interact with your work in such a direct way. It’s quite a departure from what you have done so far. Yes, it’s a structure that is continuously changing. The idea came up five or six years earlier. I had a vacuum cleaner at home that operates with the same principle, but it never really worked, it wouldn’t clean the house. It used to stop every five minutes and I always had to go back and re-programme it. That’s where I got the idea for doing a piece with the vacuum cleaner. But it didn’t work either; it didn’t work as a vacuum cleaner and it didn’t work as an art piece. (laughs) And then one summer in 2006, I saw an automatic lawnmower in the garden of a friend of mine and I though it could work. And it did. The role of the lawnmower suggested that it’s almost as if it was a living presence. Do you place this kind of value on your objects? Absolutely – it’s kind of alive. I remember two friends of mine sitting around on two chairs and the machine just stopped next to them while they were talking, as if it was listening. It totally looked as if it was interacting. It’s a very playful work, but there’s also a very dramatic element to it. It anxiously keeps moving around in circles as if it’s a prisoner of a labyrinth of chairs. There is no escape. This often happens in my work. On the one hand, there is something very humorous about it and it’s kind of tragic and not at all funny. This can be a problem, because people very often overlook the more complex aspects and just see the humorous side. They say things like, ‘Ah, Roman Signer just makes works that make you laugh’, but it’s not that simple. The fun stops at a certain point. Did losing this side of your work behind a smokescreen of slapstick humour generate a transition, in terms of how it affected your working process? My work has certainly changed over the years, but not as a direct consequence of this. There were more formal changes. They have a very open structure. Before, they were more compact. Roman Signer, Slow Movement, 2015. Photo courtesy: Tristan Fewings / Getty Images Installation view 'Roman Signer: Slow Movement' The Curve (Barbican), London, England (2014) Courtesy the artist and Hauser & Wirth

116

Sketch Book postmedia journal

Rampe (2007), your action at Sudeley Castle, made me realize how sound is important in your work. Given the enormous size of the ramp, people were expecting something very dramatic to happen, but instead the action ended with the water tank doing a quiet roll in the grass. But the sound was impressive. Do you keep the sound aspect in consideration when you do a piece? Yeah, it was like a bowling green. Maybe it could have been funnier if there was whisky instead of water inside the tank! Sometimes I take sound into account, it depends on the work. There are pieces that are very silent. But I’m very interested in sound. Do you feel the pressure when you perform in front of a live audience instead of a camera? At the beginning of my career I was working very much alone. Now I work together with Aleksandra [Signer’s wife] a lot and we exchange ideas and opinions. It’s a very important working relationship, but she’s only involved with the practical aspects, like how to do something technically. Normally, I have the idea of what I want to do clear in my mind, and then I talk to her about how to get there. Sometimes there are surprises and things I don’t expect to happen, and I accept those things. I prefer to work in nature and in the landscape by myself without an audience. Strictly speaking, it’s not a matter of pressure, but I can certainly feel the presence of the audience, and I don’t really like that very much. I feel the tension. The audience has expectations, and it requires a lot of extra psychological and physical strength. You had your first exhibition when you were 35, which is quite late for an artist. Do you think having such a late start was an advantage? My first exhibition was in 1973, I was… right, 35. That means that I’ve never been a young artist! Maybe it was a good thing. Sometimes I wonder if it would have been different to start earlier, but it never caused any regrets – I’m more focused on the present. You use explosion to create something, but over the years your work has often been categorized as disruptive. An explosion is always depicted as an act of destruction, but that’s not the way it is for me at all. I see an explosion as a change. For example, when I did the work with little explosions for the Swiss Pavilion at the Venice Biennale in 1999, I was trying to generate a shift. People probably only see the negative side of it, because in everyday life there are fires and explosions all the time, and they evidently relate my work to these things. Was it always like that? At the beginning of the 1970s, when you took your first steps as an artist, I’m sure explosions were intended more as gestures of exploration or liberation.

117

SketchBook I’m thinking of Michelangelo Antonioni’s Zabriskie Point (1970), or Lawrence Weiner’s Cratering Piece (1960), when he made a series of explosions in national parks. The perception of my films is very much related to the times we are living in. I think in the 70s explosions may have been seen as stronger, since they were more real. Today, most of the explosions you see on screen are digitally generated, people got used to seeing them as manufactured, fake. The impact is different. Terrorism existed then, but people were closer to reality. Today it’s like a game – everything is filtered by the media, and because of technology it looks as if everything is virtual. I actually feel a bit schizophrenic when people get mad at my explosions. On television it’s normal to see explosions. It’s hypocritical to see my work that way. I try to show that you can use explosions and rockets in a different way and that it’s not just negative. It can be a sculpture, or something you can use. Your films are a demonstration that the process of making an art is as important as the art itself. But don’t you feel like you are a magician revealing the trick before the magic? (laughs) Yes, I suppose I do show my instruments and tricks. Magicians don’t do that but still there are secrets in my work. I don’t think everything is so obvious. Clearly, both the making of the work and its final realization are very important to me. I feel exactly the same way about both. Chairs is a very good example of when the two get together, because there’s always something happening, it never stops. There seem to be three recurrent paths in your film work. The first is when you get something happening and the piece is built around the consequences; the second is when the tension is building with something happening at the end. And the third is when there is a regular movement from beginning to end. It works on different levels. There are those that just keep going forever, as with the waterfall in Water. And there is water involved here, as with Bucket, where the water splashes at the beginning and the bucket keeps going to the end. And then Hangar (2003), where the clue is at the end. It’s very interesting what you’re saying – it’s true. The second option, the one filming the action before something happens, is probably the more captivating of all three. Once you set that tension in motion, there is no way out. I wonder if it’s the part of your work you like best. Yes, I enjoy that tension when you know something is about to happen. But I also love the time afterwards, when things calm down once everything has happened. I find it very relaxing. You make it sound a bit like a drug-induced trip. (laughs). Maybe. It is a bit of a euphoria thing.

118

Sketch Book

119

postmedia journal

SketchBook Arte e femminismo in Italia negli anni Settanta Conversazione con Tomaso Binga, Cloti Ricciardi e Suzanne Santoro

a cura di Raffaella Perna

Raffaella Perna:

Tomaso Binga, Donna in scatola bis (n.37), 1972 Courtesy: Ciocca Arte Contemporanea, Milano

Grazie a Roberta Perfetti, curatrice della mostra Zitta tu non parlare di Tomaso Binga, questo pomeriggio siamo qui a discutere del rapporto tra arte e femminismo in Italia negli anni Settanta, e lo facciamo con tre protagoniste di quella stagione: Tomaso Binga, Cloti Ricciardi e Suzanne Santoro. Queste autrici, pur avendo percorsi autonomi, hanno tutte condotto ricerche artistiche sperimentali volte a mutare i rapporti di potere tra uomo e donna, e a sconfessare l’universalità e la naturalità delle pratiche discorsive maschili. Le loro opere condividono il medesimo sguardo sessuato sul mondo, la stessa volontà di ripensare l’arte, mostrando come le connotazioni di genere non soltanto pervadano gli ambiti dell’informazione, della comunicazione mediatica e della cultura alta, ma siano anche connaturate al linguaggio: lavori fondati quindi sulla consapevolezza che stare al mondo in quanto donna comporti una posizione di alterità. Di qui l’esigenza di interrogare la differenza come strategia per decostruire parole e immagini maschili, partendo da sé, dal proprio vissuto e quindi dalla propria corporeità. Le opere di Binga, Ricciardi e Santoro parlano del e col corpo femminile: lo usano per tracciare “controalfabeti”, non più astratti, ma incarnati nell’individualità della donna (Alfabetiere Murale di Binga); ne evidenziano il passaggio da dato biologico a costruzione sociale (Expertise di Cloti Ricciardi); ne esplorano l’anatomia, mostrando ciò che storicamente è rimasto nascosto e invisibile, perché ritenuto osceno e impronunciabile (Towards New Expression di Santoro). Se la consapevolezza della differenza di genere avvicina l’esperienza di queste autrici a quella delle numerose artiste internazionali che, nella seconda metà degli anni Sessanta e soprattutto nei Settanta, hanno posto in atto una critica radicale del ruolo subalterno della donna nella società tardocapitalista, il contesto artistico entro cui operano è tuttavia considerevolmente diverso. In Italia si assiste, infatti, a una sostanziale chiusura da parte della critica e delle istituzioni culturali, e in particolare museali, verso un’arte delle donne alternativa al canone patriarcale dominante. Negli anni Settanta, a eccezione dell’impegno di poche critiche, artiste e curatrici militanti – come Mirella Bentivoglio, Lea Vergine o Annemarie Sauzeau Boetti – l’arte femminista non riceve un’accoglienza paragonabile a quella ricevuta nel contesto anglosassone, né sul piano critico, né su quello istituzionale. Tale disinteresse si è protratto nel tempo e, benché negli ultimi anni si registri un’inversione di rotta – inizialmente timida, oggi forse più decisa –, le lacune da colmare sono molte. Resta soprattutto l’esigenza di comprendere come e perché ancor oggi l’attenzione riservata al rapporto tra arte e femminismo nel nostro Paese sia spesso esigua, quasi inesistente, come nel caso delle ultime mostre istituzionali dedicate all’arte italiana

Lihat lebih banyak...

Comentários

Copyright © 2017 DADOSPDF Inc.