Rapporto medico-paziente straniero

July 4, 2017 | Autor: Fantauzzi Annamaria | Categoria: Medical Anthropology
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Annamaria Fantauzzi

Il rapporto medico-paziente immigrato. (In)comprensione e pratiche di mediazione linguistica e culturale 1

Nuova tendenza o ritorno al passato?

La nuova tendenza è quella di curare, senza alcuna discriminazione né restrizione, oppure di limitare le cure, denunciare, sottrarre a un individuo il diritto di soffrire? Quando, nella primavera del 2008, si è iniziato a parlare di «reato di clandestinità» e di dovere, per i medici e tutti gli operatori sanitari, di denunciare coloro che si trovassero in una situazione di irregolarità e di non prestare loro alcun tipo di cura, gli ambulatori e le strutture dedicate agli immigrati hanno registrato un forte calo di presenze, accompagnato da una paura dilagante che ha portato, talora, a episodi gravissimi. Un esempio tra tutti è quello di una donna quarantenne, ucraina, Vira Orlova che, da due anni in Italia, pur perdendo molto sangue, forse a causa di un aborto spontaneo, è morta rifiutando di andare in ospedale per paura di essere denunciata; oppure il caso di Joy Johnson, una ragazza nigeriana di 24 anni, affetta da tubercolosi polmonare che non ha accettato di andare in ospedale per timore della denuncia, morendo. Il decreto legge trasforma l’immigrato in un corpo privo del diritto di essere persona, di soffrire, di ammalarsi e, quindi, di essere curato. Esso si pone contro l’art. 32 della Costituzione, che recita: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti» e contro il DDL n. 286 del 1998, allora approvato da un governo di centro-sinistra e confermato nel 2002 da un governo di centro-destra, che prevedeva l’obbligo di prestare soccorso e cure anche agli stranieri temporaneamente senza permesso di soggiorno1.

Annamaria Fantauzzi, docente di Antropologia Medica e Culturale all’Università di Torino e ricercatrice in Etnopsichiatria all’EHESS-Parigi; responsabile dell’Osservatorio Nazionale per la cultura del dono del sangue di AVIS Nazionale; visiting professor di Antropologia delle migrazioni e Antropologia culturale alle Università di Rabat-Agdal, Casablanca e Beni Mellal.

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La recente legislazione ridurrebbe il corpo del migrante e dello straniero non regolare alla negazione stessa della salute, all’esposizione al rischio di morte, alla dis-corporazione in nome di una negazione identitaria che viola fondamentalmente il diritto universale di essere uomo. Dopo l’estate 2008, nonostante la diffusione del divieto per i medici e gli operatori sanitari a denunciare pazienti clandestini, in alcune strutture sanitarie si sono registrate denunce di immigrati irregolari2. Così facendo, il medico è venuto meno al codice deontologico, divenendo passibile di denuncia a sua volta, come previsto dal Codice penale sul riserbo concernente il referto medico (art. 365, c. 2). Quanto accaduto ha compromesso ulteriormente un rapporto già di per sé difficile e complesso, quello tra medici e pazienti immigrati, poiché, pur senza essere irregolari, questi ultimi sono stati spesso vittima di una vera e propria ossessione nosografica, considerati «untori» e forieri delle malattie più nocive per il paese d’approdo. Testimonianza di questo è la storia del rapporto tra i due ruoli che, dall’inizio del fenomeno migratorio a oggi, si snoda attraverso le tre fasi cosiddette dell’esotismo o «esotizzazione della sofferenza», prendendo a prestito la proposta di Farmer (2003), dello scetticismo e del criticismo sanitario (Geraci, 1995). La paura del corpo dell’altro e il controllo politico dello stesso sembrano essere non tanto una tendenza del presente quanto un ritorno a ciò che il passato ha già insegnato.

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Sindromi pregiudiziali, malattie importate e patologie indotte

Agli inizi del fenomeno migratorio i due ruoli vennero condizionati da aspettative «pregiudiziali» reciproche, che sono state definite da due sindromi, quella di «Salgari» e del «General Hospital». La prima, che colpì prevalentemente gli operatori sanitari, soprattutto con le presenze di africani subsahariani in Italia, si traduceva nella visione dell’altro come portatore di malattie tropicali, alle cui patologie il medico attribuiva i nomi più fantasiosi, sebbene il quadro epidemiologico dimostrasse che, generalmente, gli immigrati si ammalavano una volta giunti in Italia e delle stesse malattie degli autoctoni. Questo atteggiamento prese ironicamente nome dallo scrittore veronese Emilio Salgari, il quale, «senza aver mai visitato i paesi tropicali, [...] scriveva sognando ad occhi aperti di mondi dove quei dati di diversità che egli traeva dalla consultazione nelle biblioteche, servivano ad alimentare la categoria del

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meraviglioso dei suoi libri. [...] Come Salgari i più bei nomi della medicina accademica italiana, senza aver conosciuto la medicina dei migranti, senza aver forse, mai visitato un immigrato, hanno scritto nei termini di un meraviglioso arrivo di patologie misteriose» (Colasanti, in Colasanti e Geraci, 1990, 83). Analogamente, al suo arrivo, l’immigrato soffriva di quella «sindrome da General Hospital» per cui era condizionato dallo stereotipo di una ipertecnologia sanitaria del sistema occidentale, descritto come miracoloso ed estremamente efficiente dalle immagini televisive e dal racconto dei precedenti migranti; in esso si poteva riporre fiducia, contrariamente alla pessima offerta sanitaria del paese di provenienza. Nella fase dello scetticismo sanitario, in cui vennero ridimensionate tanto le visioni esotiche del medico quanto le speranze dell’immigrato, il rapporto tra i due ruoli andò mutando soprattutto grazie all’introduzione del concetto di «effetto migrante sano» che «fa probabilmente la sua prima apparizione nei migration studies nel 1929, nello studio di C. Raymond-Duchosal, Les étrangers en Suisse: étude géographique, démographique et sociologique, Parigi, F. Alcan. L’osservazione delle buone condizioni di salute degli stranieri, migliori in media di quelle della popolazione autoctona, ha consentito di mettere in luce il processo di selezione operante alle origini dei flussi migratori» (Molina, 2008, 96, n. 1). Gli operatori presero coscienza, dunque, del fatto che avvenisse una selezione «naturale» dei soggetti destinati a partire, già prima dell’emigrazione, poiché sarebbero stati scelti soltanto coloro che fossero risultati in buona salute e capaci di tollerare il peso dell’intero processo migratorio. Ad arrivare erano persone in uno stato di salute migliore non solo dei connazionali ma anche dei cittadini autoctoni. Oggi, con il mutare del profilo del migrante e delle reti migratorie che favoriscono soprattutto partenze «indotte» e non selezionate (in particolar modo per ricongiungimenti familiari), il concetto dell’«effetto migrante sano» entra in crisi e lascia il posto all’analisi dello stato di salute e di malattia della popolazione immigrata, considerando le condizioni di vita determinate sia dal contesto d’arrivo che da quello di partenza. La malattia, tuttavia, sembra essere insita alla condizione del migrante, nei termini di spaesamento, di abbandono dell’ambiente d’origine e della catena familiare, di nostalgia, intesa etimologicamente dal greco come «dolore del ritorno» e considerata, soprattutto dall’etnopsichiatria del XX secolo, una forma di «psicosi degli immigrati [...], un’arma per fronteggiare dilemmi esistenziali, incertezze, al tempo stesso cercando di reperire nel proprio passato risorse emotive e assertive» (Beneduce, 2007, 245-246). In questa prospettiva, Nicola Pasini (2005), come altri scienziati sociali impegnati nello studio della medicina della migrazione, ha individuato una tripartizione delle tipologie di malattia relative allo status dell’immigrato, oggi

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in parte superata grazie alle nuove politiche sanitarie e ai sistemi d’inclusione/ esclusione degli stranieri. La tripartizione proposta in malattie di importazione, di adattamento e di acquisizione, si fonda sulla constatazione che la dinamica migratoria, come il contesto sociale, economico e politico d’accoglienza, influisce sulla salute dell’immigrato in base al periodo d’emigrazione. Quelle che Pasini definisce malattie d’importazione possono essere legate a differenti eziologie: a fattori ereditari del paese d’origine (talassemia e anemia falciforme, ad esempio), che incontrano un miglioramento con un duraturo e prolungato stanziamento nella società d’immigrazione; a consuetudini quotidiane del contesto di provenienza, come l’alimentazione e l’esposizione a sostanze tossiche o, causa dell’appellativo di «untori» nella società d’accoglienza, a quegli agenti patogeni infettivi e trasmissibili, endemici nei propri paesi (tubercolosi, malaria, HIV, HBC). Alcune di queste malattie, in realtà, sorgono nel contesto di immigrazione per la promiscuità abitativa, l’insicurezza dell’occupazione lavorativa, il cambiamento delle abitudini alimentari e dei comportamenti sessuali. A esse si aggiungono le malattie di adattamento, connesse essenzialmente al trauma causato dalla partenza stessa e alla fragilità sociale in cui l’immigrato si trova a vivere, nel contesto d’arrivo. Questo tipo di malattie è causato prevalentemente da uno stress psico-fisico relativo all’acquisizione di una condizione di legalità e regolarità (lingua, permesso di soggiorno, ricerca di un’occupazione), oltre che alla necessità di soddisfare le aspettative della famiglia d’origine o di coloro che hanno permesso e favorito il processo d’emigrazione. A questa tipologia nosologica succede la terza, relativa alle malattie d’acquisizione, legate prevalentemente a condizioni igienico-sanitarie precarie, con le quali l’immigrato impara a convivere anche dopo diversi anni di presenza sul territorio ospitante. La considerazione di questi ultimi fattori permette di integrare (e, talora, sostituire) la valutazione di tipo culturalista della malattia (e della salute) secondo la quale, ammessa la limitatezza del sistema biomedico dominante, si è soliti interpretare le problematiche dell’immigrato a partire dai sistemi culturali di provenienza. Questo approccio, importato in Italia dagli studi etnopsichiatrici condotti in Inghilterra e Francia, da un lato, favorisce una maggiore negoziazione dei significati di malattia e di salute tra terapeuta e paziente, dall’altro, se impiegato impropriamente, può generare un’operazione di etnicizzazione, per la quale la cultura dell’immigrato è vista come un sistema fisso, immobile e chiuso, incapace di ammettere soluzioni diverse rispetto a quelle di cui è portatore3. Inoltre, l’eccessivo culturalismo può allontanare il medico dalla ricerca delle reali cause del malessere del paziente, giustificate aprioristicamente con il ricorso al suo sistema culturale: ne è un esempio il fatto che, nella Parigi degli anni ’90, soprattutto bambini africani subsahariani

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fossero colpiti da una forma di saturnismo infantile che, spiegato inizialmente con motivazioni culturaliste, si era poi verificato in bambini indiani abitanti in Inghilterra (Naudé, in Fassin, 2000, 13-22). Nel rapporto medico-paziente immigrato appare oggi sempre più incombente la necessità di un «criticismo sanitario» (Geraci, Maisano e Mazzetti, 2005, 41) che permetta di coniugare i due approcci qui analizzati, nel tentativo di evitare, da un lato, il rischio di un eccessivo culturalismo, dall’altro, l’applicazione di un etnocentrismo biomedico ghettizzante. Ciò permetterebbe di liberare i due attori da ogni forma di pregiudizio o di aspettativa miracolistica e di tradurre il rapporto in un incontro, nella negoziazione di significati condivisi, attraverso la quale l’immigrato è inserito (totalmente o parzialmente, in base alla sua condizione sociale) nel sistema sanitario, non solo (non più) come fruitore ma anche come attore partecipe4.

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(In)comprensione, mediazione, traduzione tra efficacia e legittimità5

Il rapporto medico-paziente immigrato, così indagato, rientra nelle prospettive di quell’ambito di studi definito come «Medicina delle Migrazioni», che è la riflessione sulla formazione degli operatori alla transculturalità che è essenzialmente umanizzazione e personalizzazione della relazione, del processo terapeutico con tutte le persone, in una «mediazione di sistema» che accoglie, trasforma e, se necessario, cura. La medicina delle migrazioni è impegno contro la generalizzazione ed il pregiudizio che fa dell’altro l’escluso, il lontano, il diverso anche nei diritti e nella dignità. Questa è stata ed è la Medicina delle Migrazioni nel nostro Paese, è quel processo culturale che fa degli immigrati i «nuovi cittadini» in un’ottica di reciprocità e corresponsabilità (Geraci, 2008, 94, corsivo nostro).

Ciascuno dei punti sottolineati da Geraci è utile a definire il confronto tra i due ruoli qui considerati, partendo dal presupposto che, a differenza di quanto possa accadere con pazienti autoctoni, in questo «nuovo» rapporto si avverte maggiormente la necessità di una cura della relazione, della conoscenza dell’altro e delle sue esigenze, garanzia di un accettabile livello di comprensione e di compliance (Taussig, 1980) tra medico e paziente, finalizzato a una condivisione delle pratiche e dei significati dell’atto medico e dell’assistenza. La cura della relazione e la conoscenza dell’altro derivano, in primo luogo, dalla comprensione reciproca, non solo puramente linguistica ma

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anche, e soprattutto, culturale; in secondo luogo, dalla costruzione di comuni percorsi di «complicità» volti a capire e affrontare la malattia. A tal proposito, appare funzionale la divisione proposta da Mazzetti (in Pasini e Picozzi, 2005, 77-84; Mazzetti, 2005) relativamente ai cinque livelli di difficoltà comunicativa che possono sorgere tra medico e paziente straniero, su cui, già negli anni ’80, i fondatori della Medicina delle Migrazioni avevano riflettuto. Al primo livello, prelinguistico, che riguarda la difficoltà di riconoscere e di esprimere il proprio vissuto e le sensazioni interiori, nella prospettiva del modello dell’antropologia medica anglosassone, per la quale la malattia va intesa anche come costrutto simbolico, oltre che organico, e la medicina come un’interpretazione ermeneutica6, segue quello linguistico, ovvero l’utilizzo di due idiomi differenti non solo nel lessico ma anche nel messaggio semantico, che non possono essere esattamente sovrapposti. Mazzetti riporta l’esempio del termine kili che, in somalo, «vuol dire reni, ma kili in somalo identifica l’area cutanea addominale antero-laterale, mentre in italiano per reni si intende, nel linguaggio quotidiano, l’area dorsale latero-rachidea [...]. Un italiano quando dice cha ha mal di reni vuol dire che ha una lombalgia. In somalo può voler significare un dolore della regione del colon ascendente o discendente [...]» (Mazzetti, in Pasini e Picozzi, 2005, 78). A questo secondo livello, si aggiunge l’altro metalinguistico, che si riferisce all’apparato simbolico a cui corrispondono termini specifici che dipendono dal soggetto parlante e dalla cultura di appartenenza. Ne è un esempio l’interpretazione semantica del mal di cuore, proposta da Mazzetti nella sua traduzione francese «avoir mal au coeur», che indica sia «avere male al cuore» sia «avere nausea o mal di stomaco»; oppure il caso del mal di cuore studiato da Good (1977) nel contesto iraniano, in cui non ci si riferisce a un’entità patologica reale ma a un complesso di sensazioni generate da situazioni che rendono il cuore angosciato e inquieto (reali patologie come l’anemia o malattie cardiache oppure situazioni emotive forti come un lutto oppure l’ansia per una gravidanza). In questo caso, la malattia diventa una rete simbolica radicata e condizionata dall’assetto strutturale in cui si manifesta o viene percepita come tale. Il quarto livello di comunicazione, quello culturale, include, in qualche modo, i precedenti, in quanto mette in luce come dietro a ogni concetto ed espressione ci sia un sistema di pensiero e di rappresentazione semantica che varia in base ai soggetti e alle condizioni in cui avviene la comunicazione. Soprattutto gli operatori sanitari dichiarano la consapevole impossibilità di apprendere tutti i riferimenti culturali dei loro pazienti, dovuta anche alla pluralità etnica del fenomeno migratorio in Italia e al continuo mutamento delle presenze con cui entrano in contatto7. Il quinto livello, metaculturale, indica lo scarto che avviene tra dichiarazione cosciente del paziente e dimensione inconscia che essa

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sottintende: esso è ben illustrato dall’esempio di una paziente musulmana che, per seguire le regole di Ramadan nel contesto migratorio, non rispetta le prescrizioni farmaceutiche o ne deferisce l’impiego, non tanto (o soltanto) per seguire il precetto religioso, quanto perché in esso ritrova quella forma di appartenenza identitaria, della cui conferma non ha bisogno nel contesto d’origine, dove potrebbe derogare lo sawm (il digiuno) per seguire le terapie prescritte (Mazzetti, in Pasini e Picozzi, 2005, 82). Marya, donna berbera di circa sessant’anni, residente a Torino dal 1990, affetta da diabete mellito, è obbligata dal medico curante italiano a rinunciare al digiuno, pur dimostrando un forte risentimento; al contrario, tornata nella sua casa di Ouarzezete, in anni precedenti, per festeggiare la festa di fine Ramadan, pur senza la prescrizione del medico marocchino, si è astenuta dal digiuno rituale8. Ciò che emerge dalle difficoltà che caratterizzano il rapporto medico-paziente non è imputabile esclusivamente alla mancata conoscenza della lingua dell’altro ma alla difficoltà di capirne il sistema di pensiero e le reti simboliche che ne caratterizzano lo stato di paziente. Si tende, tuttavia, a sottolineare l’incapacità di comunicazione linguistica tra i due attori e la necessità, da parte del medico, di ricorrere a un linguaggio simbolico o alternativo: «Non riuscivo a spiegare che cosa fossero le ghiandole salivari per capire se quella donna ucraina avesse un’infezione. Prima ho cercato di indicargliele sul mio corpo, poi ho abbozzato anche un disegno... spero poi che l’abbia capito» (Mauro, medico di base, Torino). Un medico dermatologo, rivolgendosi a una giovane marocchina da pochi anni in Italia, ha cercato di chiedere se avesse dei tatuaggi, disegnandone anche alcune tipologie; la donna marocchina ha risposto affermativamente, intendendo, invece, la pittura all’henné, che in italiano viene indicata impiegando lo stesso termine riferibile al tatuaggio indelebile, sebbene in dialetto marocchino e in lingua araba le due pratiche si differenzino, anche per il significato culturale e religioso che sottendono. Il vero tatuaggio (washm), di origine berbera e praticato in tutto il Marocco esclusivamente dalle donne, fu proibito con l’avvento dell’Islam, che lo ritenne un atto eretico («la scrittura di Iblis», cioè di Satana, come molte donne confermano) e condannato come offesa verso la natura che Dio ha destinato all’uomo e al suo corpo (Fantauzzi, 2008a; 2008c; 2009b). Ad esso la donna marocchina suole sostituire la pittura all’henné (naqsh): una sostanza di estrazione vegetale, facilmente removibile, con cui decora il dorso delle mani o il collo del piede e la caviglia, soprattutto nelle cerimonie familiari, come la festa del settimo giorno (sbûa) per la presentazione pubblica del bambino appena nato, per la sua circoncisione (khitan), tuttora poco praticata nel contesto d’immigrazione, nelle cerimonie di fidanzamento e nei matrimoni (khotoba; zawag) o nelle due

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feste religiose. Soltanto la spiegazione del termine e del suo valore semantico, ha permesso al medico di comprendere la risposta della donna e analizzarne le caratteristiche somatiche. Al livello di incomprensione linguistica sono sempre associati gli altri due, quello culturale e quello metaculturale. Gianni racconta, sottolineando la difficoltà di fare una diagnosi su alcuni casi di pazienti immigrati: «Non è tanto questione di fargli capire questo termine o l’altro ma capire quello che c’è dietro a questo termine o all’altro. A volte magari tu intendi una cosa che, nella loro lingua, significa esattamente il contrario. E se non ti capisce bene, sono guai anche per te, perché non riesci a fare una vera e propria diagnosi» (Gianni, medico pediatra, Torino). Nella diversità dei livelli culturali, dunque, la traduzione non può essere soltanto linguistica ma anche semantica: in questo, il medico assume su di sé una responsabilità maggiore rispetto a quella necessaria nel rapporto con un paziente autoctono, di cui condivide quel sistema di rappresentazioni e di saperi che supplisce anche a un’eventuale incomprensione puramente linguistica. Per questa serie di ragioni, sono oggi presenti, nella maggior parte delle strutture sanitarie, dei mediatori culturali. Si potrebbe parlare di due figure di mediazione sia linguistica che culturale: il mediatore di comunità e il mediatore culturale (professionista). Il primo viene identificato con quell’immigrato che fa della sua competenza bi-linguistica e della conoscenza del sistema sociale (e, spesso, sanitario) del contesto d’immigrazione una ricchezza, mettendosi a disposizione dei connazionali, nella maggior parte parenti, per un aiuto o un accompagnamento in strutture pubbliche e private in cui debbano essere sottoposti a visite mediche o rivolgersi a specialisti. Egli è riconosciuto come tale non necessariamente da un diploma o da una qualifica professionale, ma, più spesso, dalla fiducia e dalla responsabilità che il gruppo gli conferisce. Si è riscontrato che, soprattutto tra gli immigrati di origine maghrebina, è quasi sempre il marito ad accompagnare la moglie e, spesso, a parlare al suo posto al medico; qualora manchi questa figura, simbolo anche di sicurezza e di controllo per la donna (soprattutto per coloro che sono giunte in Italia a seguito di ricongiungimenti familiari e che non conoscono bene o affatto la lingua italiana), sono i figli a farsi interpreti delle esigenze e delle richieste delle madri: «Mia madre dice che le devo dire che ha male alla pancia da qualche giorno ma non sa perché. Ha preso anche alcune erbe che vengono da casa sua, cioè dei miei nonni, ma niente. Che deve fare?» (nello studio del dr. Mauro, medico di base, Torino). In mancanza di un membro della famiglia, che meglio può riferire la condizione dell’interessata, rispettandone la privacy e l’intimità culturale, ci si rivolge alle giovani connazionali, istruite e inserite nel contesto d’emigrazione in forme lavorative affini a quelle svolte dai mediatori professionali

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(interpreti, impiegati nei centri d’accoglienza o presso l’Ufficio stranieri). Le donne dell’est Europa, invece, come coloro che provengono dall’America Latina, vengono accompagnate spesso da amiche e compagne con cui condividono il processo migratorio o che le hanno accolte e guidate all’inizio del proprio. Al contrario, gli uomini, che meglio conoscono la lingua italiana, si rivolgono alle strutture sanitarie o agli ambulatori medici autonomamente, preferendo, tuttavia, soprattutto per i musulmani, operatori sanitari dello stesso sesso (diverse sono le testimonianze di infermiere che si sono viste allontanare, seppur gentilmente, dal paziente musulmano e, ugualmente, casi in cui medici maschi, soprattutto se ginecologi, sono stati poco graditi dalle donne in visita, accompagnate dai propri mariti). Nel caso del mediatore di comunità, dunque, ci sarebbe una perfetta coincidenza dei livelli culturali e metaculturali tra lui e il paziente (ma non necessariamente con il medico), che potrebbe generare persino meccanismi di reticenza da parte del malato o il rischio di un impoverimento o, quantomeno, di una riduzione del messaggio che il mediatore trasmette al medico. Ciò è evidente se si considerano quelle domande relative alla sfera privata e intima del paziente che mettono in gioco quel senso dell’onore (soprattutto per l’uomo) e del pudore (per la donna), compromessi di fronte a una persona della stessa cultura e, talora, dello stesso gruppo di appartenenza. Durante una consultazione ginecologica, il medico chiede alla giovane Samira, accompagnata da Nadia, sua cognata giunta in Italia molti anni prima di lei, se abbia avuto dei rapporti extraconiugali (lei è partita dal Marocco per ricongiungimento familiare). Si legge sul volto e dalle parole titubanti di Samira il pudore e la vergogna di chi ha commesso una colpa che non può essere, in quel contesto, spontaneamente rivelata, seppur sia necessario. Samira chiede in dialetto a Nadia se può riferire al medico di non aver mai avuto rapporti al di fuori di quelli coniugali e aggiunge che, se fosse diversamente, certamente lo direbbe. Il mediatore di comunità, se riesce a carpire il significato anche del linguaggio non-verbale, della gestualità e delle espressioni somatiche, perché foriere di un insieme di codici normativi condivisi, tuttavia, a causa di questa stessa empatia, può ostacolare il superamento di quel sistema culturale che imprigiona gli individui che vi partecipano, producendo una comunicazione alterata (falsata) tra il paziente e il medico. Egli è un buon traduttore che, come scrive Asad, riesce a penetrare dentro la cultura dell’altro e a comprenderla fino in fondo (Asad, in Clifford e Marcus, 1997, 183); tuttavia è anche un traduttore «troppo» implicato nel sistema culturale di cui si fa interprete e da cui, per questo, viene intrappolato. Al contrario, la fiducia di cui il mediatore di comunità è investito da parte dei membri del gruppo si traduce in una sorta di dipendenza

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dell’immigrato dal suo connazionale, che lo facilita nel processo di dialogo, di approccio e di lenta inclusione nella società ospitante. È quanto sostiene Nadia, che ha accompagnato non solo sua cognata ma anche altre amiche marocchine a visite mediche, soprattutto ginecologiche o pediatriche: «È un fatto di sicurezza, perché vedono che sono della cultura uguale, che penso come loro insomma e, quindi, ...si sentono più sicure e a volte mi chiedono pure se quello che gli ha detto il medico è giusto... ma io che ne so, mica sono medico?... così ti fanno tutte le domande che vogliono, perché vogliono sapere, vogliono conoscere ma, certo... no da sole!». L’omogeneità dà sicurezza, l’identità allontana la diversità e il rischio di dispersione in essa; l’immigrato tende a restare entro i confini della propria appartenenza culturale, per timore dell’esterno e, soprattutto, di un’inadeguatezza verso il gruppo e l’alterità. L’altra figura di mediazione, presente all’interno della maggior parte delle strutture sanitarie, è quella del mediatore culturale, termine significativamente rispondente all’esigenza di porsi tra due realtà culturali, di trovarne un compromesso, di metterle in comunicazione. Questa figura, prima di essere istituzionalizzata, nasce, intorno agli anni ’90, in seno alle associazioni etniche (come mediatore di comunità, dunque), in cui i primi-immigrati, che parlano almeno due lingue (quella d’origine e quella d’arrivo, e, normalmente, anche una «lingua franca» – normalmente il francese o l’inglese) si fanno interpreti e mediatori delle istanze dei nuovi arrivati. Questa figura è andata progressivamente istituzionalizzandosi all’interno dei servizi e dei centri con un’utenza anche o esclusivamente straniera; ne è derivata, inoltre, la creazione di un complesso sistema di formazione e di educazione (corsi regionali, convegni, master specialistici anche per non laureati), cui partecipano, oggi, sempre più immigrati soprattutto di seconda generazione9. Egli è impiegato all’interno dei servizi rivolti agli stranieri, provenienti dal suo stesso Paese o, almeno, da un’area linguistica comune (ad esempio, un mediatore culturale marocchino potrà rivolgersi a suoi connazionali o a persone di lingua araba, che siano maghrebini, pakistani oppure sauditi). La sua certificazione, tuttavia, non è garanzia di una rigorosa metodologia della traduzione e della mediazione, scarsamente avvertito dei rischi di vedersi trasformato in enunciatore culturale [...] e ancor meno preparato a una teoria della Cultura fondata sull’idea della sua ambivalenza strutturale sulla consapevolezza che «le “radici” di ciascuno sono state in qualche modo recise» (ivi, 118), e sulla disponibilità a considerare la cultura e l’identità culturale come campi di forze ambigui, sottoposti a incessanti dinamiche di manipolazioni, metamorfosi, occultamento e creazione (Beneduce, 2007, 292-293).

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In questo modo, egli si rende protagonista del «rito della traduzione», svolgendo un ruolo attivo all’interno del rapporto tra il medico e il paziente e permettendo l’accostamento di ambiti linguistici e culturali differenti. Questa tipologia di mediatore potrebbe garantire una certa oggettività al processo di mediazione, un distacco professionale che lo associa, come ancora Beneduce ricorda, alla figura del cultural broker, mediatore tra popolazione locale e autorità coloniali. Se adeguatamente istruita in base al contesto in cui si trova a operare, questa figura permetterebbe di ridurre il livello di incomprensione dei due attori, tra loro estranei, pur compromettendo la riservatezza del colloquio e la privacy del paziente, che è dipendente dalla resa non solo linguistica ma soprattutto semantica del proprio vissuto a opera di un estraneo. Il rapporto medico-paziente immigrato sollecita a riflettere, dunque, non solo sull’importanza della comprensione linguistica, che implica una buona o pessima comunicazione e comprensione da entrambe le parti, ma anche sull’attenzione che deve essere prestata alla traduzione semantica di due sistemi culturali differenti i quali, se non ben decifrati (anche quando ci sia un buon intendimento linguistico), potrebbero compromettere l’obiettivo stesso del rapporto. Questi fattori, da un lato, delineano una tipologia di paziente «particolare», a volte percepito come di «“serie b”, perché da trattare in modo differente dagli altri, con più riguardo ma spesso con più discriminazione» (Marya, donna berbera, a Torino dal 1990), dall’altro testimoniano la realtà della differenza culturale che, se serenamente risolta in una negoziazione di significati condivisi, si risolve in comprensione e complicità: elementi che contraddistinguono (o almeno dovrebbero) il rapporto tra un medico e un paziente.

Bibliografia Atighetchi D. (2002), Islam, musulmani e bioetica, Roma, Armando Editore. Beneduce R. (2007), Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra Storia, dominio e cultura, Roma, Carocci. Bertini A. et al. (a cura di) (2007), Fragilità sociale e tutela della salute: dalle disuguaglianze alla corresponsabilità, Atti del IX Convegno Nazionale dell’Istituto Superiore di Sanità, Roma, 13 dicembre 2006, Rapporti ISTISAN. Bronzini M. (a cura di) (2009), Sistemi sanitari e politiche contro le disuguaglianze di salute, Milano, Franco Angeli. Clifford J. e Marcus G.E. (1997; ed. or. 1986), Scrivere le culture. Poetiche e politiche dell’etnografia, Roma, Meltemi.

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Il rapporto medico-paziente immigrato

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Note

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Già nel 1995, il ministro della sanità, Elio Guzzanti, in Commissione parlamentare, affermò: «Come posso [...] ignorare che si tratta di persone che mettono a rischio la loro esistenza e che indirettamente potrebbero costituire un pericolo per la comunità nazionale?» (cfr. Geraci, 2009, 271).

Annamaria Fantauzzi

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Si ricordi il caso della ragazza irregolare arrestata dopo l’aborto a Treviso, cfr. http://temi.repubblica.it/metropoli-online/treviso-ragazza-irregolare-arrestata-dopoaborto/?h=1.

3

Per una trattazione specifica della prospettiva culturalista, si rinvia a Kelleher e Hillier, 1996; Caputo, in Pasini e Picozzi, 2005, 99-132; Beneduce, 2007, 117-146. Sul dibattito tra antropologia ed etnopsichiatria francese, relativo al trattamento «culturalista» delle malattie legate all’immigrazione, si veda Giacalone, 2007, 176-177.

4

Sul rapporto malattia/salute e immigrazione, nel contesto italiano, si rinvia a un ricco repertorio bibliografico che annovera pubblicazioni nazionali e internazionali realizzate fino al 2000: cfr. Pellicciari e Seppilli, 2000. Non esiste un dettagliato resoconto bibliografico sulla trattazione dell’argomento in anni più recenti, ma molteplici contributi di scienziati sociali che hanno messo in luce soprattutto l’implicazione politica dell’accesso alle risorse sanitarie degli immigrati e della gestione «pubblica» dei loro corpi. Si rinvia, tra i tanti, a Geraci e Martinelli, 2002; Bertini et al., 2007; Tognetti Bordogna, 2008; Bronzini, 2009.

5

Si riportano i frammenti di alcune interviste realizzate nel corso di una ricerca etnografica in alcune strutture sanitarie e ambulatori privati di Torino, scelti in base al numero di affluenza e presenza della popolazione immigrata, in cui è stato possibile studiare le dinamiche della relazione medico-paziente tramite osservazione partecipante e interviste individuali. L’indagine fa riferimento a una ricerca di più ampio respiro concernente il rapporto tra immigrati e donazione del sangue, di cui si dà un’ampia descrizione, relativa anche alla metodologia empirica attuata in Fantauzzi 2008b; 2009a.

6

Al proposito, si veda Kleinman, 1980; 1988; Good e Del Vecchio-Good, 1981.

7

A tal proposito, è indicativo quanto propone Roberto Beneduce definendo l’etnopsichiatria, in cui il prefisso etno- non si riferisce soltanto alle «psichiatrie degli altri» ma anche a quelle categorie diagnostiche della psichiatria occidentale che vengono continuamente rinegoziate e riformulate a partire da una valutazione storico-critica delle stesse (Beneduce, 2007, 16-19).

8

La Shari’a esenta dal digiuno «i malati, i viaggiatori, le donne mestruate, le gravide e quelle che allattano, ma anche i bambini e i dementi. Chi ha un impedimento temporaneo, come le donne mestruate o una malattia, deve recuperare i giorni perduti entro l’anno» (Giacalone, 2007, 34; cfr. Atighetchi, 2002, 32; Corano, 2, 184-185). Normalmente i bambini iniziano a «fare Ramadan» (nsoumou ramdane, come si usa dire in dialetto marocchino) tra i dieci e i dodici anni, all’apparizione dei primi segni di pubertà: per la femmina il menarca, per il maschio l’apparizione della prima barba e del pomo di Adamo e il cambiamento della voce.

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Tra la ricca bibliografia esistente sull’argomento, si rinvia a lavori piuttosto recenti: Favaro e Fumagalli, 2004; Geraci, Maisano e Mazzetti, 2005.

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