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June 6, 2017 | Autor: M. Cherubini Elfo... | Categoria: Historia del Arte
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Fig. 1. Giuseppe Valeriano e Scipione Pulzone, Assunzione della Vergine, Roma, Chiesa del Gesù, cappella della Madonna della Strada.

MASSIMO MORETTI

Scipione Pulzone e la professione del dipingere nel secondo Cinquecento

Con la morte di Michelangelo (febbraio 1564), a pochi mesi dalla redazione del decreto sulle immagini sacre e dal seguente scioglimento dell’assise tridentina che proprio sul Giudizio Universale si era vivacemente confrontata 1, si crearono i presupposti per una revisione del ruolo e della professione dell’artista, esortato nel dopo concilio a rinunciare in parte alla sua libertà, a disciplinarsi sottoponendosi al controllo dell’autorità, a contribuire all’opera di riforma della Chiesa e delle immagini sacre 2. I primi destinatari del decreto, tuttavia, non furono i pittori ma i vescovi, ai quali il concilio riservava doveri e poteri esclusivi in merito alle immagini naturalmente nei limiti della giurisdizione delle singole diocesi. In sede storiografica si è discusso sull’esistenza o meno di uno stile tridentino, ovvero sull’intenzione dei padri conciliari di offrire orientamenti sugli aspetti formali dell’arte. Jedin ha negato questa possibilità, facendo notare come il decreto, sollecitato in particolare dal partito francese, rispondesse innanzi tutto all’esigenza di fornire ai cattolici uno strumento risolutivo per la controversia sull’uso delle immagini nelle chiese, eliminando gli abusi che prestavano il fianco agli oppositori protestanti 3. Per Eugenio Battisti, lo stile tridentino si identifica al meglio nel naturalismo di matrice settentrionale che trova in Caravaggio il suo massimo esponente 4. Alcuni decenni prima, il giovane Alberto Graziani aveva individuato, tra i pochi pittori che a Bologna e in Italia realizzarono un’“arte della Controriforma”, Bartolomeo Cesi 5, facendo risalire la matrice rigorista della sua pittura alla scuola romana e in particolare all’opera esemplare di Scipione Pulzone «col quale l’arte controriformata nel senso stretto e interiore della parola raggiunge l’espressione più severa» 6. Graziani definisce lo stile del Pulzone con espressioni non lusinghiere, attribuendogli un’influenza negativa sulla pittura del Cesi, nella quale «la naturalezza di approssimazione al vero dell’arguto disegno poccettiano è stata temperata o piuttosto umiliata alla determinazione formale da lui conosciuta a Roma, cristallizzata autorità di formule classiche asservite agli ideali religiosi» 7. Per il pittore gaetano Graziani usa espressioni come «severa aridità formale», «tirature di etichetta pulzonesca», o «sciatta cifra pulzonesca» 8. Zeri, obliterando le riflessioni del Graziani 9, precisa e meglio definisce il significato «onestissimo e devotissimo» della pittura «senza tempo» di Pulzone, frutto della «spietata mortificazione dei ‘capricci de’ moderni

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pittori’» e dell’annientamento di «ogni minimo residuo di quel sapore intimamente classico che è vanto del modello dal quale la pittura ha tratto spunto» 10. Ciò che sembra unire Pulzone, Cesi, Caravaggio è un realismo, diversamente dosato, di derivazione settentrionale. Considerando la produzione pittorica della Roma papale da Gregorio XIII a Clemente VIII, si giunge tuttavia all’immediata conclusione che negli ultimi tre decenni del Cinquecento a prevalere fu la maniera disciplinata dal grande cantiere pittorico, terreno di sperimentazione della regola senza licenza, dove le esperienze regionali si rimescolano e tendono a unificarsi sotto la direzione, e spesso il disegno, di soprintendenti operanti nello stretto controllo dell’autorità pontificia. Il decreto non indicava quindi una “maniera” di riferimento, una cifra stilistica naturalistica piuttosto che arcaizzante o semplificata; pretendeva piuttosto rappresentazioni decorose, cioè verosimili in quanto «prototypi dignitati, et sanctitati apte 11», con la precisa indicazione di evitare figure lascive e di procace bellezza. L’inesistenza di una maniera che potesse servire da modello universale è comprovata dall’assenza, negli scritti più ufficiali del cardinale Paleotti, di Carlo e di Federico Borromeo, di riferimenti puntuali allo stile esemplare di artisti del passato o viventi, pur non mancando, più in generale, espressioni a favore di una cifra improntata al realismo, alla verosimiglianza e al naturalismo delle figure o di biasimo contro sproporzioni e ardite torsioni manieristiche 12. Nel suo Discorso, il cardinale di Bologna nomina alcuni esempi di artisti che «si sono segnalati anche per la loro pietà, devozione e bontà cristiana, espresse nelle opere che lasciarono in questo mondo» (tra questi Beato Angelico, Fra Bartolomeo e più inaspettatamente Albrecht Dürer) 13, ma senza innalzare alcuno a modello di stile. Allo stesso modo Federico Borromeo propone come esempio di carità cristiana lo scultore Annibale Fontana «eccellente nell’arte non meno che nella pietà» 14. Come ha dimostrato Jedin, il concilio volle evitare una discussione che scendesse troppo sul merito, rinunciando a una trattazione esauriente in materia di culto delle immagini e attenendosi a poche generiche asserzioni saldamente fondate sull’autorità del Niceno II 15 ma suscettibili di una più dettagliata regolamentazione da parte dei vescovi attraverso i rinnovati strumenti delle visite pastorali e dei sinodi diocesani 16. Si confermava con forza, invece, la centralità del genere storico (historiae mysteriorum nostrae redempionis, historieae et narrationes sacrae scripturae) per la funzione pedagogica delle immagini universalmente riconosciuta come avevano dimostrato anche i risultati delle conferenze interreligiose di Poissy (agosto-ottobre 1561) e St. Germain-en-Laye (gennaio-febbraio 1562) 17. Il concilio aveva riaffermato l’irrinunciabilità delle immagini sacre, perché attraverso le storie dei misteri della redenzione espresse con la pittura si ammaestrava e si confermava il popolo negli articoli di fede da ricordare e ripetere assiduamente («commemorandis et assidue recolendis»). Si raccomandava, inoltre, di porre innanzi agli occhi dei fedeli le meraviglie operate da Dio nella vita dei santi, evitando accuratamente le immagini che rappresentavano dogmi falsi, che incitavano la superstizione, che apparivano disoneste o profane, convenendo alla casa di Dio la santità («cum Domum Dei deceat sanctitudo») 18. Ammaestrare e confermare, dunque, attraverso le Sacrae historiae: questa la missione principale dell’artista, negli stessi anni

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in cui a Bologna il Sigonio era protagonista della rinascita della storia ecclesiastica antica e delle tradizione religiose felsinee 19, mentre a Roma Cesare Baronio, su invito di Filippo Neri, continuava a tenere le sue conferenze ai padri dell’oratorio, creando le basi di un’“officina storica” che, a partire dall’inverno 1576-77 20, avrà il compito di confutare le letture e i giudizi sulle vicende della Chiesa presentati dai Centuriatori di Magdeburgo nella Ecclesiastica Historia stampata a Basilea in sette volumi tra il 1559 e il 157421. Al dictum Horatii, l’ut pictura poësis, il concilio predilige l’ut pictura historia. Prendendo spunto dalla distinzione offerta da Gian Andrea Gilio nei Due dialogi (1564), si può ben dire che la prima controriforma rivolse il suo interesse al “pittore historico” piuttosto che al “pittore poetico” 22. Il primato della pittura di storia, già formulato da Leon Battista Alberti senza alcuna preoccupazione teologica o morale 23, trovò dunque un suo rilancio, affinché la pittura potesse svolgere la primaria funzione assegnatagli dal Concilio. Tale passaggio presupponeva, lo si è già detto, una certa contrazione della libertà dell’artista, evocata dai cosiddetti “moralisti” tra i quali, oltre al sacerdote di Fabriano, spiccano il fiammingo Giovanni Molano e il cardinale di Bologna Gabriele Paleotti 24. Ma è nel De pictura sacra di Federico Borromeo che si mette a punto la richiesta di un superamento del «detto ormai vieto che ai pittori e ai poeti tutto è lecito». La libertà del pittore, chiuso il Concilio, andava moderata con regole fisse e severe cosicché non si potesse più ignorare la strada certa segnata dal rigore dei precetti 25. Era opinione piuttosto diffusa che l’artista dovesse abbandonare certe smanie di affermazione, certi personalismi eccessivi che lo spingevano a dimostrare la sua capacità attraverso una maniera artificiosa a volte poco funzionale a una immediata comprensione dell’historia, di quei misteri della salvezza ai quali esplicitamente, nelle scarne e orientative indicazioni approvate nella venticinquesima sessione del Tridentino, si erano riferiti i padri conciliari. La pittura doveva passare necessariamente a un linguaggio da vulgata, abbandonare la poesia per la prosa, preferire il racconto alla metafora: nihil incertum apocryphumque, scriveva Carlo Borromeo nelle Instructionum fabricae 26. In parallelo all’eccezionale opera di riscrittura della storia ecclesiastica, cominciando dalle vicende di Gesù (l’«evangelica historia» come la chiama Baronio), con il pontificato di Gregorio XIII e poi di Sisto V nella capitale pontificia vi fu un’intensa, programmatica ed epocale impresa di traduzione pittorica delle tappe fondamentali della Historia salutis, dall’antico testamento sino agli ultimi supplementari trionfi contro i Turchi e gli Ugonotti celebrati nella Sala Regia del Palazzo apostolico vaticano 27. La loggia che ospita la cosiddetta “Bibbia di Raffaello”, dipinta con la collaborazione della scuola nel secondo decennio del Cinquecento con episodi dell’Antico testamento e, soltanto nell’ultima volta a padiglione, del nuovo testamento, venne completata per volontà di papa Gregorio XIII con scene evangeliche sotto la direzione di Lorenzo Sabatini e, dopo la sua morte, del figlio Mario 28. La centralità dei misteri della Passione, sintesi suprema e chiave interpretativa dell’intera storia della salvezza, celebrata con il ciclo del Gonfalone avviato già nel 1569 29, trovò una formulazione più corsiva nell’illustrazione della Scala Santa lateranense voluta da Sisto V, dove si

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sperimentò una catechesi figurata a doppio registro, quello popolare della narrazione e quello più colto delle concordanze bibliche 30. Con la stessa fretta con la quale venne realizzata la Bibbia di Sisto V, data alle stampe ricca di imprecisioni, refusi e interpolazioni indebite 31, papa Peretti, accelerando ulteriormente i ritmi esecutivi sperimentati dal suo predecessore nelle grandi imprese della Galleria delle Carte Geografiche, della Cappella Gregoriana e delle Logge, volle che ogni spazio bianco del grande Palazzo lateranense celebrasse quella vulgata, confermando inoltre, nella Sala dei papi e degli imperatori, la provvidenziale continuità storica tra l’antica Roma e la Roma moderna di Sisto V, la validità della successione apostolica e le buone azioni del pontificato 32. Anche sugli elogia martyrum i novatores avevano giocato di anticipo: nel 1554, trent’anni prima del Martyrologium Romanum curato da Baronio e del Trattato de gli instrumenti di martirio di Antonio Gallonio (1591), uscivano contemporaneamente i martirologi di tre diverse confessioni: a Ginevra Le Livre des Martyrs dell’ugonotto Jean Crespin, a Strasburgo le Historien Der Heyligen Ausserwölten Gottes Zeügen Bekennern und Martyrern del luterano Ludwig Rabus e i Commentarii dell’esiliato inglese John Foxe che nel 1563 pubblicherà il primo martirologio illustrato del XVI secolo (Acts and Monuments, meglio noto come Book of Martyrs) 33. Le guerre di religione furono accompagnate in Europa da una guerra dei martiri e dei martirologi 34 entro la quale prendono forma i cicli martiriali romani dipinti a partire dagli anni Ottanta del Cinquecento 35. Per quanto riguarda la celebrazione dei martiri e del martirio, Roma si impegnò a recuperare il ritardo sul doppio binario della scrittura e della rappresentazione pittorica. Le edizioni baroniane del martirologio, gli scritti sui martiri di Gallonio, furono addirittura anticipati dagli innovativi cicli martiriali di cui si andava rivestendo l’Urbe nei primi anni Ottanta del Cinquecento, fungendo da modello per altre realtà direttamente legate a Roma, come dimostrano le vicende della perduta decorazione commissionata dall’arcivescovo Gabriele Paleotti per la cripta della sua cattedrale bolognese 36. «In questo genere valentuomo» fu Nicolò Circignani il quale, in stretta collaborazione con Matteo da Siena, realizzò in breve tempo il vasto ciclo di S. Stefano Rotondo, divenendo un modello di pittore cristiano, di pittore-oratore che partecipa alla rinnovata opera di comunicazione ed educazione di gruppi più o meno vasti (in questo caso gli studenti del collegio germanico ungarico) istruiti per essere missionari usque ad effusionem sanguinis. Tale ruolo comprimario nell’istruzione dei fedeli e nella formazione delle giovani generazioni cattoliche affidato dalla Chiesa agli artisti, richiedeva un profilo umile, non affatto principesco, del mestiere del pittore. Giovanni Baglione ne dà conto proprio nella vita del Circignani, descrivendolo «pratico Pittore» che intraprendeva grandi lavori «con molta prestezza, e con poca moneta […] si ché da molte fatiche riportò poco guadagno» 37. Federico Zeri, pur ritenendo «esiguo» il merito del Pomarancio e del Tempesta nell’impresa di Santo Stefano Rotondo, ne mette in luce la capacità di porre «limiti alla propria personalità, attenendosi rigorosamente alla parte di esegeta delle didascalie iscritte nelle targhette bilingui alla base dei singoli affreschi e delle lettere alfabetiche che accompagnano i vari episodi del martirologio» 38.

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Non era forse questo che la Chiesa della Controriforma si aspettava dai suoi pittori? Anche l’essere “prattico”, avere cioè facilità e prestezza nel dipingere costituiva una qualità, in contrapposizione alla “diligenza” e “accuratezza” che, pur con accezione positiva, Baglione attribuisce al Pulzone. L’artista romano definisce “buon prattico” artisti da cantiere come Lorenzo Sabatini, Giovanni Battista da Novara, Giacomo Stella, Matteo da Siena, Cesare Conti. Sono altresì definiti “diligenti” pittori come Tommaso Salini, il fiammingo Francesco da Castello, Girolamo Massei e lo scultore Pietro Paolo Olivieri, tutti artisti che condividono con il Gaetano una spiccata propensione al naturalismo (non sempre associato a una buona resa dello spazio e della composizione). Come segnala già il caso dell’impresa di Giorgio Vasari nella Sala dei Cento Giorni, la tempistica del dipingere costituiva una sfida e un possibile ritorno di immagine in termini di efficienza, vitalità e reattività della committenza. Sisto V, come noto, preferiva il fare presto al fare bene 39. Gli anni Settanta e Ottanta vedono l’avvicendarsi nelle impalcature di una “babele pittorica”, come l’ha definita Alessandro Zuccari 40, riunificata sotto la direzione quasi burocratica di capi cantiere non sempre di primissimo piano. Accanto a Lorenzo Sabatini, Marco Marchetti da Faenza, Girolamo Muziano, Cesare Nebbia e Giovanni Guerra si registrano le presenze di sovrintendenti destinati a rimanere nell’oblio e riesumati quasi esclusivamente dalle trascrizioni dei registri camerali 41. I numerosissimi pittori che si sono avvicendati a Roma negli ultimi tre decenni del sedicesimo secolo hanno trovato, incalzati dai ritmi dell’esecuzione, una lingua comune tesa all’universale, a volte corsiva certo, ma specchio di una guida salda, di orientamenti certi, di un’unità corporativa nella quale risultava difficile emergere e distinguersi. Gran parte delle stesure pittoriche ad affresco messe in opera durante il pontificato di Sisto V sarebbero rimaste totalmente anonime se biografi come Giovanni Baglione, Giulio Mancini e Gaspare Celio non si fossero preoccupati di tramandare, almeno parzialmente, i nomi degli artefici attivi nelle impalcature dei cantieri papali. Gli indirizzi di una nuova e concorde pittura corale, di grande effetto ma di non sempre felice riuscita nel singolo brano, sperimentata con successo da Gregorio XIII e perseguita da Sisto V, favorirono un processo di marginalizzazione di alcune personalità artistiche che per attitudine e carattere non accettarono in questa fase ruoli comprimari e non parteciparono a tali frenetiche imprese collettive. Nella diversità delle posizioni, fu questo l’atteggiamento adottato sia da Federico Zuccari che da Scipione Pulzone. Il pittore vadese, in particolare, entrato in collisione con la corte pontificia, proprio mentre Muziano era ormai pronto a subentrargli, aveva lasciato Roma nel novembre 1581 per cercare fortuna in Spagna. Pittori come Durante Alberti e Giovanni de’ Vecchi, scrive Mancini, fecero un qualche rumore soltanto perché «in lor tempo né vi furono pittori di grido e Federico Zuccari era fuori né Giuseppe [Cesari] haveva acquistato ancor reputatione» 42. Come Zuccari, anche Scipione da Gaeta dovette soffrire la nuova politica artistica intrapresa da Gregorio XIII, riservandosi una sua nicchia di mercato altamente remunerativa, quella appunto del ritratto al naturale, genere che, per la vanagloria che poteva alimentare, il Discorso del Paleotti tollera con molti distinguo 43.

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Durante il pontificato di Gregorio XIII si assiste a un forte ricambio generazionale 44 e la domanda di maestranze artistiche richiamò a Roma una massa di giovani aspiranti, mentre venivano meno o si assentavano le maggiori personalità. Dopo Michelangelo morivano Taddeo Zuccari (1566), Giorgio Vasari (1574), Girolamo Siciolante da Sermoneta (1575), la giovane promessa Raffaellino da Reggio (1578), Marcello Venusti (1579). Secondo il cardinale Granvelle, in questo particolare momento vi sono tre artisti che si possono apprezzare a Roma per diversi aspetti: Girolamo Muziano per il disegno, Marcello Venusti per il colore e Scipione da Gaeta «para retratar al natural» 45. Con la morte del Venusti e l’assenza di Federico Zuccari, scarseggiavano a Roma pittori di primo grido ai quali affidare la realizzazione di pale d’altare, tanto che gli Oratoriani pensarono di prendere contatto con il lontano Federico Barocci per la Visitazione, quadro molto amato dallo stesso Filippo Neri. Scipione Pulzone dovette assistere alla processione di gente durata tre giorni davanti al quadro dell’Urbinate giunto a destinazione nel 1586 (ma la trattativa era cominciata nel giugno del 1582). È infatti identificabile con il Gaetano quel pittore («il principale di tutti») che dal Barocci, come riferì il ministro del duca di Urbino Graziosi, si sarebbe aspettato «cosa anco maggiore» 46. Le episodiche commissioni per pale d’altare e per soggetti storici e devozionali, legate ai ristretti e qualificati circuiti nobiliari dei Colonna, non avevano fatto guadagnare a Pulzone, ancora alla fine degli anni Settanta del Cinquecento, la fama di pittore di storia, giunta qualche anno dopo anche grazie a una notevole quanto azzardata consacrazione operata da Raffaello Borghini nel suo Riposo (1584) 47; continuava a crescere, invece, la sua reputazione di insuperabile ritrattista. Nel 1582, secondo la testimonianza dell’ambasciatore del duca di Urbino Baldo Falcucci, che ne aveva ragionato con il cardinal Del Monte, essendo Federico Zuccari fuori Roma, non vi era «persona di conto eccetto Scipion da Gaeta» il quale «facendo l’eccellentissimo» non avrebbe preso con sé il giovane pittore d’Urbino (Antonio Cimatori detto il Visacci) che Francesco Maria II della Rovere desiderava far studiare nella capitale pontificia. Non restava che inviare il giovane a Roma, metterlo a copiare e a «pigliar dimestichezza con alcuni valentuomini in questa professione» 48. La fama del Pulzone, a differenza di quella di Federico Zuccari o di Girolamo Muziano, non era quella di buon maestro, ma di un «pittore eccellentissimo» che «fa l’eccellentissimo», servendo i suoi committenti «con longhezza di tempo et con spesa grossissima, facendosi pagare la reputazione» 49. Ma Francesco Maria II della Rovere sapeva accontentarsi e dopo pochi anni fece dipingere, probabilmente allo stesso Visacci, un suo ritratto redatto sul modello della celebre effigie di Marcantonio Colonna dipinta dal Gaetano 50. Un altro pittore baroccesco del ducato roveresco, Antonio Viviani detto il sordo di Urbino, probabilmente durante il pontificato sistino, troverà invece accoglienza, nello studio del pittore e architetto Ottaviano Mascarino presso il quale, con Lavinia Fontana, studierà i ricercatissimi album di disegni di Raffaellino da Reggio 51. Che a Roma mancasse una «buona scuola», proprio mentre più abbondante si faceva il flusso dei giovani che dalla provincia si trasferivano nell’Urbe alla ricerca di una formazione e di occasioni di lavoro, lo testimonia qualche anno prima il testo

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del breve in data 13 ottobre 1577 che Gregorio XIII concesse all’Università dei pittori di Roma su istanza, secondo la testimonianza di Giovanni Baglione, del bresciano Girolamo Muziano 52: «Li diletti figli nostri Pittori, Scultori di Roma testè ci fecero presente, che considerando eglino, che l’arti del pingere, e scolpire, e disegnare andavano di giorno in giorno a perdere della loro bellezza, e venivano tuttavia più oscure, ed ignobili per mancanza di buona scuola, e di carità cristiana, nelle quali cose mal potevano i seguaci d’Arti belle addottrinarsi, privi siccome erano di maestri, e perché ancora princiapianti e scolari, senza niuna lunga pratica, e disciplina delle arti tirati dalla necessità, o dall’avvidità del guadagno pigliavano sopra di se l’incarico di eseguire grandi lavori, onde poi questi riuscivano spogli, e mancanti di quella perfezione, che alle buone Arti si addice. Laonde per dar qualche ragionevole rimedio a questi inconvenienti pensavano fossse bene eriggere in Roma un’Accademia delle predetti arti, ed affidarne la sovra intendenza a uomini peritissimi, e consumatissimi nelle Arti medesime, l’uffizio de’ quali fosse procurare, che gli studiosi giovani venissero diligentemente instruiti nella dottrina Cristiana, nella pietà, ne’ buoni costumi, e che insieme fossero nelle arti, secondo l’intelligenza, e capacità d’ognuno opportunamente esercitati, tantoché a grado a grado si proponessero a studio ed imitazione loro gli ottimi, e più rari esemplari delle Arti stesse, onde va Roma superba» 53. Il breve è un documento esplicativo del clima che si respirava negli ambienti artistici romani e della necessità di un rinnovato e più consapevole ruolo della professione del dipingere. Vi è tracciato, infatti, il profilo del pittore che si aspetta la Chiesa della Controriforma; un testo indirizzato agli artisti che proprio in quegli anni cominciavano la loro attività nei cantieri pontifici. Non è bene che gli artisti accettino imprese gravose senza la necessaria formazione e per il solo guadagno. Prima ancora che nell’arte, i giovani vanno istruiti nella dottrina cristiana, nella pietà e nei buoni costumi. Gregorio XIII avalla il disegno di una comunità operante e studiosa (fu proprio del Muziano il progetto di un ospizio per i giovani pittori a cui lo stesso breve in un passo successivo fa riferimento 54) nella quale è ben accetto l’insegnamento dei propri maggiori. Un progetto che rispecchia certamente il pensiero del Muziano il quale, come scrive il Baglione, aveva molti allievi e amava ammaestrarli nella vita come nell’arte. Ma, come capita spesso, il progetto dovette attendere qualche anno per essere almeno in parte realizzato, tanto più che pare improbabile un impegno in tal senso da parte del Pulzone (che fu console nel biennio 1577-78 e ancora nel 1582). I biografi non lo descrivono come un pittore particolarmente pio e devoto, ma sappiamo che partecipava alla cerimonia delle Quarantore (insieme al suo rivale Zuccari) ed entrato a far parte della Compagnia di S. Giuseppe di Terrasanta nell’aprile del 1579, svolse le opere di carità che gli spettavano e non senza soddisfazione dei colleghi se nel 1582 fu eletto reggente dell’importante istituzione artistica romana 55. Mentre Sisto V entrava nel pieno del governo della Chiesa di Roma, trasformandone visibilmente l’immagine, applicando su larga scala un metodo già sperimentato

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nei cantieri del suo predecessore 56, i pittori dell’Urbe rivendicavano con maggiore forza uno statuto nobile della professione del dipingere, nel tentativo di portare a compimento un processo, avviato per via teorica già nel primo Rinascimento, di emancipazione degli artisti, desiderosi di liberarsi dal pregiudizio di una natura meccanica dell’arte del dipingere. Una riflessione sulla professione pittorica si avviò certamente nei primi anni Ottanta anche a seguito della circolazione dello scritto del Paleotti. Sebbene la trattazione fosse ad uso del popolo della città e della diocesi di Bologna («senza con ciò dettare legge in proposito ad altri luoghi, né tanto meno mutare o censurare usanze che possono essere diverse» 57), l’ambiente artistico romano ne condivise ampiamente le tesi. Silvio Antoniano, nella nota lettera al presule bolognese nella quale chiese consiglio sull’iconografia dell’Assunta che Scipione Pulzone doveva dipingere per la cappella Bandini in San Silvestro al Quirinale, fa cenno al recente «dottissimo et copiosissimo libro delle pitture» 58. Così, su istanza dell’accademia, il pittore biturgense Romano Alberti pubblicò nel 1585 il primo scritto d’arte stampato a Roma 59 (in realtà niente più che un compendio della letteratura precedente) intitolato significativamente Trattato della nobiltà della pittura 60, nel quale le argomentazioni del Paleotti vengono compendiate e semplificate, certamente a uso dei pittori. Nel breve scritto (54 pagine compresi indici e dedica al cardinale napoletano Alfonso Gesualdo, al tempo viceprotettore dell’Università dei pittori) si lamentava l’assurda necessità di dovere ancora «difendere la nobilissima virtù della pittura da quelli che, togliendo il suo giusto onore con annoverarla tra l’arti mecaniche e vili, a guisa di vigoroso fiore che per piovose percosse tiene il capo chino, ritengono il salir di quella al suo supremo luogo» 61. Sono assenti dalla discussione di questi anni sia Federico Zuccari, il quale tornerà stabilmente a Roma soltanto nel 1593 62, che Scipione Pulzone, la cui partecipazione alle sedute della Compagnia subisce una battuta d’arresto nel 1583 63. Nonostante ciò, nell’avvio dei concitati cantieri sistini, dove per pochi scudi, a giornata, maestranze provenienti dalle più diverse realtà regionali, salivano sulle impalcature e offrivano, secondo le proprie specializzazioni, il loro contributo a imprese che per vastità e velocità di esecuzione appaiono quasi miracolose, ma nelle quali le individualità erano destinate inesorabilmente a giustapporsi se non ad amalgamarsi, gli aggregati alla compagnia, non ancora accademici compiuti, discutevano assieme sulle «efficaci ragioni con le quali potessimo se non in tutto, almeno in parte una simil virtù [la pittura] defendere, movendoci da un lato il zelo et obligo nostro verso di quella, dall’altro il duolo di vederla essere priva dei già gustati onori» 64. Come in Paleotti, lo scritto di Romano Alberti rivendica dal principio la “nobilità civile” e la “nobiltà cristiana” della pittura, intrinseca all’arte stessa 65. Procedendo dal De Pictura di Leon Battista Alberti, in una prospettiva ormai pienamente accademica, il pittore biturgense richiama alla necessità che «il perfetto pittore sia teoricamente dotto, senza l’operare, il qual operar dipoi non diminuisce la nobiltà, al contrario di quel che pensano alcuni […] si come si serve il teologo et orator dello scrivere, il matematico del compasso, tavola, gesso, astrolabi et altri molti istrumenti […]» 66. Romano Alberti fa proprio il modello del pittore – oratore che insegna, diletta e commuove. Soprattutto il pittore deve «essere peritissimo nelle istorie, per saper

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li costumi, abiti, che secondo i tempi si devono rappresentare» e ancora «deve essere perito della sacra Scrittura, e principalmente del Testamento Nuovo, della vita di Cristo, Atti degli Apostoli, vite de’ santi e molte altre cose necessarissime al pittore, delle quale se non serà perito, incorrerà senza dubbio in gravissimi errori» 67. La prescrizione, che pare ovvia alla luce della trattatistica precedente 68, è un’estensione del ragionamento sul decreto tridentino, come lo è il concetto di «nobiltà cristiana» e ancor più di «pittura devota» che «agiunge un mirabil ammaestramento non solo all’erudito intelletto, ma universalmente a chiascheduno» 69. Nella chiusura dello scritto compilativo dell’Alberti si rivela la matrice prima dell’«umil compendio»: «solo nomineremo un libro, nel quale molto piu diffusamente le cose da noi dette si leggono, fatto per ordine dell’illustrissimo e reverendissimo Cardinal Paleotti, arcivescovo oggidi di Bologna, a riformazione non solo della pittura, ma di tutte le altre arti ancora del disegno, mosso dal zelo dell’onor di Dio et utile del prossimo contra il crudel nimico dell’umana natura, che con nuove e sotilissime astuzie avea seminato molte zizzanie nel campo delle nostre arti); con perpetuo nostro obligo verso di lei» 70. La dichiarazione è di massimo interesse, confermando la piena ricezione almeno in via teorica dello scritto dell’Arcivescovo di Bologna nell’ambiente artistico romano del primo lustro del Cinquecento 71. Scipione Pulzone conosceva dunque certamente lo scritto di Paleotti, almeno attraverso il compendio dell’Alberti. Tuttavia, come rileva Prodi, non ne appare affatto influenzato, rimanendo «sostanzialmente estraneo alla nuova impostazione ideologica espressa nel Discorso» 72. L’impressione è che il Gaetano, già alla fine del pontificato gregoriano abbia intrapreso una strada propria, in parte costretto anche dai limiti della sua personalità e formazione. Si astenne elitariamente dalla frenesia dei cantieri papali e fu questo, forse, il momento così acutamente descritto dal Baglione (abile come mai a scoprire il nervo): «vedendo intanto Scipione che il solo lavorar de’ ritratti no’l poteva porre nel numero de gli altri eccellenti pittori, risolse di voler fare delle istorie e tavole d’altare» 73. Negli stessi anni, Pulzone si autoescluse dall’Accademia, della quale come console aveva accompagnato l’atto di nascita, rappresentato da quel breve dell’ottobre 1577, ispirato dal Muziano, ma voluto probabilmente ancor più da papa Boncompagni. Eletto console nello stesso mese e nello stesso anno, non fu probabilmente lui a perorare l’iniziativa; un ruolo semmai lo ebbe il suo predecessore Marcello Venusti, console continuativamente dall’ottobre 1575 all’ottobre 1577. Se in generale Scipione poteva approvare il tenore del breve, gli era difficile certamente sopportare il metodo e le lezioni impostate nel 1593 da Federico Zuccari che rifondò la «Venerabile compagnia di S. Luca, et nobil Academia delli pittori di Roma» come «Acccademia del Dissegno de’ Pittori, scultori et Architetti di Roma» 74. La Roma di Clemente VIII si preparava al grande giubileo del 1600. Il cardinale Federico Borromeo nel luglio del 1595 lasciava la protezione dell’Accademia ai car-

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dinali Del Monte e Paleotti che nella città pontificia, proprio in quegli anni, e da una posizione preminente, tentava la stretta rigorista per far fronte al perdurare degli abusi nell’arte sacra 75. Nel 1594 era intanto uscita l’edizione latina del Discorso stampato a Ingolstadt con il titolo De imaginibus sacris et profanis, ottenendo una notevole pubblicità in Europa e rafforzando il suo successo nel conteso romano 76. Le indicazioni del Paleotti superavano definitivamente i confini bolognesi divenendo un saldo riferimento per la Chiesa universale. Nell’anno del principato di Federico Zuccari si tennero diverse tornate di conferenze alle quali «concorrevano con molta prontezza molti Signori, e Gentil’huomini fuori ancora della professione per il gusto, e piacere, che si cavava di tali ragionamenti per l’universale, e particolare di esse professioni» 77. Ottemperando allo spirito del breve di Gregorio XIII, Federico Zuccari impostò le sue accademie pensandole per artisti più che cristiani, cattolicissimi. Le sedute, precedute dall’invocazione dello Spirito Santo, come un vero e rinnovato cenacolo, si tennero sotto la protezione del San Luca attribuito a Raffaello, opera che Pulzone aveva restaurato, probabilmente attorno al 1582-83, durante l’assenza da Roma di Federico Zuccari. Il pittore vadese, accortosi al suo ritorno dalla Spagna, delle ridipinture invasive del Pulzone, il quale aveva osato lasciare la sua firma su un cartiglio ben visibile all’occhio dei devoti, aveva rimosso graffiando la tavola, con un gesto da Damnatio memoriae, l’oltraggio del collega 78. A questo punto può essere ricordato il rimprovero del Paleotti a quei pittori che lasciano sull’opera lo stemma o addirittura la firma. Si può immaginare quanto fosse biasimata una tale azione su un dipinto che la pubblica fama assegnava a Raffaello 79. Porre l’immagine del San Luca nel fienile improvvisato a sala accademica, alle pendici del Campidoglio, dove già si costruiva la nuova chiesa dedicata all’evangelista, assumeva il significato di una solenne riconsacrazione dell’icona a seguito dell’insopportabile profanazione. La liturgia fu ben studiata: Federico Zuccari al centro del tavolo circondato da una corte di consiglieri, collaterali e “fratelli” pittori. Vicino a sé lo scettro e il campanello; con gesto principesco si alza in piedi, saluta con il capo i presenti, comincia la sua adlocutio 80. Il discorso dello Zuccari mirava a creare nella Roma pontificia una comunità d’artisti, esortata alla virtù, alla bontà dell’animo, agli onesti e civili costumi, alla prudenza di azioni, alla soggezione nei confronti dei maggiore, all’affabilità con i propri eguali, all’amorevolezza verso i più piccoli. Tali creanze si opponevano alla stravaganza dei capricci sfrenati, alla dissoluzione della vita fantastica, al disprezzo della propria virtù. Il principe Zuccari auspicava, inoltre, uno spirito di unione, l’amore, l’onore e l’aiuto gli uni verso gli altri. Invitava tutti alla frequenza dell’Accademia dove si dovevano praticare esercizi virtuosi con i quali trovare onore per se stessi e dare reputazione alla professione. Esortava inoltre agli studi particolari della professione, all’assidua diligenza, alle conversazioni d’amore e di fede. La propria virtù e la propria esperienza, andavano generosamente trasmesse ai giovani, nella convinzione che insegnando si impara. Non si doveva risparmiare alcuna fatica necessaria all’esercizio della professione, accompagnando lo studio con un candore di bontà e con uno splendore d’onorati costumi utile nella frequentazione con Principi e Signori dai quali i pittori dovevano aspirare di essere ben visti ed accarezzati.

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Infine si raccomandava ancora la conversazione virtuosa, madre di tutti gli studi. Come in una confraternita i pittori dovevano assistere alla messa e praticare le devozioni in occasione delle feste comandate, mangiare insieme e poi ragionare su un qualche argomento della professione. Almeno una volta al mese, gli accademici si dovevano ritrovare per ricevere il Santissimo Sacramento. Ogni due settimane si dava appuntamento per una disputa il cui tema sarebbe stato comunicato a tempo per consentire all’artista-oratore di prepararsi. Al termine della disputa gli artisti maggiori venivano chiamati ad insegare l’arte del disegno. Seguendo il detto di Apelle nullus dies sine linea, il principe ordinava ai giovani di fare un’opera di loro invenzione premiata da «alcuna cosa di sua mano». Gli artisti che volevano accedere all’Accademia dovevano presentare un disegno di loro mano e fantasia soggetto al giudizio di una commissione segreta. I lavori sarebbero poi stati conservati nell’archivio dell’accademia con il nome degli artefici, la data e il luogo di realizzazione. Andavano nominati dodici assistenti per la cura spirituale e artistica di ogni giovane. Le ordinanze dello Zuccari, miravano in definitiva, a rendere esecutivi gli intenti del breve gregoriano del 1577. Agli accademici era proibito attizzare gli animi, mormorare, causare discordie, risse. Si chiedeva, piuttosto, un atteggiamento modesto, quieto e studioso, pena l’esclusione immediata dall’Accademia. Al principe, e in absentia ai suoi consiglieri, si doveva rispetto e obbedienza. Chi offendeva gli officiali dell’Accademia sarebbe stato punito con il carcere, chi bestemmiava Dio e Santi, meritava l’esclusione perpetua. Pittura, Scultura e Architettura dovevano considerarsi di pari nobiltà in quanto figlie dello stesso padre, il disegno. Sul modello di Michelangelo, gli Accademici dovevano sforzarsi a esercitare variamente l’una e l’altra arte senza differenze e diffidenze. Il primo ragionamento fu tenuto da Durante Alberti e dedicato, non a caso, al disegno 81. Non occorre procedere oltre per capire le ragioni della lontananza del Pulzone da una gestione tanto autoritaria e centrata sul disegno di invenzione, pratica che non sembra essere stata nelle corde del pittore, così come non lo fu in quelle del Caravaggio 82. Le teorie del principe collimavano, d’altro canto, non solo con la tradizione fiorentina-vasariana 83, ma con lo stesso Discorso del Paleotti. L’arcivescovo di Bologna riteneva condizione necessaria il possedere compiutamente l’arte del disegno per quanti intendessero esercitare onorevolmente l’arte della pittura, in modo tale da guadagnare l’apprezzamento degli esperti già nella fase preliminare della progettazione grafica 84. Per il sacerdote e scrittore Giovanni Andrea Gilio, l’esecuzione di schizzi, modelli e cartoni evitava ai pittori di cadere in errori e abusi gravi 85. Non è un caso se, nello stesso anno in cui l’accademia veniva riformata, il cardinale Girolamo Rusticucci, in un editto del dicembre 1593 indirizzato alla Chiesa di Roma, ordinava espressamente ai pittori di esibire «il cartone, o sbozzo in disegno dell’historia, o fatto con le figure» prima di cominciare a dipingere quadri destinati a chiese o cappelle 86. Un recente studio di Antonella Pampalone dimostra come, anche in assenza di decreti, fosse piuttosto diffusa già negli anni Ottanta del Cinquecento la pratica di

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consegnare con anticipo il disegno alla committenza che, in caso di ritardo dell’inventore, poteva far tradurre pittoricamente il progetto grafico ad altri artisti 87. D’altra parte anche uno spirito individualista come Pulzone fu costretto ad accettare un lavoro “in solidum” con Giuseppe Valeriano. Si tratta, come noto, delle tavole con le storie della Vergine per la cappella della Madonna della Strada al Gesù (fig. 1; tav. XX), nelle quali è ormai chiaro che l’intervento del Gaetano si limitò alla pittura dei fastosi drappi 88, rinunciando del tutto all’invenzione che, infatti, non ha nulla della severità arcaizzante delle sue figure. Per comprendere la distanza siderale tra le sensibilità del Valeriano e del Pulzone è sufficiente confrontare la gioiosa Assunzione del Gesù con le austere Assunzioni a firma del Gaetano (tavv. XII, XV). Il disegno del Valeriano teneva a freno le intemperanze naturalistiche del Pulzone emerse con forza nella perduta pala con i Sette arcangeli adoranti, nella quale il Gaetano aveva contravvenuto un principio antico che biasimava la rappresentazione di volti reali e quindi riconoscibili nelle vesti di figure sacre 89. Se molte incertezze sussistono sull’esistenza di uno stile tridentino, riconoscibile nella pittura di commissione papale elaborata durante il pontificato di Gregorio XIII ancor più che nell’acronica pittura del Gaetano, ben chiaro è il profilo dell’artista che la Chiesa ha inteso riformare e che non corrisponde a quanto le fonti ci tramandano sulla personalità e sulla vita di Scipione Pulzone, poco pratico nel disegno e nella pittura di storia, dunque poco atto all’insegnamento, lento nell’esecuzione, piuttosto borioso ed esigente nel guadagno 90. Infine, a Pulzone nonostante le intenzioni mancava quell’universalità che Federico Zuccari raccomandava ai giovani pittori e che Baglione lodava in figure che oggi, come allora, appaiono di qualità minore 91. Negli “Avertimenti” che Zuccari scrive nella forma sintetica dell’aforisma prima di lasciare il principato, si raccomanda di ricercare l’universalità, di usare con “avvertenza la molta diligenza”, di fuggire “l’affettatione 92. L’invito ai giovani «ad affatigarsi d’essere universali» torna insistente nella sua Idea de’ Pittori, scultori et architetti (Torino, 1607) 93 dove, in un altro passo, paventa i pericoli di una pittura fondata sulla sola «prattica naturale» del tutto o in parte priva del disegno esterno: «E qui è d’avvertire che sono due sorti di valent’huomini: una sorte dalla natura semplicemente prodotti, l’altra dalla natura, e dallo studio affinati, l’uno, e l’altro più, e meno però perfetti, secondo la intelligenza, e capacità loro. Li naturali semplici con la bella idea, & una prontezza oprano talhora maraviglie di pura prattica senza altro disegno esterno, ò pure di poca sostanza: & a questi avverrà, che non sempre potranno operare rettamente, e succederà loro di molte scappate, secondo la dispositione del genio naturale, non havendo l’arte dell’operare per regola di teorica; ma solo di prattica naturale, e non havendo questi a buon’hora procurato, ne gustato la correttione de gli studi, e della teorica, e buona intelliggenza, quanto più poi fatta la prattica vorranno talhora porvi più acccuratezza, e diligenza, meno faranno, perdendo quello spirito e quella vivezza, e gratia, che per natural semplicemente hanno; e talhora pareranno deboli, e fiacchi principianti» 94. Nei primi anni del Seicento, Zuccari richiamava quindi i giovani a prendere le

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distanze dalle lusinghe di un’arte non ammaestrata dalla lunga pratica del disegno di invenzione. Vengono in mente le parole del Mancini sui limiti della “schola” del Caravaggio 95, calzanti anche per il Pulzone. Che Zuccari abbia pensato a questi due giganti della pittura dal vero mentre la penna scorreva sul foglio? Meglio si comprenderebbero le ragioni di un’inimicizia tra due eccellenti professionalità, quelle di Federico e Scipione, vicine nella vita (come i documenti spesso ci mostrano), lontani nella pratica e nella concezione dell’arte.

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DE MAIO 1978, pp. 4, 39; BIANCHI 2008, p. 22. Il cardinale di Bologna Gabriele Paleotti definisce il fine e il dovere dell’artista nel «dipingere in modo tale da raggiungere lo scopo che ci si attende dalle immagini sacre». PALEOTTI [1582], 2002, p. 70. Sulla libertà del pittore scrive il Paleotti: «Non intendiamo con tutto ciò impedire al pittore di muoversi con una certa libertà al di fuori di ciò che sta letteralmente scritto, o di fuori dell’uso stretto che si fa nel suo paese; vogliamo solo ricordare che tale libertà, in quanto ha a che fare con le cose sacre, deve sempre attenersi ai criteri di probabilità, decoro, giovamento». Ivi, p. 201. Per la figura dell’artista nel passaggio tra Rinascimento e Controriforma si veda BAROCCHI 1971-1977, II, , pp. 1252-1264; BLUNT 2001, pp. 113146. La tesi di una forte limitazione della libertà creativa dell’artista all’indomani della chiusura del Concilio di Trento è stata sostenuta con decisione da Alberto Graziani e Federico Zeri nei rispettivi saggi del 1939 (p. 67) e del 1957 (p. 20). Pur non potendo negare alcuni tentativi di condizionamento da parte delle autorità preposte (cfr. MASSIMI 2001), tali severi giudizi sono da ridimensionare alla luce delle considerazioni di Paolo Prodi in merito all’intenzione, contrastata dalla corte romana, di agire con più forza contro gli abusi attraverso la creazione di un index delle immagini proibite proposto nel suo De tollendis imaginum abusibus novissima consideratio (1596). Cfr. PRODI 2014, pp. 29-30, 163-183 (in appendice la trascrizione integrale del testo). 3 Cfr. JEDIN 1972, pp. 382-383. 4 BATTISTI 1960, p. 257-258. Cfr. PRODI 2014, pp. 67-69. 5 GRAZIANI 1939, pp. 20-22, p. 59. Riedito con saggi di F. Abbate e M. Di Giampaolo (Milano 1988, p. 49). Cfr. PRODI 2014, p. 132. 6 GRAZIANI 1939, p. 69. 7 Ivi, p. 72. 8 Ivi, pp. 74, 76. 9 SCIOLLA 2013, pp. 181-182. 10 ZERI 1997, p. 59. 11 «De decore sacrarum imaginum: Sacrarum imaginum expressio tota, prototypi dignitati, et sanctitati apte, ac decore, corporis habitu, statu, et ornatu respondeat». BORROMEO [1577] 2000, p. 72. Sull’equivalenza tra decoro e verosimiglianza è interessante una nota del Sigonio all’opera del Paleotti: «Bene è vero che io congiungerei l’indecore et le inverisimili, perciò che il decoro et verisimile sono compagni». Cfr. PRODI 2014, p. 91, n. 109, p. 105. 12 Paleotti parla del piacere dato dalle immagini «eseguite da una grande anima e con realismo», mentre giudica non verosimiglianti le rappresentazioni, ad esempio, di una donna «con le fattezze simili a quelle di Ercole o di Sansone». Non può negarsi in questo punto un accento polemico contro la “terribilità michelangiolesca” nella raffigurazione del corpo femminile. PALEOTTI [1582] 2002, pp. 79, 173. Si veda anche il paragrafo dedicato da Federico Borromeo all’abuso delle “figure atletiche”. BORROMEO [1625 ca.] 1932, p. 77. Contro le figure “sforzate” cfr. anche GILIO 1564, p. 69. 13 PALEOTTI [1582] 2002, p. 39. 14 BORROMEO [1625] 1932, p. 76. 15 JEDIN 1972, p. 378 (la raccolta contiene in traduzione italiana il saggio pionieristico dello Jedin pubblicato nel 1935 (cfr. JEDIN 1935). 16 Sulla riforma degli antichi istituti del Sinodo diocesano e della visita pastorale: DE HORNEDO 1945, pp. 333-362; LONGHITANO 1987, pp. 33-85; CAPPELLINI, SARZI SARTORI 1994; JEDIN 1981, pp. 201-234; MAZZONE-TURCHINI 1985. 17 JEDIN 1972, pp 354-383. 18 IL SACRO CONCILIO DI TRENTO 1822, p. 323. Per la storia del decreto sulle immagini sacre e della sua influenza sulle arti, oltre agli studi di Jedin già citati si vedano: DEJOB 1884; KIRSCHBAUM 1945, pp. 1002

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116; KUMMER 1993, pp. 508-533. Il lungo dibattito critico è ora raccolto e magistralmente riepilogato in PRODI 2014. 19 Ivi, 124. 20 ZEN 2009, p. 10. 21 FRANCOWITZ 1559-1574. Sulla storia delle Centurie si veda NORELLI 1982, pp. 253-295 (con bibliografia precedente); MOTTA 2005, pp. 175-176 (con bibliografia precedente). 22 «Hor su disse M. Pulidoro ragioniamo un poco del pittore historico, al quale si convengono molte particolarità più che à gli altri: e molta più consideratione vuole l’historia, che la poesia […]. Circa l’historie pochi sono fedeli, e puri demostratori de la verità del soggetto, & il contrario essere doverebbe: essendo lo scrittore, & il pittore in una istessa bilancia, del historico parlo […]. Conciosia che’l pittore historico altro non è che un traslatore che porti l’historia da una lingua in un’altra. E questi da la penna al pennello da la scirttura a la pittura. E s’in questa traslatione non è fedele, s’aquista biasimo, e si fa degno di riso, ò di sonno come Horatio diceva. Io so molto più ingenioso quello artefice che accomoda l’arte a la verità del soggetto, che quello, che ritorce la purità del soggetto à la vaghezza de l’arte. Perche molti cio fanno con intentione d’esserne più perfetti, & ingegnosi stimati, e pensano di fare l’opere loro più vaghe, più leggiadre, & eccellenti». GILIO 1564, pp. 79-86. Alla fine del secolo l’interpretazione della figura dell’artista storico sembra attenuarsi come può dimostrare l’opera Tractatio de poësis et pictura di Antonio Possevino (1595). 23 BLUNT 2001, p. 25. 24 Cfr. SCHLOSSER MAGNINO 2001, pp. 425-431. 25 BORROMEO [1625] 1932, pp. 104-105. 26 BORROMEO [1577] 2000, pp. 70-71. 27 Sui cicli pittorici a soggetto storico durante i pontificati gregoriani e sistini si veda: ZUCCARI 1998, pp. 272280; ZUCCARI 1992; D’AMICO 1992, pp. 161-253; MADONNA 1993; GAMBI, PINELLI 1997; OSTROW 2002, pp. 19-117; PIERGUIDI 2008, in particolare le pp. 24-66; ZUCCARI 2012c, pp. 266-307; ZUCCARI 2012b, pp. 71-87. 28 HESS 1935, 23, pp. 1270-1275; HESS 1936, 4, pp. 161-166; CORSINI, DE STROBEL, SERLUPI CRESCENZI 1992, pp. 151-153; MEADOWS-ROGERS 1996, pp. 226-231; COURTRIGHT 2003; CECCARELLI-AKSAMIJA 2011; ZUCCARI 2012b, pp. 71-87. 29 RANDOLFI 1999; BERNARDINI 2002. 30 Cfr. ZUCCARI 1992, pp. 103-148. 31 Sulla vicenda della bibbia di Sisto V si veda MOTTA 2005, pp. 587-589. 32 Cfr. PIETRANGELI 1991; MANDEL 1994. 33 Sui martirologi protestanti si veda: CAVALLOTTO 2002; KING 2001, pp. 52-85; ACHINSTEIN 2001, pp. 106-115. 34 Cfr. su questo tema, in particolare, il bel volume di Lestringant (2004, pp. 117-174). 35 Cfr. HERZ 1988, 62, pp. 53-70 (con bibliografia precedente); BAILEY 2003b. 36 Cfr. BIANCHI 2009, pp. 95-170. 37 Cfr. BAGLIONE 1642, p. 40. 38 ZERI 1957, p. 47. 39 Si veda su questo la vita di Tommaso Laureti (Baglione 1642, p. 69). 40 ZUCCARI 1992, p. 100. 41 È il caso, ad esempio, dell’oscuro Giovanni Paolo Severi da Pesaro per il cui ruolo nei cantieri sistini si veda BERTOLOTTI 1881, pp. 24-25; P. TOSINI in MADONNA 1993, pp. 544-545; ZUCCARI 2012c, pp. 267-268. 42 MANCINI 1956, I, p. 207. 43 Cfr. PALEOTTI [1582], 2002, pp. 149-157. 44 SALVAGNI 2012, p. 140. 45 Lettera dell’ambasciatore spagnolo Juan de Zúniga al re Filippo di Spagna in data 10 febbraio 1578. Cfr. BEER 1891, n. 8471. 46 GRONAU 1936, p. 157, n. 1. Cfr. MORETTI-ZUCCARI 2009, p. 146. 47 Per Borghini il Pulzone pittore di historie vale non meno del ritrattista. BORGHINI 1584, p. 578. 48 GRONAU 1935, p. 257. 49 Ivi, p. 255. 50 MORETTI 2012, pp. 28-29. 51 MORETTI 2009, pp. 82-83. 52 Cfr. BAGLIONE 1642, p. 52; cfr. SALVAGNI 2011, p. 144 sgg. 53 MISSIRINI 1823, p. 20. Per la giusta datazione si veda SALVAGNI 2011, p. 195, n. 387. Sui rapporti tra Gregorio XIII e l’Accademia di S. Luca si veda WITCOMBE 2009. 54 Cfr. BAGLIONE 1642, p. 51. 55 Cfr. TIBERIA 2000, pp. 146-47. WAGA 1992, p. 220; ROSSI 1996, pp. 318-319; PAMPALONE 2011, p. 47. 56 Sul metodo di realizzazione delle imprese pittoriche sistine si veda ZUCCARI 2007, pp. 29-46. 57 PALEOTTI [1582] 2002, p. 7. 58 Cfr. PRODI 2014, p. 130.

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Se si esclude lo scritto tutto teologico De cultu et adoratio imaginum di Ambrogio Catarino (CATARINO 1552, pp. 122-145). 60 Sullo scritto dell’Alberti cfr. SCHLOSSER MAGNINO 2001, pp. 390-391, 400-401; SALVAGNI 2012, p. 161. 61 ALBERTI 1585, p. 2. 62 SALVAGNI 2012, p. 159. 63 PUPILLO 2013, p. 168. 64 Ibidem. 65 ALBERTI 1585, pp. 6-7. 66 Ivi, pp. 14-15. 67 Ivi, p. 35. 68 Cfr. ad esempio GILIO 1564, p. 83. 69 ALBERTI 1585, p. 40. 70 Ivi, p. 53. 71 Sulla problematicità di verificare tale ricezione si veda PRODI 2014, p. 32. 72 Ivi, p. 131. 73 BAGLIONE 1642, p. 53. 74 Si confronti il frontespizio del trattato dell’Alberti (1585) con quello dell’Origine et progresso dell’Accademia del Dissegno, de’ pittori, scultori, et architetti di Roma, dove si contengono molti utilissimi discorsi, et filosofici ragionamenti appartenenti alle sudette professioni, et in particolare ad alcune nove definitioni del Dissegno, della pittura, scultura, et architettura. Et al modo d’incaminar i giovani, et pefettionar i provetti. Recitati sotto il regimento dell’Eccellente Sig. Cavagliero Federico zuccari et raccolti da Romano Alberti secretario dell’Academia, Pavia, Pietro Bartoli, 1604 [da ora in poi ALBERTI 1604]. 75 Cfr. BIANCHI 2008, pp. 214-215; PRODI 2014, pp. 146-158. 76 BELTRAME 1990. 77 ALBERTI 1604, p. 4. 78 Sulla vicenda si veda PUPILLO 2013, p. 169 e il saggio ricostruttivo di Stefania Ventra (2015). 79 Cfr. PALEOTTI [1582] 1604, p. 255. 80 ALBERTI 1604, p. 14. 81 Ivi, p. 14 sgg. 82 Sulla complessa questione del disegno in Caravaggio si rimanda al recente saggio di Alessandro Zuccari (2013), con bibliografia precedente. 83 «E perché da questa cognizione nasce un certo concetto e giudizio che si forma nella mente quella tal cosa, che poi espressa con le mani si chiama disegno, si può conchiudere che esso disegno altro non sia che una apparente espressione e dichiarazione del concetto che si ha nell’animo, e di quello che altri si è nella mente imaginato e fabricato nell’idea». VASARI 1878, p. 169 sgg.; «Il disegno non estimo io che sia altro che una apparente dimostrazione con linee di quello che prima nell’animo l’uomo si aveva concetto e nell’Idea imaginato, il quale a voler co’ debiti mezi far apparire bisogna che con lunga pratica sia avezza la mano con la penna, col carbone, o con la matita ad ubidire quanto comanda l’intelletto». BORGHINI 1584, p. 137. 84 PALEOTTI [1582] 2002, p. 265. 85 GILIO 1564, p. 83. 86 ZUCCARI 1984, p. 16. 87 PAMPALONE 2012, p. 204. Come è noto, anche a Pulzone nel 1583 venne chiesta la prova del cartone prima di procedere con la realizzazione della Crocifissione per gli Oratoriani della Vallicella, cfr. L. Calzona in SCIPIONE PULZONE 2013, p. 319. 88 ZUCCARI 2013, p. 82. 89 Cfr. STRINATI 1998, pp. 8-9. 90 La pittura fatta su commissione per puro guadagno, secondo il dire degli antichi, perdeva di nobiltà, nonostante le rassicurazioni su questo punto offerte dal trattato del cardinale di Bologna. Cfr. PALEOTTI [1582], 2002, pp. 28-29. Come noto, la personalità del Pulzone è tratteggiata con grande maestria nella biografia del Baglione (1642, p. 54). Su questo tema si veda in particolare PUPILLO 2013. 91 Si veda ad esempio la vita di Lorenzo Sabatini (BAGLIONE 1642, p. 17). 92 Cfr. ALBERTI 1604, p. 86. 93 ZUCCARI 1607, p. 19. 94 Ivi, p. 15. 95 MANCINI 1956, I, p. 108.

TAVOLE

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Tavole

Tav. I. Scipione Pulzone, Gentildonna col velo giallo, New York, collezione Marco Grassi.

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Tavole

Tav. II. Scipione Pulzone, Il cardinale Giovanni Ricci, Roma, Palazzo Barberini.

Tavole

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Tav. III. Da Scipione Pulzone?, Il cardinale Giovanni Ricci a sedere, Roma, collezione Ricci Massimo.

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Tavole

Tav. IV. Scipione Pulzone, Giacomo Boncompagni, Collezione privata.

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Tavole

Tav. V. Scipione Pulzone, Il cardinale Giacomo Savelli, Roma, Galleria Corsini.

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Tavole

Tav. VI. Scipione Pulzone, Maddalena penitente, Roma, San Giovanni in Laterano, cappella del Coro.

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Tavole

Tav. VII. Scipione Pulzone, Cristo sulla via del Calvario, Milano, Antichità Gianni Minozzi.

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Tavole

Tav. VIII. Scipione Pulzone, Immacolata con angeli, santi e il piccolo Andrea Cesi, Ronciglione (VT), Chiesa dei Cappuccini.

Tavole

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Tav. IX. Scipione Pulzone, Immacolata Concezione, Gaeta, Istituto della SS. Annunziata, Grotta d’oro.

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Tavole

Tav. X. Scipione Pulzone, Crocifissione, Roma, Santa Maria in Vallicella, cappella Caetani.

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Tavole

Tav. XI. Scipione Pulzone, Bianca Cappello, Vienna, Kunsthistorisches Museum.

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Tavole

Tav. XII. Scipione Pulzone, Assunzione della Vergine, Roma, San Silvestro al Quirinale, cappella Bandini.

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Tavole

Stuccature bianche

Stuccature grigie

Stuccature marroni

Stuccature ocra

Giunzione delle lastre

Tav. XIII. Documentazione grafica con la distribuzione delle lastre che costituiscono il supporto dell’opera (tav. XII) e delle stuccature. Grafico di Luigi Loi - RES Consorzio Restauratori.

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Tavole

Tav. XIV. Scipione Pulzone, Sacra Famiglia con san Giovannino e sant’Elisabetta, Roma, Galleria Borghese.

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Tavole

Tav. XV. Scipione Pulzone, Assunzione della Vergine, Roma, Santa Caterina de’ Funari.

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Tavole

Tav. XVI. Scipione Pulzone, Cristina di Lorena, Firenze, Galleria degli Uffizi.

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Tavole

Tav. XVII. Scipione Pulzone, Il cardinale Ferdinando de’ Medici, Adelaide, Art Gallery of South Australia.

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Tavole

Tav. XVIII. Scipione Pulzone, Il cardinale Michele Bonelli, Cambridge, Università di Harvard, Fogg Art Museum.

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Tavole

Tav. XIX. Scipione Pulzone, Eleonora Orsini, Firenze, Galleria Palatina.

108

Tavole

Tav. XX. Giuseppe Valeriano e Scipione Pulzone, Annunciazione, Roma, Chiesa del Gesù, cappella della Madonna della Strada.

109

Tavole

Tav. XXI. Scipione Pulzone, Pietà, New York, The Metropolitan Museum of Art.

110

Tavole

Tav. XXII. Scipione Pulzone, Dama velata con libro, collezione privata.

Tavole

Tav. XXIII. Scipione Pulzone, Madonna della Divina Provvidenza, Roma, San Carlo ai Catinari, oratorio dei padri Barnabiti.

111

112

Tavole

Tav. XXIV. Scipione Pulzone, Madonna della rosa, Huesca, Cattedrale.

113

Tavole

Tav. XXV. Scipione Pulzone, Martirio di san Giovanni Evangelista, Napoli, San Domenico Maggiore, cappella Carafa (foto Antonio Priston).

114

Tavole

Tav. XXVI. Da Scipione Pulzone?, Pomponio Torelli, Caserta, Museo della Reggia.

Tavole

115

Tav. XXVII. Anonimo del sec. XVI, San Luca dipinge la Vergine, Roma, Accademia Nazionale di San Luca.

116

Tavole

Tav. XXVIII. Tommaso Laureti, La morte di Adone, Zafferia (ME), collezione privata.

117

Tavole

Tav. XXIX. Gaspare Celio, Angeli con i simboli della Passione, Roma, chiesa del Gesù, cappella della Passione.

118

Tavole

Tav. XXX. Ludovico Leoni (qui attribuito), Dama con gargantiglia, Chambéry, Musée des Beaux-Arts.

Tavole

Tav. XXXI. Ottavio Leoni, Caterina “la bella”, Parigi, Ecole nationale supérieure des beaux-arts.

119

120

Tavole

Tav. XXXII. Ottavio Leoni, Ragazza con orecchini di perle, Hannover, Niedersächsisches Museum.

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