Quid primum canam quaeve ultima narrem? Riflessioni sulla struttura della Felsinais di Marco Girolamo Vida

June 7, 2017 | Autor: Carla Piccone | Categoria: Renaissance Studies, Italian Humanism, Latin Epic, Marco Girolamo Vida
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Carla Piccone
Quid primum canam quaeve ultima narrem?
Riflessioni sulla struttura della Felsinais di Marco Girolamo Vida






Nel suo Iter italicum Paul Oskar Kristeller si sofferma brevemente sul
manoscritto vaticano Chig. J. VI. 232 e, dopo averlo datato al XVI sec., ci
informa del fatto che esso riporta una storia di Bologna in sei libri[1]
priva di alcune pagine corrispondenti all'inizio e alla fine di ogni libro,
tagliate da una mano sconosciuta in un'epoca per noi impossibile da
definire.
I danni subiti dal codice ricordati da Kristeller hanno fatto sì che siano
andati irrimediabilmente perduti l'indicazione del titolo dell'opera in
esso tradita, il nome del suo autore, eventuali ragguagli sulla sua persona
e l'indicazione di un possibile dedicatario del testo. L'assenza di
elementi paratestuali così importanti ha fatto sì che il manoscritto in
questione cadesse nell'oblio per secoli, per essere riscoperto e portato
all'interesse della comunità scientifica in anni recenti da Thomas Haye.
Un'analisi dell'opera riportata nel nostro codice ha permesso allo studioso
di individuare il suo titolo in Felsinais e di attribuire questo scritto a
Marco Girolamo Vida.[2]
Al fine di collocare cronologicamente e culturalmente questa personalità,
basterà in questo contesto ricordare che Vida nasce a Cremona intorno al
1485 da una nobile famiglia decaduta.[3] Dopo essersi formato a Mantova,
all'epoca importante centro di studi virgiliani,[4] presso Francesco
Vigilio[5], dal 1505 è di nuovo nella sua città natale, dove prende i voti
e studia filosofia e teologia. Nonostante allo stato attuale delle nostre
conoscenze non sia possibile ricostruire le sue vicende biografiche tra il
1505 e il 1509, l'allusione a specifici eventi storici contenuta nella
Felsinais permette di collocare la sua composizione proprio in questo lasso
di tempo, per la precisione tra il maggio del 1508 e il maggio del 1509.[6]
Nel 1510 il nostro autore è certamente a Roma attivo alla corte di Giulio
II, dedicatario di una Iulias andata perduta databile al 1511.[7] La
presenza di Vida presso la curia romana sotto i pontificati di Leone X e di
Clemente VII, negli anni di massima fioritura del Rinascimento in Vaticano,
è ben attestata e a questa fase della sua vita risale la composizione delle
sue opere più significative, individuate dalla critica nell'Ars poetica[8]
e nella Christias, epos unanimemente ritenuto il suo capolavoro, in cui il
racconto evangelico della vita di Cristo viene proposto in stile
virgiliano.[9] Nel 1534 diventa vescovo di Cremona e poi di Alba, dove
muore nel 1566. A pochi anni di distanza dalla sua morte, egli verrà
ritenuto nostri temporis princeps poetarum da Giulio Cesare Scaligero, che
lo inserirà nel canone dei migliori poetae recentiores insieme a Sannazaro,
Pontano e Fracastoro[10]; inoltre, l'umanista ferrarese Lilio Gregorio
Giraldi arriverà a definirlo Vergilius christianus.[11]

Sulla base dei dati finora raccolti, la Felsinais sembrerebbe essere
un'opera giovanile di una delle personalità più significative del
Rinascimento italiano, al momento ancora inedita e conseguentemente non
ancora esaminata dalla critica. È nostra intenzione accostarci allo studio
di questo testo, provando, dopo aver tentato di definire i concetti di
"inizio" e "fine", ad utilizzare queste idee come categorie interpretative
atte ad nucleare le caratteristiche strutturali dell'opera presa in esame.
Tenendo conto dei risultati così acquisiti, passeremo ad indagare se e
sulla base di cosa questo scritto di Vida possa essere in qualche misura
ritenuto una sorta di continuazione dell'epica antica.

Prima di accostarci all'esame di questi aspetti, ci sembra necessario
tratteggiare a grandi linee il contenuto della Felsinais.
Essa è costituita da circa 5400 esametri ripartiti in sei libri: il primo
si apre con il racconto di un concilio, in cui la trabeata senectus di
Bologna discute della triste situazione in cui versa la città, vessata da
anni dal malgoverno di Giovanni Bentivoglio. Lo stesso argomento viene
trattato in un dialogo tra San Pietro e Dio, che decide di inviare un
messaggero a Giulio II al fine di informarlo del fatto che il suo compito
sarà quello di liberare la città dal tyrannus. Il mattino successivo,
durante un concilio divino, l'indovino Bromia, dopo essere caduto in
trance, rivelerà le grandi gesta a cui il papa è destinato. A questo punto
iniziano i preparativi per la guerra, il cui racconto trova spazio nel
secondo libro. In questo contesto vengono passati in rassegna gli alleati
di Giovanni Bentivoglio e quelli di Giulio II, che, una volta radunate le
truppe, si dirige verso Bologna. L'andamento di questo viaggio è oggetto di
narrazione nel terzo libro; in esso è inserita, inoltre, un'analessi, in
cui un narratore diegetico ripercorre gli eventi che hanno portato alla
conquista del potere da parte dei Bentivoglio. Dopo questo excursus
riprende la narrazione del viaggio verso la città e vengono evidenziate le
difficoltà legate all'attraversamento degli Appennini. Essa continua nel
quarto libro, in cui Giulio II organizza una gara di corsa per motivare i
suoi soldati; a questo avvenimento segue la descrizione del progressivo
avvicinamento delle truppe papali a Bologna. Successivamente, nel quinto
libro, viene dettagliatamente descritta la battaglia che vede opposti
truppe bolognesi e francesi, alleate del papa. Dopo la conquista della
città il papa può finalmente celebrare il suo trionfo, narrato nel sesto
libro della Felsinais, che termina con un invito ad intraprendere una
crociata contro i Turchi.[12]

L'assenza nel manoscritto vaticano dei fogli contenenti i primi e gli
ultimi versi di ogni libro dell'opera vidiana non permette di condurre
un'analisi a livello infratestuale della stessa[13], non consente, cioè, di
verificare se nel proemio e nella conclusione del nostro testo sia
ravvisabile la presenza di topoi specifici[14] e se e come tradizione e
innovazione convivono in essi. Inoltre, risulta impossibile stabilire la
tipologia di relazioni che potrebbero intercorrere l'esordio e la
conclusione di ogni libro; non è, infine, possibile verificare l'esistenza
di un secondo prologo né valutare le conseguenze che la sua presenza
nell'opera avrebbe sia a livello strutturale che contenutico.[15]
Se volessimo ritenere la Felsinais parte di una collezione di scritti e
condurre così un'analisi a livello supertestuale,[16] dovremmo rivolgere la
nostra attenzione alla Iulias, presumibilmente incentrata, come l'opera
vidiana da noi esaminata, sulla figura di Giulio II[17] e di pochi anni
successiva ad essa.[18] Proprio per le loro caratteristiche i due testi
potrebbero costituire all'interno dell'ampia produzione letteraria vidiana
una piccola unità e, pertanto, lo scritto presumibilmente più recente, la
Iulias, potrebbe mostrare in sezioni più o meno prominenti allusioni o
riprese di quello più antico, la Felsinais.[19] Tuttavia, il fatto che in
un caso non possediamo importanti sezioni di testo e la constatazione che
nell'altro oggetto di analisi dovrebbe essere uno scritto andato perduto
rendono impossibile un qualunque tentativo di analisi in questo senso.
Queste osservazioni mosterebbero, dunque, che la Felsinais non si presta ad
essere indagata servendosi dei concetti di "inizio" e "fine" colti
nell'accezione di "esordio" e "conclusione" dell'intera opera o di singoli
libri. Questo stato di cose ci impone, di conseguenza, di trovare altri
approcci interpretativi.
È ragionevole supporre che, nel momento in cui il giovane Vida si appresta
a scrivere la Felsinais, influenzato dalla sua solida formazione classica e
dalle sue letture, si sia posto il problema di quali criteri seguire nella
stesura di un testo di ampio respiro. Egli offre una risposta compiuta a
queste questioni nell'Ars poetica, composta una ventina d'anni dopo il
testo oggetto della nostra analisi e pubblicata a Roma nel 1527. È, dunque,
a questo scritto di carattere teorico che dovremmo rivolgere la nostra
attenzione.
Nel suo secondo libro Vida, pur riconoscendone la difficoltà (2,13), si
propone di trattare dell'inventio e della dispositio (2,11–12).[20] Dopo
aver spiegato le modalità in cui all'inizio della sua opera un poeta
dovrebbe introdurre il tema da trattare ed essersi soffermato
sull'invocazione alle Muse, il nostro autore scrive (2,51–61):[21]
Ergo, age, quae vates servandi cura fatiget
ordinis intentos operi, cum carmine aperto
rem tempus narrare, loco ut disposta decenti
omnia sint opere in toto nec meta laborum
55 usque diffideat ingressibus ultima primis.
Principio invigilant non expectata legenti
promere suspensosque animos novitate tenere
atque per ambages seriem deducere rerum
nec, quacumque viam suadet res gesta, sequuntur.
60 Plerumque a mediis arrepto tempore fari
incipiunt, ubi facta vident iam carmine digna.

Partendo dal presupposto che sia necessario trovare una dispositio adatta e
sostenendo che l'inizio della vicenda narrata non deve mai essere in
contraddizione con la sua fine, Vida cerca di chiarire come realizzare
all'atto pratico questi principi.[22] Prendendo le mosse da concetti di
evidente derivazione oraziana (Ars, 143–150) ben noti in epoca
rinascimentale,[23] il nostro poeta consiglia di inserire nella narrazione
degli eventi ambages al fine di dare al lettore l'impressione di una fine
imminente, destinata invece ad essere continuamente procrastinata.[24]
Questo modus operandi ha sul fruitore dell'opera letteraria l'effetto di
suspendere animos, circostanza che lo porterà a non abbandonare la lettura
e a portarla fino in fondo.[25]
Stando a quanto emerge da questi versi, un testo letterario dovrebbe essere
costituito da più episodi, che presentano a livello narrativo un inizio,
uno sviluppo e una fine. Essi dovrebbero essere combinati ed intrecciati
l'uno all'altro in modo tale da formare una composizione, il cui inizio e
la cui fine non devono risultare in contraddizione l'uno con l'altra. In
questo modo essa risulterebbe essere una costruzione coerente ed unitaria,
al contempo in grado di generare attesa nel lettore, tenendo così alta la
sua attenzione.

A questo punto, tendendo presente il fatto che intendiamo riferire i
concetti di "inizio" e "fine" all'avvio e alla conclusione di singoli
episodi che compongono un testo letterario, spostiamo nuovamente la nostra
attenzione sulla Felsinais, concentrandoci sul suo macrotesto.
I primi due libri dell'opera vidiana ripercorrono gli avvenimenti che hanno
portato il papa a muovere guerra contro i Bentivoglio e presentano gli
eserciti coinvolti in queste vicende; il terzo e il quarto sono incentrati
sul racconto del viaggio che porta le truppe papali da Roma a Bologna;
infine, gli ultimi due sono dedicati al racconto delle battaglie vere e
proprie e al successivo trionfo di Giulio II. Come mostra lo schema
sottostante, la Felsinais risulterebbe organizzata in tre sequenze
dell'estensione di due libri ciascuna, a cui sulla base del contenuto
potremmo attribuire i titoli di "preparazione della guerra", "esercito in
movimento", "svolgimento della guerra".


1 2 3 4 5 6

Ognuna delle tre sequenze individuate contiene, dunque, il racconto di tre
diverse azioni iniziate e concluse. Inoltre, la loro successione rende
conto dell'ordine cronologico in cui gli eventi si sono svolti; pertanto,
questa prima ripartizione dei libri della Felsinais fornirebbe quello che
viene definito tempo della storia.
Il primo libro, dedicato al racconto del malgoverno dei Bentivoglio e alla
rappresentazione delle preoccupazioni che esso genera in cielo e sulla
terra, sembra trovare una continuazione e conclusione nel quarto, in cui
vengono tratteggiate le primissime fasi della battaglia sotto le mura di
Bologna, intese quale conseguenza delle scellerate azioni politiche della
famiglia in essa dominante; la presentazione delle truppe di entrambe le
parti contenuta nel secondo libro va a completarsi e a concludersi nel
quinto, in cui vediamo gli eserciti in azione; infine, se il terzo libro
narra il viaggio delle truppe papali verso la città emiliana è il sesto che
chiarisce con la rappresentazione di Bologna conquistata e pacificata e con
il racconto del trionfo papale per le sue strade le sue conseguenze. Come
mostra lo schema seguente, questa seconda ripartizione del testo è
costituita, come la precedente, da tre coppie di libri, il cui contenuto
potrebbe essere riassunto dalle formule "antefatto – inizio della guerra";
"presentazione degli eserciti – battaglia"; "viaggio – conquista di
Bologna":






1 2 3 4 5 6

In questo modo ognuna delle tre coppie presenta nello spazio di due libri
la causa di un'azione e il suo effetto. Pertanto, anche in questo caso ogni
coppia di libri presenta vicende ben definite, di cui è facilmente
individuabile a livello narrativo un inizio e una fine.
Gli antefatti relativi alla guerra contro Bologna narrati nel primo libro
della Felsinais trovano, inoltre, il loro completamento nel racconto del
trionfo papale nel sesto; gli avvenimenti raccontati nel secondo, abbiamo
visto, trovano la loro naturale conclusione in quelli contenuti nel quinto
ed, infine, l'intero racconto del viaggio delle truppe papali da Roma a
Bologna è riferito nel terzo e nel quarto libro. Anche in questo caso, la
Felsinais risulta ripartita in tre coppie di libri, che sembrano
organizzarsi intorno a tre nuclei tematici, individuabili, come mostra la
seguente tabella, in "causa – effetto della guerra", "svolgimento della
guerra", "viaggio".


Prima triade: Seconda triade:
azioni in potentia azioni in actu



1 2 3 4 5 6
parte
odissiaca

parte
iliadica



Alla base di questa ripartizione ci sarebbe l'opposizione tra azioni in
potentia, contenute nella prima triade, e azioni in actu, oggetto di
narrazione nella seconda. Pertanto, sembrerebbe che Vida introduca una
varietà di episodi nella prima parte dell'opera, per poi portarli a
conclusione nella seconda.
Sulla base di queste osservazioni, la Felsinais si configurerebbe, dunque,
come una Ringkomposition ed è proprio il riconoscimento di questa struttura
nel testo ad evidenziare il fatto che i libri 1 – 6 e 2 – 5 trattano
tematiche propriamente guerresche o ad esse strettamente legate; proprio
per gli argomenti in essi trattati, potremmo definire questi libri
iliadici.
Al centro dell'opera è collocata, invece, la coppia di libri 3 – 4,
dedicata, come abbiamo visto, al racconto di un viaggio, nel cui ambito
trovano spazio l'organizzazione di una gara di corsa e un'analessi, in cui
un narratore diegetico ripercorre le vicende a seguito delle quali i
Bentivoglio sono saliti al potere a Bologna. Questi elementi non possono
che richiamare alla mente noti episodi narrati nei primi sei libri
dell'Eneide e prima ancora nell'Odissea. Proprio per queste caratteristiche
potremmo definire questa sezione, collocata al centro dell'intera
Felsinais, odissiaca.
Le strutture individuate all'interno del testo vidiano esaminato
evidenziano, dunque, che nello sviluppo di alcuni episodi importanti nella
sua economia, nell'individuazione di rapporti di causa – effetto degli
avvenimenti narrati, nella presentazione di azioni prima in potentia e poi
in actu sono ben individuabili una fase iniziale ed una fase finale
introdotte e portate a conclusione non in un unico libro, bensì in punti
diversi dell'opera. La Felsinais sembra essere costituita, pertanto, da più
filoni tematici che, come fili intrecciati, si avviluppano l'uno con
l'altro, rappresentando così nella loro diversità uno specifico aspetto di
un tema comune, individuabile nel nostro caso in "guerra di Giulio II
contro Bologna". Disponendo la materia nelle modalità finora descritte,
Vida offre una sua organizzazione per ambages, con la conseguenza di
ritardare la conclusione e di generare una suspensio animi nel suo lettore.
Inoltre, in questa sua varietà tematica l'opera non mostra contraddizioni
interne, presenta la risoluzione di tutti i conflitti e nulla sembrerebbe
essere stato lasciato in sospeso.[26] In virtù di queste caratteristiche la
Felsinais risulterebbe dunque essere un testo coerente ed unitario.
Vida, lettore di Virgilio fin dall'infanzia, potrebbe aver dedotto
quest'organizzazione della materia per ambages dall'Eneide, in cui la
critica ha da lungo tempo identificato strutture molto simili a quelle
descritte.[27] Inoltre, il fatto che il nostro autore condensi i dodici
libri che costituiscono il poema virgiliano in sei, in cui sono ben
riconoscibili una parte iliadica ed una parte odissiaca, lascia supporre
che egli si rapportasse al testo antico così come Virgilio si era
rapportato nella composizione del suo epos ai poemi omerici. Vida
sembrerebbe, dunque, consapevolmente operare come una sorta di novus
Vergilius, concordemente con il gusto dell'epoca che faceva del poeta
antico non solo un modello insuperato di stile e di decorum, ma anche
oggetto di venerazione.[28] Questo atteggiamento nei confronti della poesia
virgiliana si traduce nella Felsinais da un lato nell'organizzazione
macrostrutturale, dall'altro nella ripresa di singoli episodi, che vengono
estrapolati dal loro contesto originario ed adattati al racconto di vicende
contemporanee al poeta, in cui personalità a lui ben note assurgono al
ruolo di protagonisti. Per queste sue caratteristiche l'opera vidiana
rientra a buon diritto in quell'ampia produzione coeva afferente al genere
epico,[29] in gran parte inedita, che nasce dalla necessità del poeta
umanistico di avvicinarsi a chi è in grado di garantire la propria
sussistenza e, quindi, ai detentori del potere, che vengono così celebrati
in questi testi a tema storico, in cui è ravvisabile una forte componente
panegirica.[30]
A distanza di una ventina d'anni dalla composizione della Felsinais, Vida
si servirà delle strutture ora descritte per offrire una narrazione della
vita di Cristo nei sei libri della Christias;[31] contemporaneamente alla
stesura di quest'opera egli si dedica alla composizione dell'Ars poetica,
in cui sembra teorizzare quanto via via va sperimentando a livello pratico
nel suo epos biblico. In questo sforzo di teorizzazione l'autore fa propri
molti principi esposti da Orazio nell'Ars poetica, illustrandoli con esempi
tratti dall'Eneide, concordemente con l'uso di alcuni commenti al testo
oraziano a lui contemporanei, certamente a lui noti già negli anni della
sua formazione.[32] Questo stato di cose lascerebbe supporre che Vida fin
dalla gioventù avesse elaborato sulla base dei suoi studi e delle sue
letture una serie di regole e di principi da seguire nella stesura di un
testo epico, che avrebbero trovato una loro prima realizzazione pratica
nella Felsinais. Nel corso degli anni Vida sembra non abbandonare la
riflessione su queste tematiche, che mostrerà i suoi frutti più maturi e
meglio riusciti nella Christias e nell'Ars poetica. Questa nostra
ricostruzione mostrerebbe, dunque, che il nostro autore dopo una prova
poetica giovanile ha continuato nei venti anni successivi a meditare su
certe questioni ed idee, evidenziando, per quanto allo stato attuale delle
ricerche possiamo valutare, una certa linearità nello sviluppo della
concezione del testo poetico.

Rivolgiamo nuovamente la nostra attenzione alla Felsinais e per la
precisione ai personaggi che agiscono in essa. Un'analisi del suo contenuto
evidenzia che le azioni in essa narrate sono costruite da un lato attorno
agli eserciti coinvolti nella guerra, protagonisti indiscussi del secondo e
del quinto libro,[33] dall'altro intorno alla figura di Giulio II, che
compare, assumendo un ruolo di primo piano, nel primo libro, nell'intera
sezione odissiaca del nostro testo e nella sua conclusione. Pertanto, la
scelta del nostro autore di collocare il personaggio del papa in sezioni
prominenti della sua opera può essere letto come l'intento di
sottolinearne l'importanza.

1 2 3 4 5 6

Sulla base di questa premessa, è ora nostra intenzione concentrarci sulla
figura di Giulio II, al fine di chiarire se la Felsinais possa essere
considerata una sorta di continuazione dell'Eneide.
Nel primo libro, durante un concilio divino, compare Bromia, obscuro nomine
vates, interpres superum et venturi praescius aevi (Fels. 1,286–287) e a
lui Dio chiede di superum clausas recludere mentes (1,290) e di rivelargli
gli avvenimenti del prossimo futuro (1,291–292). Di fronte a questa
richiesta l'indovino va in trance[34] e si esprime in questi termini
(1,288–290):
Ingentem video super arva ligustica quercum
surgere, paulatimque novas attollere frondes.

La menzione della quercia contenuta in questi versi allude allo stemma dei
Della Rovere, su cui è rappresentato, con evidente richiamo al nome della
famiglia in questione, proprio questo albero.[35] Inoltre, il fatto che la
quercus menzionata dall'indovino sia su arva ligustrica, su "campi liguri",
sembra alludere ad Albissola, la città della Liguria in cui Giulio II è
nato.
La descrizione della visione continua in questi termini (1,315–321):

Ecce autem – rapite arma, viri! – descendit ab alto
vertice dardanias fracturus cuspide turres,
sed nusquam galeam video, non exit in auras
fraxinus et nullo pectus thorace tenetur.
Tergeminum diadema caput, tegit alba capillos
vitta, piae sua signa cruces.

Bromia vede scendere dall'albero una figura destinata a grandi azioni di
carattere militare, ma priva di armi: essa è dotata unicamente di bende, di
un diadema e di una croce. L'indovino allude, dunque, a Giulio II, che, fin
dalla sua prima apparizione nella Felsinais, è associato alle tematiche
della pace e della guerra, veri e propri Leit-Motive nel nostro testo.
Le predizioni di Bromia continuano e l'indovino rivela (1,321–324):
[…] Prius arma domi, prius arma fatiga
itala perfidiamque prius disrumpe tuorum.
Iam movet arma. Tremens vulsa compage laborat
mundus et adriacis ebullit Thetys in undis.

Giulio II non porterà guerra solo a Bologna, non limiterà la sua azione
militare solo all'Italia, ma coinvolgerà in essa il mondo intero. In questo
modo Vida, sostenendo la necessità da parte della chiesa di muovere guerra,
introduce l'annoso tema della guerra giusta, strettamente connesso a quello
dell'incrementum ecclesiae.[36]
Bromia conclude i suoi vaticini, sostenendo che (1,382–383):
Tandem bella silent, fiunt laeta ocia, rebus
compositis. Mundus mansura in gaudia migrat.

Le guerre scatenate da Giulio II sarebbero, dunque, lo strumento che
permette di ottenere la pace e farebbero del papa un auctor pacis: il
pontefice è, dunque, guerriero e pacificatore allo stesso tempo.[37] Questa
pace ritrovata è il presupposto che permette l'avvio di una nuova aurea
aetas, a cui Vida allude ripetutamente nella Felsinais. Il poeta chiama,
dunque, in causa un motivo letterario molto celebre e variamente declinato
nel corso dei secoli[38] e lo associa alla politica espansionistica del
pontefice, presentandola così come una risposta al desiderio di pace ben
diffuso nella società italiana all'inizio del Cinquecento.[39]
Passiamo ora ad esaminare alcuni brani tratti dal sesto libro della
Felsinais. Nella sua sezione iniziale Vida si sofferma a descrivere Bologna
(6,33–37):
Haud secus ingentes postquam pax urbe pavores
egit, avesaeis redierunt pristina terris
ocia, securas mentes et gaudia laetum
vulgus habet. Cives curarum ignara voluptas
ambit nec tota moeret locus ullus in urbe.

Dopo alcuni giorni di duro combattimento, la città è stata presa dalle
truppe papali e finalmente la pace ha potuto fare ritorno in città.
Tuttavia, in questa atmosfera idilliaca (119–121):
Parietibus serras, invisi insigne tyranni,
abradunt. Fulva frondosa cacumina glande
auricomae tollunt tecta in sublima quercus.

Torna in questo contesto la menzione della quercia contenuta nello stemma
dei Della Rovere, che, all'indomani della conquista della città da parte
del papa, viene sostituita alla sega, emblema dei Bentivoglio.[40]
In una Bologna pacificata che riconosce, quindi, il suo potere, il
pontefice può celebrare il suo trionfo e partecipare al successivo
banchetto, durante il quale il giovane Brochio, cava resonos testudine
nervos intendens e digito pererrans threicias crispante fides
(6,432–433),[41] canterà le sue lodi. In questo contesto il cantore si
esprime in questi termini (6,501–503):
Tu potes ausonias armis accendere gentes
et totum ingenio trahere in bella aspera mundum
et non effuso reges abolere cruore.

Per poi chiarire (6,483–484):
Ferrea terrarum te praeside saecula fiunt
aurea. Tu potes immites frenare tyrannos.

Il contenuto del primo passo menzionato, in cui viene nuovamente riproposto
il tema dell'incrementum ecclesiae, va a completarsi e a chiarirsi nel
secondo, in cui Giulio II, in quanto auctor pacis, è l'unico in grado di
dare l'avvio ad una nuova aurea aetas.
Quanto previsto da Bromia nel primo e quanto cantato da Brochio nell'ultimo
libro della Felsinais mostrano un'evidente corrispondenza; inoltre, la loro
collocazione nel testo esaminato vuole certamente sottolineare che quanto
in un primo momento era stato solo previsto si è effettivamente realizzato.
Vida nella sua trasposizione letteraria della guerra bolognese del 1506
interpreta, dunque, gli eventi narrati, facendo propri concetti ed idee
mutuati dall'ideologia propagandistica del pontificato. Lo stesso modus
operandi è ben osservabile in opere di altri poeti organici al potere
contemporanei al nostro autore: è il caso dell'orazione De aurea aetate
dell'oratore papale Egidio da Viterbo[42] o dei panegirici di Giovanni
Michele Nagonio.[43]
Rivolgiamo ora la nostra attenzione alla descrizione del trionfo, a cui è
dedicata una lunga sezione dell'ultimo libro della Felsinais (6,143–408).
Un confronto tra le fonti storiche che si soffermano in maniera dettagliata
su questo evento e quanto Vida scrive a riguardo[44] evidenzia che il poeta
non ripercorre dettagliatamente le vicende, ma il suo interesse si appunta
unicamente su due aspetti, identificabili nella composizione del corteo
trionfale (6,161–265)[45] e nella figura del papa. Dopo aver riconosciuto
la nobiltà sul volto del pontefice, il suo nobile aspetto ed averlo
paragonato a Giove (272–292), il nostro poeta si esprime in questi termini
(366–374):

Nempe ut victor ovans non hic tua moenia lustrat,
sed qualem decet ire patrem. Non nulla virorum
ante triumphales series captiva iugales
visitur ire. Sonant nullae post terga catenae,
non regum exuviae, non praemittuntur onusto
quadrupedum tergo captivae pondera gazae.
Verum, o si liceat, si non arcana deorum
iussa vetent, cuperet veniam concedere victis
et profugos revocare duces ac reddere sceptra.

Le schiere di prigionieri, le catene, le spoglie dei re e il bottino di
guerra sono elementi propri del trionfo antico, i cui tratti precipui erano
noti all'inizio del XVI sec. grazie alla conoscenza del trentesimo libro
dei Libri ab urbe condita di Livio e per via delle rielaborazioni in chiave
letteraria offerte da Petrarca nei Trionfi e da Boccaccio nell'Amorosa
visione.[46] Il trionfo di Giulio II viene così collocato in un'atmosfera
classicheggiante, in cui il pontefice assurge al ruolo di imperator.
Ciononostante, egli rinuncia a mostrare prigionieri, catene e bottino di
guerra e si mostra disponibile a perdonare i nemici di un tempo; per questi
suoi atteggiamenti il papa è al contempo anche pater. In questi versi
sembrano, dunque, convivere due figure: quella dell'imperator, la cui
politica espansionistica è dettata dalla volontà di pacificare il mondo per
dare origine ad una nuova età dell'oro, a cui va a sovrapporsi quella del
pater, pronto all'esercizio della pietas nei confronti dei vinti.
L'immagine di Giulio II che ci restituisce questi versi è, in sostanza,
quella di un pius imperator.
Il pontefice non mostra la sua pietas unicamente nei confronti dei suoi
nemici, ma anche e soprattutto nei confronti delle sue truppe.
Significativi in questo senso sono alcuni episodi narrati nella sezione
odissiaca della Felsinais, in cui durante il difficile valico degli
Appennini, egli non solo sostiene moralmente il suo esercito (4,20–27), ma
decide di condividere la fatica con i suoi fanti rinunciando al cavallo
(3,804); infine, superate le difficoltà, mostrerà graditudine nei confronti
di quanti sono periti nell'impresa (4,205).
Nei libri della Felsinais che lo riguardano, Giulio II è dunque
rappresentato quale valente imperator, al contempo pius e iniziatore e
fondatore di una nuova aurea aetas.
Queste caratteristiche non possono che richiamare la figura di Enea così
come è presentata nell'Eneide: anch'egli è guida del suo popolo, fatto ben
evidente fin dalla caduta di Troia narrata nel secondo libro; è un abile
guerriero, come mostra il dodicesimo libro; è il pius per antonomasia, come
evidenzia il suo rispetto per gli dei e la sottomissione al loro volere che
pervade tutto il testo virgiliano; infine, egli è l'auctor, l'"iniziatore",
della stirpe romana, fatto più volte predetto nel corso del poema (Creusa
2,776–789; Apollo 3,94–98; Anchise 5,724–739; Sibilla 6,83–97) ed
effettivamente realizzato con il matrimonio con Lavinia.[47]
Come è noto, Virgilio menziona espressamente Augusto in due punti del suo
epos, nel sesto (792–807) e nell'ottavo libro (675–681; 712–723). Questi
passi restituiscono la figura di un imperator guida del suo popolo
(6,789–807 e 8,678); di un valente guerriero, come dimostra, ad esempio, la
battaglia di Azio (6,794–807; 8,678–681; 714–728); di un pius, in quanto
fondatore di templi (6,69–74; 8,715–719), restauratore della pace e fautore
della gloria di Roma (6,794–807; 8,720–728).[48]
Un dotto lettore della Felsinais all'inizio del Cinquecento avrebbe
associato senza alcuna difficoltà la figura del pontefice così come viene
presentata nella Felsinais con quella di Enea cantata da Virgilio,
consapevole che in quest'opera l'intenzione del suo autore era quella di
Augustum laudare a parentibus, come afferma Servio (Aen., prooem.,
4,11).[49] Di conseguenza, nel poema umanistico sembra che Vida ponga sullo
stesso piano tre diversi personaggi, Enea, Augusto e Giulio II, dotati
delle stesse caratteristiche e rappresentanti degli stessi valori. In
questa prospettiva Enea diventa il primo rappresentante della stirpe che ha
fondato Roma; Augusto ha il merito di aver portato questa civiltà al colmo
del suo splendore; Giulio II ha ora il compito di rifondare una nuova aurea
aetas, risultando così l'erede naturale di Enea e di Augusto. In quanto
tale, a lui spetta l'onore e l'onere di una renovatio imperii, concetto che
la propaganda papale fa proprio e che percepisce come conseguenza
dell'aurea aetas.[50]

L'analisi dell'Ars poetica vidiana ha permesso di attribuire ai concetti di
"inizio" e "fine" l'accezione di "avvio" e "conclusione" in riferimento ai
singoli episodi che compongono un testo letterario. Partendo da questo
presupposto, abbiamo considerato queste nozioni vere e proprie categorie
ermeneutiche, che, in quanto tali, hanno mostrato come la Felsinais sia
costituita da una serie di episodi, che, nella loro diversità,
costituiscono un'opera unitaria, senza contraddizioni interne e dotata di
una conclusione, in cui tutte le tensioni vengono risolte e in cui nessuna
questione viene lasciata aperta. Nelle modalità in cui i vari episodi che
compongono il testo vidiano si intersecano tra loro e si distribuiscono
all'interno dei vari libri ci è sembrato di riconoscere una forte
somiglianza con le strutture che la critica ha identificato nell'Eneide,
opera di cui il nostro autore per via della sua formazione può vantare una
conoscenza assai approfondita. Forte, dunque, della sua padronanza del
poema virgiliano, Vida autore attinge alle conoscenze del Vida lettore;
così facendo, il poeta rinascimentale fa ricorso alla propria memoria
letteraria, dando così l'avvio ad un procedimento in cui vecchio e nuovo si
fondono e il nuovo assume sulla base del vecchio nuove funzioni.[51]
Nell'ipotesto virgiliano l'autore della Felsinais sembra aver cercato,
dunque, un tessuto di relazioni che gli permettesse di generare un
analogon. Per arrivare a questo risultato è condizione necessaria che egli
non si rapportasse all'Eneide come a un esemplare immutabile, ma come una
sorta di matrice generativa da cui estrapolare convenzioni e norme proprie
del genere; il testo virgiliano offre, quindi, la struttura generativa, da
cui deriva il nostro ipertesto.[52]
Come ha mostrato l'analisi relativa alla figura di Giulio II, Vida riempie
la struttura della sua opera mutuata, come abbiamo visto, dall'Eneide, con
il racconto di eventi a lui contemporanei, in cui il testo antico è
continuamente evocato. Con questo procedimento il poema virgiliano si
carica di nuovi significati e funzioni, che permettono la decodificazione
del senso profondo della Felsinais. L'ideologia sottesa al poema antico
sembra essere adattata da Vida ai suoi tempi e alle sue esigenze e,
pertanto, la sua opera può essere ritenuta una sorta di continuazione
concettuale del poema virgiliano. Da questi procedimenti di ripresa ed
innovazione dell'epos virgiliano nasce, dunque, un poema di carattere
storico dallo spiccato carattere panegirico, tipologia di testo che tanta
fortuna conobbe tra XV e XVII sec.



Bibliografia

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Worstbrock, Franz Josef, Elemente einer Poetik der Aeneis. Untersuchungen
zum Gattungsstil vergilianischer Epik (Orbis antiquus 21), Münster 1963.



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[1] Per una breve descrizione del manoscritto, Kristeller, Oskar Paul, Iter
Italicum. A Finding List of Uncatalogued or Incompletely Catalogued
Humanistic Manuscripts of the Renaissance in Italian and Other Libraries,
vol. 2: Orvieto to Volterra. Vatican City, Leiden 1977, 485.
[2] A riguardo, Haye (2011), 123–138.
[3] Sulla biografia di Vida, oltre all'ampia trattazione offerta in Di
Cesare (1964) 1–39, basterà qui ricordare i contributi più recenti a
riguardo: Rolfes (2001) 15–25; Gardner (2009) VIII–IX; Haye (2011) 133–134;
von Contzen/Glei et alii (2013), 9–11, Pappe (2013) 9–10.
[4] Introduttivo su questo tema Salierno, Vito, Marco Gerolamo Vida.
Umanista cremonese del '500, L'Esopo 14, 1992, 44–45.
[5] Su questa figura e sul suo interesse per i classici, Pignatti, Franco,
Francesco da Mantova, in DBI 49, 1997, 792–793, spec. 792.
[6] Per un esaustivo esame di questo aspetto, mi permetto di rimandare
all'introduzione che precederà l'editio princeps della Felsinais, a cui sto
attualmente lavorando.
[7] A riguardo, Rolfes (2001) 19 con relativa bibliografia; Pappe (2013) 9.

[8] Il testo è edito e brevemente commentato da Williams (1976) e Pappe
(2013).
[9] In anni recenti Gardner (2009) ha offerto una traduzione della
Christias, corredandola di una breve introduzione e di un agile commento;
Contzen, Glei et alii (2013) hanno approntato una nuova edizione critica
del testo, che viene debitamente tradotto e dettagliatamente commentato.
[10] Sul canone offerto da Giulio Cesare Scaligero nella sua poetica,
Ludwig, Walter, Julius Caesar Scaligers Kanon neulateinischer Dichter, in:
Id. (Hg.), Litterae neolatinae. Schriften zur neulateinischen Literatur
(Humanistische Bibliothek, Reihe 1; Abhandlungen 35), München 1989,
220–241, spec. 224 e 231–232, da cui riporto la citazione.
[11] Girardi arriva ad ipotizzare perfino una somiglianza fisica tra Vida e
Virgilio, sottolineando in questo modo la grandezza del suo contemporaneo;
a riguardo, Di Cesare (1964) 1.
[12] Per un esame delle vicende narrate nella Felsinais, von Pastor (1926)
723–725; Sorbelli, Adriano, I Bentivoglio. Signori di Bologna, Bologna
1969, 135–140; De Benedictis (2004); Ead., Lo "stato popolare di libertà":
pratica di governo e cultura di governo, in: Ovidio Capitani (ed.), Storia
di Bologna, vol. 2, Bologna 2007, 899–950, spec. 933–943; Gardi, Andrea,
Lineamenti della storia politica di Bologna: da Giulio II a Innocenzo X,
in: Adriano Prosperi (ed.), Storia di Bologna, vol. 3, Bologna 2008, 3–59,
spec. 3–7.
[13] Deduco questa possibilità ermeneutica da Fowler (1989) 82–88, da cui
riprendo la terminologia.
[14] Oltre all'invocazione alle Muse, nell'esordio possono trovare spazio
in testi composti tra l'Antichità e il Rinascimento una pluralità di temi,
quali la rivendicazione della novità dei contenuti, la volontà di
trasmettere il proprio sapere, l'indicazione del dedicatario del testo,
mentre nella conclusione si ravvisano nello stesso arco di tempo la
presenza di particolari formule che la segnalano; sull'invocazione alle
Muse, Curtius, Ernst Robert, Letteratura europea e Medioevo latino
(Paperbacks Classici 1), Firenze 2002, 255–273; sulla topica dell'esordio e
della conclusione, ibidem, 104–106.
[15] Il caso più noto è rappresentato dal secondo proemio dell'Eneide
(7,37–45), su cui Alessandro Fo/Filomena Giannotti (ed.), Virgilio, Eneide,
Torino 2012, 718 con relativa bibliografia.
[16] Sul "supertextual grouping of works", Fowler (1989) 82–84.
[17] Su Giulio II oggetto di celebrazione da parte di poeti a lui coevi,
Haye, Thomas, Papst Julius II. (1503-1513) als Gegenstand lateinischer
Poesie. Francesco Rococciolos Iulonice und die Tradition der panegyrischen
Renaissance-Epik, in: WS 125, 2012, 165–187, spec. 165–167.
[18] Per qualche scarna notizia sulla Iulias, Di Cesare (1964) 3 e Rolfes
(2001) 19.
[19] Il caso esemplare è quello della sphragis finale delle Georgiche, il
cui ultimo verso è una citazione del primo verso della prima Egloga; a
riguardo, Fowler (1989) 83–84 ed Hardie (1997) 144–145.
[20] Per una panoramica sul contenuto dell'Ars poetica di Vida, Borsetto
(1990) 32–54 , Pappe (2013) 10–12; per una panoramica sulle ricerche
condotte su questo scritto, Rolfes (2001) 11–14.
[21] Riporto, con qualche modifica nell'interpunzione, il testo
dell'edizione dell'Ars poetica pubblicato da Pappe (2013).
[22] Su questi versi, Leroux (2008) 280–281.
[23] Già Orazio nella sua Ars Poetica (146–150) in versi molto ellittici
consiglia, sulla scorta dell'Iliade e dell'Eneide, di iniziare in medias
res il racconto delle vicende narrate in un testo lettarario ed evidenzia
la necessità di coinvolgere il lettore; per un esame di questi versi,
Brink, Charles Oscar (ed.), Horace, On Poetry, Cambridge 1971, 216; Cave
(1990) 211–212; Leroux (2008) 272–274. Per alcuni cenni relativi ai
commenti all'Ars oraziana composti a cavallo tra XV e XVI sec., Blänsdorf
(1980) 99–100 con relativa bibliografia.
[24] Vida chiarisce ulteriormente questo concetto, paragonando nella sua
Ars poetica (2,64–73) la lettura di un testo letterario ad un lungo viaggio
in mare.
[25] Sul concetto di suspendere animos in Orazio, Quintiliano e Vida, Cave
(1990) 211–214.
[26] Per una definizione del concetto di "closure", Fowler (1989) 78.
[27] Sulla struttura dell'Eneide rimangono ancora valide le affermazioni di
Richard Heinze, Virgils epische Technik, 51972, 436–441 e 446–458, su cui
Worstbrock (1963) 69–73; cfr., inoltre, ibidem, 33–69; Coleiro (1983),
76–93; Hardie (1997) 142–151.
[28] Sulla ricezione di Virgilio tra il XIV e inizio del XVI sec.,
Worstbrock (1963) 11–16; Wilson Okamura, David Scott, Virgil in the
Renaissance, Cambridge 2010, spec. 124–134; su Virgilio in quanto
rappresentante di una felix aetas destinata alla degenerazione e sulla
teoria vidiana della letteratura, Di Cesare (1964) 40–86; Borsetto (1990)
34–37; Rolfes (2001) 153–164; Pappe (2013) 18–21.
[29] Per una panoramica sul genere epico in epoca rinascimentale, Ijsewijn,
J., Companion to Neo-Latin Studies, vol. 2: Literary, Linguistic,
Philological and Editorial Questions, Leuven 21998, 24–37; Hofmann, Heinz,
Von Africa über Bethlehem nach America: Das Epos in der neulateinischen
Literatur, in: Jörg Rüpke (Hg.), Von Göttern und Menschen erzählen.
Formkonstanzen und Funktionswandel vormoderner Epik (Potsdamer
altertumswissenschaftliche Beiträge 4), Stuttgart 2001, 130–182; cfr. anche
Döpp, Siegmar, Claudian und die lateinische Epik zwischen 1300 und 1600,
Res publica litterarum 12, 1989, 39–50. Sulla produzione epica di Vida e
sulle diverse fasi in essa individuabili, von Contzen, Glei et alii (2013)
15–23.
[30] Le dinamiche esistenti in età rinascimentale tra poeta e mecenate nel
XVI sec. sono ben indagate in Schirrmeister, Albert, Triumph des Dichters.
Gekrönte Intellektuelle im 16. Jahrhundert (Frühneuzeitstudien, N.F. 4),
Köln 2003, spec. 23–35; 38–90.
[31] Per un esame della struttura della Christias, von Contzen, Glei et
alii (2013) 24–33, spec. 30–33.
[32] Questo procedimento sembrerebbe essere riconoscibile nel commento ad
Orazio di Antonio Mancinelli, che ha goduto, a seguito della sua
pubblicazione avvenuta nel 1493, di un'ampia diffusione; su questo aspetto,
Blänsdorf (1980) 99–100. Allo stato attuale delle ricerche i rapporti tra
Ars poetica e testi epici vidiani sono stati indagati dalla critica in
maniera assai marginale. Solo studi futuri su questo tema potranno definire
meglio le relazioni tra le diverse opere vidiane.
[33] Il secondo libro della Felsinais contiene un vero e proprio catalogo
degli alleati del papa, che offre a Vida l'occasione per introdurre una
dotta ekphrasis sulle città dell'Italia centrale che all'inizio del
Cinquecento appartenevano allo Stato della Chiesa. Ad esso va a
contrapporsi la rappresentazione degli alleati del tyrannus Bentivoglio,
descritti come montanari rozzi e contadini intellettualmente limitati che,
senza alcuna preparazione militare, si improvvisano soldati. Inoltre,
sempre nel secondo libro, due dei figli di Giovanni Bentivoglio, Annibale
ed Ermes, per ingannare l'attesa dell'arrivo delle truppe papali, inscenano
una finta guerra sotto le mura delle città, descritta non senza una certa
ironia nei minimi dettagli. A questa finta guerra si oppone quella vera,
narrata con dovizia di dettagli nel quinto libro. Mi propongo di trattare
esaurientemente questi temi in un prossimo contributo.
[34] Questa circostanza non può non richiamare alla memoria il trance della
Sibilla descritta nel sesto libro dell'Eneide. Tuttavia, l'analisi
comparata di Fels. 1,293–302 e di Verg., Aen. 6,45–51 non ha evidenziato
nessuna ripresa letterale del testo virgiliano. Tuttavia, mentre
nell'Eneide la Sibilla va in trance e rivela ad Enea il destino che aspetta
lui e la sua stirpe, nella Felsinais troviamo un indovino che rivelerà le
grandi azioni a cui il papa è destinato. La somiglianza contenutistica tra
i due passi lascerebbe suporre che Vida abbia rielaborato in questo
contesto un'immagine che un dotto lettore della sua epoca avrebbe potuto
facilmente associare al passo virgiliano.
[35] L'immagine della quercia riferita alla figura di Giulio II è ben
attestata anche in molti versi composti a sostegno o a sfavore della
spedizione contro Bologna; su questo aspetto, Rospocher (2007) 125–127 con
relativa bibliografia.
[36] Sul tema dell'incrementum ecclesiae, Rospocher (2007) 124.
[37] Su Giulio II guerriero e pacificatore, Rospocher (2007) 132–136.
[38] Per una panoramica sulla diffusione di questo topos, basterà in
questa sede rimandare a Gombrich, Ernst H., Renaissance and Golden Age,
JWCI 24, 1961, 306–309 e a Costa, Gustavo, La leggenda dei secoli d'oro
nella letteratura italiana, Bari 1972, che esamina le sue varie
declinazioni nell'ambito della letteratura italiana dalle origini a Tasso.
[39] Sull'associazione di Giulio II all'età dell'oro, Rospocher (2007)
123–129.
[40] Sui valori simbolici e sulle implicazioni di questo modus operandi, De
Benedictis (2004) 156 con relativa bibliografia.
[41] Il racconto del banchetto, durante il quale un giovane passa in
rassegna le gesta di Giulio II, richiama inevitabilmente alla memoria
quello narrato nel primo libro dell'Eneide (695–756), durante il quale
viene siglato un patto di amicizia tra Troiani e Cartaginesi e in cui
Didone, già innamorata di Enea, gli chiede di ripercorrere le vicende che
ha vissuto a partire dalla caduta di Troia fino al suo arrivo sulle coste
africane; per un'analisi strutturale di Verg., Aen. 1,723–756, Fernandelli,
Marco, Banchetto a teatro e teatro a banchetto: presenze nello Ione di
Euripide nel libro I dell'Eneide, Orpheus 23, 2002, 1–28, spec. 3–12. Una
lettura comparata del racconto virgiliano e di quello vidiano ha mostrato
come la loro struttura sia profondamente diversa e come, di conseguenza, il
poeta rinascimentale sviluppi questo tema, già presente nell'epica
classica, in maniera completamente autonoma.
[42] Il testo di questa orazione, preceduta da una breve presentazione del
suo autore e da una panoramica sul suo contenuto, è pubblicata in O'Malley,
John, Fulfillment of the Christian Golden Age under Pope Julius II: Text of
a Discurse of Giles of Viterbo, 1507, Traditio 25, 1969, 265–338.
[43] Sulla figura di Nagonio, Gwynne, Paul, Poets and Princes. The
Panegyric Poetry of Johannes Michael Nagonius (Medieval and Renaissance
Court Cultures 1), Turnhout 2012; rimando, inoltre, alla sezione finale del
mio Il manoscritto Torino BN F V 5 tra letteratura e potere: la costruzione
della figura di Giovanni Michele Pingonio, in corso di stampa su SM.
[44] Una dettagliata descrizione del trionfo è fornita sia dallo storico
bolognese Fileno delle Tuate nella sua Historia di Bologna dalle origini al
1511 conservata nel manoscritto Bologna, Biblioteca Universitaria, 1996,
sia
dal cerimoniere del papa Paride Grassi; il suo resoconto del trionfo
bolognese è edito in Frati, Luigi (Ed.), Le due spedizioni militari di
Giulio II tratte dal diario di Paride Grassi bolognese, maestro delle
cerimonie della cappella papale, Bologna 1886, 84–96, di cui fornisce una
breve sintesi von Pastor (1924) 739–740. Ulteriori fonti storiche relative
a questo evento sono elencate in Mitchell, Bonner, Italian Civic Pageantry
in the High Renaissance (Biblioteca di Bibliografia Italiana 89), Firenze
1979, 15–17. Per un'analisi a riguardo, De Benedictis (2004) 141–144 e Muir
(2005) 269.
[45] Vida si sofferma lungamente sulla descrizione della composizione del
corteo papale. Aperto da fanti e cavalieri, ad esso prendono parte anche i
senatores di Bologna, seguiti da francescani, domenicani, carmelitani,
certosini, geronimiti e benedettini. In questo contesto l'autore si
sofferma non senza una certa ironia su una lite scoppiata tra francescani e
benedettini relativamente alla posizione occupata dai rappresentanti dei
due ordini nell'ambito del corteo trionfale, alludendo molto probabilmente
alle dispute che per secoli li hanno contrapposti.
[46] A riguardo, Strong, Roy, Art and Power. Renaissance Festivals
1450–1650, Woodbridge 1984, 44; nell'ambito dei numerosissimi studi
dedicati alle caratteristiche e ai significati del trionfo rinascimentale,
basterà in questa sede rimandare a Garbero Zorzi, Elvira, L'ingresso
trionfale e il banchetto d'onore, in: Ead./Sergio Romagnoli (edd.), Scene e
figure del teatro italiano, Bologna 1985, 63–80; Visceglia Maria
Antonietta, La città virtuale. Roma e le sue cerimonie in età moderna (La
corte dei papi 8), Roma 2002, 17–51; Muir (2005) 252–293.
[47] Su queste caratteristiche di Enea, Coleiro (1983) 81–84.
[48] Sulla sovrapposizione del personaggio di Enea con Augusto, Coleiro
(1983) 81–84.
[49] Per l'edizione di riferimento del commento di Servio all'Eneide,
Thilo, Georg Christian (Hg.), Servii grammatici qui feruntur in Vergilii
carmina commentarii, vol. 1: Aeneidos librorum I–V commentarii, Leipzig
1881.
[50] Sul concetto di renovatio imperii, Rospocher (2007) 129–132, il quale
evidenzia come, oltre all'associazione con le figure di Enea ed Augusto
ravvisabile nella Felsinais, Giulio II fosse spesso paragonato a Giulio
Cesare nei panegirici a lui dedicati dagli intellettuali che ruotavano
intorno alla curia romana; questo paragone viene ripreso in chiave negativa
da Erasmo da Rotterdam e da Ulrich von Hutten.
[51] Sulla memoria letteraria dei poeti e sull'economicità dell'arte
allusiva, Conte/Barchiesi (1989) 81–88, su cui cfr. anche Conte, Gian
Biagio, Memoria dei poeti e sistema letterario (La nuova diagonale 96),
Palermo 2012.
[52] Sulle modalità che portano alla nascita di un nuovo testo, partendo da
un "Modello-Esemplare", Conte/Barchiesi (1989) 93–96.
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