Recensione a G. Manuwald, Tragicorum Romanorum Fragmenta

June 15, 2017 | Autor: Alessandro Russo | Categoria: Ennius, Roman Tragedy, Fragmentary dramas, Fragmentary Latin Poetry
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Klio 2014; 96(2): 801–809

general attitudes towards money as reflected in the text and, in particular, its belief in the vicissitudes of financial fortunes and the undesirability of debt despite its ubiquity. Chandezon’s attention to the nitty-gritty details of Artemidorus’ economic material makes it a useful companion to more general essays on socio-economics in the Oneirocritica, for example, that of Pomeroy (A. Pomeroy, Status and Status Concerns in Ancient Dream Books, AncSoc 22, 1991, 51–74). The concluding essay by Bernardi differs from the preceding six insofar as it does not focus primarily on Artemidorus or the Oneirocritica, but the Byzantine oneirocritical literature published after Artemidorus and culminating in Achmet’s 10th century CE Oneirocriticon. This is a useful chapter, not least because it covers a lot of ground about a rich, wide-ranging, but often unfamiliar subject. I could easily see it becoming standard reading in graduate seminars on topics relating to ancient religion, magic, dreams, etc. It begins with a description of the sometimes contrary attitudes in late-antiquity – especially in light of the rise of Christianity – towards divination, dreams, and oneiromancy. It then offers a treatise-by-treatise description of the most important dreammanuals of this period and a comparative study of how dreams were understood and interpreted in these works. Artemidorus is not forgotten, however, serving as a point of comparison even as Bernardi focuses primarily on later texts.

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DOI 10.1515/klio-2014-0085

Gesine Manuwald (Hg.), Tragicorum Romanorum fragmenta, Vol. 2: Ennius, Göttingen (Vandenhoeck & Ruprecht) 2012, XLI, 570 S., ISBN 978-3-525-250297 (geb.) € 126,95 Questa edizione dei frammenti tragici di Ennio a cura di G. M.(anuwald) costituisce il secondo dei quattro volumi previsti di un’opera a più mani (i Tragicorum Romanorum Fragmenta = TrRF) tuttora in elaborazione e destinata a raccogliere tutti i frammenti tragici latini: oltre a questo secondo volume enniano, è uscito finora – a cura di M. Schauer, che è anche il coordinatore dell’intero progetto – il primo, che raccoglie i frammenti tragici di Livio Andronico, di Nevio, dei tragici minori e gli Adespota.

 Alessandro Russo: Pisa, E-Mail: [email protected]

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802  Literaturkritik Come è intuibile già dal titolo, e come è detto esplicitamente nella Praefatio editionis (§ 1.1) relativa all’intera opera e destinata a essere riprodotta all’inizio di ognuno dei volumi che la costituiscono, i TrRF si pongono sulla scia dell’analoga impresa compiuta, più di un secolo fa, da O. Ribbeck con i Tragicorum Romanorum Fragmenta (18973), che qui vengono rielaborati, aggiornati e integrati con il dichiarato „intento documentario“ (Praefatio, § 6.1) di fornire un’„edizione con rassegna bibliografica“. Quanto all’intento documentario, esso appare fin da subito evidente nei criteri seguiti nella presentazione dei frammenti: da questo punto di vista, i TrRF si distinguono dall’edizione di Ribbeck (e, nel caso di Ennio, anche da quella altrettanto importante di J. Vahlen) per la chiara volontà di rendere immediatamente percepibile al lettore la rigorosa distinzione tra dati accertati e ipotesi: i frammenti vengono raccolti sotto il titolo di una specifica tragedia solo su esplicita indicazione delle loro fonti (cfr. la „Praefatio“, § 3.1–2, e le parole ancora più nette della M., p. 33), e ordinati non (come in Ribbeck e in Vahlen) in base alla loro presunta collocazione originaria all’interno dell’opera, ma secondo la cronologia (dalla più antica alla più recente) delle fonti che ce li tramandano: tutti gli altri frammenti vengono collocati tra gli Incerta o gli Operum incertorum fragmenta in fondo al volume, o tra gli Adespota raccolti nel primo volume. Poiché criteri così oggettivi di presentazione dei frammenti erano già stati adottati nell’edizione enniana di H. D. Jocelyn (che per questo motivo sarebbe stato opportuno ricordare nella „Praefatio“, § 1.2 e 3.2), è facilmente intuibile come per questo aspetto le edizioni di Jocelyn e della M. vengano invece in larga parte a coincidere; neppure in questo caso, tuttavia, mancano delle divergenze, dovute a scelte della M. per lo più condivisibili (salvo diversa indicazione, cito i frammenti enniani secondo la nuova numerazione della M., cioè con „F“ seguìto da un numero arabo, e la bibliografia in una forma abbreviata che può essere facilmente integrata con le indicazioni fornite dalla M.): credo ad esempio che a ragione la M. sottragga all’Andromacha di Ennio, dove lo collocava Jocelyn sulla base di una non del tutto esplicita testimonianza di Cicerone, il frammento Enn. trag. 74–77 Joc., che un’inequivoca testimonianza di uno scolio a Cicerone attribuisce all’Eurysaces di Accio (la divergenza tra Cicerone e il suo scoliasta, tuttavia, rimane non sanata e forse non sanabile, se non ammettendo un errore di Cicerone); se si considera la sua evidente somiglianza con i versi dell’Andromeda di Euripide, giustamente la M. restituisce all’Andromeda di Ennio il F 34 che Jocelyn, sulla base di una argomentazione fragile (cfr. S. Timpanaro, Gnomon 40, 1968, 671), aveva assegnato all’Andromacha. Vantaggi e svantaggi dei criteri di presentazione dei frammenti qui adottati anche per i TrRF erano già stati evidenziati da Timpanaro nella recensione a

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Jocelyn ora citata (670): da una parte si evita una presentazione dei frammenti basata su ricostruzioni destinate a rimanere in larga parte ipotetiche; dall’altra si rinuncia ad attribuzioni, e collocazioni all’interno dell’opera, basate su congetture se non sicure, certo assai probabili (è questo il caso, ad esempio, di F 151, collocato dalla M. tra gli Incerta perché tramandato da Cicerone senza indicazione dell’opera di provenienza, ma che per il suo contenuto appare ipercritico sottrarre all’Alexander di Ennio). A questo inconveniente i TrRF si propongono di ovviare segnalando nell’introduzione a ogni tragedia anche i frammenti che ad essa potrebbero essere attribuiti congetturalmente. Tali indicazioni, tuttavia, almeno nell’edizione enniana curata dalla M., risultano di decifrazione laboriosa e talora incerta, anche a causa dei criteri eterogenei con cui in esse si rinvia ai vari frammenti: per quelli accolti altrove nel suo volume, viene adottata la nuova numerazione della stessa M., mentre per tutti i frammenti che ne restano esclusi, e per i quali non erano ancora disponibili gli altri volumi dei TrRF (neppure il primo, contenente gli Adespota, preparato in concomitanza con questo secondo volume), viene conservata l’indicazione in numeri arabi relativi ai versi della seconda e terza edizione di Ribbeck (a cui segue di norma un rinvio, tra parentesi, alle attribuzioni congetturali proposte da Ribbeck ed eventualmente da studiosi successivi); è quindi frequente trovare indicazioni come quelle a p. 166 s. relative all’Iphigenia: Ad hanc tragoediam fort. referenda sunt Enn. F 194 et trag. inc. inc. 23–24, 26, Enn. trag. 194–196 Ri.2–3 (cf. Ri.2 p. 43 adn.; Ri.3 p. 48 adn.; Pelosi 1988). Poiché tuttavia Ribbeck, nei luoghi citati dalla M., indica i frammenti di attribuzione congetturale secondo la numerazione romana relativa al frammento (ad eandem fabulam rettuli inc. nom. XXII–XXIV et inc. inc. fab. XI. XIII), solo riprendendo in mano direttamente l’edizione di Ribbeck il lettore riuscirà a uniformare i criteri di citazione dei frammenti e scoprire così che nel rinvio a Ribbeck sono compresi anche tre ulteriori frammenti (Enn. tr. inc. XXII–XXIV vv. 356–361), che la M. non aveva citato – e fra l’altro accoglie altrove nella sua edizione (XXII = F 161; XXIII = F 190; XXIV = F 156), menzionando in apparato a F 161 e F 190, e omettendola invece in apparato a F 156, l’ipotesi della loro attribuzione all’Iphigenia formulata da Ribbeck. E solo controllando direttamente l’articolo della Pelosi il lettore scoprirà che anche in questo caso si tratta di una proposta di attribuzione di un frammento (tr. inc. inc. fr. CXIII v. 210 R.2–3) non inserito precedentemente dalla M. nel suo elenco. Alla fine di tutto questo lavoro di confronto e verifica, il lettore, seppure a fatica, saprà quali siano i frammenti da attribuire all’Iphigenia secondo Ribbeck e la Pelosi, ma non secondo la M. A complicare il lavoro del lettore si aggiunge il fatto che molti dei frammenti per i quali la M. propone l’attribuzione congetturale a una specifica tragedia rientrano tra quelli che Ribbeck inseriva tra gli Incerta incertorum: ma proprio per questi frammenti – e solo per questi – la M.,

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804  Literaturkritik nelle pur ampie tavole di concordanza in fondo alla propria edizione, non fornisce la corrispondenza con la numerazione degli Adespota contenuti nel primo volume dei TrRF (che raccoglie la maggior parte degli Incerta incertorum di Ribbeck e che doveva essere completato al momento in cui la M. compilò le tavole, visto che qui in altri casi ricorrono frequenti rinvii alla numerazione degli Adespota) e anche ad esso il lettore dovrà quindi ricorrere per sapere dove trovare, all’interno dei TrRF, gli Incerta incertorum del Ribbeck citati dalla M. Oltre che per i criteri di presentazione dei frammenti, l’intento documentario dei TrRF risulta evidente anche dall’ampiezza della documentazione raccolta: da questo punto di vista, come viene legittimamente sottolineato nella Praefatio (§ 1.1), i TrRF non trovano riscontro in nessuna delle esistenti edizioni di frammenti (e semmai, come vedremo, nel caso del volume enniano curato dalla M., ricordano la tipologia delle edizioni cum notis variorum del XVIII e XIX secolo): con la sola, dichiarata (cfr. Praefatio, § 1.1) esclusione di una nuova indagine autoptica della tradizione manoscritta (esclusione legittima e ampiamente praticata nelle edizioni di testi di trasmissione indiretta: ma è da segnalare comunque che la M. ha potuto avvalersi – cfr. p. XL = XLI – del materiale documentario fornito dai curatori di nuove edizioni critiche in progress di due importanti fonti di frammenti enniani, Festo e Macrobio), i TrRF ambiscono a fornire su ogni questione relativa ai frammenti (lezioni dei codici, interpretazione, metrica, attribuzione, contestualizzazione, congetture ecc.) tutti i dati e le ipotesi ricavabili dalle più antiche edizioni a stampa (dei frammenti e delle loro fonti) fino alla bibliografia più recente. Nel caso specifico del volume enniano curato dalla M., l’intento documentario che caratterizza in generale i TrRF assume un ruolo non solo primario ma, direi, esclusivo: negli apparati che corredano la sua edizione, infatti, i dati si trovano certo raccolti in abbondanza, ma non discussi. Ad esempio, nell’apparato critico a F 80 un lettore può trovare un minuzioso elenco degli studiosi che hanno accolto nel testo o il tràdito manus o la sua correzione congetturale [m] anus, ma non può trovare alcun indizio sul perché la M. accolga nel testo [m] anus contro le limpide (e a mio avviso definitive) argomentazioni di A. Traina (pur citato dalla M.) a sostegno di manus; sempre nell’apparato a F 80, tra i paralleli euripidei si citano indistintamente e senza alcuna nota di commento tanto i versi 386–387 dell’Ecuba di Euripide (un passo che alcuni studiosi adducono – senza fondamento, come osservato sempre da Traina – a sostegno della congettura [m]anus), quanto un verso come Eur. Med. 1244 (che, assieme a molti altri esempi tragici di apostrofe di un personaggio a una parte del proprio corpo, viene citato da Traina a sostegno di manus). Anche entro questi limiti, l’edizione della M. potrebbe comunque conservare una sua utilità in quanto amplissima e aggiornata raccolta di materiale docu-

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mentario: ma questa documentazione sarebbe potuta risultare ancora più utile se fosse stata meglio organizzata e vagliata. Quanto ai problemi di organizzazione del materiale, essi per la verità discendono in primo luogo dalla scelta editoriale, destinata ad essere adottata in tutti i volumi che andranno a costituire i TrRF, di suddividere i dati dell’apparato all’interno di quattro sezioni individuate soprattutto in base alla tipologia delle fonti: un Conspectus codicum (contrassegnato nell’edizione con la sigla CC) per i codici, un Conspectus editionum (CE) per le edizioni del frammento e delle sue fonti, un Conspectus studiorum (CS) per la bibliografia secondaria e infine un Conspectus locorum parallelorum (CP) per i passi paralleli. Queste sezioni, inoltre, vengono a loro volta suddivise in ulteriori sottosezioni: ad esempio, nel CC si riportano tutti i dati della tradizione manoscritta prima secondo l’edizione di riferimento della fonte, e poi, in una sottosezione a parte, secondo tutte le altre edizioni (della fonte e del frammento); e nel caso, assai frequente, di un frammento tramandato in tutto o in parte da più fonti, questa suddivisione tra un’edizione di riferimento e le altre edizioni viene ripetuta all’interno del CC per ognuna delle fonti; la sezione CE viene sempre divisa tra una sottosezione relativa al testo del frammento accolto nelle edizioni, e una che contiene eventuali note dell’apparato critico: e l’elenco potrebbe continuare. Una siffatta organizzazione del materiale documentario – organizzazione che nella Praefatio editionis (§ 5) viene ampiamente descritta, ma non giustificata – a me pare congegnata per favorire l’editore fornendogli uno schema prestabilito entro il quale collocare in modo pressoché meccanico l’amplissima documentazione raccolta, non certo per agevolare il lettore, che per avere un quadro complessivo su un singolo problema (testo tramandato, sue interpretazioni o correzioni congetturali in rapporto a un passo parallelo e/o a una determinata scansione metrica e/o a un’ipotesi di contestualizzazione ecc.) è costretto a un laborioso processo di recupero e ricomposizione di materiale sparpagliato tra le varie sezioni e sottosezioni. Questo lavoro di recupero dei dati è inoltre reso ancor più difficoltoso dall’ampiezza dell’apparato, che visti gli ambiziosi intenti documentari dei TrRF era certo destinato a essere inevitabilmente corposo, ma che è stato ulteriormente appesantito con una serie di indicazioni che potevano – anzi, dovevano – essere tralasciate. La M. ad esempio dichiara in modo esplicito il proposito di render sistematicamente conto delle note di apparato e del testo presenti in una quantità enorme di edizioni elencate a p. 29 ss. (qui troviamo, solo tra edizioni di Ennio e di frammenti, 32 opere, a cui di volta in volta vanno aggiunte le edizioni delle fonti): il risultato è che nell’edizione della M. è assai frequente un caso come quello che si riscontra nel CC a F 2 (p. 36), dove vengono citati 14 editori e studiosi a testimonianza di ciò che nessuno aveva mai messo in dubbio

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806  Literaturkritik o riferito in modo errato, e cioè che il codice F di Festo ha il corrotto inde in luogo del corretto unde tramandato da altre fonti del frammento enniano; e si tenga presente che in questi casi si adducono come testimoni della lezione di un codice anche studiosi (e sono la maggioranza) che non hanno visto il codice direttamente, ma si limitano a riportare dati di seconda mano. Oltretutto, l’apparato della M. non sempre sembra mantenere l’ambizioso programma di collazioni dichiarato a p. 29ss.: in app. a F 62 (p. 139) la correzione congetturale di eius in ius viene attribuita a „Scal. (ad Varr. rust. p. 223)“, cioè a una nota di G. G. Scaligero che, come conferma anche l’indicazione del numero di pagina, viene citata dall’edizione di Varrone del 1585 (ma già presente in forma identica nella prima edizione delle note di Scaligero al De re rustica varroniano, 1573, p. 242): ma Scaligero, che non lascia intendere in alcun modo che ius sia una congettura, in questo caso si limita a seguire tacitamente edizioni precedenti del frammento (cfr. i Fragmenta dello Stephanus, 1564, p. 115) o della sua fonte Nonio (cfr. ad esempio l’ed. dello Iunius, 1565, p. 428, e l’ed. uscita a Basilea nel 1526, c. 1377, r. 6, a cui deve quindi – per ora – essere retrodatata la congettura): tutte edizioni di cui la M., stando al suo elenco di p. 29ss., avrebbe dovuto dar conto nell’edizione. Sarebbe invece stato un criterio già largamente inclusivo, eppure utile ad alleggerire significativamente l’apparato della M., limitarsi a citare edizioni e/o bibliografia secondaria solo quando offrono dati o ipotesi, se non utili o interessanti, almeno originali, o quando rivendicano una vecchia proposta con nuovi argomenti: questo criterio avrebbe tra l’altro evitato alla M. di citare costantemente in apparato numerose edizioni che si limitano a riprodurre senz’altro la vulgata come, ad esempio, quelle di J. A. Giles (1834), E. Diehl (1911), P. Magno (1979), opere, queste due ultime, che stupisce ritrovare inserite a p. 373s. in un ristretto elenco di editiones potiores: e non solo sorprendente, ma persino contraddittoria risulta l’inserzione, all’interno di questo elenco, anche dell’edizione di Klotz, che nel 1953 aveva pubblicato un rifacimento dei Tragicorum Romanorum Fragmenta di Ribbeck ben presto rivelatosi gravemente difettoso e quindi solitamente trascurato dagli studiosi (e anche dalla Praefatio editionis, § 1.1, che altrimenti non avrebbe qui potuto presentare i TrRF come „la prima edizione critica complessiva di tutti i frammenti [...] tragici romani dall’epoca delle raccolte dei frammenti comici e tragici pubblicate a opera di O. Ribbeck nella seconda metà del XIX secolo“); un esempio di che cosa abbia comportato questa sistematica citazione dell’edizione di Klotz si può vedere qui sotto, nella discussione a proposito del CC a F 85. Questa preliminare operazione di selezione avrebbe permesso alla M. non solo di asciugare l’apparato a tutto vantaggio della chiarezza e senza pregiudicare affatto la completezza dell’informazione, ma anche di riportare in modo

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più accurato la documentazione rimanente: nel CE a F 111, p. 234, la M. attribuisce all’edizione di Masiá la bizzarra scelta di accogliere nel testo l’integrazione congetturale proposta da Vahlen, e di porla tra cruces come se si trattasse di testo tràdito: un comportamento editoriale che poteva tutt’al più essere segnalato in una sezione dell’apparato dedicata agli strafalcioni, e che risulta infondato (Masiá, p. 480, accoglie mente e la segnala come congettura di Vahlen). A p. 62, nel CE a F 15 (iam dudum ab ludis animus atque aures avent / avide expectantes nuntium), si segnala che Stephanus poneva punto fermo dopo nuntium e vi faceva seguire come propria integrazione congetturale le parole propter hanc aurium aviditatem theatra replentur: un’integrazione audace e che appare sorprendente vedere attribuita all’edizione (importante dal punto di vista storico in quanto prima raccolta moderna di opere latine in frammenti, ma sostanzialmente priva di interventi testuali di rilievo) dello Stephanus: solo consultando direttamente l’edizione dello Stephanus (p. 109) e un’edizione della fonte del frammento enniano, il De lingua Latina di Varrone (6, 83), il lettore può capire che lo Stephanus non proponeva alcun proprio intervento congetturale ma, forse sulla scia di precedenti edizioni varroniane e comunque senza prendere in considerazione ricostruzioni alternative del testo, si limitava a incorporare nel frammento enniano anche le parole che lo seguivano immediatamente nella fonte (e che la M. non riporta). Nel CE a F 18 (p. 64) – purtroppo proprio il frammento utilizzato anche nella Praefatio, p. XXXVIs., come specimen per illustrare l’organizzazione dell’apparato – si attribuisce all’edizione di Festo premessa alle Castigationes di Scaligero una sistemazione del frammento (hominem appellat, quia * lascivi stolide non intellegit) in cui si mantiene un indecifrabile asterisco (forse inteso dalla M. come segno di lacuna?), che in realtà serviva solo come rinvio a una nota in margine (cfr. p. CCLXVI dell’ed. del 1575). Inoltre, la M. nel proprio apparato traspone di peso note desunte dagli apparati altrui senza considerare l’eventualità (assai frequente) che nel loro nuovo contesto queste note possano assumere un significato diverso da quello che avevano nella loro collocazione originaria: nel CC a F 85 (p. 182) la M. segnala che dei tre codici (W, X e Y) della fonte Festo, il codice X, secondo l’edizione di riferimento (quella di Lindsay), legge adhibo: ma questa indicazione risultava chiara nell’apparato di Lindsay, che nel testo del frammento conservava adibo (e permetteva quindi al lettore di capire che questa è la lezione tramandata nel resto dei codici), non nell’apparato della M., che nel testo accoglie la congettura obibo, e non permette quindi al lettore di capire quale sia, secondo Lindsay, la lezione dei codici oltre a X (per di più, nella successiva sottosezione dello stesso CC, la situazione della tradizione manoscritta secondo le varie testimonianze degli altri editori viene descritta in maniera confusa e contraddittoria: il nome

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808  Literaturkritik di Klotz, ad esempio, viene citato sia, una prima volta, a testimonianza del fatto che tutti i codici di Festo hanno adibo, – una affermazione parzialmente vera per i codici, ma totalmente falsa riguardo a ciò che vi attribuiva Klotz – sia, una seconda volta, a testimonianza che tutti i codici di Festo hanno abibo – una affermazione che riporta correttamente ciò che sosteneva Klotz, il quale però riferiva lo stato della tradizione manoscritta in modo errato). A p. 97, n. 104, in app. a Varr. ling. 5,19, la formulazione „androma Noctiq; F[GS] androma noctique F[Va.2, Coll, Joc, Mart] codd.[Kent] androma F[Ri.3,Kl] Androma F[teste Wilmannsio][Ri.2]“ induce a ritenere che, secondo la testimonianza di Wilmanns riportata nella seconda edizione di Ribbeck, il codice F di Varrone non riporta le parole noctique che invece gli attribuiscono altri editori, mentre dalla lettura diretta dell’apparato di Ribbeck risulta chiaro che qui la testimonianza di Wilmanns viene citata solo per documentare la lezione (corrotta) androma di F (a cui nelle edizioni precedenti a Ribbeck2 veniva attribuita, seppure dubbiosamente, la lezione Andromacha). A p. 36, nella sez. relativa a Festo (b) del CC a F 3 (per ego deum sublimas subices / umidas, unde oritur imber sonitu saevo et spiritu), si legge „saevo F[Ri.1, Va.1, Ri.2]: sonitus aevo F[Thew., Va.2, Joc., Mos.]“: ma da questa formulazione, credo, un lettore potrebbe ricavare la fallace informazione che la divergenza tra gli editori riguarda anche la presenza o meno nel codice F di Festo delle lettere sonitu prima di saevo, e non tanto o non solo, come è in realtà, la diversa divisione sonitu saevo / sonitus aevo. È da segnalare poi la scarsa attenzione con cui la M., nel citare la bibliografia, distingua tra prima edizione di un’opera, e sue eventuali edizioni (talvolta semplici ristampe) successive: ad esempio, gli Adversaria di A. Turnebus, citati e datati dalla M. secondo la ristampa del 1604, uscirono originariamente nel 1565, e dunque prima dell’edizione enniana di G. Colonna (1585–1590), che li cita spesso. Questo genere di trascuratezza talora dà luogo a indicazioni che appaiono, o dovrebbero apparire, subito incongruenti, come nel CS relativo a F 2, p. 37, dove si afferma che nella prima edizione dei tragici a cura di Ribbeck (1852) e nella prima edizione enniana di Vahlen (1854) viene accettata uno sticometria proposta da „Lachmann (1855)“: evidentemente sia Ribbeck che Vahlen dipendono in realtà dalla prima edizione lachmanniana del De rerum natura, che uscì nel 1850. Ma una corretta datazione non è un’esigenza di precisione fine a sé stessa, bensì è, spesso, il presupposto necessario per capire le singole proposte citate dalle M.: la congettura quaesit di G. Leopardi – menzionata nel CS per il verso 1 (tramandato solo dal De re publica di Cicerone) di F 82, p. 169, e datata al 1822 – risulta incomprensibile in rapporto al testo del frammento accolto dalla M. (quid sit observationis), e si può spiegare solo come ulteriore ritocco della congettura quaerit observat: Iovis di A. Mai: congettura che la M. cita nel CE, ma datandola al 1846, anno della terza edizione del De re publica a

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Klio 2014; 96(2): 809–813

c. di Mai, il quale però avanzava questa sua proposta già nella prima edizione, uscita alla fine del 1822 (mentre le note di Leopardi, sebbene rechino il 1822 come anno di pubblicazione, uscirono nel marzo del 1823: su tutta la questione cfr. l’introduzione alla riedizione delle note leopardiane al De re publica in G. Leopardi, Scritti filologici, a c. di G. Pacella – S. Timpanaro, Firenze 1969, 172s.; segnalo qui che la M. riporta erroneamente la correzione del testo proposta in alternativa da Leopardi: non signum quod si observat, ma s. q. sit o.). Nonostante l’aspirazione a fornire una documentazione esaustiva, che invece spesso risulta solo ridondante, questa edizione presenta omissioni di dati bibliografici anche di un certo rilievo: ad esempio, nella sottosezione „Interp.“ del CS a F 4 (p. 4) viene ricordata l’interpretazione di tam = tamen sostenuta da Ribbeck, ma non l’interpretazione di tam = tantum, adeo sostenuta da Timpanaro 2005, 162 n. 10; nel CS a F 8 (43s.) non viene menzionata l’interpretazione assai interessante di Sc. Mariotti riportata da Jocelyn negli Addenda della sua edizione (427: il v. 3 è una replica di Achille alle parole pronunciate nei vv. 1–2 da un ambasciatore); nel CS a F 16 (63), tra le varie ipotesi di contestualizzazione del frammento omette di ricordare anche quella, ampiamente argomentata, di Timpanaro 2005, 127–131 (racconto non del messaggero, ma del πρέσβυς che aveva recuperato Paride esposto); nella sottosezione del CS a F 21 relativa alla metrica (68) non viene citata l’ampia discussione di Timpanaro 2005, 135s., e la sua proposta di scansione in tr4 (v. 1) e tr7 (vv. 2 e 3). In conclusione, questa edizione della M. certo integra e aggiorna le edizioni enniane esistenti con una immensa mole di dati, che però vengono raccolti e presentati in modo da imporre continuamente al lettore una laboriosa opera di cernita e di verifica diretta della documentazione e della bibliografia citate.

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DOI 10.1515/klio-2014-0086

Tiziana J. Chiusi – Hans-Dieter Spengler (Hgg.), Dieter Nörr. Schriften 2001– 2010 anläßlich seines 80. Geburtstags (in Zusammenarbeit mit J. Paricio), Madrid u. a. (Marcial Pons) 2012 (Colección Premios Ursicino Álvarez 3) 950 S., ISBN 978–84-9768–925-0 (brosch.) € 145,– It is always a thankless task to review a volume compiling the life-long contribution to legal history of such a prominent figure as Prof. Dieter Nörr. His erudition and methodological rigour cannot be encompassed in a few pages, espe Ilias N. Arnaoutoglou: Athen, E-Mail: [email protected]

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