Respecto/resistenza. Note su Cercando rispetto di Philippe Bourgois

June 7, 2017 | Autor: Federico Rahola | Categoria: Sociology Of Deviance, Ethnography
Share Embed


Descrição do Produto

Respecto/Resistenza. A proposito di Cercando rispetto di Philippe Bourgois (Etnografia e ricerca qualitativa, 1/2008 p. 137-147 [email protected])

P. Bourgois, Cercando rispetto. Drug Economy e cultura di strada, Roma, DeriveApprodi, 2005 (ed. it. a cura di A. De Giorgi). Ed. or.: In Search of Respect. Selling Crack in El Barrio, Cambridge, Cambridge University Press, 1996.

The Sun Always Shines for the Cool è una commedia del 1984 di Miguel Pinero, attivista culturale nuyorican (così si autodefinisce il movimento di intellettuali e militanti portoricani di seconda generazione trapiantati negli Stati Uniti) morto di cirrosi nel 1988 e noto, oltre che per un’altra piece molto premiata, Short Eyes (di cui poi diresse anche una versione cinematografica destinata a diventare un classico dei jail-movie anni settanta), anche per aver interpretato come caratterista il ruolo di informatore e piccolo spacciatore nel serial televisivo Miami Vice. Il sarcasmo underground della sua scrittura emerge già dal titolo, in quel tono da commedia hollywoodiana che sovverte ironicamente il soggetto e la particolare ambientazione del testo. Tutto infatti ha luogo in un sordido locale di East Harlem dove protettori, spacciatori, prostitute e tossicodipendenti si alternano in una ribalta grottesca: la scena è fissa e i personaggi, anche loro costanti, ruotano attorno a un tavolino raccontando «vite infami» il cui solo riscatto consiste, appunto, nell’essere cool. 1 Come la commedia di Pinero, anche In Search of Respect. Selling Crack in El Barrio, l’etnografia che Philippe Bourgois ha dedicato alle vite di strada legate all’economia della droga, sempre nel distretto portoricano di East Harlem, ha una scena costante e un numero limitato di voci: una game room situata all’angolo tra la Lexington e la 110ma strada, nel cuore del Barrio, e tre o quattro interlocutori privilegiati, tutti coinvolti più o meno direttamente nello spaccio di crack, cocaina ed eroina, che Bourgois segue nei percorsi quotidiani con una frequentazione assidua, vissuta dapprima con diffidenza e in seguito con sempre maggiore intimità. Ma le affinità non si fermano qui, perché oltre a parlare dello stesso mondo sociale da un punto di vista e un palco analoghi, i due testi condividono sin dal titolo pure la stessa prospettiva sulle forme di valorizzazione simbolica che quel mondo promuove come compensazione dell’oppressione materiale subita: la coolness su cui, ironicamente, per Pinero dovrebbe splendere il sole è infatti prerequisito essenziale di quel respecto di cui i soggetti descritti da Bourgois sono alla continua 1

Alcune poesie di Miguel Pinero e un breve stralcio della commedia sono stati tradotti in italiano nell’antologia curata da Mario Maffi, Pinero (1997).

ricerca. Cool è parola tanto difficile da tradurre quanto diffusa globalmente, se è vero che neppure il francese, di solito refrattario ai limiti dell’idiosincrasia verso ogni tipo di contaminazione, è riuscito a resisterle. Nel successo di un termine che indica proprio chi ha successo perché degno di riconoscimento e di prestigio, c’è quindi un che di tautologico, che riproduce perfettamente le traiettorie del sogno americano: dall’inferno del sottosuolo all’olimpo della koyné globale. Concetto chiave della cultura di strada delle inner cities, l’idea di coolness nasce infatti dallo slang sottoculturale, sedimenta nelle nuove «etnicità» metropolitane, calamita modelli di consumo e attira i grandi marchi globali, fino a diventare un vero e proprio campo semantico (Furio Jesi l’avrebbe definita una macchina mitologica) che si ridistribuisce come principale posta in palio di quella particolare economia simbolica che gravita intorno alla street life. Che dire allora del respecto, di questo termometro della dignità personale che i protagonisti dell’etnografia di Bourgois cercano tra le disastrate street del Barrio? Scritture La fiction di Pinero affronta aspirazioni e miserie dei portoricani trapiantati a New York ricorrendo alla messa in scena, all’ironia, all’iperbole: lo stile apparentemente cinico e distaccato permette di mediare il realismo di fondo e la denuncia implicita nella sua scrittura. L’etnografia di Bourgois sembra invece procedere all’opposto. È un’immersione totale nel clima di violenza del Barrio attraverso la viva voce dei protagonisti. Ma in quanto scrittura ha anch’essa, inevitabilmente, un carattere letterario, per certi versi pure teatrale: la particolare scansione temporale, l’alternanza di voci e soprattutto l’assiduità dell’ambientazione la avvicinano a certe tendenze del romanzo intimo contemporaneo (qualcosa mi dice Smoke di Paul Auster), influenzate a loro volta da tempi e spazi specificamente scenici, come in una sit-com. Del resto che l’etnografia, in quanto trascrizione di un’esperienza, sia una forma eminentemente autoriale e di scrittura è acquisizione fin troppo assodata – e va da sé che una tale sensibilità letteraria possa essere influenzata da modelli specifici e più o meno inconsci. Nel trascrivere e rimontare il materiale di ricerca raccolto nei cinque anni di lavoro sul campo e in continui aggiornamenti successivi, Bourgois sembra comunque attingere a tutti gli stili del repertorio etnografico. Così la stesura finale vede assemblati pezzi di interviste e di biografie, appunti di campo, momenti descrittivi, ricostruzioni storico-economiche e parentesi analitiche e metodologiche. Se l’elemento portante è quello dialogico, delle biografie e delle storie di vita (sull’imperativo politico-metodologico di dare voce e recuperare il punto di vista dei soggetti), quello descrittivo, di osservazione partecipante, appare in ogni caso altrettanto essenziale. A questi due livelli si aggiungono poi un certo tono colloquiale e autobiografico, ai limiti del confessionale, e il tentativo di rappresentare tutto sul-

lo sfondo di un contesto oggettivo e sovradeterminante: ciò che Bourgois definisce marxianamente come «economia politica», e cioè l’elemento strutturale che informa le condizioni di esistenza della «comunità» portoricana a New York, e in particolare dei suoi interlocutori, i crack-dealers e le loro famiglie allargate. In questo la scelta di campo di Bourgois appare categorica e si allinea a una ritrovata tensione «oggettiva» nella pratica etnografica. Dopo la svolta discorsiva e dialogica degli anni Settanta/Ottanta, tesa a problematizzare gli elementi di riflessività presenti in ogni testo (penso in particolare ai lavori di Dwyer, Crapanzano e Rabinow, centrati sulla necessità di far emergere la voce degli interlocutori attraverso dialoghi il più possibile «paritari», sovresponendo il carattere di finzione della scrittura e ripudiando ogni formalizzazione), l’etnografia sembra oggi riscoprire la ruvidità del contesto, delle condizioni materiali che costituiscono lo sfondo di realtà delle pratiche che descrive, influenzando, oltre al dialogo per lo più squilibrato tra l’etnografo e i suoi interlocutori, lo stesso punto di vista dei «nativi», il modo in cui rappresentano e interpretano se stessi e la realtà che li circonda.2

Un’etnografia della violenza Sono quindi le condizioni di vita degli abitanti di East Harlem a conferire un particolare carattere di urgenza e di denuncia all’etnografia di Bourgois. Descrivere la vita quotidiana dei crack dealers portoricani e delle loro famiglie (una minoranza della minoranza, di fatto, ma tale da «condizionare l’intera vita pubblica del Barrio») significa infatti dover fare i conti con una forma di oppressione oggettiva, strutturale, le cui matrici sono tanto materiali quanto cariche di fattori culturali (in un paese intriso di darwinismo sociale, per cui la vittima è ritenuta «strutturalmente incapace» se non colpevole), razziali (quella «linea del colore» che agisce come moltiplicatore esponenziale delle differenze di classe) e, last but not least, di residui di un passato coloniale che non passa (nella misura in cui sul presente dei boriques di Harlem pesa fortissima l’ipoteca coloniale che ha segnato la storia di Porto Rico, attraverso la deportazione più o meno forzata di un’intera generazione e lo status di denizen che ancora oggi incombe sulla sua popolazione). È dall’interazione di questi fattori oggettivi che, più in generale, prende forma quello 2

Una rinnovata attenzione alle condizioni materiali e oggettive dei mondi sociali descritti accomuna, per esempio, lavori di indagine diversi per ambito e prospettiva come quelli di Pierre Bourdieu, di Michael Taussig o dei coniugi Comaroff. Valga qui un’affermazione piuttosto esplicita di questi ultimi: «L’etnografia non è un tentativo vano di traduzione letterale, in cui noi disveliamo l’essenza di un altro, concepita come in qualche modo commensurabile alla nostra. È invece un particolare modo, storicamentesituato, di comprendere contesti altrettanto storicamente situati [...] Dovremmo opporci e resistere alla riduzione della ricerca antropologica a semplice esercizio di “intersoggettività”, la meditazione/immaginazione di attori concepiti fenomenologicamente attraverso un parlare solitario» (Comaroff e Comaroff, 1992, pp. 9-10).

che Bourgois e molti altri denunciano come l’apartheid americano, sostanziato dal tramonto del settore industriale (e quindi delle identità che, nonostante o forse proprio attraverso il disciplinamento fordista, il lavoro operaio poteva garantire alle minoranze) e dalla conseguente ristrutturazione e scomposizione del lavoro in nicchie occupazionali iperprecarie, dequalificate e neoservili nell’economia terziarizzata. Un apartheid che cresce sulle ceneri di un modello complessivo di cittadinanza, dove i diritti appaiono concessioni, l’assistenza sociale si riduce all’erogazione di sussidi risibili, la salute si rivela una funzione di status e l’educazione scolastica diviene incubatrice di carriere destinate a trovare in carceri sovraffollate la sola risposta «istituzionale» davvero garantita. In questo senso, allora, privilegiare un approccio «materialista» significa implicitamente confutare alla radice ogni rappresentazione razzializzante e inferiorizzante che attribuisce lo status delle minoranze a endemici deficit culturali o addirittura intellettivi e colpevolizza le vittime per i loro fallimenti. In una parola, significa opporsi all’idea stessa di underclass. Ma significa anche opporsi al riduzionismo psicologico molto in voga pure in ambiti liberal che propone soluzioni di carattere terapeutico e individuale a contraddizioni che sono soprattutto di ordine strutturale. Da questo punto di vista la stessa tossicodipendenza che segna la stragrande maggioranza delle biografie intercettate da Bourgois viene radicalmente depsicologicizzata in quanto sintomo di «dilemmi strutturali più profondi». E la presenza costante della droga è analizzata nella sua duplice dimensione di costruzione culturale e di opzione materiale: lo spaccio rappresenta infatti «la più grande nicchia di pari opportunità» per i giovani del Barrio, l’alternativa estremamente vantaggiosa all’elemosina istituzionale e a salari da fame e per questo la principale fonte di respecto. L’interazione tra precarietà e vulnerabilità strutturale, discriminazione, instabilità familiare e tossicodipendenza ridisegna allora, nel cuore più ricco della metropoli più ricca del mondo, i contorni di una condizione urbana segnata dal degrado e dalla povertà (senza però mai degenerare in miseria, cosa di cui l’autore si sorprende), a loro volta basi materiali di una violenza quotidiana che è leitmotiv dell’etnografia «estrema» di Bourgois. Una violenza sorda, che si scarica sistematicamente tra le mura domestiche sui soggetti più deboli (donne e bambini), per assumere poi caratteri conclamati tra le street, facendo di East Harlem uno scenario non molto lontano dai tanti teatri di guerra del presente (lo stesso Bourgois, in un articolo successivo [2001], ha delineato in termini più approfonditi la continuità tra le forme di violenza che caratterizzano East Harlem e il permanente stato di guerra che sconvolge El Salvador). L’occhio etnografico di Bourgois si immerge in questo sottosuolo di violenza, ma, pur riconoscendone la matrice strutturale, non può limitarsi a una lettura dall’alto. Il rischio, per quanto su presupposti diversi, sarebbe quello di restituire una versione materialista (o strutturale) dell’approccio alla marginalità urbana svi-

luppato da una vasta letteratura sulla «cultura della povertà», che individua nella passività e nella rassegnazione – se non addirittura in un «difetto di socializzazione» – le principali ragioni della condizione di minoranze cui è negata ogni capacità di incidere sulla propria realtà.3 Al contrario, l’etnografia della violenza di Bourgois non assume i protagonisti come vittime passive, pedine in balia di dinamiche strutturali, e attraverso la prossimità al loro mondo sociale e una frequentazione quotidiana spinta ai limiti dell’«etnograficamente osservabile» intende restituire l’esperienza di «esseri umani in carne e ossa che lottano e danno forma al proprio futuro». Di agency quindi si tratta, ma di una forma di agency segnata ab origine da uno scenario di violenza di cui Bourgois delinea i contorni totalizzanti, con l’intenzione di «illustrare i nessi che concatenano violenza strutturale, politica e simbolica nella produzione di una violenza quotidiana, capace a sua volta di rafforzare le relazioni di potere diseguale e di distorcere ogni tentativo di resistenza» (Bourgois, 2001, p. 30). Se infatti la violenza strutturale condanna al fallimento ogni tentativo di «mettersi a posto» (attraverso un sistema scolastico che è anticamera della detenzione, un mercato del lavoro che costringe all’illegalità, uno stato sociale che diviene stato penale) e la violenza politica sancisce confini di status puntellati da linee culturali e razziali perentorie, a queste forme si somma poi un ulteriore tipo di violenza, più pervasivo, che Bourgois sintetizza nella categoria bourdieusiana di violenza simbolica: l’adesione inconsapevole «che il dominato non può non accordare al dominante (e quindi al dominio) quando per pensarlo e per pensarsi dispone soltanto di strumenti che ha in comune con lui [...] e che fanno apparire questo rapporto come naturale» (Bourdieu, 1998, p. 45). Vedersi attraverso la lente fornita dalle categorie dominanti, guardare se stessi attraverso gli occhi dell’american way of life: è questo ripiegamento simbolico a chiudere il cerchio della violenza e a instaurare quel continuum che assedia la vita quotidiana nel Barrio. Tutto, poi, ruota intorno alla drug economy, mercato che detta il tempo delle biografie descritte da Bourgois. La droga, infatti, è sempre al centro del libro, sia come fattore oggettivo e risorsa materiale, sia come elemento culturale e risorsa simbolica, sia, più prosaicamente, come presenza assidua, quasi un’interiezione, nei momenti dialogici: un supporto di scena che sorregge i racconti dei protagonisti. Più in generale, la droga rappresenta una vera e propria economia, e quindi un elemento che, nell’approccio dichiaratamente «materialista» di Bourgois, risulta semplicemente essenziale. Al punto che si potrebbe azzardare un’analogia a contrario tra l’etnografia della violenza di Bourgois e quella straordinaria narrazione di recipro3

L’esempio più significativo di questo approccio alla marginalità urbana è rappresentato probabilmente da La vida, monografia che a metà degli anni sessanta Oscar Lewis dedicò alla prima generazione di portoricani trapiantati a New York (Lewis, 1972).

cità e di ordine sociale che è il Saggio sul dono di Marcel Mauss (1992). Si tratterebbe, in altre parole, di considerare l’economia della droga in una cornice analoga a quella che Mauss attribuiva alle forme rituali del potlach e del kula. Provocatoriamente (ma neppure tanto), si potrebbe dire che come il «melanesiano di questa o quell’isola» era costretto da forze sociali più grandi di lui a ripagare e contraccambiare il dono ricevuto (o subito) da membri di altri clan, pena la possibilità di perdere la faccia, così i protagonisti di In search of respect sono costretti da forze più grandi di loro a cercare di ripristinare, attraverso l’economia della droga, lo spaccio e il consumo, quel respecto che costituisce la principale risorsa sociale dentro al Barrio. La difficoltà consiste soprattutto nella possibilità di concepire droga e dono (e quindi spaccio e scambio) su un analogo ordine «rituale» di reciprocità e di totalità: in altre parole nella possibilità di isolare lo spaccio e considerarlo un fatto sociale totale. 4 Se però si assume la differenza di scala tra le due situazioni (per Mauss un intero ordine sociale, isolato surrettiziamente e costruito intorno al sistema di reciprocità imposto dalle regole del dono ritualizzato; per Bourgois quel segmento sociale specifico e limitato, i crack-dealers di origine portoricana e le loro famiglie allargate, che ruota intorno all’economia della droga), l’analogia potrebbe anche essere legittima. Il punto comunque è un altro e, più che riguardare le differenze tra gli oggetti di analisi e la possibilità di isolarli come totalità, chiama in causa il modo di guardarli e di «oggettivarli». Introducendo l’opera di Mauss, Claude Lévi-Strauss individuava alcuni requisiti per la definizione di un fatto sociale totale che ancora oggi sembrano porre dei problemi alla pratica etnografica. In particolare, quale corollario decisivo, indicava la necessità di leggere la realtà che si organizza intorno a un fatto sociale su entrambe le direzioni, sia esterna, oggettiva, che interna, soggettiva. Ma a questa duplice necessità, del resto ben nota a chiunque pratichi l’etnografia, Lévi-Strauss aggiungeva un ulteriore movimento. Oltre a «cogliere un oggetto contemporaneamente dal di fuori e dal di dentro [...] è necessario infatti che l’apprendimento interno (quello dell’indigeno o almeno quello dell’osservatore che ne rivive l’esperienza), sia trasposto in termini dell’apprendimento esterno, avendo carattere di oggettività».5 Movimento che ri-

4

Oggi concetti come costrizione e totalità possono suonare inopportuni. Ma l’impressione si attenua se, anziché enfatizzare l’idea di totalità (che in Mauss è sì presente, ma delimitata dai confini che definivano un determinato gruppo sociale, mentre oggi, in un presente segnato dalla contiguità, risulta molto più difficile definire), si sottolinea l’atto sempre arbitrario di costruzione e di selezione che l’occhio etnografico opera nel momento stesso in cui sceglie su cosa appuntarsi. Nel caso di Bourgois, una volta assunta la vita di strada tra i crack-dealers del Barrio come oggetto di analisi, un’etnografia dello spaccio come fatto sociale totale appare allora tanto arbitraria quanto legittima. 5 «Per comprendere un fatto sociale è necessario afferrarlo totalmente e cioè al di fuori come una cosa, ma come una cosa di cui fa parte integrante l’apprendimento soggettivo (cosciente o incosciente) che avremmo noi se, inevitabilmente uomini, vivessimo il fatto come indigeni invece di osservarlo come etnologi», Lévi-Strauss, Introduzione a Mauss (1992), p. XXXI.

sulta possibile solo in virtù della «capacità del soggetto di proiettarsi al di fuori di sé, di oggettivarsi». Ora, riconoscere le capacità di oggettivazione del soggetto è un requisito fondamentale ed è proprio su queste rappresentazioni che si appunta oggi gran parte della ricerca etnografica. Ma che questa capacità possa e debba assumere carattere di oggettività non è così assodato. Sappiamo che per LéviStrauss si trattava della possibilità di ricavare dal mondo empirico formalizzazioni oggettive, che nel suo lavoro assumevano il carattere sempre più rarefatto di coppie oppositive e principi strutturali universali. E sappiamo anche che quella strada si è rivelata un sentiero interrotto tanto per il sapere etno-antropologico quanto soprattutto per la pratica etnografica. Torniamo comunque a Bourgois e alla sua analisi dell’economia della droga e della violenza che definisce le condizioni di vita dei crack dealers portoricani di East Harlem. Il suo lavoro, ovviamente, non si limita a delineare i fattori strutturali alla base dell’oppressione subita e della violenza agita. Motivata da un’urgenza «restitutiva» – dalla necessità cioè di dar voce e di recuperare il punto di vista e il vissuto di chi da oggetto di ricerca diviene soggetto dotato di agency – l’etnografia di Bourgois fa infatti emergere i «processi di significazione soggettivi» dell’ordine esterno, per ricostruire il continuum di violenza che definisce la vita nel Barrio. Dalle parole e dalle esperienze dei protagonisti di Cercando rispetto emerge quindi una «narrazione dall’interno» che restituisce il senso complessivo di una violenza vissuta, raccontata, rielaborata. E da queste narrazioni prende corpo il nucleo centrale del respecto. Ma cos’è esattamente il respecto? Respecto/resistenza Bourgois ricostruisce una genealogia del respecto, metro della dignità personale e del riconoscimento sociale all’interno del Barrio, facendolo risalire a un’originaria cultura insulare jibara, costruita sulla figura del nativo portoricano che rifiuta di soccombere passivamente alla dominazione coloniale. Si tratta quindi della reinvenzione di forme culturali che dal passato rurale trasmigrano al presente di violenza e oppressione dell’inner city. L’appartenenza a un indefinito universo jibaro, spogliato di ogni tratto esotico e ricostruito nel contesto iperurbanizzato dell’economia di strada, è infatti rivendicata spesso dagli interlocutori di Bourgois, che utilizzano questo mito fondativo come nucleo attorno a cui costruire un atteggiamento genericamente oppositivo. Sul fatto di conferire effettivo significato politico al respecto, il condizionale però è d’obbligo: «questa cultura resistenziale di strada non definisce un universo coerente e cosciente di opposizione politica, ma un arcipelago spontaneo di pratiche di ribellione che nel lungo periodo si sono incarnate in uno stile oppositivo» (p. 38). Bourgois sembra quindi saldare problematicamente il respecto a una contraddittoria forma di resistenza, senza però poter definire fino a che punto si opponga alla violenza e all’oppressione e dove invece

le riproduca. I protagonisti del libro lottano infatti con determinazione per guadagnare denaro e ottenere rispetto, ma questa lotta si esprime inesorabilmente attraverso i codici di una violenza per lo più autodistruttiva, che si alimenta di «miti» (machismo, dominazione sessuale, ostentazione di ricchezza) e si scarica su soggetti ancora più vulnerabili. Pur consapevole della piega autodistruttiva del respecto,6 Bourgois accredita comunque a questa forma di agency un valore oppositivo, implicitamente resistenziale: la fuga nell’economia illegale e di strada, con il suo corollario di violenza, costituisce cioè un modo «soggettivamente oppositivo» e consapevole, per quanto non immediatamente «politico», di sottrarsi agli abusi della violenza strutturale. Ma nonostante questo la domanda resta aperta: ha senso parlare di resistenza per indicare pratiche che sembrano sottrarsi ai nostri tentativi di catalogazione fino al punto di non riuscire più a distinguersi dalla violenza simbolica? Aldilà dell’uso disinvolto che di recente, in particolare all’interno dei cultural studies anglosassoni, si è fatto della categoria di «resistenza» (per cui dagli stili di abbigliamento alle abitudini alimentari fino allo spaccio ogni rituale quotidiano delle cosiddette minoranze è caricato di un valore immediatamente oppositivo), il problema non consiste tanto nel passaggio dalla resistance through rituals teorizzata da Stuart Hall 7 alla resistance «through crack-dealing» suggerita da Bourgois. Non si tratta infatti di scandalizzarsi o di negare qualità di agency a nessuna di queste pratiche, né di stabilire un’ipotetica e assiomatica distinzione tra resistenza e violenza simbolica come polarità opposte di un continuum al cui interno il respecto oscillerebbe. Piuttosto, nel caso del respecto, ad essere chiamata in causa è la possibilità di interpretarlo sulla base di un linguaggio che non sembra essere il suo, e quindi la legittimità del ricorso al termine «oggettivante» resistenza per designarlo. In altre parole, l’idea di resistenza, più che un’oggettivazione fornita dagli stessi attori, sembra una formalizzazione oggettiva dell’autore: qualcosa di simile al «carattere di oggettività» preteso da Lévi-Strauss, o a quei concetti «lontani dall’esperienza» che costituiscono uno dei punti più problematici della teoria ermeneutica di Clifford Geertz (1987). Alla base del nesso respecto/resistenza si pone quindi un problema di traduzione: traduzione da un contesto sociale all’altro, traduzione da un ordine all’altro. E che sia un problema di «traduzione» lo testi6

Dal testo di Bourgois emerge però una lettura del nesso resistenza-autodistruzione non pienamente convincente, per cui la resistenza che la cultura di strada oppone alla marginalizzazione fornirebbe la chiave contraddittoria della particolare «pulsione distruttiva» dei soggetti. Che la lotta si esprima sempre attraverso i codici della violenza è infatti evidente, ma che il machismo e la violenza sulle donne e i bambini siano effetti della discriminazione razziale e dello stigma classista sembra invece un’ipotesi che conferisce una piega determinista alla lettura di Bourgois, avvicinandola pericolosamente alle tendenze psicologicizzanti di quella «cultura della povertà» da lui stesso giustamente criticate. 7 I comportamenti e gli stili codificati delle sottoculture urbane vengono interpretati da Stuart Hall come soluzioni «locali» e oppositive a un’esperienza di vulnerabilità strutturale. Si veda Hall e Jefferson (1976).

monia letteralmente un ultimo sintomo. Perché l’elemento sorprendente, probabilmente il più significativo dell’etnografia del respecto di Bourgois, non è tanto nell’opposizione che il respecto determina, quanto piuttosto nella contraddittoria adesione che riproduce nei confronti dell’american way of life. Ben più che jibaro che si oppongono alla dominazione coloniale, i protagonisti di Cercando rispetto sono infatti – come peraltro Bourgois non si stanca di ribadire – individui «made in America», nati e cresciuti dentro al sogno americano, attratti dall’economia della droga proprio perché sensibili alla promessa di un’affermazione che passa in primo luogo attraverso i consumi e l’adesione ai modelli culturali «dominanti». Questo effetto mimetico (l’individualismo estremo, il culto del successo, il ricorso a droghe «performative»), se da una parte sembra avvicinare i crack dealers a standard culturali mainstream, ne segna in realtà la «distanza» materiale (sintetizzata per esempio nella differenza tra la cocaina e il crack), ribadendone la radicale marginalizzazione. E riproduce uno dei principali effetti di distorsione del presente: l’isomorfismo tra dealers e brokers, falliti e vincenti nella lotteria americana, che salda condizioni materiali sideralmente diverse a modelli violentemente comuni; la parallassi per cui le logiche predatorie dell’economia di strada e quelle estrattive del capitalismo finanziario sembrano porsi su uno stesso livello. Bourgois riconosce questo elemento «mimetico» ma, rispetto all’effetto straniante e potenzialmente sovversivo di un accostamento tra mondi sociali diversi, opta per la direzione opposta: anziché confondere alto e basso, legale e illegale (seguendo un approccio etnografico che proprio a partire dall’isomorfismo delle situazioni sociali e dal loro accostamento incongruo ha potuto far emergere gli aspetti arbitrari e violenti delle categorie normative), tiene la barra su quel confine, peraltro perentorio, per cui East Harlem risulta alla fine un mondo a sé. È una scelta metodologica più che politica. Dietro agisce una tradizione consolidata del sapere etno-antropologico di cui Lévi-Strauss costituisce l’esempio forse più eloquente, che rinviene forme comuni potenzialmente universali (come la stessa categoria di resistenza) a partire da differenze anche radicali. Una traiettoria a cui però è stata spesso sovrapposta un’altra, di segno opposto (che cumulativamente si potrebbe definire come «surrealismo etnografico»), tesa a far emergere differenze in un contesto violentemente uniforme. Credo che uno dei compiti più urgenti dell’etnografia, nell’epoca in cui il suo «rimpatrio» appare incontrovertibile, sia proprio quello di restituire fino in fondo la violenza della contiguità. Aldilà della volontà, peraltro comprensibile, di «unire» attraverso categorie come quella di resistenza, che nel caso dei crack dealers del Barrio si rivelano piuttosto «lontane dall’esperienza», il problema consiste soprattutto nella necessità di cogliere gli effetti delle differenze materiali nel più generale isomorfismo generato dalla prossimità: indagando le discrepanze tra atteggiamenti simili in contesti materialmente diversi e ricavando così il senso e l’azione dei con-

fini che segnano il presente. Se è vero che l’etnografia è da sempre una pratica di confine e ancora si gioca tutta sui «confini». In fondo, era proprio questa la strategia della scrittura di Miguel Pinero: che differenza c’è tra essere cool nel Barrio o a Wall Street? Riferimenti Bourdieu, P. 1998 Il dominio maschile (1998), Milano, Feltrinelli. Bourgois, P. 2001 «The Power of Violence in War and Peace. Post-Cold War Lessons from El Salvador», in Ethnography, 2, 1, pp. 5-34. Comaroff, J., J. Comaroff 1992 Ethnography and the Historical Imagination, Boulder, Westview Press. Geertz, C. 1987 Interpretazione di culture (1973), Bologna, Il Mulino. Hall, S., T. Jefferson (a cura di) 1976 Resistance through Rituals, London, Routledge. Lewis, O. 1972 La vida. Una famiglia portoricana nella cultura della povertà (1966), Milano, Mondadori. Mauss, M. 1992 «Saggio sul dono» (1925), in Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, pp. 153-292. Pinero, M. 1997 Voci di frontiera. Scritture dei Latinos negli Stati Uniti, Milano, Feltrinelli.

Lihat lebih banyak...

Comentários

Copyright © 2017 DADOSPDF Inc.