Respighi e Wagner. Venezia 1999

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Descrição do Produto

Il wagnerismo degli operisti italiani
Convegno internazionale di studi
Associazione Richard Wagner di Venezia, novembre 1999


Johannes Streicher

Wagner e Respighi
(con uno sguardo ad Alfano e Wolf-Ferrari)
La generazione del Settantacinque


Chissà se il giovane Hieronymus che ebbe a dolersi di un'immagine troppo
sensuale della Madonna esposta in un noto negozio d'arte che dava
sull'Odeonsplatz, vista la sua suscettibilità, si è mai preoccupato della
liceità della Loggia dei Lanzi che fa tuttora bella mostra di sé sulla
medesima piazza monacense? Uno dei coetanei dell'invasato protagonista del
racconto Gladius Dei (1902) di Thomas Mann, ne siamo certi, non si curò
affatto dell'autenticità della "Feldherrnhalle", di coerenze stilistico-
architettoniche nei pressi di quella mitica sala da concerti, l'Odeon
appunto, da cui la piazza antistante la Theatinerkirche prende il nome
(sala circolare, ormai distrutta, come del resto il suo pendant romano,
l'altrettanto glorioso Augusteo): quel giovane musicista, un sangue misto
come Tonio Kröger, si beava delle sue letture dantesche, e tra tutti i suoi
condiscepoli che si esaltavano all'ascolto del verbo wagneriano non gli
sarà parso vero trovare un angolo di Firenze, anzi, più di un richiamo alla
città di Dante. Che importava che fosse contraffatto? Era lì, a perenne
ricordo delle glorie antiche – e come al re Ludwig I e ai suoi architetti
Leo von Klenze e Friedrich von Gärtner era parso doveroso rendere omaggio
al Rinascimento italiano, per il nostro giovane musicista, fresco di studi
col severo Joseph Rheinberger, una composizione di genere oratoriale su
testo di Dante non poteva non nascere da un palese sincretismo stilistico.
La semplificazione settecentescheggiante goldoniana del veneziano Ermanno
Wolf-Ferrari sarebbe venuta dopo; sul finire del secolo scorso a Monaco i
poli tra cui muoversi erano due: Bach e Wagner (checché Rheinberger ne
pensasse di quest'ultimo). L'interesse nei confronti del Medioevo era
allora diffusissimo: sulla scia wagneriana quasi tutti i giovani musicisti
esordivano con qualche lavoro epigonal-medioevale (anche lo stesso Strauss,
con Guntram, 1894); Wolf-Ferrari costituisce un'eccezione in quanto ricorre
a un Dante "non-operistico", la cui purezza richiedeva un trattamento
particolare. Ed ecco che gli studi contrappuntistici tornano subito utili:
ad ascoltare La vita nuova gli echi bachiani si sprecano, dalla polifonia
del Prologo ai tre flauti soli dell'Arioso «Donne che avete intelletto
d'amore» del baritono (n. 4), ai corni inglesi dell'Intermezzo (Preludio
alla Seconda Parte, n. 7), nel quale essi emergono però sugli arpeggi degli
archi (mi minore) che hanno un che di parsifaliano, con un tocco di Wolfram
von Eschenbach (Lied an den Abendstern: O tu bell'astro).

ESEMPIO MUSICALE n. 1:
Ermanno Wolf-Ferrari, La vita nuova, op. 9: Intermezzo (4'45")

Pubblicato nel 1902, l'oratorio-digest dantesco venne eseguito in prima
assoluta alla Tonhalle di Monaco il 21 marzo 1903, diretto dallo stesso
compositore. Successo strepitoso, stando alla testimonianza dell'autore
resa a Raffaello de Rensis, che parla di più di cinquecento esecuzioni nei
trent'anni successivi.
La vita nuova risale all'epoca "calda" del wagnerismo, la contrapposizione
Händel contro Wagner nel teatro musicale del Novecento (per citare un bel
saggio di Guido Salvetti[1]) è ancora di là da venire, ed Ermanno Wolf-
Ferrari se la cava con un ardito incrocio tra preraffaellismo e gigantismo
sonoro: l'orchestra richiede «archi più che sia possibile», legni, quattro
corni, tre trombe, tre tromboni, bassotuba, due arpe ecc., oltre a due
cantanti solisti, un doppio coro e un coro di ragazzi. All'autore invero
non è del tutto estraneo qualche effetto pompier (specie verso la fine,
quando si giunge alla morte di Beatrice), ma essenzialmente egli dipinge
con colori pastello, e nell'Intermezzo appena ascoltato l'innesto della
«brodelnde Finsternis»[2] dei cromatismi dei fiati nell'introduzione al
primo coro della Johannespassion sugli archi del preludio del Parsifal
dimostra l'opportunità di attingere a Wagner per l'aspetto sacrale, non
solo per la sfera dell'eros o i momenti guerreschi, come è stato fatto
tante volte.
Il gentile invito del professor Pugliese di indagare anche su Wolf-Ferrari
dovrebbe portare a una verifica dei wagnerismi indiretti delle scene delle
baruffe nel finale secondo dei Quattro rusteghi (1906) e nel Campiello
(1936), il cui grande modello si identifica con la Prügelszene del finale
secondo dei Meistersinger, ma ragioni di tempo mi spingono ad abbandonare
Wolf-Ferrari a favore di Franco Alfano, di pochi anni più grande di
Respighi, per meglio inquadrare quest'ultimo.
Dopo Il principe Zilah (1909) anche nell'Ombra di Don Giovanni (1914)[3]
ritorna la tematica della redenzione – del protagonista, s'intende – per
mezzo di una donna che gli si sacrifica, nella fattispecie Vannina
d'Alando. Il librettista Ettore Moschino[4], certo, legge Wagner con gli
occhi di D'Annunzio, ma è pur sempre Wagner che traspare dalle pieghe del
testo, in cui Alfano si rivela già sulla via «dell'avvento del misticismo
in musica», come avrebbe poi formulato nel 1921[5]. Nella Corsica arcaica
del Seicento si sprecano i riferimenti alla ritrovata religiosità di Don
Giovanni, contrito, di ritorno dalla Spagna, che narra le sue famigerate
gesta al fido Rinuccio, ritirandosi poi nell'Oratorio di famiglia a
pregare, mentre fuori si radunano i parenti di un ennesimo Alando ucciso in
una faida secolare, ritenendone responsabile il protagonista. Il secondo
atto si apre con una lettura della Bibbia, il terzo con un lamento funebre,
forse più barbaro che cristiano, prima che Don Giovanni riappaia, ancora in
veste di espiatore, cui s'aggiunge infine Vannina, sempre nell'Oratorio,
laddove si consuma il connubio di sacro, eros e thanatos, tipico del gusto
dannunziano[6]: il castello, incendiato dalla folla inferocita, serba
l'unione di Vannina e Don Giovanni, finalmente perdonato, poiché l'ultima
sua vittima accetta il sacrificio in nome dell'amore, purificato dalle
fiamme.
La luce della trasfigurazione finale rimanda non solo all'idea di Erlösung
wagneriana, misticheggiante e non lontana da temi indiani, che possiamo
intravedere nell'incendio del Campidoglio del Rienzi come nell'olocausto di
Brünnhilde, ma anche al «chiarore da prima azzurrognolo, poi via via
perlàceo e alquanto dorato» che illumina grado a grado l'ultima scena della
Leggenda di Sakuntala (1921)[7]. Considerando poi che lo stesso Alfano,
riferendosi, a proposito dell'incompreso Don Giovanni – il cui protagonista
«è in odore di santità»[8] –, al «desiderio dell'ultra terreno tangibile»,
si chiede «chi mai ha discusso, per esempio, l'apparizione di Lohengrin
sulla navicella tirata da un cigno?»[9], non pare troppo azzardato
intravedere nella presentazione del «fanciullo coperto di veli» un omaggio
a Lohengrin. L'apparizione di Gottfried, emerso dalle acque al posto del
cigno, destando lo stupore degli astanti – «Alle betrachten ihn mit seligem
Erstaunen, die Brabanter senken sich huldigend vor ihm auf die Knie»[10] –,
viene ricalcata da Alfano a tal punto da prescrivere che «Il Re si desterà
dal suo stupore e insieme a tutto il popolo si genufletterà innanzi
all'apparizione dell'erede atteso»[11]. L'epifania del figlio di Sakuntala,
oltre tutto, è un'invenzione del compositore, poiché nel settimo atto del
dramma di Kalidasa la fanciulla, ormai madre di un bambino fiero ed
irruento, si ricongiunge con il Re, mentre in Alfano, disperata per non
essere stata riconosciuta dall'antico amante, si slancia

verso lo stagno delle ninfe,
le braccia tese al cielo
come per invocare
un aiuto divino!
A un tratto una nube di fiamma
l'avvolse, la ghermì...[12]

rivolgendosi poi con «lontana dolcissima voce»

dalle cime superne
sfolgoranti di fiamme

al Re, annunciandogli che

Era scritto
che una vita di luce nascesse
dal più grande martirio d'amor.[13]

«Sakùntala immortale» da un altro mondo, irraggiungibile – «In fernem Land,
unnahbar euren Schritten» –, annuncia al Re il «Giovine eroe del mondo»,
come Lohengrin, anch'egli una creatura celeste, ammonisce

Seht da den Herzog von Brabant, –
zum Führer sei er euch ernannt.[14]

Nel 1935, sempre a proposito di Lohengrin e dell'Ombra di Don Giovanni,
Alfano avrebbe osservato: «Leggenda?... Leggenda quella, leggenda la
nostra. Ma in Italia la leggenda, opera di un italiano, non è ammessa
[...]»[15], riferendosi forse anche alla propria Leggenda di Sakuntala, cui
non arrise mai il vero successo, e nella quale egli aveva versato anche
della farina del suo sacco. Come quel richiamo di Priyàmvada alla fine del
primo atto

Usignoli... separatevi!
La notte scende![16]

che non trova riscontro nel dramma di Kalidasa, ma che appare modellato
sugli avvertimenti di Brangäne del secondo atto di Tristan und Isolde. Le
analogie dell'inizio del primo atto con l'apertura del Parsifal (la scena
di caccia, con gli stessi timori degli eremiti per la violazione della
selva penitenziale) sono forse più casuali, dovute alla corrispondenza
della situazione con il primo atto di Kalidasa; l'elemento floreale
sorprendentemente è presente in ambedue i secondi atti (il demoniaco
Klingsor e le fanciulle fiore/la maledizione di Durvàsas, Priyàmvada e
Anùsuya «intente a disporre ghirlande»). È forse da tenere presente
l'importanza del Parsifal per Pelléas et Mélisande, che a sua volta pesò
sulle scelte di Alfano: la stasi, il lirismo, l'assenza d'azione accomunano
i tre capolavori, nati a distanza di un ventennio l'uno dall'altro. Le
atmosfere trasognate, i cori celesti, il misticismo insito nell'attesa del
Salvatore potrebbero indurre a speculazioni circa un influsso del Parsifal
su Sakuntala, come anche l'analogia della memoria tornata di colpo (bacio
di Kundry/anello portato dal pescatore) costituisce la premessa per degli
exploit tenorili memorabili («Amfortas! Die Wunde!»/«Sakùntala!
Sakùntala!») che si collocano ambedue in un'area tra il casto e il
sensuale, del tutto peculiare, e forse non a caso. La presenza di un saggio
(Gurnemanz/Kanva), padre-guida per le figlie nate dal peccato (Sakuntala) o
incapaci di liberarsene (Kundry), rafforza l'ipotesi della filiazione
(anche attraverso Arkel?), nei limiti di ogni riflessione del genere.
Alfano, infine, si formò negli anni del wagnerismo più acceso: a Napoli
avrà assistito al Tannhäuser (1889) e al Lohengrin (1893) al San Carlo,
mentre egli stesso ricorda «inebbrianti cicli wagneriani»[17] in quel di
Lipsia.
Se in Alfano la recezione di Wagner a livello musicale lascia tracce solo
indirette, in Giordano – e mi scuso con l'amico Orselli se invado
brevissimamente il suo campo – la passione per il Lohengrin, ascoltato nel
1892 a Vienna[18], lo induce a tributargli un sentito omaggio nell'Andrea
Chénier (1896).

ESEMPIO MUSICALE n. 2:
Umberto Giordano, Andrea Chénier, atto primo, spartito, p. 12: ingresso di
Maddalena (0'35") – R. Tebaldi, E. Bastianini/G. Gavazzeni

L'orchestrazione, gli intervalli del recitativo qui appaiono del tutto
simili a quelli di molti passi del Lohengrin, e ne risulta una «Aura der
Verklärung», un'aura di trasfigurazione – come ebbe a definire Karl Georg
Berg il risultato di analoghi procedimenti negli ingressi delle
protagoniste in Tosca, Adriana Lecouvreur [gli arpeggi!] nonché Madama
Butterfly[19] – che rivela una filiazione diretta dall'opera del maestro di
Bayreuth.
In Respighi, invece, nonostante la sua origine bolognese e la conseguente
familiarità con l'opera wagneriana, si cercherebbero quasi invano omaggi
espliciti. Suo padre, fervente wagneriano, si era fatto portare sul letto
di morte lo spartito della Walkiria[20], ma il figlio non giungeva a tanto,
anche se è del tutto evidente come all'epoca fosse impossibile sottrarsi
all'influsso wagneriano, sicché anche il giovane Ottorino sperimenta le
magie sonore d'oltralpe.

ESEMPIO MUSICALE n. 3:
Ottorino Respighi, Semirama, atto primo, spartito, pp. 15/16: Scena II,
sola orchestra (2'15") – Hungarian State Orchestra/Lamberto Gardelli

La lezione di Wagner recepita è la delicatezza del Siegfried-Idyll, a
dispetto della trama ricca di passioni al calor bianco della Semirama
(Bologna, 20 XI 1910), rifacimento in chiave dannunziana della nota vicenda
già musicata da Rossini e Florent Schmitt, culminante in un matricidio. Il
che, data la vicinanza cronologica dell'Elektra (Dresden, 25 I 1909),
suggerirebbe echi straussiani, ma Respighi aveva terminato l'opera (avviata
nella primavera del 1908) già nell'estate del 1909, pochi mesi dopo il
ritorno da Berlino, dove invero il soggiorno durante l'inverno 1908/09
potrebbe averlo messo a contatto quantomeno con la partitura
straussiana[21]. In compenso, nel duetto d'amore conclusivo del primo atto
di Semirama, l'altro soprano, Susiana, vagheggia almeno verbalmente di

Morire di morte d'amore e vivere, vivere!

Un Liebestod, insomma, vissuto nello stesso torno d'anni anche dalla
protagonista della Gloria di Cilea (Milano, 15 IV 1907), senza che peraltro
la sostanza musicale tristaniana penetri nel tessuto delle partiture.
Curiosamente, nello stesso 1909 di Semirama, nella lirica Pioggia, su testo
di Victoria Aganoor Pompilij, la sezione B è costituita da una citazione
letterale dal Tristan:

ESEMPIO MUSICALE n. 4:
Ottorino Respighi, Pioggia: sezioni B e A' (1'20") – Lucio Gallo/Erik
Battaglia

Laddove il Tristano è impiegato a sottolineare «l'angoscia dell'ardor» di
una pianta, poi ristorata da cascami acquatici di derivazione debussyana.
Tra le rare testimonianze respighiane circa il suo interesse per Wagner va
rammentata una in particolare: «[...] De Sabata è un direttore diseguale,
nervoso, morboso talvolta: ma l'emozione che mi ha dato il Tristano che
diresse alla Scala non la posso dimenticare...»[22] (molti anni dopo,
s'intende). Una delle partiture, forse, che più lo affascinavano: sembra,
tuttavia, che Respighi, grande appassionato di musica barocca, instancabile
trascrittore di antichità italiche, fin da tempi non sospetti
(l'orchestrazione del Lamento d'Arianna risale al 1908!), non fosse
attratto più di tanto dal mondo wagneriano, che lo guardasse con rispetto
da lontano, piuttosto che perdervisi voluttuosamente, come tanti suoi
coetanei.
Nel 1931, ricorda Elsa, «il tono eccessivamente teutonico delle
manifestazioni wagneriane [Parsifal e Tannhäuser diretti da Toscanini a
Bayreuth] e di tutto l'ambiente in generale non ci fa una bella
impressione»[23].




Ciò nonostante, echi wagneriani si riscontrano in qualche altro luogo di
Respighi. Sentiamo un frammento dal Mormorio della foresta:

ESEMPIO MUSICALE n. 5:
Richard Wagner, Siegfried: Waldweben (1'20") – New York Philharmonic/Artur
Rodzinsky (1945)

Non è da escludere che si possa ravvisare qui l'ispirazione lontana per
l'apertura della Primavera, il primo pannello del Trittico botticelliano
(1927):

ESEMPIO MUSICALE n. 6:
Ottorino Respighi, Trittico botticelliano: Primavera (1'20") – The Argo
Chamber Orchestra/László Heltay (1978)

Gli stessi trilli degli archi, analogo attivismo dei fiati, solo accelerato
e in chiave modernista, lo stesso incanto della natura, vista sempre da
occhi candidi di fanciullo.
L'ingenuità, tuttavia, nonostante sia stata una componente fondamentale del
carattere sfaccettato sia di Wagner sia di Respighi, non risalta
principalmente qualora si voglia sondare i debiti di quest'ultimo con il
grande avo dell'opera moderna. Sarà piuttosto il fuoco della passione
amorosa, il perdersi nel proibito dell'incontro assolutizzante, dove
Respighi non può che calcare le orme wagneriane. Dopo Semirama, ciò è
evidente soprattutto ne La fiamma (Roma 1934), laddove l'attrazione tra
Silvana, figlia di maga nonché seconda consorte dell'anziano esarca
Basilio, e il di lui figlio di primo letto Donello, di ritorno da Bisanzio
nell'asfittica atmosfera della reggia ravennate, sfocia immancabilmente
nell'adulterio e nella conseguente tragedia. La morte dell'esarca, causata
dal trionfante annuncio del tradimento da parte della stessa Silvana, sarà
espiata dall'adultera, accusata di stregoneria e processata senza che
riesca a professarsi innocente. Alla fine del secondo atto, tramite la
fiamma «che sì fiera avvampa entro di {lei}» e che dà il titolo al'opera,
Silvana evoca Donello, che prontamente appare, ed «ebbri di perdizione» «si
baciano in bocca».

ESEMPIO MUSICALE n. 7:
Ottorino Respighi, La fiamma, atto secondo, spartito Ricordi, p. 184:
finale dell'atto (0'45") – Orchestra del Teatro dell'Opera di
Roma/Gianluigi Gelmetti

Nel duetto successivo alla notte d'amore, che introduce l'atto terzo, gli
arroventati colori orchestrali dipingono l'effetto dirompente della
passione, la quale porta gli amanti sulle soglie dell'annichilimento, e non
per nulla Donello appare tristanianamente vinto da un «sottil filtro» (p.
193 dello spartito).

ESEMPIO MUSICALE n. 8:
Ottorino Respighi, La fiamma, atto terzo, spartito, pp. 185-187 (1'10");
pp. 189-90

Dopo le infuocate pagine di ispirazione wagneriana (e čajkovskiana, forse,
viste anche le simpatie russe di Respighi), tuttavia, è la volta di
Monteverdi. «Dolce la morte, mentre ancor le vene tremano tutte del gioito
bene» – il recitar cantando riscritto sottolinea come i grandi temi
wagneriani: il medioevo mitico, il misticismo, il Gral, la redenzione, il
superomismo, la mitologia nordica, non siano in realtà nelle corde di
Respighi, attratto più dal medioevo reale, le cui melodie gregoriane non si
stancava di adoperare, o dal rinascimento storico. In definitiva in lui
prevaleva l'interesse per la musica strumentale, ed egli, pur ambendo al
grande successo operistico, non vi intravedeva l'unica via di salvezza. In
questo Alfano era molto più ottocentesco, dannandosi per tutta la vita a
inseguire il successo definitivo, mentre invece Respighi, operista sui
generis, eclettico quanto basta per trovarsi ovunque a suo agio, aveva
forse una concezione più artigianale dell'arte. Meno misticismo, dunque, di
Alfano, e qualora compaiano fiamme, non sono quelle della redenzione
wagneriana, bensì, più modestamente, quelle di una magia un po' casereccia,
che all'appassionato occultista Respighi sarà piaciuta anche perché
circoscriveva gli effetti all'ambito privato.
Nei suoi Quaderni, infine, il librettista Claudio Guastalla rammenta come
sia stato egli stesso, nel 1926, a suggerire a Respighi «l'idea di un poema
sinfonico» su Nerone, in quattro quadri: «"L'orgia", "Il matricidio", "Il
teatro e i cristiani nel circo", "L'incendio di Roma" {poi mai realizzato}.
L'incendio fu il primo a dileguare: io insistevo che un Nerone senza
l'incendio di Roma non avrebbe avuto ragione d'essere; Respighi rispondeva
che dopo "l'incantesimo" del fuoco non c'è più nulla da dire in fatto di
incendio e che quando in un luogo c'è passato Wagner è più igienico girare
al largo...»[24].

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[1] Guido Salvetti, Händel contro Wagner nel teatro musicale del Novecento,
in Metamorfosi nella musica del Novecento: Bach, Händel, Scarlatti. Atti
del convegno (Cagliari 1985), a cura di Antonio Trudu, Milano, Unicopli,
1987 (Quaderni di Musica/Realtà 13), pp. 59-63.
[2] Joachim Kaiser, J. S. Bach: Johannes-Passion, nel booklet
dell'incisione diretta da Karl Forster del 1961 (CD EMI CMS 7 64234 2),
Köln, EMI Electrola, 1992, pp. 5-9: 6.
[3] Cfr. anche Johannes Streicher, L'ombra di Don Giovanni, in Dizionario
dell'opera, a cura di Piero Gelli, Milano, Baldini e Castoldi, 1996, pp.
899-900.
[4] Su Ettore Moschino, nato all'Aquila nel 1872, drammaturgo allora di
nome, cfr. Enrico Polese S., Ettore Moschino, «L'Arte Drammatica e il
Teatro Drammatico» (Milano), xl/25 (22 aprile 1911), p. 1; Alberto De
Angelis, L'Italia musicale di oggi. Dizionario dei musicisti, Roma,
Ausonia, 1918, 31928, p. 335, e Carlo Schmidl, Dizionario universale dei
musicisti, Milano, Sonzogno, 1929, vol. ii, p. 138.
[5] Cfr. anche Johannes Streicher, Casanova, Mystik und Feminismus. Von
Franco Alfano bis Dacia Maraini: Don Giovanni in Italien, in Europäische
Mythen der Neuzeit: Faust und Don Juan. Atti del convegno (Salzburg 1992),
a cura di Peter Csobádi, Gernot Gruber, Ulrich Müller e altri,
Anif/Salzburg, Verlag Ursula Müller-Speiser, 1993, vol. i, pp. 299-314: 299-
305.
[6] È questa la scena del manifesto Ricordi di Giuseppe Palanti, riprodotto
in bianco e nero in Mascagni, Milano, Electa, 1984, p. 29 (tavola 26); cfr.
anche Gianni Gori, Il fascino perverso della piovra nel "teatro di poesia"
post-romantico, in Mascagni e l'«Iris» fra simbolismo e floreale. Atti del
2° convegno di studi su Pietro Mascagni (Livorno 1988), a cura di Mario
Morini e Piero Ostali, Milano, Sonzogno, 1989, pp. 71-8: 76-7.
[7] Franco Alfano, Sakúntala, Milano, Ricordi, 1921, ristampa (del
libretto) 1953, p. 52.
[8] Cfr. la lettera ad Arturo Rossato del 17 febbraio 1920, in Ultimi
splendori. Cilea, Giordano, Alfano, a cura di Johannes Streicher, Roma,
ISMEZ, 1999.
[9] Cfr. Della Corte, Ritratto di Franco Alfano, Torino, Paravia, 1935, p.
48.
[10] Richard Wagner, Lohengrin, iii, 3: penultima didascalia.
[11] Alfano, Sakúntala, didascalia finale.
[12] Ivi, p. 51.
[13] Ivi, p. 52. Nella nuova partitura del 1952 Alfano cambiò sensibilmente
i versi del finale.
[14] Wagner, Lohengrin, iii, 3: gli ultimi versi dell'eroe eponimo (Alfano
li lesse in tempi non sospetti!).
[15] Della Corte, Ritratto, p. 48.
[16] Alfano, Sakúntala (libretto 1953), p. 26.
[17] Cfr. Della Corte, Ritratto, p. 19.
[18] Cfr. Daniele Cellamare, Umberto Giordano. La vita e le opere, Milano,
Garzanti, 1949, p. 33.
[19] Cfr. Karl Georg Berg, Giacomo Puccinis Opern. Musik und Dramaturgie,
Kassel, Bärenreiter, 1991, pp. 53 e 83.
[20] Cfr. Ottorino Respighi. Dati biografici ordinati da Elsa Respighi,
Milano, Ricordi, 1954, ristampa 1985, p. 10.
[21] Cfr. Ottorino Respighi, Milano 1954, pp. 31 e 36.
[22] Cfr. Ottorino Respighi%~'"¦ÐÑòôõöfq²
¹
biHU)z Å, Milano 1954, p. 68.
[23] Cfr. Ottorino Respighi, Milano 1954, p. 248.
[24] Cfr. Ottorino Respighi, Milano 1954, p. 193.
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