Prima e dopo. Messina 1902-1914

June 6, 2017 | Autor: Michela D'angelo | Categoria: Urban History
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Prima e dopo. Messina 1902-1914 Michela D’Angelo

A Roberto Ferrara (1975-2005) e ai suoi progetti spezzati sulla storia della città.

pubblica e privata, Belle Arti, Agricoltura e Zootecnia, Pesca, Turismo e Sport, Commerci, Industrie, Navigazione e Comunicazioni, Monete, Assistenza pubblica, Igiene)2. Emergeva, già nelle prime pagine, la consapevolezza del mito del glorioso passato di una città che «altre volte fu l’emporio dell’industria, del commercio e delle arti» e che «meritò di ottenere privilegi singolarissimi», di una città «più volte caduta e non mai vinta», di una città «pronta sempre ad immolarsi per l’amore della libertà e per la difesa dei diritti dell’isola intera». Trasparivano anche le evidenti preoccupazioni per le ancora non ben definite prospettive del presente e del futuro di una città «risorta a poco a poco dalle proprie ceneri», ma «oggi osteggiata nei commerci e nelle industrie, posposta alle sue minori sorelle», di una città «quasi dimenticata» che andava tuttavia «altera di quel sentimento di dovere, di libertà e d’indipendenza per cui tanto rifulge nelle pagine della Storia». Così, infatti, veniva presentata la città a chi approdava a Messina:

1902 e dintorni Nel 1902, per una felice coincidenza, oltre al volume La provincia di Messina di Tito Alleva, venivano pubblicate anche la guida Messina e dintorni e l’Annuario-Guida commerciale, professionale ed amministrativa della città di Messina1. Queste guide, con prospettive e finalità diverse, offrivano una «istantanea» a tutto tondo della realtà messinese all’inizio del secolo e, nel loro insieme, consentono oggi non solo di «leggere» la trama e l’ordito di una tela urbana, economica e sociale inesorabilmente lacerata dal terremoto del 28 dicembre 1908, ma anche di vedere diverse e complementari forme di autorappresentazione della città dello Stretto sei anni prima della catastrofe. Messina e dintorni era stata ideata e pubblicata a cura del Municipio per essere offerta dal sindaco Antonino Martino ai sindaci presenti in città per il secondo congresso nazionale dell’Associazione dei Comuni italiani (8-11 novembre 1902). Redatta da eminenti studiosi locali (Giuseppe Arenaprimo, Tommaso Cannizzaro, Gioacchino Chinigò, Gaetano La Corte Cailler, Gaetano Oliva, Carlo Ruffo, Virgilio Saccà, Camillo Terni), questa guida andava ben al di là delle finalità occasionali e celebrative per le quali era stata ideata e si caratterizzava per un impianto poliedrico. Prima di proporre una «visita guidata» lungo le strade cittadine, tra chiese e palazzi, tra beni artistici e architettonici (Messina nei suoi Monumenti) e un itinerario più turistico (Escursioni nei Dintorni ed in Provincia), la Guida offriva un lungo e ricco excursus sulla città del passato e del presente (Messina nella Storia, nelle Lettere, nelle Arti e nei Costumi) con varie e articolate sezioni (Geografia fisica, Flora, Fauna, Storia, Demografia, Letteratura, Istruzione

Nulla gli [al viaggiatore] si offre allo sguardo che non gli richiami alla memoria le vicende storiche di queste incantevoli regioni tanto favorite dalla Natura ma che pur tanto ebbero a soffrire in tutti i tempi per colpa degli uomini e della fortuna. Questa terra occupata dai siculi, colonizzata dai calcidesi, soggiogata dai messeni e dai mamertini, conquistata dai cartaginesi e dai romani, depredata da Verre, lasciata in abbandono dai bizantini, onorata da Arcadio Imperatore, invasa dai saraceni, liberata dal Conte Ruggero, assediata due volte dagli Angioini, dilaniata dalle guerre civili tra latini e catalani, conculcata e umiliata dalla tirannide spagnuola, decimata dalle pestilenze, diroccata dai tremuoti, due volte bombardata dai Borboni e da essi saccheggiata e incendiata, questa città che altre volte fu l’emporio dell’industria, del commercio e delle arti e che meritò di ottenere privilegi singolarissimi, essa più volte caduta e non mai vinta, pronta sempre ad immolarsi per l’amore della libertà e per la difesa dei diritti dell’isola intera, è oggi tutta una città nuova risorta a poco a poco dalle proprie ceneri. Essa oggi osteggiata nei commerci e nelle industrie, posposta alle sue minori sorelle, quasi dimenticata va

1  Alleva 1902; Messina e dintorni 1902; Annuario-Guida 1902. 2  Messina e dintorni 1902, pp. 5-226. Dopo gli itinerari in città e nei din-

torni (pp. 227-375, 377-422), seguivano le Indicazioni utili al viaggiatore (pp. IXXXIII) e un centinaio di annunci pubblicitari.

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giani specializzati nella lavorazione e valorizzazione delle risorse locali (seta, agrumi ecc.). Al di là della loro specificità, una ‘lettura’ integrata delle due guide consente oggi di cogliere, tra le righe, la consapevolezza del mito del passato, la percezione di un non ben definito presente e le prospettive di un incerto futuro. Anche da quelle pagine, infatti, emergeva l’immagine di una città che, all’inizio del Novecento, viveva una fase di transizione e che, tra indici di crescita e segni di ristagno, era ancora una volta alla ricerca di un suo ruolo. Nel 1902, in particolare, la città mostrava i segni di una costante crescita demografica e viveva una stagione di significative svolte sul piano delle scelte politiche e della gestione amministrativa locale, ma risentiva gli effetti di congiunture non sempre positive per il suo tessuto economico e sociale che da sempre ruotava intorno al porto.

tuttavia altera di quel sentimento di dovere, di libertà e d’indipendenza per cui tanto rifulge nelle pagine della Storia3.

Nello stesso 1902 vedeva la luce anche l’Annuario-Guida commerciale, professionale ed amministrativa della città di Messina, che veniva pubblicata dalla Agenzia di Pubblicità «La Sicilia», per dare «un quadro vivo, animato, e progressivo della vita commerciale della nostra Messina». Non a caso sia il «compilatore» Giovanni Rapisardi che gli editori dedicavano l’opera ai Componenti della nostra Camera di Commercio che con amor di figli, e con slancio di patriottismo, non tralasciano di escogitare tutti i mezzi, per ridonare alla nostra Messina, quello antico splendore commerciale, che ben a ragione la facevano chiamare la Regina del Peloro4.

Oltre alle brevi note del poeta e scrittore Edoardo Giacomo Boner e dei già citati Giuseppe Arenaprimo, Gioacchino Chinigò e Virgilio Saccà, che esaltavano alcuni aspetti della città definita Bosforo d’Italia e Regina del Peloro, e oltre a una serie di notizie utili (uffici cittadini, scuole, tariffe postali ecc.), l’Annuario-Guida riportava biografie e fotografie dei rappresentanti istituzionali messinesi, dal senatore Silvestro Picardi ai deputati Francesco Faranda, Ludovico Fulci, Nicolò Fulci e Giovanni Noè, dal sindaco Antonino Martino al presidente della camera di commercio Francesco Mauromati5. Il corpo centrale del volume offriva uno specchio della vita economica attraverso l’elenco degli «Industriali, Commercianti, Professionisti» suddivisi in settori «per ordine alfabetico», da «Abiti Manifatturati» a «Zolfo», quasi come nelle odierne Pagine gialle6. Infine, l’Annuario-Guida era arricchita da un’ampia e ricca rassegna di artistici e raffinati annunci pubblicitari (Annunzi Speciali) delle «Ditte raccomandate della città di Messina» e anche delle «Ditte raccomandate della Sicilia e del Continente»7. Nel loro insieme, sia pure con le loro specifiche finalità e a differenza di altre precedenti guide, le due Guide del 1902 esprimevano una visione generale e complementare della identità della città, colta nella sua complessa realtà in cui confluivano le memorie del passato e le prospettive del presente. Fondata sulla consapevolezza del suo peculiare ruolo geo-storico, che spesso sconfinava nell’antico mito della «città dei privilegi» e che era evidente anche nel tessuto urbano (Palazzata ecc.), ancora all’inizio del Novecento l’identità storica della città si rispecchiava in gran parte nella sua specificità economica, da sempre legata al porto e al commercio marittimo, e si rifletteva anche nella sua particolare struttura sociale, formata da una attiva borghesia mercantile-imprenditoriale affiancata da arti3  4  5  6 

«Salutare operosità» e «fatale decadenza» Al di là della crescita demografica (da 103.000 abitanti nel 1861 a 147.000 nel 1901), dell’espansione urbana (nuovi quartieri ecc.) e dei positivi innesti di ‘modernità’ (gas, elettricità, tramways, ferrovie, acquedotto municipale ecc.), dopo l’Unità la città aveva più volte fronteggiato critiche congiunture economiche cercando di individuare un nuovo modello di sviluppo. Con l’Unità era confermato il suo ruolo di capoluogo di provincia e, dagli anni ottanta, la posizione strategica, che la rendeva una importante piazza militare, sarà potenziata con la costruzione dei «forti umbertini»8. Messina, però, aveva anche sentito ben presto gli effetti negativi della nuova pressione fiscale e, in particolare, della politica liberista che nel 1865 aveva abolito tutti i porti franchi nel Regno d’Italia. Anche se la fine dell’antico privilegio del porto franco era stata di fatto rinviata di qualche anno fino all’apertura della ferrovia MessinaCatania-Caltanissetta, questa prospettiva aveva prodotto in città «gli stessi angosciosi effetti della sospensione di una pena capitale, la cui esecuzione sia stata soltanto rinviata»9. La borghesia, che aveva sempre avuto il suo cuore pulsante nel porto franco, aveva espresso il suo malcontento anche con la triplice elezione di Giuseppe Mazzini al Parlamento del Regno d’Italia nel corso del 1866. Al di là degli esiti elettorali puntualmente annullati dalla Camera dei Deputati e al di là della coerenza di Mazzini che per i suoi ideali repubblicani non poteva giurare fedeltà alla monarchia sabauda, quella triplice elezione esprimeva la protesta cittadina contro le scelte politiche ed economiche dello Stato unitario10.

Messina e dintorni 1902, pp. 9-10. Annuario-Guida 1902, p. 5. Ivi, pp. 9-134. Ivi, pp. 135-230.

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Ivi, pp. 1-184. Lo Curzio-Caruso 2006. Barbera Cardillo 1981, p. 191. Amato-Battaglia 1974, pp. 413-445; Bottari 2005a; Cerrito 1958.

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La città, che viveva con il traffico marittimo, aveva percepito e vissuto come una cesura epocale la perdita del porto franco, prevista dal 1865 e attuata nel 1880. In quell’attesa la classe dirigente locale aveva discusso a lungo sui temuti effetti negativi di un’abolizione sentita come una penalizzazione, ma nel rimpianto di antiche e recenti prosperità non era riuscita ad affrontare né a risolvere carenze strutturali comunque esistenti per il traffico portuale in una realtà mediterranea profondamente mutata (navigazione a vapore, apertura del canale di Suez ecc.). E, mentre la borghesia commerciale e il ceto politico locale «con disgusto e sistematica apatia» attendevano «dall’alto» la soluzione, Messina non riusciva a consolidare funzioni che stavano migrando verso altri porti siciliani11. La città – riferiva nel 1884 il prefetto Antonio Calenda – voleva «tutto e presto», ma era sospesa tra grandi aspettative e continui risentimenti:

zione delle franchigie [1880]» anche perché «i benefici della libertà politica e di una relativa libertà commerciale davano ancora agio al nostro industre popolo di sviluppare nella libera concorrenza le sue speciali attitudini mercantili, la sua operosità tradizionale». La stessa guida osservava, però, che i «giorni amari» per Messina furono inaugurati dalla «infausta politica, tendente a proteggere le industrie manifatturiere, la quale, com’era da aspettarsi, provocò immediatamente le rappresaglie degli altri Stati contro i nostri più ricchi prodotti agricoli». La svolta protezionistica del 1887, infatti, favoriva le industrie tessili e siderurgiche del Nord, ma penalizzava le esportazioni agricole del Sud (agrumi, olio, vino ecc.). Ancora nel 1902, la tariffa doganale del 1887 era ritenuta esiziale per l’economia messinese: Di quella gretta politica il commercio di esportazione agrumario e vinicolo, che costituiva le due più importanti risorse economiche messinesi, fu colpito a morte. Sicché da quindici anni quella Messina, che in nome dell’eguaglianza era stata spogliata dei suoi secolari privilegi, divenne la vittima indifesa di nuovi e ben più ingiusti privilegi, largiti non a città o consorzi amministrativi, ma a singoli e privati speculatori, e si è vista precipitare dall’antica prosperità, guadagnata coll’onesto lavoro, ad un’immeritata quanto fatale decadenza, frutto della relativa inerzia, cui fu condannata dalle leggi vigenti14.

Le aspirazioni sono sempre maggiori di quel che è lecito o ragionevole conseguire; e il desiderare tutto e presto, senza mezzi corrispondenti o fuori utilità proporzionata, è forse il difetto maggiore di questa popolazione, sicché al malcontento si trova sempre un motivo che ad essa pare legittimo.

Oltre la costruzione della ferrovia Messina-Palermo, la città chiedeva «un’altra ferrovia, che nel modo più sollecito possa congiungere il porto di Messina alla vallata dell’Alcantara e combattere così la temuta concorrenza del porto di Catania». Così, secondo il prefetto, per tanti e diversi motivi lo spirito pubblico era «sempre agitato da questioni che si succedono e non si rassomigliano»:

La perdita del porto franco, in realtà, non produsse i tanto temuti contraccolpi, grazie anche all’aumentata esportazione agrumaria. Ancora nel 1888 fra gli scali italiani Messina era al quinto posto per movimento marittimo e al sesto per quantità di merci così come per tonnellaggio delle navi13. Nel 1902 gli autori di Messina e dintorni ammettevano che «il ventennio corso dalla rivoluzione alla soppressione delle franchigie era stato per Messina il ciclo di un’operosità salutare e di notevole incremento nei traffici» e ritenevano che «siffatto sviluppo continuò ancora per vari anni, malgrado la cessa-

Tra i due secoli, il ruolo del porto sembrava «ormai compromesso» anche per lo sviluppo della navigazione a vapore che, se da un lato aumentava le possibilità di esportazione, «dall’altro contribuiva a diminuire l’importanza del porto naturale richiedendo invece tutta una serie di investimenti per l’ammodernamento degli impianti»15. In realtà, il porto continuava a vivere sia come mercato di scambio tra merci estere e prodotti siciliani e calabresi sia come luogo di trasformazione di risorse locali (seta, agrumi ecc.)16. Il commercio restava sempre il perno dell’economia e della società cittadina, ma non mancavano significative attività imprenditoriali. Tra il 1875 e il 1885 erano attivi circa 200 «negozianti» (125 trattavano «prodotti», 25 «oggetti d’oro», 15 «manifatture all’ingrosso», 12 grano ecc.) e circa 250 «venditori» (70 di tessuti, 42 liquori, 41 tabacchi, 26 cuoiami, 15 «viveri ed attrezzi per navigli», 11 «generi di scrittojo», 11 «chincaglie», 10 cappelli, 9 colori, 9 «drogherie», 4 «carte e strumenti di musica»). Inoltre, numerosi «fabbricanti» producevano «agrocotto, amido, birra e gazzosa, botti, caldaie di rame, cappelli, carrozze, cera, cuoiame, colla, cremor di tartaro, dolci, fiammiferi di cera, guanti, oggetti d’oro, tessuti di cotone, pane, pasta, sapone, sedie, solfato di magnesio, vasi di terra-

11  Barbera Cardillo 1981, p. 237; Wörsdörfer 1985. 12  Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, b. 37, 30 gennaio 1884. 13  Barbera Cardillo 1981, p. 220.

14  Messina e dintorni 1902, pp. 179-180. 15  Wörsdörfer 1985, p. 302. 16  Battaglia 2003, p. 94.

non è che l’indole della cittadinanza sia riottosa o sgarbata, ma è facilmente accessibile e si commuove ad ogni minimo fatto, anzi è così forte il sentimento di offese ricevute e di danni subiti pel grave mutamento politico avvenuto con la formazione del Regno d’Italia che si guarda sempre con diffidenza qualunque provvedimento governativo e si teme che possa riuscire a danno della cittadinanza12.

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cotta, letti, oggetti di latta e di stagno, pallini da caccia, prodotti chimici»17. Erano, in genere, piccole imprese che, in parte, non sarebbero sopravvissute alla difficile congiuntura degli anni novanta. Il censimento del 1901 indicava che, in una economia ancora basata sulle attività commerciali e produttive, gli occupati nell’industria, in particolare in quella alimentare, conciaria e tessile, erano scesi rispetto al 1881 da 24.000 a 20.000, ma aumentati nei settori dell’edilizia, del legno e della meccanica18. Nel 1896 anche l’indagine del ministero di Agricoltura, Industria e Commercio sulle condizioni industriali della provincia di Messina rilevava un tessuto produttivo più ridotto rispetto a venti anni prima, ma segnalava anche alcune realtà imprenditoriali tra i 46 pastifici che davano lavoro a 300 persone (quello «di prim’ordine» di Giovan Silvestro Pulejo, oggi Molini Gazzi, ne occupava ben 120); tra le 20 officine meccaniche con 642 operai (300 nella Società per le strade ferrate); tra le 11 concerie con 298 operai; tra le 10 fabbriche di botti e barili con 214 operai; tra le 5 fabbriche di agrocotto ed essenze con 215 lavoranti (la Sanderson Barrett & C. era considerata «il solo stabilimento veramente importante» con i suoi 175 addetti); tra le tre filande di seta, di cui due gestite dagli inglesi Eaton, e lo stabilimento di Gaetano Ainis che tesseva e stampava tessuti di cotone con 40 lavoranti e 102 telai meccanici19.

mici, meccanici e tecnici impiegati nelle fabbriche agrumarie, nelle filande a vapore, negli impianti del gas, ecc. Numerosi anche i tedeschi, tra cui i Grill (banca Walser & C.); gli Jaeger (filanda di seta e poi miniere); Rabe e Wolff (negozianti-banchieri); Sukey e Haugk («manifatture all’ingrosso»); Thomasius (negozio di tessuti e biancheria); i Bette (commercianti e notai); i Druck («chincaglie» e pellami); Gullmann («grossista di sete»); Welbatus («venditore di generi di scrittojo»); Vogelsang e Fischer («dolceria tedesca»)23. Tra gli svizzeri, oltre al console e negoziante-banchiere Peter Victor Gonzenbach, erano presenti per più generazioni i Signer (prima fabbricanti e poi negozianti di tessuti); i Ruegg (orologiai e gioiellieri); i Tobler (grossisti di tessuti); i Sarauw (imprenditoribanchieri e titolari della Baller & C.). Tra i pochi francesi, i Garnier (agenti marittimi, ma anche venditori di «cappelli, bastoni, ombrelli, cravatte») e, tra i danesi, i Fog, mentre tanti greci erano ormai da tempo integrati tra la cittadinanza locale24. D’altra parte, venti consolati esteri nel 1875 e trenta nel 1902 attestavano l’interesse dell’economia internazionale verso il porto di Messina almeno fino al terremoto del 1908. All’inizio del Novecento la città mostrava ancora quel carattere cosmopolita che nel corso del suo «lungo Ottocento» si era ben radicato nell’ambito economico e sociale. La variegata presenza straniera era espressa anche dai luoghi di culto e di sepoltura per anglicani, luterani, valdesi ecc., ma anche dai circoli culturali, sportivi ecc., che tra i loro fondatori e soci avevano anche alcuni stranieri. Gli inglesi, ad esempio, avevano dato vita alla Società della Borsa (poi Circolo della Borsa) nel 1805 e al Messina Football Club nel 190125. La presenza straniera – ricordava Gaetano La Corte Cailler – incideva notevolmente nella società locale poiché

Tra economia, società e politica La città presentava ancora un deciso carattere cosmopolita per la presenza stabile di comunità mercantili straniere20. Nel ‘lungo’ Ottocento messinese, compreso tra il terremoto del 1783 e il sisma del 1908, numerosi mercanti inglesi, tedeschi, svizzeri ecc., si erano ben inseriti nel settore commerciale e imprenditoriale (nel 1875-1885 gli stranieri erano oltre il 25% dei «negozianti»). Molti mercanti inglesi avevano messo salde radici a Messina nel «decennio inglese» 1806-1815 e i loro discendenti erano ancora attivi all’inizio del Novecento come imprenditori21. Tra essi, ad esempio, vi erano gli Aveline (fabbrica di acido citrico, tartarico e solforico); i Cailler (agenti marittimi); i Fischer (banchieri); gli Oates, i Rowlett e Gooding (negozianti e assicuratori); i Peirce (armatori di una flotta di transatlantici); i Sanderson (dal 1895 anche produttori di derivati agrumari); gli Eaton (filande di seta)22. Alla fine dell’Ottocento, inoltre, le comunità straniere crescevano numericamente anche per l’arrivo di chi-

a traverso le tante colonie straniere, Messina prima tra tutte le città siciliane si svincolava da certe abitudini antiquate, a contatto come era con tanti forestieri distinti, e s’ingentiliva ancor di più, sì da mettersi a livello con le città più progredite e civili del continente, tal quale la ricordiamo fino al disastro del 28 dicembre 190826.

All’inizio del secolo la città mostrava, inoltre, una certa vivacità culturale (Accademia Peloritana, Società di Storia Patria, Biblioteca universitaria, Gabinetto di Lettura, Museo civico ecc.), soprattutto con l’università, che nel 1902 comprendeva quattro facoltà con circa ottocento studenti e con prestigiosi docenti (da Cian a Ciccotti, da Pascoli a Salvemini, ecc.); con

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17  Busacca 1875-1877; De Tommaso 1885. 18  Chiara 2002, pp. 34-47. Cfr. anche Battaglia 1992. 19  Ministero Agricoltura 1897. 20  D’Angelo 1995. Cfr. anche i saggi di Bottari 2005b, pp. 21-64; e Di Giacomo 2005, pp. 65-125. 21  D’Angelo 1988; D’Andrea 2007; Battaglia 1983.

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D’Angelo 1995, pp. 75-109. Crea 1995. D’Angelo 1995, pp. 135-158. Ivi, p. 72; Ferrara 2007. La Corte Cailler 1926, p. 184.

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di Messina», era protagonista dello scontro in atto tra il blocco liberaldemocratico della borghesia «modernizzatrice» e il blocco conservatore vicino agli interessi finanziari e alle speculazioni affaristiche29.

le circa trenta scuole elementari e i venti istituti per l’istruzione secondaria; con le sette librerie che contribuivano a far circolare cultura e idee nuove in una realtà nella quale, oltre ai tre principali quotidiani (L’Aquila latina, la Gazzetta di Messina e Politica e commercio), le quattordici tipografie stampavano anche una dozzina di periodici. Sul piano politico e amministrativo il nuovo secolo coincideva con una significativa svolta. Dopo la riforma elettorale del 1882, anche a Messina erano entrati nella scena politica i primi partiti organizzati: nel 1893 i socialisti Giovanni Noè e Nicola Petrina erano eletti nel consiglio comunale. Alle elezioni politiche del 1900 l’«Unione dei partiti popolari», formata da liberaldemocratici, radicali, repubblicani e socialisti, riusciva a far eleggere Noè (886 voti) alla Camera dei Deputati. Una vittoria altrettanto significativa era ottenuta dai «partiti popolari» anche alle elezioni amministrative del 1900 con l’elezione a sindaco del repubblicano Antonino Martino e di ben quaranta su sessanta consiglieri comunali. In quegli anni, la giunta «popolare» attuava significative riforme (municipalizzazione dazio consumo ecc.) e realizzava numerose opere pubbliche (acquedotto municipale ecc.). Quella proficua stagione, tuttavia, aveva una vita breve e tormentata da contrasti tra i partiti. Nata nel clima della svolta liberale giolittiana, negli anni seguenti l’Unione produceva «un’osmosi, quasi, dei partiti ad essa aderenti» facendo venir meno «le differenze sostanziali che distinguevano i radicali dai repubblicani e questi dai socialisti», mentre la convivenza dei socialisti con i partiti borghesi «riuscì a sbiancare il colore della bandiera rossa: giacché impoverì il programma dei socialisti, rese estremamente elastica la tattica delle alleanze e alimentò le personali ambizioni dei molti scarsamente preparati»27. Alle elezioni politiche e amministrative del 1904 l’Unione era sconfitta in un mutato contesto politico locale e nazionale. Nel 1904 l’elezione a sindaco del conte Salvatore Marullo, candidato dei monarchici liberali e dei clericali, segnava la vittoria del «privatismo» sulle «municipalizzazioni» e, dopo Enrico Martinez (1906-1907), alla guida della città arriverà Giuseppe D’Arrigo (1908), fratello dell’arcivescovo di Messina («trono-altare»). Anche le elezioni politiche del 1904 segnavano la vittoria dei due candidati dell’Associazione monarchica liberale, Giuseppe Arigò e Giuseppe Orioles. In sintonia con i nuovi equilibri nazionali, anche in città cresceva «l’incidenza clericomoderata contro l’affermazione di tendenze laiche, massoniche e anticlericali, rappresentate a Messina dal blocco fulciano»28. In quegli anni, infatti, Ludovico Fulci, il «Giolitti

Tra apparenza e realtà

A chi arriva dal mare questa Città gli si presenta quale maestoso anfiteatro bagnato dal mare, coronato da una catena di amenissime colline, con alla destra il curvo braccio di San Raniero, a sinistra lo storico Peloro e di contro gli estremi Appennini che terminando sullo Stretto offrono il più stupendo contrasto di due terre sorelle divise da un solo breve tratto di mare, l’incantevole spettacolo di due coste ombreggiate da piante diverse, seminate di città, di paesi, di ville.

Nelle parole di Bosio Esdra riecheggiava non solo la suggestione dello Stretto, ma soprattutto l’immagine scenografica della città, come nei secoli precedenti, con la sua Palazzata: Quella serie di sontuosi palazzi che cingono il curvo porto di questa città, e raffiguranti un solo edifizio, un solo grandioso palazzo a 3 piani uguali, con uguali colonne ed archi che superbo si specchia nel sottostante golfo, ti rapisce e ti pare un anno che non cessi il rullio del legno che ti porta, che non c’entri e ti porti ai piedi del grande Nettuno (luogo dello sbarco) e quivi una carrozza ti conduca a spaziare per la superba città dalle sue larghe strade, rettilinee, piane, ben lastricate e belle di sontuosi palazzi e di pubblici edifizj, di ricchi negozi, di piazze con artistiche fontane, di teatri, di tempj di bella architettura e ricchi di preziosi lavori30.

Simbolo dell’autorappresentazione della città fin dall’inizio del Seicento, danneggiata e ricostruita dopo il terremoto del 1783, la Palazzata che ospitava botteghe e case di mercanti era anche il cuore della vita economica cittadina che ruotava intorno al porto. E ancora nel 1892 Gustavo Chiesi ritrovava tutta la «operosità» proprio negli edifici che costeggiavano il porto: Nella grandiosa Palazzata – come la dicono i Messinesi – o via della Marina, ora intitolata a Vittorio Emanuele, specchiantesi nell’ampio, profondo, sicurissimo porto – uno dei più belli del mondo – è il maggior fremito della operosità commerciale e marittima della città: quivi sono innumeri gli uffizi, i banchi, le agenzie delle compagnie di navigazione di tutto il mondo; quivi s’ormeggiano, accostati alla banchina, i più grossi vapori31.

Al di là della Palazzata, la città appariva in tutte le sue luci e le sue ombre. Nel 1898 Luigi Vittorio Bertarelli, fondatore del Touring Club Italiano, così descriveva la città in cui coesistevano sviluppo e arretratezza:

27  Cerrito 2004, pp. 71-72. 28  Cicala 2000, pp. 10-13. 29  Wörsdörfer 1990.

30  Esdra 1991, p. 28. Esdra dirigeva la R. Scuola Tecnica di Patti nel 1884-1885. 31  Chiesi 1892, pp. 433-434.

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Michela D’Angelo Giardini e agrumeti folti di odorose fronde di limoni, di cedri, di aranci, di mandarini; villette sparse; lindi villaggi attraversati dal tram a vapore costiero e dalla ferrovia; fiumare (sempre secche tranne al momento della pioggia) che attraversano la strada intercettandola durante le brevi piene, anche nell’interno di Messina stessa; pozzi e fontane, dove le ragazze coll’anfora sul fianco in classica attitudine aspettano il loro turno di attingere; norie e bindoli ancor piantati come quando Archimede li inventò; una sapiente distribuzione d’acqua nelle coltivazioni agrumarie; distillerie di essenze, che spargono lontano il profumo intenso dei loro prodotti preziosi; una folla ridanciana e rumorosa nelle strade; le comari sedute sulla porta a fare ogni sorta di mestieri, dal cucinar pomodori, allo schiacciar pidocchi in capo ai docili bimbi; fanciulli e fanciulle già grandicelli, nudi del tutto, o vestiti allegramente d’una giacchettina o d’un panciottino e di null’altro, che si trastullano, nella sabbia: ecco la fisionomia del paese, di cui lo sfondo è l’Jonio azzurro, dove a decine i grossi velieri grigi e i grandi piroscafi neri fumanti compaiono e scompaiono in una vicenda che non ha mai fine32.

godeva ancora nei primi anni dell’unificazione d’Italia. Essa patì inoltre, e forse più d’ogni altra grande città siciliana, i danni di cui risentì in genere tutta l’isola dopo il primo rapido sviluppo di ricchezza seguito al 1860: danni prodotti dalla fillossera, dalla chiusura del mercato francese, dall’aggravamento spropositato delle imposte, dalla improvvida politica doganale del Governo italiano, tutta rivolta a vantaggio delle industrie e degli industriali dell’alta Italia e a scapito dell’agricoltura del mezzogiorno e delle isole. Così è33.

1908 e dintorni Su questa città in cui «all’apparenza non corrisponde la realtà» si abbatteva la catastrofe sismica che all’alba del 28 dicembre 1908 distruggeva la vita di ben oltre la metà dei suoi abitanti e faceva crollare oltre il 90% dei suoi edifici. La realtà era ora «une immense machoire ebreché et d’ou souffle une haleine de pestilence et de feu»34. Sotto le macerie non erano sepolti solo uomini e cose, ma anche la memoria di una città che, proprio sulla sua memoria storica e sul culto del suo ruolo, aveva costruito la sua identità nei secoli precedenti. Dopo il disastro, la città rinasceva in qualche modo, ma senza più ritrovare una sua identità. Il 12 gennaio 1909 il Parlamento del Regno d’Italia, che ribadiva il ruolo «insopprimibile» della città di Messina, ne deliberava la ricostruzione nel suo sito originario, ponendo così fine alle discussioni e alle polemiche sulla possibilità di riedificarla in un altro sito o di non ricostruirla affatto. Così, grazie agli aiuti nazionali e alla solidarietà internazionale35, dalle macerie la città «rediviva» rinasceva in baracche di legno per i sopravvissuti tra ritardi e disorganizzazione, tra polemiche e indecisioni36. La città delle baracche riprendeva vita anche per la forte immigrazione (127.000 abitanti nel 1911), ma senza una vera «anima». Subito dopo il voto del Parlamento, Vittorio Cian, docente di Storia della letteratura italiana all’università, scriveva che la «nuova» Messina non avrebbe più avuto né la stessa identità né le stesse funzioni della «vecchia» ormai «inesorabilmente» sparita:

Luci ed ombre, «apparenza» e «realtà», erano ben colte da Edmondo De Amicis, che aveva prestato servizio militare a Messina nel 1865-1866 e che nel 1906 tornava in una apparentemente «florida» città marittima: Messina si è innalzata su per i colli che le sorgono dietro, allungando le sue grandi ali bianche lungo il mare, fino a perdita d’occhio. La mia antica piazza d’armi è scomparsa sotto un nuovo quartiere elegante e ridente; le antiche vie, che già erano ariose e linde, si sono arricchite di botteghe splendide, le piazze si sono ornate di palme; la luce elettrica brilla da ogni parte; i tramways percorrono l’interno della città e si spingono fuori; fino al Faro distante parecchie miglia; e il movimento della popolazione, specialmente sulla grande strada della Marina, su cui si stende una lunga schiera di grandiosi edifici uniformi, è pari, in apparenza, a quella delle più popolose e floride città marittime del continente.

De Amicis percepiva, però, anche la realtà delle difficili congiunture vissute in quei quarant’anni: Eppure all’apparenza non corrisponde la realtà. La bella Messina, privilegiata dalle più favorevoli situazioni geografiche del mondo, dove due mari si congiungono, posta quasi a contatto dell’Italia continentale, e dotata d’un vasto e sicuro porto naturale, è piuttosto in decadenza che in via d’incremento. Singolare destino della città! Una parte della corrente vitale le è stata detratta dalla vicina Catania, dove sorse un’attività industriale che a lei manca, e da quella stessa piccola città di [Villa] San Giovanni, che le sorge di fronte sulla costa di Calabria, e che non era al tempo della mia giovinezza che un piccolo villaggio. Un’altra gran cagione di danno le fu la perdita del privilegio del porto franco di cui

Senza dubbio, una città nuova spunterà, lentamente, lì accanto. Ma della prima essa non avrà che il nome e qualche migliaio di superstiti, simili a naufraghi, afferratisi alla loro sponda natale. Ma la vecchia Messina, la bella e cara Messina, la città della storia, del patriottismo, della scienza e dell’arte, è scomparsa inesorabilmente37.

meranno il primo vero nucleo della città nuova, a meno che non si destinino le baracche americane ad altri luoghi, per non guastare il piano regolatore con edifici che non sono del tipo ministeriale. È un po’ umiliante per noi, a parte l’elemosina, che si siano potute preparare e imbarcare in America tremila case di legno, capace ognuna di dieci persone, e trasportarle in Sicilia in meno tempo di quanto non ce ne voglia a noi per impiantarne una sola altrettanto comoda e bella». Cfr. anche Mercadante 1962. 37  Cian 1909.

32  Bertarelli 1994, p. 32. 33  De Amicis 1908, pp. 7-9. 34  Carrère 1909, p. 122. 35  Di Paola 1994, pp. 97-171; Di Paola-Savasta 2005. 36  La lentezza dei soccorsi era così stigmatizzata da Luigi Barzini sul «Corriere della Sera», 4 febbraio 1909: «Fra qualche giorno arriverà qui il troppo atteso carico di tremila baracche americane con i relativi operai montatori, e probabilmente queste costruzioni, regalateci dalla carità transatlantica, for-

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Prima e dopo. Messina 1902-1914

L’«anima» della «vecchia» città era il porto, come scriveva sul Corriere della Sera, il 4 febbraio 1909, Luigi Barzini. «Messina esisteva soltanto perché aveva un porto» e, perciò, il governo doveva «far rivivere il cuore della città morta», cioè il suo porto, piuttosto che pensare a riaprire gli uffici statali. Il famoso giornalista sottolineava la prioritaria necessità di ridare a Messina subito quella sua vitale «sorgente di ricchezza» piuttosto che dare vita a una «città amministrativa» alimentata «artificiosamente» dagli aiuti e dagli interventi statali:

delle tradizionali attività che animavano la vita del porto. E questa scelta era espressa anche dalla nuova posizione della statua di Nettuno che ancora oggi domina la fontana del Montorsoli. Fino al terremoto il dio del mare sorgeva quasi dalle acque del porto davanti alla Palazzata nella zona di fronte al Municipio e, volgendo le spalle al mare, con il suo braccio teso sembrava voler donare il mare alla città. Dagli anni Trenta, dopo la collocazione della fontana davanti alla Prefettura, Nettuno volge le spalle alla città e, con il suo braccio teso verso le acque del porto, sembra quasi proteggere la città dal mare, o meglio allontanare il mare dalla città. La scomparsa della Palazzata e la rotazione della statua del dio del mare sono la metafora della perdita dell’identità marittima che Messina aveva avuto nell’età moderna e nel suo «lungo Ottocento»43.

Nel ristabilire fra queste rovine tanti uffici governativi, nel popolarle di funzionari (è arrivato persino un dignitario incaricato di rimettere in stato di funzionamento la Corte d’appello), il Governo ha certamente inteso di cooperare al rinascimento, ridando alla città il movimento amministrativo. Ma gli uffici vivono per la città e le città per gli uffici. Messina non si rifà con gli stipendi e nemmeno con un piano regolatore. Bisogna, prima di tutto, far rivivere il cuore della città morta, e il cuore di Messina era il porto. Messina esisteva soltanto perché aveva un porto e ne beveva il traffico: il commercio era il sangue di questo paese. Ogni sforzo deve essere diretto a ridare un palpito al cuore, ed i muscoli e le ossa verranno da loro, si formeranno rapidamente col riformarsi di una prosperità. […] Se trascuriamo di dare a Messina subito questa vitale sorgente di ricchezza, potremo profondere miliardi, ma non faremo che una città amministrativa, artificiosamente sorretta dal denaro della nazione38.

1913: «Come vive dunque Messina?» Questa mutazione genetica trasformava radicalmente le storiche funzioni economiche e le tradizionali articolazioni sociali della città, modificando anche il ruolo della classe dirigente, espressione ora dei ceti impiegatizi più che imprenditoriali e mercantili. Dopo il 1908, la vita politica trovava nuovi referenti, legati al mondo degli affari edilizi e degli appalti per la ricostruzione. Nelle elezioni del 1913 (suffragio universale maschile) la lotta politica tra «vecchi» e «nuovi» ceti dirigenti si manifestava con la sconfitta dell’area fulciana-massonica e con l’elezione del clericale Giacomo Mondello e del socialriformista Giuseppe Toscano. Sul piano locale nascevano alleanze antitetiche rispetto a quella ‘popolare’ di inizio secolo: nel 1914, ad esempio, l’ex sindaco repubblicano Martino veniva rieletto con la lista Pro Messina con i voti dei monarchici liberali e dei cattolici. Nel nuovo contesto politico e nella sempre critica situazione economica la ricostruzione procedeva lentamente e nel 1913 Giorgio Mortara scriveva che

Questa proposta coglieva l’essenza della città da sempre in simbiosi con il suo mare, ma restava isolata, come altre che puntavano sulla ripresa del commercio marittimo più che sulle funzioni burocratiche39. Il nuovo assetto urbano più razionale e più moderno, delineato dal piano regolatore Borzì (1911), del resto, si limitava a prevedere la ricostruzione degli edifici, ma non era espressione di un preciso progetto di sviluppo per l’economia e la società messinese40. Si avviava così una lenta «ricostruzione senza sviluppo»41. «Une cité» osservava Jean Carrère «n’est pas un organisme artificiel, dont on trace le plan dans des ministères comme s’il s’agissait d’un fort ou d’un cuirassè. Une cité est une production naturelle, qui depend à la fois de besoins de la geographie: on ne la fait pas, elle se fait». E, nella «nécessaire» ricostruzione di Messina, «le premier, le plus impérieux des devoirs c’est de démolir la Palazzata afin de la rebatir au plus vite, et tout le reste n’est que temps perdu»42. Diversamente dal 1783, la lunga serie di edifici che costituivano l’antico «Teatro marittimo» non venne più riedificata e, in realtà, la decisione di non riedificare la scenografica Palazzata simboleggiava la fine dell’antico rapporto tra la città e il mare così come il tramonto

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città non esiste, o almeno nulla esiste corrispondente a quell’insieme di rappresentazioni che suscita in noi la parola città. Pochissime casette nuove – si contano ad unità, non a decine –; poche, vecchie, bene o mal rabberciate, spuntano dalla sterminata distesa di baracche e appena si distinguono dai molti capannoni di legno, che il genio civile ha consacrati templi di Temi, di Minerva o d’altri meno illustri numi. Qua e lì emergono, radi naufraghi sperduti in quel mare, i pilastri, in cemento armato o di ferro, d’una costruzione nuova44.

In questa dura realtà, Mortara notava però una «ostinata tena-

Barzini 1909. D’Angelo-Saija 2002, pp. 123-140. Campione 1988. Checco 1989, pp. 161-192. Carrère 1909.

43  D’Angelo 2007, p. 225. 44  Mortara 1913, p. 293. Nel 1913 «l’embrione residenziale della nuova Messina è costituito da 33 fabbricati, che ospitano un centinaio circa di famiglie»: Ioli Gigante 1980, p. 146.

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Michela D’Angelo

cia di vita che anima la città del Faro» e si chiedeva «se codesta resurrezione dipenda da condizioni di natura economica oppure sia frutto della volontà di far rivivere Messina ad ogni costo». Alla domanda «Come vive dunque Messina?» rispondeva la sua ricerca sulle modificazioni intervenute nella struttura del reddito e nell’occupazione dopo il 1908. Quell’indagine statistica, che raffrontava i dati dei censimenti del 1901 e del 1911 così come i redditi da ricchezza mobile nel 1908 e nel 1912, è ancora oggi una preziosa ‘fotografia’ della mutazione genetica dell’economia e della società messinese e non solo aiuta a riflettere sul cambiamento epocale tra il prima e il dopo, ma anche sugli effetti di lunga durata nella struttura socio-economica della città fino ai nostri giorni. Nel 1913, dopo il ristabilimento dei «principali uffici pubblici, che esistevano nel 1908» e l’istituzione di nuovi «per provvedere ai bisogni straordinari», era soprattutto lo Stato a fornire le principali fonti di reddito (stipendi del pubblico impiego, finanziamenti dei lavori pubblici ecc.). Rispetto al 1908 (100), nel 1912 erano cresciuti i redditi da attività professionali (114) e da stipendi e pensioni (106), mentre erano notevolmente diminuiti quelli da attività commerciali e industriali (81) e da capitale (67)45. Anche le principali aree di occupazione erano cambiate dopo il sisma e, direttamente o indirettamente, erano legate alla ricostruzione46. Al di là dei numeri, le statistiche delineavano una realtà profondamente diversa da quella preesistente al terremoto. Le funzioni amministrative, insieme al piccolo commercio e all’impresa artigianale, diventavano ora le voci principali di reddito per tutta la città. Anche la grande borghesia, che per secoli aveva avuto un ruolo egemone nella guida della città, non ritrovava più una sua specificità economica e optava per lo stipendio statale e il reddito fisso, mentre nasceva un nuovo blocco di potere dalla convergenza di interessi politici, economici, imprenditoriali e finanziari intorno ai lavori per la riedificazione della città, dei palazzi pubblici e delle abitazioni private47. La mutazione genetica si rifletteva, in modo ancora più significativo, nelle diverse funzioni svolte ora dal porto che, dopo il

suo «ultimo splendore», diventava sempre più un luogo di transito per viaggiatori e un mercato di sbocco per merci prodotte altrove48. Dopo il 1908, infatti, l’antico porto dei mercanti si avviava a diventare sempre più un approdo per i ferryboats che attraversano lo Stretto e sempre meno uno scalo per inserire le merci prodotte o lavorate nell’area dello Stretto nelle rotte del grande commercio internazionale.

45  Mortara 1913, p. 298. 46  Rispetto al 1901, era «fortemente accresciuto» nel 1911 il numero degli occupati nell’edilizia (da 8200 a 11.000), anche se il settore aveva un «lento andare». In aumento, «dovuto probabilmente ai bisogni della ricostruzione provvisoria e definitiva», anche gli operai metallurgici e meccanici (da 1500 a 2000), mentre agricoltura e pesca registravano «perdite lievi, ma sensibili» (da 14.500 a 10.400) sia per la «considerevole» emigrazione all’estero sia per i molti «braccianti rurali» impiegati in città nell’edilizia. Anche la lavorazione dei prodotti agroalimentari era in flessione (da 7700 a 5000) in parte «vera» (chiusura di numerosi molini, pastifici, concerie ecc.) e in parte «apparente» (lavorazione stagionale di agrumi ecc.). I problemi della sopravvivenza quotidiana incidevano anche nell’industria tessile e del vestiario (da 2500 a 1500 occupati), mentre la trattura della seta era ancora «viva, se non fiorente». Ridotti anche gli addetti al commercio (da 4200 a 2900), ai

servizi e ai trasporti (da 5000 a 4000). Anche le professioni e le arti liberali erano in calo (da 7800 a 6600), ma se «la classe dei medici è forse un po’ assottigliata», agli ingegneri «non manca lavoro» come ai «legulei», impegnati in «numerose controversie giudiziarie nate dal disastro e alimentate dalla legislazione speciale», mentre gli artisti, che «non eran molti prima», erano ora «più scarsi che mai». 47  Nel 1920 i redditi derivavano da stipendi e pensioni (47%), da attività commerciali e industriali (31%, edilizia compresa), da professioni e impieghi privati (11%) e da capitale (11%). Checco 1989, pp. 181-183. 48  Battaglia 2003. 49  Messina prima e dopo il disastro 1914. 50  Fondata da Giuseppe Principato (1858-1908), la libreria-editrice era allora diretta dai suoi figli Ettore e Manfredi che nel 1911 riaprivano la libreria e riprendevano l’attività editoriale (trasferita a Roma nel 1925 e a Milano nel 1935).

1914 e dintorni

Ci accingemmo alla pubblicazione di quest’opera con la coscienza di compiere un dovere: è difatti doveroso, per noi che avremo sempre nell’anima il rimpianto di ciò che vedemmo sin dall’infanzia e che non vedremo più, il rendere un omaggio alla nostra Città col perpetuarne i fasti e illustrarne i monumenti che giacciono ora in gran parte distrutti per la cieca violenza della natura. Ai cittadini scampati al disastro e a coloro che qui non ebbero la culla riuscirà certamente caro rievocare il passato glorioso e rivedere in questo libro quanto l’arte e la magnificenza degli avi seppe apparecchiare a maggior lustro e decoro di questa nobile caduta, il cui spirito però, più alacre e non men vigoroso di prima, mira sempre con singolar fede e tenacia ad un radioso avvenire49.

Così scrivevano «gli editori» di Messina prima e dopo il disastro. Il volume, pubblicato nel maggio del 1914 dalla casa editrice Principato e curato da Gaetano Oliva, Gaetano La Corte Cailler, Rosario Pennisi e Paolo Lombardo Pellegrino, non era solo «un libro di rimpianto e di fede» tra il «passato glorioso» e il «radioso avvenire» della «nobile caduta», ma rappresentava anche la più completa raffigurazione della città sei anni prima (1902) e sei anni dopo (1914) il terremoto50. Dedicato alla regina Elena («alla Maestà della Regina d’Italia nell’ora del dolore consolatrice augusta questo libro di rimpianto e di fede gli editori devotamente offrono e consacrano»), nella prima parte il volume riproduceva con sostanziali aggiornamenti le pagine che Messina e dintorni, la guida edita dal Comune di Messina nel 1902, aveva dedicato a Messina nella Storia, nelle Lettere, nelle Arti e nei Costumi con le voci Geografia fisica, Flora, Fauna, Storia, Demografia, Letteratura, Istruzione pubblica e pri-

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Prima e dopo. Messina 1902-1914

vata, Belle Arti, Agricoltura e Zootecnia, Pesca, Turismo e Sport, Commerci, Industrie, Navigazione e Comunicazioni, Monete, Assistenza pubblica, Igiene51. Nella seconda parte (Monumenti antichi e moderni prima e dopo il disastro (ricordi storici), quasi come in un pellegrinaggio cosparso di rovine e macerie, di perdite e distruzioni, di ricordi e rimpianti, il volume ripercorreva gli stessi itinerari che la guida del 1902, con ben altro spirito, aveva proposto per far conoscere le strade e le piazze, le chiese e i monasteri, gli edifici pubblici e privati, i beni artistici e architettonici di una città allora viva e vitale. Come scriveva in una recensione l’archeologo Paolo Orsi, Messina prima e dopo il disastro

Al di là della pur pregevole opera editoriale, l’iniziativa della casa editrice Principato rappresentava una importante espressione della volontà di autorappresentazione della città già pochi anni dopo il disastroso terremoto. Nonostante le descrizioni e le immagini della città distrutta, Messina prima e dopo il disastro non era, infatti, solo una mesta rassegna tra il prima e il dopo. Era anche il primo, se non l’unico nel suo genere, con-

creto contributo offerto ai messinesi sopravvissuti per non smarrire l’identità e la memoria storica della città in un periodo in cui i problemi della contingenza prendevano il sopravvento. Oltre ad essere un «documento» sulla continuità nella discontinuità della città, il volume era un invito alla riscoperta della storia e delle radici che il terremoto, pur nella sua tragicità, non era riuscito a cancellare. Negli anni seguenti saranno le calamità umane e non quelle naturali a recidere quel poco di memoria e di identità che pure restava alla straziata città trasfigurando o cancellando la storia della città. E così anche a Messina dopo il 1908, come ad Agadir dopo il terremoto del 1961, arrivavano i «venditori di vento» descritti da Tahar Ben Jelloun che inventavano ricordi «per quelli che non ne avevano o che li avevano dimenticati»53. Dopo il 1908 anche a Messina si è fatto «piccolo commercio della memoria» vendendo ricordi a chi non conosce la storia della città e creando alibi alla classe dirigente per attribuire solo al terremoto e alla natura matrigna le responsabilità della progressiva e irreversibile perdita di identità della città che, dopo il terremoto del 1908, ha perso il suo rapporto secolare con il mare, ma non ha trovato altre valide ragioni di esistenza. Il «secolo breve», iniziato con il 1908, è stato per Messina anche il secolo della «memoria breve» e dell’identità sempre più labile e indefinita. Nonostante le ferite lasciate dal terremoto e dalla seconda guerra mondiale, nel 1953 Messina poteva anche apparire a Bernard Berenson, che era stato qui già nel 1888 e nel 1908, «piena di vita e di trambusto», ma sempre sospesa tra la nostalgia del passato e l’incertezza del futuro54.

51  Cfr. Messina prima e dopo il disastro 1914, pp. 1-152, in cui erano aggiornate le voci già apparse in Messina e dintorni 1902, pp. 5-226. 52  Orsi 1915, p. 451. 53  Ben Jelloun 1993, pp. 41-42: «Altri vendevano vento. Seduti dietro un tavolino inventavano dei ricordi per quelli che non ne avevano o che li avevano dimenticati. “Venditori di ricordi veri, freschi, autentici, verificabili”, aveva persino scritto uno di loro su una lavagna da scolaro appesa al muro. Non avevano molti clienti. I ricordi non erano merce rara in quel paese, ma

bisogna dire che ad Agadir questo piccolo commercio della memoria era stato abbastanza fiorente. Dopo il terremoto certi sopravvissuti avevano perso la memoria, altri avevano cercato di verificare i loro ricordi, e poi ci furono quelli che non avevano vissuto quella notte terribile e che, in visita ad Agadir, si facevano raccontare quell’avvenimento tragico, con tutti i particolari da quei venditori di vento che si presentavano come degli “illuminati che i muri, cadendo, hanno risparmiato”». 54  Berenson 1955, p. 7.

è una guida, soprattutto storica ed artistica, della infelice città, tanto più apprezzabile ora che di tanti insigni monumenti non resta più pietra su pietra (e non per colpa del solo terremoto, ma in assai larga misura anche dell’insano furore del Genio Civile, di distruggere ogni cosa), mentre il libro ce ne porge dei buoni ricordi storiografici. Il volume fa onore alle “Officine Grafiche” [«La Sicilia» di Carlo Magno] da cui esce, ed ai benemeriti redattori, per la elegantissima veste tipografica, per la gran copia di zinchi quasi tutti nitidissimi, per la abbondanza delle notizie, e per la ricca bibliografia opportunamente aggiunta ad ogni capitolo52.

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Michela D’Angelo

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