Rileggendo Piero Camporesi \"Academico di nulla academia\"

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RILEGGENDO PIERO CAMPORESI “ACADEMICO DI NULLA ACADEMIA” di Luigi Matt Rileggendo oggi le opere di Camporesi ci si accorge che, se le si affronta in modo non semplicistico, esse offrono un efficace modello di discorso intellettuale evoluto proprio in certi settori un tempo “alternativi” e ormai da anni pacificamente riassorbiti nelle stesse logiche di mercato che dominano tutti gli ambiti della produzione culturale di massa.

Con un’iniziativa quanto mai opportuna, Il Saggiatore ha preso a ripubblicare i libri di Piero Camporesi: nel giro di pochi mesi sono usciti Il pane selvaggio e Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano. Si può sperare che ciò valga da stimolo a diffondere, anche presso un pubblico di non specialisti, il lavoro di un intellettuale atipico nel panorama culturale italiano, i cui insegnamenti hanno ancora molto da offrire. Camporesi ha incarnato la figura probabilmente più significativa di studioso capace di improntare il proprio lavoro ad un eclettismo inteso nel senso migliore, non come impressionismo e mancanza di metodo – caratteristiche sin troppo ben rappresentate tra i saggisti non solo italiani – ma come disponibilità a far interagire strumenti di provenienza assai diversa (storico-letteraria, artistica, antropologica, economica, e molto altro ancora), e ad accostarsi a temi di indagine non convenzionali. Il fatto che molti di quei temi siano poi diventati di moda, con inevitabili effetti di banalizzazione, non deve evidentemente indurre a sottovalutare la portata innovativa di certe scelte. Per far solo l’esempio più ovvio, quando nel 1970 uscì la magistrale edizione einaudiana della Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi («una edizione lavorata, annotata, presentata con le cure che tradizionalmente

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si riservano ai classici», come notava un recensore d’eccezione: Giorgio Manganelli) l’onnipervasività che il tema del cibo ha assunto oggi non era in alcun modo immaginabile, e dedicarvi attenzione ed impegno richiedeva, per un professore universitario, una buona dose di coraggio.

Rileggendo oggi le opere di Camporesi ci si accorge che, se le si affronta in modo non semplicistico, esse offrono un efficace modello di discorso intellettuale evoluto proprio in certi settori un tempo “alternativi” e ormai da anni pacificamente riassorbiti nelle stesse logiche di mercato che dominano tutti gli ambiti della produzione culturale di massa (è il fenomeno per cui ad esempio nelle librerie degli aeroporti la sezione dei testi che divulgano la spiritualità orientale si può trovare a fianco di quella dei manuali per aspiranti manager). Esse costituiscono in particolare un ottimo antidoto al pasolinismo deteriore che affligge una certa pubblicistica: leggendole si tocca con mano il fatto che ci si può dedicare alla cultura popolare senza cedere a facili forme di populismo, si può studiare con passione e competenza i modi di vita del passato senza abbandonarsi ad atteggiamenti nostalgici, si possono mettere in luce gli aspetti più duri delle condizioni materiali delle classi subalterne senza assumere il comodo schermo del patetismo. Molto apprezzabile, nel Pane selvaggio e nelle Belle contrade, come del resto in tutti i libri

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dell’autore, è l’adozione di una scrittura che raggiunge felicemente la piena leggibilità senza rinunciare a nessuna risorsa di complessità e anche di eleganza. Con un equilibrio non comune nella saggistica italiana, in cui con qualche eccezione specialismo e divulgazione appartengono a mondi non comunicanti tra loro, Camporesi scrive pagine che allo stesso tempo sono utilizzabili a fini di studio e godibili. Il rifiuto di alcuni tipici vezzi adottati da tanti saggisti di successo che sembrano spartirsi i ruoli di uno spettacolo ben misero – il gergo da iniziati, la prosa “rondista”, le brillanti e fatue chiacchiere pop – è certamente anche il riflesso di un apprezzabilissimo disinteresse per il protagonismo: all’autore preme evidentemente mettere in primo piano non sé stesso, ma gli oggetti delle sue indagini: ne è una spia, tra l’altro, la tendenza a lasciar emergere con generosità le parole delle fonti, mai soverchiate dalla voce del critico.

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Se la lettura dei libri di Camporesi è da consigliare senza riserve, sarebbe irresponsabile proporre ad un giovane studioso di ripercorrerne le orme: infatti, il lavoro di questo academico di nulla academia (come si autodefiniva riprendendo il motto di Giordano Bruno: l’etichetta è stata opportunamente recuperata nel titolo della raccolta di saggi camporesiani pubblicata una decina di anni fa da Elide Casali), già poco digeribile nei decenni scorsi, sarebbe oggi considerato del tutto inaccettabile se messo in opera da chi volesse intraprendere la ricerca universitaria. Le attuali politiche della valutazione – costruite su una miscela letale di protervia e ignoranza – non lasciano alcuno spazio a percorsi di studio non inquadrabili in settori precisi, e scoraggiano nei fatti la pratica di quella interdisciplinarità che invece, come puro flatus vocis, ricorre spessissimo nei discorsi tronfi e vacui della pseudoscienza didattica.

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