Quando penzo danzo: Jean-Luc Nancy

August 13, 2017 | Autor: Christopher Watkin | Categoria: Dance Studies, Jean-Luc Nancy, Philosophy of Dance, Philosophy of Dance and Theatre Arts
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© Logoi.ph – Rivista di filosofia N. I , 2015 – Filosofia e linguaggi

Christopher Watkin Quando penso, danzo1 Abstract: In the mid 2000s, philosopher Jean-Luc Nancy and choreographer Mathilde Monner collaborated on a project that explored the relation between dancing and thinking. Their joint work can help us get over the idea that dance is an object we pick over and dissect in our thinking and writing, and help us embrace a notion of the relation between dance and thinking that is more mutual, where both participate in making sense. This article explores what Nancy means by «when I think, I dance», where dance is used not as a metaphor but as a literal description of the activity of thinking. Tra il 2000 e il 2005 il filosofo Jean-Luc Nancy e la coreografa Mathilde Monner hanno collaborato ad un progetto che ha esplorato la relazione tra danzare e pensare. Il loro lavoro, nella sua congiunzione, può aiutarci a superare l'idea che la danza sia un oggetto da prendere e dissezionare nel nostro pensiero e nella nostra scrittura, e può aiutarci ad abbracciare una concezione più mutuale del rapporto danza / pensiero, dove entrambi partecipano alla creazione del senso. Questo articolo esplora ciò che Nancy intende con l’espressione «quando penso, danzo», là dove la danza viene utilizzata non come una metafora, ma letteralmente come una descrizione dell'attività del pensare. Keywords: J.L. Nancy, M. Monner, Dance, Thinking, Participation Parole chiave: J.L. Nancy, M. Monner, Danza, Pensiero, Partecipazione ***

Vale la pena cercare di pensare e scrivere sulla danza? Per cominciare, diciamo che la danza in sé non è un pensiero che possa essere reso in un linguaggio sintattico. Se così fosse, non ci sarebbe nulla da guadagnare nel vedere uno spettacolo; pensare sarebbe sufficiente. D'altra parte noi pensiamo quello spettacolo attraverso alcune categorie linguistiche pre-date, come quella di ‘movimento’, ‘espressione’, ‘tensione’, ‘pace’ e attraverso innumerevoli altre metafore e immagini, che cercano di rendere la danza attraverso le parole, o forse di rappresentarla, o tradurla, o catturarla. Oppure tradirla, ridurla, soffocarla. La questione se valga la pena provare a pensare e scrivere sulla danza, però, già presuppone che la danza sia un ‘cosa’, piuttosto che, per esempio, un ‘come’. Si presuppone cioè che la danza sia qualcosa che stia accadendo o che non stia accadendo ad un particolare corpo in un particolare spazio e in un particolare tempo, e che questo ‘cosa’ possa produrre se stesso come un contenuto pensato. Tuttavia, sarebbe affrettato concludere – a partire dalla difficoltà di tenere insieme danza e pensiero – che dunque non dobbiamo affatto ‘pensare’ la danza, ma solo farne ‘esperienza’ (come se si potesse dividere il pensiero dall’esperienza); o dobbiamo semplicemente lasciarla fluire su di noi (come se ‘fluire’ non fosse già una metafora che cerca di catturare la danza nel linguaggio). No: l'incontro tra danza e pensiero è necessario, anche se resta difficile. La questione di come la danza e il pensiero possano incontrarsi reciprocamente, in modo tale che il pensiero né traduca né tradisca la danza, è stata esplorata in profondità dalla coreografa Mathilde Monnier e dal filosofo Jean-Luc Nancy, nel testo che hanno pubblicato nel 2005: Allitérations [M. Monnier – J. L. Nancy – C. Denis, Allitérations. Conversations sur la danse, Galilée, Paris, 2005]. Qui si discute la performance, nata dalla 1

C. Watkin insegna French Studies presso l’Università di Monash in Australia ed è esperto e studioso di filosofia francese contemporanea, in particolare del decostruzionismo e della cultura post-moderna. L’articolo che qui viene presentato in traduzione italiana è stato pubblicato in inglese in “Dancehouse Diary”, n. V, luglio 2013 (http://www.dancehouse.com.au/downloadfile.php?filename=files/DHDiary5_web.pdf). Si ringraziano l’Autore e i responsabili della Rivista per la gentile concessione.

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loro collaborazione e messa in scena per il Festival di danza di Montréal nel 2000, in cui Nancy legge un testo da un leggio sul palco, mentre, per dirla con le parole adoperate dalla stessa Monnier nel suo sito, quattro ballerini e un compositore cercano di «lavorare sugli interstizi e i vuoti che si creano quando si passa dall’ascoltare un testo o una musica alla percezione di un movimento». Riflettendo sulla loro collaborazione, Nancy, ad un certo punto, riflette sul motivo per cui i nazisti avevano forte avversione per la danza. Forse perché si presta ad una maggiore ambiguità rispetto alle altre arti e quindi si presta meno al modello di decisione semplice e prevedibile perseguito dal Nazionalsocialismo. Questo non per dire che la danza non racconti la storia, ma per dire che in ogni caso la sua storia non deve essere intesa come appartenente alla categoria della comunicazione danzata di informazioni che si trovano nel mondo naturale, per esempio come la ‘danza ad ondeggiamento’ delle api, che indica la via che porta dall’alveare alle piante ricche di polline, in relazione all'angolazione del sole. Infatti, il linguaggio della danza è ancor più lontano dall’ondeggiamento delle api rispetto a quanto sia lontano dal linguaggio sintattico. Nella ‘danza ad ondeggiamento’ c'è una corrispondenza necessaria e calcolabile tra il movimento e la realtà che esso significa; infatti, un determinato numero di vibrazioni indica una determinata distanza. Nel linguaggio sintattico, invece, questa corrispondenza non è più necessaria (diciamo ‘mucca’, non ‘muu’; ‘cane’, non ‘bau bau’). Analogamente, il linguaggio della danza – la sua postura, energia, ritmo, presenza – dispensa dalla corrispondenza ad una realtà significata; parla per se stesso. Alla stessa maniera, sarebbe troppo affrettato dire che il linguaggio sia una barriera tra danza e pensiero, e che ogni relazione tra i due deve essere una traduzione dentro il linguaggio o fuori del linguaggio in sé. Danza e pensiero, entrambi, interrompono la necessità della relazione tra segno e realtà; a questo proposito, ciò che condividono è maggiore di ciò che li divide. Nancy e Monnier sono pronti a respingere il paradigma della traduzione come figura adeguata del rapporto tra pensiero e danza. Empaticamente intuiamo che la danza non è un vettore potenziale di informazioni o un codice che possa essere ricostituito nel linguaggio sintattico senza che comunque si perda qualcosa. Piuttosto, la danza richiede un’esperienza di comprensione non-intellettuale (o per lo meno non esclusivamente intellettuale: ultra-intellettuale). Ciò non significa, tuttavia, che il linguaggio e la danza non possano avere uno scambio reciproco, perché la danza partecipa, insieme con il linguaggio sintattico, a quel ‘medium’ che è il senso. ‘Generare senso’, fare senso (make sense) con un movimento non è una metafora, un’immagine o una traduzione – Nancy insiste2; e la questione non è quella di assegnare ad ogni gesto o movimento un equivalente nel linguaggio sintattico, ma piuttosto è quella di considerare i gesti come portatori di senso in se stessi. Invece di tradurre un senso a partire da altro, la danza estrae un nuovo senso: altro e differente. Possiamo dire che Nancy comprende la danza come linguaggio, ma solo a condizione che il ‘linguaggio’ stesso qui sia inteso differentemente, trasformato dal suo incontro con la danza, come possiamo vedere da come Nancy commenta le prove di Monnier: tutto il tuo lavoro come coreografa mi sembra essere costituito da un movimento incessante di pensieri, idee, significati, passi, gesti, spazi, spaziature e tensioni – senza che si possa dire che si tratti di una ‘traduzione’ o una ‘interpretazione’, e senza che un registro realmente preceda l’altro.

Egli osserva la prevalenza del linguaggio gestuale nella comunicazione tra Monnier e la sua troupe, durante le prove per la loro produzione congiunta: Per la traduzione di ‘make sense’ rimandiamo all’intervista a J.L. Nancy, presente in questo stesso numero di “Logoi”. 2

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© Logoi.ph – Rivista di filosofia N. I , 2015 – Filosofia e linguaggi Posso dire che sono stato molto colpito, durante le prove, dal tuo modo di parlare: tu fai appunti o usi le parole sempre obliquamente, attraverso immagini, paragoni o indicazioni, che fin dall'inizio si rifiutano di ‘nominare’, come per esempio quando dici ‘No, non è questo!’ – un ‘questo’ che tu punti verso la ‘cosa in sé’, verso il ‘senso’ che deve essere prodotto o toccato. Ho annotato più o meno accuratamente alcune frasi che hai usato con i ballerini: ‘qui deve essere più forte ...più lungo, meno spezzato’, ‘in questo punto non sapevo dove foste’, o ancora ‘in quella luce non si farà: perdo il portamento’. Tu sottolinei l’identità di spazio, tempo e gesto, piccole unità e unità dell’intero, ma tu non dai loro dei significati – o comunque ti limiti a pennellarli.

Questa proliferazione del linguaggio gestuale ci aiuta e ci fa iniziare a vedere perché sia sbagliato assumere che gesto e danza formino una modalità di comunicazione, mentre linguaggio e idee formino un’altra modalità. Anche il linguaggio danza: e non solo metaforicamente. Possiamo capire questo, osservando il contesto educativo. Mentre l’istruzione è solo un passaggio di informazioni, una transazione chiusa di significati già fissati, Nancy sostiene che ogni educazione, in quanto pone lo studente in un percorso e non impartisce un pacchetto pre-confezionato di informazioni, si occupa non solo di significati linguistici che veicolano significazioni, ma anche di gesti che segnalano e mobilitano, senza significare, proprio come le indicazioni date da Monnier alla sua troupe. Questi gesti non comunicano nessun contenuto determinato, ma comunicano se stessi, la loro energia e intensità. Educare è trasmettere la possibilità di uscire da sé, con una energia che è aperta a nuovi significati, ma che non può essere ridotta ad essi. È un modo di trasmettere conoscenze, ma anche di trasmettere il gesto proprio della conoscenza: il suo tono, timbro, fascino, il suo modo, la sua inclinazione. L'educazione è coinvolta in una gestualità che le conferisce ciò che Nancy chiama la sua ‘colorazione’. Non ricordiamo tutti – egli suggerisce – gli stimoli, le maniere e i gesti di alcuni dei nostri ex insegnanti, il loro modo di muoversi e partecipare, che è diventato inscindibile dal ‘contenuto’ del loro insegnamento? E noi potremmo continuare: non era quel movimento e quella partecipazione che creava i contenuti, creando senso, trasmettendo amore e curiosità per l'apprendimento? Quando cominciamo a riflettere in questo modo sulla inseparabilità tra le informazioni e il modo in cui vengono date, ecco che scopriamo facilmente perché dobbiamo lasciarci alle spalle la goffa distinzione tra contenuto e gesto, tra forma e contenuto dell’educazione. E, cosa ancor più importante, questo movimento e questa partecipazione non sono un’appendice idiosincratica al processo educativo, ma la partecipazione necessaria dell’educazione a quella che Nancy chiama la ‘trasmissione danzante’. In alcune situazioni concrete di trasmissione del pensiero e delle idee, quelle idee sono ‘danzate’, in un senso che non riduce la ‘danza’ ad una metafora. I gesti qui sono comunicati diversamente dalle mere informazioni. Essi non sono da riprodurre in una corrispondenza uno-a-uno (anche se vi è dietro una sorta di formazione, di training dei muscoli); ma è la loro stessa energia che passa, si comunica. Per Nancy, questo passaggio di energia deve essere figurato non in termini di imitazione (mimesi), ma di partecipazione (methexis), di condivisione di un habitus (hexis), di una disposizione a occupare lo spazio in un modo particolare o tenere il corpo in una maniera particolare. Questa condivisione avviene non solo tra un danzatore e un altro, ma tra il danzatore e la sua localizzazione, tra il danzatore e se stesso (o se stessa), il danzatore e la coreografia, il danzatore e lo spettatore. La danza intreccia tutta una serie di partecipazioni, che non possono essere ridotte a rappresentazioni e che, tuttavia, forniscono una ‘propria’ rappresentazione. Noi ‘rappresentiamo’ qualcosa ‘partecipandovi’, e partecipiamo attraverso una rappresentazione che non è riproduzione ma produzione, una produzione del corpo, fatta come se esso partecipasse a... cosa? Al senso, al pensiero, all’essere, a quello che volete.

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Certo, qualcuno potrebbe obiettare che la danza è comunque una forma di imitazione, che racconta una storia, ma lo fa semplicemente, con una sequenza di gesti, gesti che, come la ‘danza ad ondeggiamento’ delle api, hanno comunque una corrispondenza diretta e non ambigua con la realtà che intendono significare. Nancy non nega che una danza di questo tipo esista, ma sostiene che, anche nel caso di una danza ostensibilmente mimetica, il suo gesto è ‘danzato’ prima di essere ‘mimato’, è danzato in modo tale da essere mimato, e il mimo non riproduce l'atto mimato, ma estrae il suo senso o la sua essenza dalla danza, aprendo una partecipazione rispetto a questa essenza o a questo senso. La nozione di partecipazione ci consente di allontanarci dall'idea della danza come qualcosa che si riferisca, al di là di se stessa, ad un significato (intelligibile), e ci permette di muoverci verso una comprensione della danza come produzione di senso, dove il senso sfugge alla differenza tra intelligibile e sensibile, perché precede la loro divisione. Entrambi – danza e pensiero – partecipano del senso e lo producono, ma nessuno dei due è il guardiano del senso. Perciò Nancy insiste sul fatto che, senza ingannare nessuno e senza essere troppo permissivo, può rivendicare: «quando penso, ballo». [tr. it. di Annalisa Caputo]

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